L`Approccio Centrato sul Bambino - Applicazione dell

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L`Approccio Centrato sul Bambino - Applicazione dell
L’Approccio Centrato sul Bambino
Applicazione dell’Approccio Centrato sulla Persona al modo dell’infanzia
di Sabrina Maio1
“tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano”.
Antoine De Saint-Exupéry – Il Piccolo Principe
Introduzione
E’ da molti anni ormai che nella mia pratica professionale è entrato a gran forza il mondo
dell’infanzia, un mondo particolarmente complesso e articolato che va approcciato da parte
dell’adulto in maniera estremamente delicata e rispettosa. Con ciò non voglio intendere
che il bambino debba essere considerato un essere fragile, completamente dipendente e
essenzialmente da proteggere; i bambini, nella mia esperienza, posseggono in sé molte
risorse che danno loro forza e coraggio per fronteggiare le grandi e piccole difficoltà della
vita, ma sicuramente hanno meno “strumenti” - cognitivi e affettivi - a disposizione
rispetto ad un adulto. In altri termini il bambino non è ancora in grado di simbolizzare
l’esperienza percepita, anche se mette in atto comportamenti funzionali alla sua
sopravvivenza e al suo sviluppo, basandosi semplicemente su un principio di valutazione di
tipo organismico ovvero interno, non condizionato da fattori esterni a sé (Rogers, Kinget,
1965). L’adulto ha, dunque, un ruolo fondamentale che è quello di non ostacolare o
bloccare il processo di crescita del bambino tendente verso il completamento e
l’attualizzazione delle sue potenzialità (Rogers, 1961). Ma questo l’adulto non sempre
riesce ad evitarlo, anche se motivato dalle migliori intenzioni!
Carl Rogers (1961) identifica le condizioni che considera necessarie per provocare un
cambiamento significativo nella personalità di un individuo e che prese tutte insieme si
mostrano sufficienti per dare inizio al processo di cambiamento: empatia, accettazione
positiva incondizionata e congruenza, sono qualità che il bambino possiede in modo
naturale dalla nascita e saranno proprio queste qualità i punti di forza del bambino di oggi,
e adulto pienamente funzionante di domani, solo se rafforzate, riconosciute e divenute
parti integranti del suo modo di essere. Crescendo però il bambino rischia di essere
sempre più esposto all’influenza dell’adulto in ambito familiare, scolastico e sociale, e si
troverà a confrontarsi con una comunicazione spesso poco chiara, disfunzionale, perché
espressa attraverso doppi messaggi, si sentirà bloccato nell’espressione dei sentimenti con
espressioni da parte dell’adulto del tipo “non si piange!” o, infine, percepirà una
repressione del suo modo di comunicare diretto, sincero e autentico attraverso frasi come:
“questo non si dice!” con il conseguente etichettamento della persona: “sei maleducato!”,
“sei disordinato” ecc.. Dunque queste qualità Centrate sulla Persona esistono nell’individuo
e vanno per questo preservate e difese con tutte le forze in quanto garanzia di un
adeguato funzionamento psichico.
L’Approccio Centrato sulla Persona può essere estremamente efficace nel ri-attribuire
fiducia e dare forza a queste qualità attraverso interventi di tipo preventivo, ad esempio
1
Psicologa, psicoterapeuta – docente IACP – e-mail: [email protected] – cell. 338-8224706.
con il Kids’ Workshop, laboratorio esperienziale per bambini ideato da Barbara Williams,
oppure attraverso interventi più propriamente di tipo terapeutico mediante la play therapy
così come viene proposta da Virginia Axline.
Prima di addentrarci nel vivo dell’approccio centrato sul bambino, è interessante
ripercorrere le tappe del lavoro clinico e di ricerca di Rogers, poiché le origini delle sue
esperienze professionali si rintracciano proprio nell’età evolutiva, rivelandosi estremamente
significative per aver posto le fondamenta della sua teoria della personalità e teoria della
terapia degli adulti. Credo fortemente nell’importanza delle origini, della storia, per
l’attribuzione di senso e significato di quanto viene sperimentato e praticato al momento
attuale in ambito psicoterapeutico, ma non solo.
Rogers e il suo lavoro nell’ambito dell’età evolutiva
Le prime esperienze lavorative e di ricerca in cui si cimentò un giovane Carl Rogers furono
nell’ambito dell’età evolutiva.
Già per la sua tesi universitaria Rogers sviluppò un test carta-matita per bambini, che si
basava su modalità proprie del colloquio, utilizzando domande tese ad esplorare come si
descriveva il bambino nei confronti degli amici, della famiglia e della scuola e come,
secondo lui, veniva a sua volta visto da questi. Rogers si accorse che le domande
rivelavano molto di più di quanto il bambino credesse di rivelare. Fu un test ristampato per
oltre quarant’anni ed il motivo di tanto successo, secondo Rogers, risiedeva nel suo
presupposto di fondo: ovvero guardare il bambino dal suo mondo interno, anziché porre
l’accento essenzialmente sull’obiettività di un test. Lo strumento fu somministrato ai
bambini che afferivano all’Institute for Child Guidance e al Teachers College raccogliendo
in questo modo moltissimi dati e rendendo così valido il test. Per Rogers, infatti, l’aspetto
della ricerca fu decisamente centrale nella sua pratica professionale sin dall’inizio, ma
questa non poteva prescindere dal suo reale interesse per la vita emotiva degli individui
(Rogers, Russell, 2002).
Intorno agli anni ’30 si trasferì con la famiglia a Rochester (nello stato di New York) poiché
assunto presso la Società per la prevenzione degli abusi sui bambini un’agenzia sociale che
si occupava di protezione dei bambini, di case-famiglia e di rieducazione. Per Rogers fu
un’esperienza molto significativa poiché aveva la possibilità di lavorare con i bambini senza
la necessità di doversi adattare ad un particolare schema di pensiero: ciò gli permise di
essere “aperto all’esperienza” e di sperimentarne l’assoluta efficacia nel rapporto con i
bambini. In seguito divenne anche Direttore del Dipartimento di Studi Infantili e negli anni
’36-’37 scrisse il libro il trattamento clinico del bambino problematico che scaturiva
direttamente dalla pratica clinica, spiegando proprio come le cliniche di consulenza
curavano i bambini. Il testo trattava, fondamentalmente di come modificare l’ambiente
scolastico, la situazione ricreativa, l’educazione, attraverso interventi mirati come ad
esempio la creazione di classi speciali, l’assistenza sociale, ecc., pertanto, la modifica
dell’ambiente produceva un cambiamento nell’individuo, adulto o bambino che fosse. Negli
anni successivi Rogers si rese sempre più conto però che troppo veniva investito nella
modifica dell’ambiente e troppo poco per cambiare il concetto di Sé dell’individuo: “… il
modo in cui una persona guarda se stessa è il fattore più importante per predire il
comportamento futuro, perché ad un concetto di sé realistico si accompagna una
percezione realistica della realtà esterna e della situazione in cui l’individuo si trova” .
(Rogers, Russell, 2002, pag. 300). Un punto di vista, dunque, completamente diverso da
quello che fino ad allora veniva praticato per interventi e trattamenti di tipo psicologico.
Intervenire sul comportamento dell’individuo e non sull’ambiente in cui questo è inserito,
poteva dunque contemplare “strumenti” diversi e sicuramente più mirati come potevano
essere le terapie di gruppo, la psicoterapia individuale e un approccio educativo all’interno
della scuola che fosse più democratico e che facesse molto più riferimento alla relazione
insegnante-alunno. Modi in grado di modificare il concetto di sé e il livello di autostima.
Modi che possono essere efficaci anche quando un’eredità negativa, la presenza di fattori
organici distruttivi ed un background culturalmente deprivato predispongono, a qualche
livello, ad un adattamento poco adeguato, si pensi, ad esempio, ai comportamenti
delinquenziali. In quest’ottica l’individuo non viene più visto prigioniero di forze immutabili
che lo plasmano e lo condizionano nei suoi comportamenti, ma come modificabile ad un
certo livello, al di là della sua eredità fisica o sociale o del suo ambiente attuale.
Carl Rogers ha sviluppato la sua teoria della personalità ponendo enfasi sulle prime
esperienze che vive il bambino sottolineando come egli possegga già alla nascita una
tendenza intrinseca ad attualizzare le potenzialità del suo organismo e, passando
attraverso un processo di maturazione, giunga ad un livello più complesso che lo
trasformerà in una persona (Rogers, 1961, 1965).
Nella sua teoria della personalità Rogers dedica una parte all’infanzia nella quale esprime
dei concetti, basilari per la comprensione del suo mondo interno: il bambino percepisce la
sua esperienza in modo puramente soggettivo, come se fosse la realtà, in relazione al suo
schema di riferimento interno. In questa maniera è così in grado di autoregolarsi perché
nessuno, meglio di lui, conosce ciò che è meglio per se stesso; il bambino ha una
tendenza innata ad attualizzare le potenzialità del suo organismo ed i suoi comportamenti
sono, costantemente, finalizzati al raggiungimento di questa meta; l’attività esperienziale
del bambino è accompagnata da un incessante processo di valutazione organismica che ha
come criterio-guida la Tendenza Attualizzante. Questo criterio fa sì che il bambino ricerchi
attivamente e valuti, come integrabili e positive, tutte quelle esperienze che percepisce
essere favorevoli alla sopravvivenza ed allo sviluppo dell’intero organismo (intendendo sia
la parte organica che il nucleo psichico ovvero il Sé), mentre rifiuta le esperienze che
hanno un valore contrario (Rogers, Kinget, 1965).
Quando una parte dell’esperienza viene simbolizzata (tendenza alla differenziazione), viene
messa a disposizione della coscienza e corrisponde alla consapevolezza di esistere e di
agire in quanto essere umano: nasce in questo modo l’esperienza dell’Io. Questa
consapevolezza si sviluppa e si arricchisce durante lo sviluppo, attraverso l’interazione tra
l’individuo e l’ambiente, fino a formare la Nozione dell’Io (Rogers, Kinget, 1965). Man
mano che la Nozione dell’’Io si sviluppa e si esteriorizza, si sviluppa anche il bisogno di
accettazione positiva incondizionata, un bisogno universale comune a tutti gli esseri
umani. La soddisfazione di questo bisogno non può prescindere dall’interazione con le
persone significative del mondo del bambino e prevede anche un processo di inferenza
riguardo, appunto, l’esperienza altrui (ad esempio l’espressione del viso della madre,
oppure i suoi gesti): il processo di accettazione positiva diviene così bilaterale ed il
bambino si rende conto che, soddisfacendo tale bisogno altrui, automaticamente, si
garantirà la soddisfazione anche del proprio. La conseguenza di questo assunto è che le
persone per le quali il bambino prova una considerazione positiva, divengono il criterio di
valutazione esterna che può a sostituire quello organismico (se la madre disapprova una
azione qualsiasi, il bambino sarà portato a considerarla una disapprovazione dell’intera sua
persona perché alla figura della madre è legata una promessa di affetto), inducendo il
bambino “… a preferire le direttive che provengono da queste persone, alle direttive
derivanti da esperienze suscettibili di soddisfare la sua tendenza all’attualizzazione.”
(Rogers, Kinget, 1965, pag.181).
Quando le esperienze di sé del bambino vengono valutate dall’adulto significativo come
degne o non degne, ne segue che la sua stessa considerazione positiva diverrà selettiva,
quindi condizionata. L’individuo comincia così a ricercare o ad evitare una data esperienza
perché percepita come più o meno degna di considerazione positiva da parte dell’ambiente
esterno e ben presto questo atteggiamento mostrato dal bambino in riferimento a
specifiche esperienze, si estende a tutta la sua personalità. Pertanto, indipendentemente
dalle figure significative, il bambino tenderà ad attribuire un valore positivo a
comportamenti che a livello organismico non ritiene positivi e tenderà a considerare
negativi comportamenti che invece gli appaiono come gradevoli e conformi alla sua
Tendenza Attualizzante. In presenza, invece, di una considerazione positiva incondizionata
nei confronti di se stesso, il criterio di valutazione sarebbe in accordo con il livello
organismico dell’individuo e, in quanto tale, il funzionamento psichico sarebbe ottimale.
L’interesse clinico e di ricerca di Rogers, nonostante fosse inizialmente orientato al lavoro
con i bambini, si è poi indirizzato essenzialmente al mondo dell’adulto e al processo
terapeutico in generale. Era sua ferma convinzione che la terapia fosse un processo che
segue certi orientamenti fondamentali ed avesse ugualmente efficacia anche operando
negli ambiti più disparati, tra questi anche la terapia di gioco dove la differenza più
evidente è data dal fatto che il rapporto viene definito in modo migliore con gli atti che
attraverso le parole (Rogers, 1942). In questa ottica le condizioni necessarie e sufficienti
del processo terapeutico enunciate da Rogers quali l’ empatia, l’accettazione positiva ed
incondizionata e la congruenza risulteranno realizzabili, e condizioni necessarie, anche nel
rapporto con il bambino ma si esprimeranno secondo proprie modalità.
La play-therapy
Virginia Axline, psicologa statunitense, prima allieva e poi collega di Carl Rogers, propone
negli anni ’40 un approccio terapeutico al bambino che si ispira ai principi della Terapia
Centrata sul Cliente e che si basa essenzialmente sul gioco, in quanto mezzo di auto
espressione naturale del bambino. Definisce la play therapy non direttiva come “ una
opportunità che viene offerta ai bambini per fare una esperienza di crescita nelle
condizioni più favorevoli possibili” (Axline, 1947).
La Axline (1947) delinea in maniera molto chiara i principi fondamentali sui quali si basa la
play-therapy non direttiva e che, se fatti propri dallo psicoterapeuta e portati nella
relazione con il piccolo cliente in maniera autentica e sincera, garantiranno l’efficacia del
percorso terapeutico: nello spazio della terapia di gioco il bambino incontra per la prima
volta un adulto che sta con lui, lo ascolta, attende i suoi tempi senza forzarlo in alcun
modo, lo lascia esplorare tranquillamente l’ambiente (il setting) e il materiale di gioco a
sua disposizione, ma soprattutto rispetta profondamente e protegge lo spazio espressivo
del bambino. Questa per il piccolo cliente è una esperienza nuova, abituato per lo più, a
scuola e a casa, a doversi adattare forzatamente ai tempi degli adulti. La play Therapy è
estremamente rispettosa del bambino per sua capacità di risolvere in maniera autonoma i
problemi quando gli viene data l’opportunità di farlo, e basa il suo processo sul “qui ed
ora” permettendo ed accettando qualsiasi tempo sia necessario al bambino per arrivare al
cambiamento. La play-room fornisce lo spazio adatto per l’espressione di tutti i sentimenti
ed emozioni portati da bambino, che viene accettato esattamente come è , ed il terapeuta,
attraverso il suo modo di essere accogliente, congruente ed empatico, trasmette ai piccoli
clienti una forte sicurezza riconoscendo i loro sentimenti e riflettendoli in modo da
facilitare insight sul loro comportamento (Axline, 1947). Nel contesto della terapia di gioco
viene concessa al bambino una libertà esperienziale che gli consente di scegliere
liberamente il materiale di gioco, di decidere liberamente come utilizzarlo, ed in questo
modo, non venendogli imposta una direzione , il bambino esprime appieno la sua
personalità. La libertà, afferma Rogers (1977) è di fatto irreversibile e una volta che un
individuo, adulto o bambino, sperimenta la libertà responsabile, tenderà a sforzarsi di
raggiungerla, anche quando verrà ostacolata, perché la libertà non può essere eliminata o
annientata. Sperimentare, dunque, nel contesto terapeutico questa dimensione
rappresenta una forza estremamente potente per il bambino perché la libertà di esprimersi
lo indurrà a comportarsi in un modo più maturo e costruttivo, mentre se non sarà
legittimato ad esprimere se stesso al massimo delle sue potenzialità, cercherà di
raggiungere il suo obiettivo attraverso modalità secondarie, alternative e mettendo in atto
comportamenti definiti problematici o disfunzionali. Insieme alla libertà esperienziale, il
bambino sperimenta, nel contesto della Play-Therapy, anche il senso del limite che il
terapeuta deve necessariamente dare. Infatti, i limiti, anche se pochi 2, sono necessari al
bambino per ancorare il percorso terapeutico al mondo della realtà (Axline, 1947).
Il Kids’ Workshop
Il kids’ Workshop è un laboratorio esperienziale per bambini, ideato e sviluppato da
Barbara Williams, psicologa statunitense influenzata fortemente nel suo lavoro con i
bambini dal pensiero di Carl Rogers, Virgina Satir e dagli Indiani d’America.
Particolarmente significativa fu sua prima esperienza fatta al The Silly Old School,
una scuola alternativa, definita da Carl Rogers (1980) “una scuola centrata sulla Persona”,
che contribuì a fondare nel 1969 a Fort Collins nel Colorado assieme al marito. I bambini che
afferivano a questa scuola avevano una età compresa fra i 4 e i 13 anni. L’osservazione di
questi bambini nel corso di 8 anni, in qualità di insegnante, diede alla Williams la possibilità di
2
Virginia Axline (1947) confina la maggior parte dei limiti agli oggetti: distruggere i giochi, danneggiare la
play-room, oltre all’aggredire lo psicoterapeuta.
verificare quanto i bambini posseggano dalla nascita le qualità centrate sulla persona di cui
parla Rogers e come da queste stesse qualità il bambino perda contatto con la crescita
(Williams, 1992).
La riflessione che scaturì da questa esperienza fu che “i bambini iniziano la loro vita come
esseri umani completi e se possono continuare ad avere fiducia nel mondo, essere
empatici con gli altri, dare riconoscimento positivo incondizionato ed essere congruenti,
essi possono arrivare a conoscere se stessi, avere un'alta autostima e gestire la maggior
parte dei problemi nei quali si imbattono. In breve essi possono crescere diventando
adulti che vivranno in maniera più completa” (Williams, 1992 - pag. 86).
Oltre all’influenza scaturita dalla conoscenza di Carl Rogers e dell’Approccio Centrato
sulla Persona, Barbara Williams ha fatto confluire nel suo Kids’ Workshop anche tutta la
sua esperienza derivata dal lavoro con Virginia Satir e il contatto avuto con le tribù
Navajo.
Verso la fine degli anni ’60 la Williams è stata, infatti, allieva di Virgina Satir,
psicoterapeuta statunitense, considerata tra i pionieri della Terapia Familiare, entrando
a far parte dello staff di un grande centro ospedaliero per la salute mentale nei pressi di
Palo Alto, in California, dove si stava sviluppando un nuovo campo della Terapia Familiare,
basato sull’assunto che qualunque fossero i sintomi presenti, questi andavano considerati
appartenenti all’intero gruppo familiare anziché all’unico membro definito “malato”. Da qui
si evidenziò l’importanza della distinzione tra messaggi diretti e i doppi messaggi. Secondo
la Satir le pratiche terapeutiche efficaci non dovevano essere usate solo con persone
diagnosticate come affette da disturbi mentali, ma potevano essere utilizzate con tutti
(Satir, 1988). Questo assunto è stato fatto proprio dall’ideatrice del Kids e divenuto
successivamente parte nodale del laboratorio, realizzato attraverso una serie di esercizi
basati proprio sulla comunicazione efficace tra i piccoli membri del gruppo.
La conoscenza della filosofia degli Indiani d’America è da rintracciare, invece, nelle
origini di Barbara Williams: il suo bis-bisnonno era un membro della tribù degli Indiani
Chippewa e, tramite sua nonna, attraverso la narrazione di storie, ha avuto modo di
familiarizzare con la cultura delle popolazioni indiane; inoltre ha avuto la possibilità di
crescere nelle tranquille montagne del Colorado immersa nella natura e a contatto con
gli animali, elementi questi molto cari ai Nativi Americani. Particolarmente importante è
stata anche la sua partecipazione alle conferenze organizzate da Virginia Satir con i Nativi
Americani (Williams, 1997). La loro filosofia è entrata nei Kids’ Workshop attraverso le loro
storie, le danze e la musica, per aiutare i bambini a sentirsi più vicini ed imparare ad
essere più consapevoli dell’ambiente, degli animali e di tutti gli esseri viventi, al fine di
apprezzarne l’importanza di prendersene cura.
Nel 1972 Barbara Williams realizza il suo primo Kids’ Workshop, sintesi dunque di un
contributo teorico ed esperienziale variegato e per questo motivo particolarmente ricco.
Il tutto realizzato in un clima di fiducia e di calda accoglienza per permettere ai bambini
la massima espressione del proprio “modo unico di essere”. Ed è da questa prima
esperienza che Barbara Williams si rende conto di aver toccato un qualcosa di molto
profondo nei bambini. Rimane, infatti, piacevolmente meravigliata dalla risposta
praticamente unanime data dai partecipanti al laboratorio, fatta di entusiasmo, gioia,
interesse, una risposta dunque fondamentalmente positiva e a lungo termine, come le
hanno anche testimoniato nel tempo genitori ed insegnanti. Questa poteva essere la
strada giusta per entrare a contatto con i bambini (Williams, 1992). La forte valenza del
potenziale insito nel Kids’ Workshop è stata anche riconosciuta e avvalorata da Carl
Rogers (1980), come è stata da lui riconosciuta la diffidenza spesso presente nelle
persone di fronte a nuove idee. Sebbene, infatti, venga espresso interesse per il
benessere dei bambini, una iniziativa che promuova questo aspetto appare inaccettabile
perché il cambiamento che ne può scaturire minaccia i modi convenzionali di pensiero.
Nonostante le resistenze e gli ostacoli trovati lungo il cammino, Barbara Williams è
andata oltre continuando a credere fortemente e investendo energie in questo suo
progetto così promettente.
L’espressione delle qualità centrate sulla persona di Carl
Rogers nel rapporto con il bambino
Cercherò ora di descrivere come le qualità Centrate sulla Persona di Carl Rogers possano
realizzarsi nel rapporto con il bambino, che sia un piccolo cliente nell’ambito di un percorso
psicoterapeutico, o un partecipante ad un laboratorio preventivo qual è il Kids’ Workshop.
La Congruenza. Rogers (1961), con il termine Congruenza, intende il livello di autenticità
e di buona integrazione del terapeuta nella relazione con il cliente. Il terapeuta è
liberamente e profondamente se stesso e la sua esperienza reale è fedelmente
rappresentata nella coscienza. Mearns e Thorne (1988) la definiscono come “uno stato di
essere” del terapeuta quando i suoi responsi esteriori al cliente collimano costantemente
con i sentimenti interiori e con le sensazioni che egli ha con il cliente.
Anche nella terapia con i bambini la congruenza si può realizzare attraverso una
comunicazione del terapeuta al piccolo cliente chiara, diretta e trasparente. Per Virginia
Satir (1988), terapeuta familiare influenzata dalla psicologia umanistica, essere congruenti
significa “dare messaggi congruenti”, cioè quando le parole dicono le stesse cose delle
sensazioni e dei messaggi non verbali. Il più delle volte gli adulti mandano doppi messaggi
che scaturiscono da una discrepanza tra comunicazione verbale e non verbale; le parole
dicono qualcosa ed il resto della persona dice qualcos’altro. I bambini molto piccoli sono,
invece, molto abili con i messaggi diretti, è la loro modalità comunicativa per eccellenza;
mano a mano che ricevono doppi messaggi dagli adulti, però, i bambini cominciano ad
acquisire questa nuova modalità pensando che non sia giusto dire ciò che si pensa
direttamente, e ciò contribuisce ad un abbassamento della loro autostima. La congruenza
facilita la costruzione di una relazione basata sulla fiducia poiché il modo di essere
congruente del terapeuta contribuisce a porlo in una posizione egualitaria rispetto al
piccolo cliente, come una persona che vuole essere pienamente presente come essere
umano naturale, vivo, in relazione e che non si nasconde. Nel bambino la congruenza, se
sviluppata, promuove l’autostima perché riconosce e dà valore alla propria esperienza,
promuovendo un sano concetto di sé.
Nel Kids’ Workshop la congruenza viene sperimentata attraverso esercizi che enfatizzano
l’importanza di una comunicazione efficace, possibile solo attraverso l’utilizzo di messaggi
diretti. Si può affermare che sia proprio questo il leit-motiv del laboratorio. In numerosi
esercizi proposti risulta di notevole efficacia “far parlare” i puppets, che solitamente
rappresentano animali, con cui il bambino facilmente si identifica, e che lo aiutano a
comunicare con gli altri bambini, perché a parlare non sarà lui, ma il puppets! Ciò rende
decisamente più facile la comunicazione nel gruppo e il lavoro essenziale che viene portato
avanti nel Kids’ Workshop è l”allenamento” a mandare messaggi diretti che scaturiscono
direttamente dal contatto del bambino con le proprie emozioni e vissuti.
L’empatia. Rogers la definisce come il sentire il mondo personale del cliente “come se”
fosse del terapeuta senza mai perdere questa qualità del “come se”, facendo confusione
tra le proprie emozioni e quelle dell’altro (Rogers, 1961).
Essere empatici nei confronti di un bambino implica la capacità dell’adulto di mettersi al
posto del bambino e di riuscire a comprendere realmente ciò che lui prova, il suo
significato personale (Rogers, Kinget, 1965). Questo è possibile se l’adulto riesce ad essere
empatico in primis con se stesso, ricontattare quindi i sentimenti e i vissuti della propria
infanzia, rivedersi e ricordarsi bambino con le proprie fragilità, insicurezze, paure…ma
anche sogni, speranze ed esperienze positive che hanno caratterizzato i primi anni della
sua vita. Solo in questo modo è possibile un reale avvicinamento dell’adulto al mondo del
bambino: immedesimandosi in lui e guardando attraverso i suoi occhi, “come se” fossero i
suoi, tutto ciò che lo circonda e che può avere significato per lui. Dunque, mettendosi sullo
stesso piano del bambino, anche fisicamente stando seduto in terra insieme a lui, e
interagire provando ad utilizzare canali di comunicazione a lui più consoni e familiari, ad
esempio giocandoci insieme, disegnando con lui, e raccontandogli storie. Nel
Kids’Workshop l’empatia si sperimenta attraverso esercizi volti a riconoscere i sentimenti
dell’altro (Williams, 1992) e ciò è molto favorito dallo stare in gruppo perché dà la
possibilità al bambino di osservare se stesso in relazione all’altro e di cogliere ed accettare
le differenze e le somiglianze tra le persone e i relativi vissuti.
L’accettazione positiva incondizionata. Per Rogers (1961) accettare in maniera
incondizionata un cliente implica l’accettazione di tutti i sentimenti portati dallo stesso,
tanto quelli “positivi” che quelli “negativi”, i suoi aspetti di personalità congruenti e quelli
incongruenti. L’interesse verso il cliente non è possessivo, ma lo si considera come una
persona distinta che ha sentimenti ed esperienze personali.
Considerare il bambino come Persona è il primo passo per la realizzazione di questa
qualità rogersiana. Spesso i bambini sperimentano una accettazione “condizionata” da
parte dell’adulto, genitore o insegnante che sia, attraverso messaggi verbali o non verbali
che comunicano “ti voglio bene se…”, che trasmettono dunque la non totale e
incondizionata accettazione del bambino in quanto persona poiché sottintende un “così
come sei non vai bene”. Non viene, pertanto, messo in discussione il comportamento
considerato “inadeguato” per l’adulto, ma il bambino nel suo insieme, tanto da provocargli
un senso di smarrimento, di sfiducia in se stesso e di grande confusione. In un percorso di
Play Therapy come in un laboratorio Kids’ Workshop, il terapeuta o il facilitatore,
accetteranno il bambino nella sua totalità, senza il bisogno di dirgli cosa fare o cosa non
fare, vi è una estrema fiducia che il bambino possa trovare il suo modo di stare nella
relazione. Quando il bambino percepisce questa fiducia autentica da parte dell’adulto
significativo, verrà attivato il suo processo di crescita e di cambiamento, in caso contrario
le sue energie saranno disperse in un processo di ricerca di accettazione da parte
dell’adulto, che lo porterà inevitabilmente ad uno spostamento del locus of evaluation
dall’interno all’esterno rendendolo così sempre più sensibile e dipendente dal giudizio
altrui. Nel Kids’ Workshop, il bambino avrà modo di fare esperienza di questa qualità
attraverso esercizi che lo mettono a confronto con il fatto che esistono somiglianze e
differenze tra le persone, ma soprattutto che lo aiutano a viversi le differenze più come
risorse che come minacce (Williams, 1992). Ad esempio un esercizio del Kids’ Workshop di
notevole impatto sui bambini è quello dei desideri in cui si chiede ad ogni bambino di
esprimerne tre (Williams, 1996). Il fatto di poter condividere i propri desideri con il
gruppo, se se ne ha voglia, favorisce il confronto di esperienze e la capacità di ascolto di
se stessi e dell’altro, il tutto in un clima in cui diviene fondamentale avere l’opportunità di
potersi contattare profondamente e recuperare così un qualcosa che fa stare bene solo
esprimendolo e condividendolo, al di là del fatto che si realizzi o meno.
La relazione con il bambino e i principali “canali” di
comunicazione: il gioco, il disegno, la favola.
La relazione con il bambino, sia che si tratti di ambito terapeutico che preventivo, rimane
l’elemento centrale per innescare un processo di cambiamento teso ad esprimere appieno
il modo di essere della persona. Parlando dell’importanza della relazione, Rogers afferma
“quello che accade nella relazione può non essere sempre di vitale importanza per me, ma
può essere di vitale importanza per il cliente e sarebbe meglio che prestassi un’accurata
attenzione agli aspetti poco percettibili della relazione – anche quando è con un bambino,
anche quando implica solo il giocare con il bambino. Stai trattando aspetti importanti del
comportamento del bambino e del suo comportamento futuro“. (Rogers, Russell, 2002 pag. 141).
Entrare in relazione con i bambini è un’esperienza per certi aspetti molto semplice ed
immediata poiché sono loro stessi semplici, immediati e profondamente aperti
all’esperienza e all’altro. Non tutti gli adulti sono, però, in grado e pronti a relazionarsi al
mondo dell’infanzia poiché un presupposto fondamentale per lavorare efficacemente con i
bambini è quello di avere un “buon rapporto” con la propria infanzia, intendendo con ciò
essersi dati l’opportunità di rivedersi bambini e aver ricontattato i vissuti e le emozioni
provate nella propria infanzia, in altri termini provare empatia per se stessi. Spesso gli
adulti perdono questo contatto o perché la loro infanzia è stata caratterizzata da episodi e
da esperienze particolarmente dolorosi e negativi che hanno provocato un allontanamento
da quella dimensione - esistono molte persone che hanno enormi difficoltà, a volte, a
ricordare episodi avvenuti nella propria infanzia - oppure perché entrano in gioco
“costrutti” rigidi che parlano di un adulto che non può più giocare, divertirsi o
semplicemente lasciarsi andare ad una visione più leggera e semplice della vita perché
questo appartiene solo al mondo del bambino: si pensi solo alle difficoltà che può avere un
adulto a disegnare qualcosa, oppure a giocare.
Se per gli adulti la comunicazione di tipo verbale è il canale più naturale ed utilizzato nel
rapporto interpersonale, terapeutico e non, per esprimere un disagio, una sofferenza, un
conflitto interno, per i bambini non è così. O meglio, occorre chiaramente considerare l’età
di riferimento del bambino, ma si consideri che fino agli 8-10 anni i bambini amano
esprimere il loro mondo interno attraverso numerosi altri canali di comunicazione che sono
rappresentati principalmente dal gioco, dal disegno e dal raccontare storie, mentre trovano
spesso difficoltà ad esprimere a parole una emozione, un sentimento, una paura o un
disagio che provano. Quello che per un adulto è un “problema”, un “sintomo”, per un
bambino è semplicemente una risposta adattiva ad una situazione stressante ed è per
questo motivo che il bambino non richiede mai aiuto, dicendo di avere un problema, ma
sarà sempre un adulto vicino, genitore o insegnante, a deciderlo per lui (Crocetti, 2003).
Fabio un bambino di 9 anni che ha fatto un percorso psicoterapeutico per “problemi
comportamentali” in una delle prime sedute ha realizzato un disegno (fig. 1) che
rappresentava un parco giochi, confinato nella parte sinistra del foglio, in cui veniva
raffigurata un’altalena, uno scivolo e un dondolo, dotato anche di un recinto che chiudeva
parzialmente lo spazio dei giochi, ma assolutamente privo di bambini o persone adulte.
Una rappresentazione grafica, quindi, del suo vissuto in quel momento della sua vita,
caratterizzato da un senso di solitudine e da una difficoltà relazionale, che sicuramente a
voce non sarebbe stato in grado di esprimere, ma che attraverso un “dialogo” empatico
scaturito da ciò che evocava in Fabio quel disegno, è stato poi possibile comprendere e
portare fuori da lui.
Il suo percorso terapeutico è durato all’incirca poco più di un anno ed è interessante
osservare il suo processo proprio attraverso le sue realizzazioni grafiche. Infatti all’incirca a
metà percorso Fabio disegna una barca dei pirati (Fig. 2) in cui non compaiono persone,
ma quando si accinge a raccontare il suo disegno, afferma che i pirati gli piacciono molto e
che stanno tutti all’interno della nave. Verso la fine del suo percorso terapeutico disegna
se stesso alla guida di un mezzo agricolo che trasporta una balla di fieno (Fig. 3). Il
paesaggio raffigura campi, un laghetto, un grande sole e anche delle pecorelle, parla del
disegno dicendo che gli infonde molta serenità perché gli piace molto la natura. Nel
secondo e terzo disegno c’è un elemento importante che Fabio introduce, ed è l’uso del
colore. Appare evidente il cammino fatto da questo bambino, espresso attraverso i suoi
disegni utilizzati terapeuticamente come ponte tra il terapeuta ed il bambino. Man mano
Fabio è riuscito a recuperare un maggiore contatto con se stesso (nel terzo disegno è lui
che guida il trattore) e con la propria affettività, riuscendo ad esprimerla, divenendo una
parte più consapevole del suo essere.
Fig. 1 - 1° disegno di Fabio
Fig. 2 - 2° disegno di Fabio
Fig. 3 - 3° disegno di Fabio
Un modo di avvicinarsi al disegno infantile che sia rispettoso del sentire di colui che lo
ha realizzato, sembra essere l’approccio fenomenologico, in quanto guardando agli eventi
nella loro essenza piuttosto che partire da preconcetti, permette al terapeuta di
approcciare i molteplici significati del disegno infantile senza restare imbrigliato in letture
troppo rigide che mettono in primo piano gli elementi strutturali e contenutistici del
disegno perdendo di vista la “persona” che lo ha realizzato. Nel momento in cui il
terapeuta assume una posizione di “non-sapere”, può vedere il piccolo cliente come
massimo esperto delle sue esperienze, mettendolo così maggiormente a contatto con i
suoi vissuti (Malchiodi, 1998). Un approccio fenomenologico al disegno infantile si
differenzia da uno più interpretativo perché non si basa essenzialmente su elementi grafici
e contenutistici che si presume il bambino abbia proiettato nella sua realizzazione, bensì
facilita, attraverso i rimandi empatici del terapeuta, alla stregua di quanto avviene nella
terapia con adulti, l’emergere dei sentimenti e delle emozioni che il disegno ha permesso
di esprimere permettendo al bambino di avvicinarli con più facilità e pervenire ad una
maggiore consapevolezza.
Leonardo, un bambino di 6 anni, arriva in terapia perché ha una difficoltà a modulare le
emozioni, presentando difficoltà forti a separarsi dalle figure genitoriali e dei nonni,
manifestando aggressività nei confronti degli stessi, ed esprimendo, a detta dei genitori, le
emozioni sempre con estrema teatralità. Anche il momento dell’entrata a scuola
rappresenta un momento estremamente doloroso perché accompagnato da pianti ed urla
del bambino. Una volta andata via la mamma, però, le maestre riferiscono che il bambino
si calma ed inizia le sue attività. Sin dall’inizio della terapia il bambino si mostra a suo agio
con i materiali di gioco a sua disposizione e nel rapporto con il terapeuta. Questo aspetto
ha permesso sicuramente il fatto che nell’arco di poche sedute il bambino trovasse un
modo diverso di affrontare l’entrata a scuola. Ciò si è reso possibile attraverso il gioco:
infatti alla quinta seduta Leonardo organizza una scena di gioco, utilizzando la casa delle
bambole, un’altra casa che rappresentava la scuola e alcuni personaggi fratello e sorella
rispettivamente di 8 e 6 anni, nonni di 60 anni e genitori di 69 anni. Attribuendo ad
ognuno di loro nomi di fantasia non corrispondenti quindi alla realtà. La scena si svolgeva
nel seguente modo: la bambina, Samantha, collocata all’entrata della scuola piange perché
non vuole starci e lasciare, così, la madre. Interviene il fratello, Gigi, che si trovava in una
classe al piano superiore, che la consola e la tranquillizza. Leonardo rimane molto su
questa scena, soprattutto sul pianto della bambina. Quando vengono a riprenderlo i
genitori gli racconta la scena con molto distacco rispetto alla bambina che piangeva.
Quando ritornano per la seduta successiva, la madre riferisce che Leonardo non piange più
la mattina e che va a scuola molto più tranquillo.
Un altro caso molto interessante è quello di Michele, 9 anni, in terapia da circa un anno
perché molto introverso e con grossi problemi a scuola legati alla sua capacità di
attenzione/concentrazione. Il bambino sin dall’inizio del percorso ha espresso sempre in
maniera molto ricca i suoi vissuti, legati all’insicurezza e ad un malessere generale di
fondo, sia attraverso il disegno che attraverso il gioco. Un elemento significativo è
intervenuto ad un certo punto della terapia quando, praticamente in ogni seduta per circa
10 incontri, ha messo in scena il tema del terremoto (fig. 4). Lo ha rappresentato
utilizzando la casa delle bambole ed i personaggi della famiglia: madre, padre e due
fratelli, un maschio ed una femmina. La scena si svolgeva nel seguente modo: la famiglia
stava tranquilla nella routine quotidiana, c’era la mamma che cucinava, il padre che
leggeva il giornale davanti alla televisione e i fratelli che giocavano nelle loro stanze. Ad un
certo punto arrivava il terremoto che metteva tutto a soqquadro. Passato il terremoto,
però, la famiglia si salvava sempre e procedeva a rimettere tutto a posto come prima. Man
mano che si andava avanti con le sedute, Michele ha aggiunto alla scena la cassetta della
sabbia che rappresentava il mare e dentro vi era immersa una barca sulla quale saliva la
famiglia per salvarsi, ma anche qui interveniva poi una sorta di tsunami che inondava la
barca e la famiglia, mettendoli in pericolo di vita. Anche in questa situazione si salvavano
tutti e riprendevano la loro normale vita. E’ evidente l’enorme “terremoto” emotivo che
viveva Michele e che è riuscito a tirar fuori da sé solo attraverso questa scena di gioco. Il
bisogno di ripeterla più e più volte, probabilmente legato alla complessità dei sentimenti
provati fatti di angoscia e di paura, era funzionale ad una lenta elaborazione ed
espressione di questo vissuto così profondamente intenso.
Fig. 4 – scena di gioco di Michele: il terremoto
Il gioco è uno dei modi che possiede il bambino per esplorare il mondo. Attraverso il
gioco, il bambino comunica, sperimenta le emozioni e mette in atto delle azioni
trasformative della realtà. I Sentimenti, i pensieri e la percezione della realtà vengono
espressi attraverso il gioco perché il bambino non è ancora in grado di esprimerli a parole
(Knell, 1993). Vi è una relazione bidirezionale tra gioco e sviluppo: il gioco, infatti, riflette
lo sviluppo del bambino ma al tempo stesso contribuisce all’evoluzione delle funzioni
motorie, sociali, cognitive e affettive del bambino (Baumgartner, 2002).
Essendo il gioco non vincolato dalla realtà fattuale, facilita l’esplorazione, produce
eccitazione e stimola la fantasia. Il gioco, però, può verificarsi solo quando le condizioni
ambientali sono benevole e supportive, mentre è difficile che si possa realizzare in
condizioni di ansia e di insicurezza (Baumgartner, 2002).
Carla è una ragazzina di 10 anni, per la quale la mamma ha chiesto una consultazione per
difficoltà relazionali molto forti, soprattutto all’interno della sua classe, in particolare nei
confronti di una compagna che, a detta della ragazzina, esercita su di lei un potere molto
forte facendola sentire schiacciata e isolata all’interno della classe. Carla a metà circa del
suo percorso esprime e tenta una sorta di elaborazione della situazione che si vive con
molta sofferenza e problematicità, tanto da influenzare negativamente anche il rendimento
scolastico. Organizza così numerose scene di gioco con la vaschetta della sabbia, di cui se
ne riportano quattro perché ritenute più significative. Carla si concentra molto durante
l’allestimento delle varie scene, curando molto i particolari. Nella prima scena (Fig. 5)
raffigura il contesto classe con la maestra alla cattedra nella parte sinistra della sabbiera,
mentre nella parte destra il contesto è esterno, nel giardino della scuola in cui si vedono le
compagne di classe disposte in cerchio intorno a lei (personaggio di colore giallo) e a
questa compagna (di colore rosso) con cui cerca di confrontarsi. Nella seconda scena (Fig.
6) inizia il combattimento tra le ragazzine ed interviene una compagna (la sua amica del
cuore) che si butta fisicamente contro la “cattiva”, interviene lei nella terza scena (Fig. 7),
cadendole addosso dall’alto, sconfiggendola. Infine, nell’ultima scena (Fig. 8) si festeggia
la vittoria del personaggio che rappresenta Carla sulla compagna con il sostegno delle sue
amiche di classe, strette intorno a lei, che con le braccia alzate la incoronano vincitrice. Al
centro del cerchio, in terra, la perdente. Rappresentare questa situazione per lei
problematica con del materiale di gioco, scegliendo di utilizzare come spazio di espressione
la vaschetta della sabbia, ha permesso a Carla di esprimere, di affrontare e, quindi, di
trovare una via d’uscita da una condizione divenuta per lei stagnante e angosciante.
Infatti, questa esperienza è stata per la ragazzina l’inizio di un periodo più sereno a scuola,
alla quale è tornata più sicura di sé e con nuovi “strumenti” in mano per fronteggiare
eventuali nuove situazioni problematiche.
Fig. 5 - Scena n. 1
Fig. 7 - Scena n. 3
Fig. 6 - Scena n. 2
Fig. 8 - Scena n. 4
L’uso della cassetta della sabbia nel setting terapeutico, aiuta il bambino a dare un
limite esterno lasciando però all’interno la più completa libertà di fare ciò che si vuole
(Kalff, 1974). La sabbiera ha un duplice valore: è uno spazio libero ma anche protetto,
all’interno del quale il bambino può sperimentare una totale libertà nell’utilizzo dello
spazio, libertà che può essere percepita come tale solo se rapportata ad una percezione
dei limiti (Montecchi, 1993). Analogamente al concetto Winnicott (1974) di Spazio
Transizionale, la cassetta della sabbia rappresenta uno spazio diverso dal mondo interno e
dal mondo esterno del bambino, è lo spazio dove egli può essere attore e spettatore e
dove può realizzare le sue esperienze creative (Montecchi, 1993).
La favola è un ulteriore canale, familiare per il bambino, in grado di facilitarlo a contattare
e ad esprimere tutte le emozioni, anche quelle più negative. Essa può essere intesa come
una metafora della vita interiore che permette di “guardare” le proprie difficoltà, paure,
ma anche immaginare nuove possibilità, con la giusta distanza perché rappresenta un
ponte tra la realtà e la fantasia. La fiaba ritrova le sue radici nelle società primitive ed il
suo elemento caratterizzante è da sempre la lotta interna dell’essere umano per trovare il
suo Io più intimo e profondo (Dal Porto, Bermolen, 2002).
L’uso delle favole o semplicemente delle storie in un setting terapeutico, permette di
comunicare con il bambino ad un livello molto più profondo che non usando il linguaggio
letterale, in quanto molto più immediato e vicino al linguaggio naturale dei bambini
(Sunderland, 2000). Le parole, il più delle volte, solo in minima parte riescono a
trasmettere il significato profondo, denso di emozioni e sensazioni, che appartiene ad un
determinato vissuto. Attraverso il gioco, il disegno e la narrazione delle storie, invece, ciò
può essere possibile perché entra in gioco il mondo delle immagini, un mondo che
permette molte più possibilità di espressione.
Una favola può avere una funzione terapeutica nel momento in cui racconta di
problematiche comuni e di questioni emotive (Sunderland, 2000) e il bambino che ascolta
può riconoscersi nel protagonista o negli altri personaggi della storia e trovare spunto da
come questi vedono e affrontano le situazioni per imparare a fronteggiare le proprie
difficoltà con modi nuovi, più efficaci. In questa maniera il bambino non si sentirà più
totalmente solo con le sue difficoltà e con la complessità delle emozioni perché ci sarà
qualcun altro che, nella storia, vive le sue stesse emozioni (Sunderland, 2000). Dunque un
storia può offrire al bambino la speranza che non si è soli e la possibilità di trovare e far
propri nuovi “strumenti” che lo accompagneranno durante la sua crescita. Questi nuovi
modi anche se non messi in pratica nell’immediato dal bambino, agiscono comunque come
“un seme piantato nella sua mente” (Sunderland, 2000) che fungerà da risorsa per il
futuro.
Ma una storia può essere terapeutica anche se viene creata e poi narrata dal bambino,
divenendo anch’essa, alla stregua del disegno o di una scena di gioco, un ponte che
connette il terapeuta al mondo interno del bambino. Alcuni bambini trovano più agevole e
naturale esprimere la propria immaginazione e fantasia inventando una storia, che non
attraverso il gioco o la rappresentazione grafica.
Riflessioni conclusive
Eccomi giunta al termine di questo “cammino” mediante il quale ho tentato di rintracciare
un filo che mettesse in connessione l’affascinante e complesso mondo del bambino e
l’Approccio Centrato sulla Persona. Credo che molto possa essere fatto per promuovere e
migliorare il benessere dei bambini e l’Approccio Centrato sulla Persona, focalizzandosi sul
bambino inteso come Persona, può rappresentare il modello più funzionale al
raggiungimento di questo obiettivo. La prevenzione di problematiche e di comportamenti
disfunzionali e addirittura pericolosi per sé e per l’altro, può essere realizzata mediante un
approccio che promuova la salute attivando capacità di coping e favorendo
l’empowerment, solo in questo modo il bambino ne uscirà rafforzato e in grado di
fronteggiare, in maniera più consapevole e funzionale, le sfide che gli proporrà la vita
(Zucconi, Howell, 2003). L’Approccio Centrato sulla Persona è in grado di avvicinarsi al
mondo del bambino in maniera rispettosa e naturale perché lo considera degno di fiducia
e di rispetto in quanto essere umano e dunque, in quanto Persona.
Le potenzialità di questo Approccio, in termini preventivi, sono a mio avviso infinite poiché
il suo punto di partenza è proprio una visione positiva della natura umana e una fiducia
incondizionata nella possibilità che l’individuo, in un clima facilitante, possa realizzare
appieno il suo potenziale, e la mia esperienza mi porta ad affermare quanto esso possa
essere potente e di impatto già nei primi mesi di vita di un bambino in presenza di un
genitore che attraverso il suo modo di essere che incarni le qualità centrate sulla persona
rogersiane, possa facilitare da subito un rafforzamento di queste qualità nel figlio. In
quest’ottica è auspicabile una educazione centrata sulla persona così come ne parla Carl
Rogers (1951,1969) che già dalle prime classi avvicini i bambini ai principi rogersiani, che
enfatizzi l’importanza dell’ascolto e dell’essere ascoltati in maniera vera, autentica e non
giudicante, che stimoli un apprendimento significativo, dunque non basato solo su nozioni
e conoscenze, ma sull’esperienza e capace di rivitalizzare gli interessi dell’individuo.
Per un bambino, quindi, crescere in un clima che permetta e faciliti l’espressione dei propri
sentimenti ed emozioni, che renda possibile uno scambio interpersonale autentico e
congruente, che favorisca la possibilità di ascolto e di contatto profondo con se stesso e
con l’altro, rappresenta la strada maestra per divenire una Persona pienamente
funzionante.
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