Incontrarsi da “persona a persona” su Internet

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Incontrarsi da “persona a persona” su Internet
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2004
Incontrarsi da “persona a persona” su
Internet
Nuove relazioni e nuovi modi di comunicare
Patrizia Di Serio Benvenuti
Il fenomeno “Internet” sta sempre più dilagando, influenzando molto il nostro
modo di comunicare e di relazionarci, soprattutto fra i ragazzi e gli adolescenti.
Questi sono solo alcuni dati, che ci mostrano la portata del fenomeno:
Questi dati mostrano la crescita di utenti Internet nel mondo negli anni 1993-2003
e le cifre sono espresse in milioni.
Questo è il rapporto fra gli utenti italiani rispetto al resto del mondo.
Personalmente, ho iniziato a “navigare” nel mare di Internet circa 2 anni fa,
incuriosita dal fenomeno e sollecitata dalla passione che sempre ho avuto per le
nuove tecnologie, soprattutto per il computer.
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Mi si è subito dischiuso un mondo infinito, dove in pochi secondi potevo
raggiungere “luoghi” lontanissimi da me, e contattare le persone più disparate.
Ho poi unito il mio desiderio di giocare alla avventura “Internet”, partecipando ad
un gioco di ruolo (link: www.extremelot.it) che mi ha permesso di trasformarmi in
una “gnoma”, e di vivere così mille avventure “virtuali”.
Essendo psicoterapeuta, ho da subito cercato di capire come mai questo “gioco” mi
appassionasse tanto e come mai, insieme a me, trovavo collegate altre 1300 persone…
per una media di circa 7000 persone che entrano nel sito giornalmente, con un’età
compresa fra i 70 e i 10 anni (con una media di 24enni).
Il fenomeno non poteva lasciarmi indifferente: come mai tutte queste persone e
perché questa frequenza così assidua? La mia personalissima risposta, che metterò
poi a confronto con diversi autori che hanno studiato il fenomeno della rete, è stata la
seguente: il “gioco”, forse, non è altro che uno specchio della realtà, dove si riflettono
migliaia di anime, dove si affacciano persone che incontrano altre persone… come
trovarsi in una enorme piazza, frequentata da moltissima gente… ora che le piazze
sono scomparse dalle nostre città. Piazza come luogo di incontro, fondamentale un
tempo per gli scambi non solo commerciali, ma anche relazionali.
Ho conosciuto più persone nuove attraverso la rete, da qualche anno in qua, che in qualsiasi altro
modo. Alcuni di questi incontri si sono trasformati in vere amicizie. Non tutti direttamente. - Il
cammino è al contrario di quello abituale: conosciamo prima l'anima, poi il corpo. - Spesso l'incontro
fisico è deviante; nasconde o rallenta l'incontro con l'anima e con la mente. Ci sono persone che si
vedono da vent’anni, magari condividono lo stesso letto, e non si conoscono bene. - La vicinanza fisica
non è necessariamente dialogo e comprensione; può addirittura diventare un ostacolo. – C’è una
specie di magia in questo incontro di anime libere, che solo dopo si incarnano. Quando incontriamo
fisicamente la persona ne abbiamo già un'immagine interiore; il nostro modo di percepirla è diverso,
perché nel momento in cui vediamo il “fuori“sappiamo già qualcosa del “dentro”. - Non è un modo
debole o poco umano di incontrarsi, come pensa chi non ha pratica della rete. - Forse un giorno la rete
perderà la sua magia. Forse quando avremo larghezze di banda infinitamente superiori a quelle di oggi
ci vedremo in video; l'apparenza riprenderà il dominio, in forma anche più perversa, perché
un'immagine trasmessa è necessariamente qualcosa di più costruito di una presenza fisica tangibile
(Livraghi, 1997).
Ecco, incontrarsi e conoscersi: due termini intorno a cui ruota tutto il popolo della
rete. Si soddisfa così il bisogno di “affetto, contatto e di relazione con gli altri” di cui
parla Maslow, psicologo umanista, che ha costruito una piramide sulle necessità del
vivere umano, indispensabili per vivere degnamente.
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Questi “livelli” devono essere percorsi tutti, per la completa realizzazione di Sé: il
livello n. 3 corrisponde al “bisogno associativo”, necessario per arrivare al livello n. 4
e conquistare sia la stima degli altri, che la stima di Sé, a loro volta necessari per una
vera “autorealizzazione”.
Scrivono i sociologi T. Barrett e C. Wallace:
Molti membri della comunità online si sono trovati intrigati in scambi di natura intima, di amore o
di odio - sono relazioni che tendono a svilupparsi più rapidamente di quelle del mondo reale consentono di comunicare con gli altri restando fisicamente soli -, di comunicare cioè in isolamento l'emotività si è ridotta agli emoticons - possiamo nasconderci dietro al terminale - siamo perciò liberi
dalle distrazioni non-verbali che spesso interferiscono con lo scambio di messaggi - diventiamo i nostri
messaggi, puramente e semplicemente - la protezione offerta dal nasconderci dietro ad un terminale
può facilitare l'espressione delle emozioni reali - la comunicazione su Internet ci scherma attraverso il
controllo che ci offre sul nostro comportamento - possiamo sempre scappar via - [abbiamo, d'altra
parte,] la possibilità di pensare, di riflettere e di formulare con calma la risposta migliore ad ogni
comunicazione - scambiare opinioni con una libertà ed una franchezza di cui raramente si gode
nell'incontro vis-à-vis - la mancanza di segni mimici e posturali (visual cues) fa sì che le emozioni si
intensifichino facilmente. - Perciò la relazione interpersonale su Internet può raggiungere lo stesso
livello alto di comunicazione dell'incontro vis-à-vis (Barrett e Wallace, 1994).
Personalmente ho constatato che le relazioni amicali che si creano via chat sono
relazioni che godono del privilegio:
• della quotidianità (sentirsi tutti i giorni significa entrare prepotentemente nella
vita dell’altro);
• dell’anonimato (l’interlocutore non vede le nostre reazioni, quindi possiamo
“rifletterci su”);
• dell’intimità (ci si apre molto più facilmente con chi non si vede fisicamente, con
conseguente riflessione ed esplorazione di se stessi).
È sempre bene, comunque, cercare di conoscersi poi anche personalmente, senza
prolungare troppo la comunicazione via internet, altrimenti il divario tra reale ed
immaginario, tra sogno e realtà rischia di aumentare a livelli difficili da recuperare.
Infatti tendiamo spesso ad idealizzare la persona con cui chattiamo, proiettando in lei
i nostri bisogni, le nostre aspettative, i nostri desideri.
Nel gioco di ruolo, invece, mettiamo in campo altro… forse anche di più che in una
semplice chat. Qui noi siamo “autorizzati” (per gioco) a diventare e sperimentare altri
“Sé” che altrimenti non avrebbero avuto espressione; parti di noi che necessitano di
essere messe in campo in una sorta di laboratorio dove si costruisce la nostra identità.
Qualche volta queste esperienze riescono a facilitare l’autoconoscenza e la crescita personale, ma
non sempre. Possono essere luoghi dove si matura oppure si rimane bloccati, catturati da mondi
autonomi dove le cose sono più semplici che nella vita reale, e dove, se tutto fallisce, è possibile
mandare in pensione il proprio personaggio o iniziare semplicemente una nuova esistenza con un altro
(Turkle, 1996).
Nella mia esperienza personale, avendo sempre come riferimento la teoria
dell’Approccio Centrato sulla Persona, ho potuto constatare come Sé ideale e Sé realeorganismico tendano ad avvicinarsi, nel contatto che avviene attraverso Internet,
rendendo anche più limpida la percezione di Sé (Sé percepito).
La conseguenza diretta è un “benessere” della persona che lo sperimenta, un
aumento della sua congruenza; le relazioni che iniziano così si dimostrano efficaci e
durature. Questo credo sia dovuto soprattutto al fatto che il nostro Sé reale (o
organismico, emozionale, esperienziale, come viene definito dagli studiosi
dell’Approccio) si espande e si estende a tal punto, nell’incontro con l’altro su
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Internet, da avvicinarsi al Sé ideale, senza nessuno sforzo, senza nessuna “finzione”,
senza nessuna costrizione, ma “naturalmente”, quasi spontaneamente.
La persona, diventando più puramente e singolarmente se stessa, è più capace di fondersi con il
mondo, con quanto prima era il non-Sé; per esempio gli amanti si sentono più vicini a formare
un’identità, anziché restare due persone diverse, il monismo io-tu diviene più facile (Maslow, 1962, p.
111).
Ricordo che Carl Rogers definisce il Sé come «…una Gestalt che si modifica, non
essenzialmente mediante addizione o sottrazione, ma mediante organizzazione e
riorganizzazione» (Rogers, 1965, p. 151).
E ancora: «…il Sé ci apparve sempre più come il criterio con l’aiuto del quale
l’Organismo seleziona l’esperienza». (Rogers, 1965, p. 152).
I pericoli sono quelli di una “frammentazione” o “dispersione” del Sé, come
affermano gli psicoanalisti (K. Young in testa); io preferirei parlare di perdita di parti
del Sé qualora vi fosse un deciso contrasto fra Sé ideale e Sé reale-organismico nel
vivere più realtà parallele, mutando queste parti di Sé in aree subcepite.
La psicologa Sherry Turkle, invece, afferma che la frammentazione del Sé in realtà
viene vissuta da noi tutti nella nostra quotidianità, è diventata una caratteristica del
nostro “esistere”:
Viviamo un’esistenza dove sempre più spesso dobbiamo assumere ruoli diversi. Una donna può
essere amante la notte, madre a colazione e avvocato al lavoro. Un uomo può essere manager in ufficio
e prendersi cura del bambino a casa. Così, anche senza le reti di computer, le persone sperimentano
differenti ruoli e sono obbligate a pensare alla propria identità in termini di molteplicità (Turkle,
1996).
Soprattutto ritengo sia indispensabile rimanere sempre “con i piedi per terra”:
I miei pensieri possono vagabondare; i miei piedi devono rimanere per terra. Soltanto se una
persona è sicura della sua identità e radicata nella realtà del suo corpo, simulare è divertimento. Senza
un adeguato senso del Sé, la simulazione della fantasia diventa il delirio della paranoia, e questo non è
divertimento (Lowen, 1970).
Definire la differenza fra “reale” e “virtuale” risulta essere impresa non facile,
perché i due termini, da sempre posti in contrapposizione, in realtà possono
convivere, integrandosi e sviluppandosi. Virtuale deve essere inteso come
“potenzialità; ciò che non è ancora in atto (ma sempre potrebbe attuarsi).
Il monitor sembra rappresentare una finestra sul mondo e, come in certi quadri di
Magritte, è una finestra sana e rotta insieme, contenente un’immagine virtuale oltre
che il panorama che sta al di là. E questa immagine virtuale rispecchia fedelmente la
realtà, ne è la sua rappresentazione fedele.
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Il vetro del monitor diventa uno specchio in cui ci riflettiamo, ma anche un vetro
trasparente che ci mostra altri mondi, altre realtà.
Il rischio è che questi mondi ci possano attirare più della nostra vita reale, cadendo
così nella dipendenza e nella perdita della nostra reale identità.
Nel 1995 Ivan Goldberg propone ironicamente di introdurre nel DSM una nuova
sindrome: l’Internet Addiction Disorder, indicando i criteri diagnostici utili al
riconoscimento di tale disturbo.
Questo gesto ironico e provocatorio ha avuto un sorprendente impatto in ambito
clinico, tanto che molti psichiatri e psicologi hanno iniziato a pensare che Goldberg
potesse avere ragione, che veramente fosse possibile sviluppare una dipendenza nei
confronti della rete così come per la droga o l’alcol.
La prima ricerca empirica americana sull’argomento è quella della dottoressa K.S.
Young, professore associato presso l’Università di Pittsburgh (USA). Dopo aver
esaminato 396 soggetti Internet-dipendenti, la Young ha concluso che la sindrome da
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dipendenza da Internet esiste e va classificata tra le altre dipendenze
comportamentali, come la bulimia o il gioco d’azzardo. Chi ne soffre usa Internet non
per svago, per lavoro o necessità, ma come fosse in balia di un impulso irrefrenabile.
Concludo con un’osservazione: il “fenomeno Internet” sta sempre più interessando
il mondo della psichiatria e della psicologia: fioriscono ricerche e studi, si scrivono
sempre più libri o addirittura “manuali” d’uso, si discute addirittura sulla possibilità
di eseguire psicoterapie via Internet.
Questo porterà con sé la necessità, per chi si occupa di relazioni d’aiuto, di
documentarsi sul fenomeno che è in continua evoluzione; pur tenendo in seria
considerazione i rischi e le patologie del “cyberspazio”, occorre mantenere un
atteggiamento genericamente positivo nei confronti delle caratteristiche di questo
nuovo modo di comunicare e relazionarsi, caratteristiche che possono anche
rappresentare un ampliamento (almeno “potenziale”) delle possibilità della persona.
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