Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Jarmusch torna alle radici del suo minimalismo con un film che incanta chi sa
lasciarsi incantare dal suo cinema delle piccole cose, capace di esprimere poesia con i
pochi sobri ingredienti della più comune esistenza quotidiana.
scheda tecnica
un film di Jim Jarmusch, con: Adam Driver, Golshifteh Farahani, sceneggiatura: Jim
Jarmusch; montaggio: Affonso Gonçalves; USA 2016, 117’. Distribuzione: CINEMA di
Valerio De Paolis.
Jim Jarmusch
Originario di Akron (Ohio), Jarmusch si sposta per un anno a Chicago per studiare
giornalismo, quindi a New York, dove frequenta letteratura presso la Columbia
University. In questi anni scrive diversi testi in prosa e in poesia, alcuni dei quali
vengono pubblicati sulla Columbia Review. Nel 1973 Jarmusch passa alcuni mesi a
Parigi per una ricerca su André Breton e il surrealismo. Le teorie alla base della
corrente artistica francese influenzeranno profondamente la futura poetica
cinematografica del regista. A Parigi, inoltre, l'autore scopre il forte interesse per il
cinema e frequenta assiduamente la cinemathèque: tra gi autori europei che lo
influenzeranno di più c’è un giovane Wim Wenders (che gli regalerà la pellicola
avanzata dal suo Lo stato delle cose e utilizzerà le musiche del suo gruppo new wave
Del Byzanteens). Una volta tornato a New York Jarmusch si laurea alla Columbia e si
iscrive alla Graduate Film School della New York University. In tutti i suoi film si è
sempre mantenuto indipendente, nello stile e nel budget, sviluppando un suo
personale humour e un gusto nel raccontare che ricorda una certa narrativa
americana sospesa tra l'ironia, il minimalismo e la citazione pulp.
Jarmusch ha esordito nel cinema lavorando come assistente alla produzione per il
suo maestro Nicholas Ray in Lampi sull'acqua (1980); chiaramente debitrici di
quell'estetica sono le sue prime opere Permanent Vacation (1980, sua tesi di laurea
alla New York University) e Stranger Than Paradise (1984), realizzati in maniera
amatoriale. Già con Daunbailò (1986), forse anche per la presenza di uno stralunato
Roberto Benigni om Waits), il suo cinema è sembrato, pur nel rigore della forma,
quasi sciogliersi verso un umorismo più coinvolgente. Così è stato in Mystery Train
(1989), una trilogia di racconti tutti ambientati a Memphis, là dove era iniziata la
carriera di Elvis Presley. Con Taxisti di notte (1992) ha continuato la strada del film a
episodi, uniti dal filo conduttore della professione dei protagonisti di ogni capitolo,
ambientando le diverse parti del film in varie località del globo. Più successo riscuote
il successivo Dead Man (1995), un curioso anti-western spiritualista. Dopo Year of
the Horse (1997), una rivisitazione documentaristica della musica dello storico
gruppo rock Crazy Horse, nel 1999 ha diretto Ghost Dog - Il codice del samurai, un
film venato di allegria, elegante e un po' surreale, che vede Tom Waits. Del 2003
l'uscita del film a episodi iniziato negli anni '80 Coffee and Cigarettes , manifesto
della sua poetica minimalista fatta di quotidianità e semplicità. Broken Flowers
(2005), ha messo in scena invece uno svogliato Bill Murray che, scopertosi padre a
cinquant'anni, parte alla ricerca della possibile madre tra le fiamme del suo passato
in un malinconico on the road attraverso la provincia americana.
Inoltre dopo il thriller inedito in Italia The Limits of Control (2009), nel 2013 presenta
in concorso al Festival di Cannes una bizzarra e suggestiva storia vampiresca intrisa di
passione per la musica, Only Lovers Left Alive con Mia Wasikowska, Tilda Swinton e
John Hurt.
Da segnalare anche la divertita e occasionale attività del cineasta come attore, degna
di nota almeno in Straight to Hell (1987) di Alex Cox, Leningrad Cowboys Go America
di Aki Kaurismäki, Lama tagliente di Billy Bob Thornton e in Blue in the Face (1996) di
W. Wang e P. Auster.
Nel 2016 Jarmusch porta al Festival di Cannes ben due film: il documentario sul suo
amico Iggy Pop, Gimme Danger, e Paterson.
La parola ai protagonisti
Intervista al regista
Quando è nato il suo interesse per la poesia?
Nella tarda adolescenza sognavo di diventare un poeta, perché non era un lavoro che
si faceva per soldi, ma per amore della forma letteraria. Da ragazzino leggevo i
francesi tradotti e poi ho scoperto gli americani come Walt Whitman, Hart Crane,
Stevens e Williams. Trasferitomi a New York dall’Ohio, ho studiato con Kenneth Koch
alla Columbia University e ho scoperto la scuola newyorkese: il loro manifesto,
scritto da O’Hara, prevedeva di non scrivere una poesia per il mondo intero, ma per
una persona sola, come nel caso di This is just to say di Williams. I newyorkesi erano
divertenti ed esuberanti, non sempre seri. Una volta Koch mi chiese di tradurre una
poesia di Rilke e quando gli dissi che non conoscevo il tedesco, rispose: Te l’ho
chiesto proprio per questo!.
Nel suo film ci sono diversi riferimenti all’Italia. Come mai?
Quando parli di poesia come fai a non citarla? Ho imparato tanto da Roberto
Benigni, che è un esperto di Dante: scriveva in vernacolare ed era quasi un artista
hip-hop, perché usava il linguaggio della gente comune.
Lei però cita anche Gaetano Bresci…
Sì perché prima di passare alla storia si stabilì proprio a Paterson, in cui si raccolsero
diversi anarchici. La città ha un passato interessante: è stata il primo centro
industriale degli Stati Uniti, con fabbriche tessili, e ha visto le prime proteste dei
lavoratori. Nel 1838 duemila operai scesero in piazza, la metà erano bambini
irlandesi che all’epoca lavoravano 13 ore al giorno. Ma è anche la città di poeti come
Williams e Allen Ginsberg. L’ho scelta per le sue contraddizioni: sembra sospesa tra
speranza e disperazione.
Anche lei nel 2013 dopo avere girato Solo gli amanti sopravvivono, era
demoralizzato e disse che voleva smettere. Perché?
Trovare il denaro, allora, era stato un incubo e avevo odiato dover ricostruire Detroit
in studio, per motivi economici. Girare in interni per me è come tentare di
addomesticare un lupo. Detesto cercare i finanziamenti per un nuovo film. All’epoca
ero al verde ed è ancora così.
Paterson però è prodotto dal colosso delle vendite online Amazon.
Sono felice di questo, perché mi hanno concesso libertà totale di scelte, anche sul
casting, che da regista indipendente cerco. Però è una corporation e forse se il film
incasserà un miliardo di dollari io ne guadagnerò cinque: è frustrante, ma ormai
questo business è così, mentre anni fa la ripartizione dei proventi era più equa.
Quindi ha scelto lei Adam Driver, ormai diventato famoso grazie a Star Wars?
L’ho visto in un paio di film indipendenti e mi è piaciuto subito il suo modo di parlare
e muoversi in maniera naturale, perché amo gli attori che non agiscono ma
reagiscono. Ho scoperto solo dopo che era in Star Wars e le dirò che non ne ho mai
visto uno. Conosco la trama e i personaggi, contro la mia volontà, perché mi hanno
fatto il lavaggio del cervello.
Quanto ci mette a scrivere un film?
Le idee rimangono nel cassetto a lungo, quella di Paterson risale a 20 anni fa.
Raccolgo tantissimi appunti, ma poi quando scrivo sono veloce: stavolta ci sono
volute tre settimane. Le sceneggiature sono la forma più stupida di scrittura al
mondo, perché sono come planimetrie di un palazzo, ma io il palazzo preferisco
vederlo dal vivo. Perciò non mi piace lavorarci troppo; piuttosto le cambio a mano a
mano che un attore viene scritturato o trovo una nuova location. Lascio gli attori
improvvisare i dialoghi, perché penso che possano migliorare ciò che ho scritto.
Negli anni ha affinato una routine, come il protagonista di Paterson?
Sì, ma cambia se sto scrivendo, girando oppure montando. Di solito mi alzo, bevo un
tè, pratico tai chi, poi faccio una passeggiata e vado in ufficio. Però è una routine da
privilegiato: da giovane ho lavorato per due anni in fabbrica alla catena di montaggio
nove ore al giorno e so cos’è il lavoro duro.
I suoi genitori avrebbero voluto per lei un lavoro più stabile?
Mia madre mi ha sempre sostenuto, mio padre mai. E quando gli ho mostrato
Strangers than Paradise mi ha chiesto se mi fossi dimenticato dei pezzi, perché la
trama non aveva senso. Lui non aveva senso estetico, amava la musica ma non
distingueva Mozart da Mahler, anche se più in là negli anni mi ha apprezzato.
Recensioni
Paolo D'Agostini. La Repubblica
Paterson è una di quella scommesse che sembrano fare a pugni con la natura del
cinema: ritmo, movimento, azione, emozioni aggressive. E ne è autore un campione
del rinnovamento e della creatività indipendente degli anni Ottanta del cinema
americano, a partire da titoli come Stranger than paradise e Daunbailò che segnò
l’incontro con il genio di Roberto Benigni: Jim Jarmusch.
La sfida, la scommessa, davvero azzardata, sta in un flusso costante e
apparentemente monotono di piccoli o minuscoli gesti. Paterson che ogni mattina si
sveglia per primo e accarezza e bacia la moglie prima di alzarsi e prepararsi. Paterson
che esce di casa e ogni giorno raddrizza la cassetta della posta inspiegabilmente
sbilenca [...]. Paterson che ogni sera dopo cena fa la stessa identica passeggiatina
fermandosi nello stesso bar a bere la stessa birra. E risulta coerente, non una
civetteria fuori dal tempo e dal mondo, che Paterson non possieda un telefono né
che faccia uso di qualsiasi altra tecnologia. La sua vita si divide tra le ore al volante
del suo bus (ogni mattina lo stesso saluto con il collega controllore immigrato
indiano che ripete le medesime ma anche spiritose e autoironiche lamentele sui
molteplici oneri familiari), le fantasie poetiche, le affettuosità con la bella moglie
perfettamente allineata a lui, le passeggiate e gli incontri cordiali con i concittadini.
Un universo irreale? Una favola di semplicità non plausibile? Una favola
probabilmente sì. Ma densa di vita e di sentimenti forti. Sentimenti di ribellione alla
velocità imposta, al conformismo dell’allineamento forzato agli stessi pseudovalori,
al consumo senza guardarsi dentro […].
Emiliano Morreale. L'Espresso
[…] Jarmusch torna in parte allo spirito dei suoi primi piccoli film come Stranger than
Paradise, ma con uno sguardo ancora più rarefatto, composto di inquadrature fisse o
di camera car che incrociano lo sguardo stranito di Adam Driver, bravissimo
protagonista (ironia involontaria: il suo cognome indica la stessa professione del
personaggio).
Ignorato dalla giuria dell’ultimo festival di Cannes, dove era uno dei migliori titoli in
concorso, Paterson è un film dall’apparenza piana, dalla monotonia che si increspa
con leggerezza. Ma è un film dalla costruzione sottile. Una costruzione in cui, come
dice il protagonista a un certo punto, “qualche piccola rima si sente ogni tanto”. Dalla
sua idea apparentemente minimal della morale e dell’arte risulta uno dei film più
bizzarri sulla poesia. Il nostro autista è una sorta di santo quotidiano senza miracoli,
un eremita in fuga non dal mondo, ma nel mondo. E gli incontri e le genealogie
possono essere insospettabili.
Nella sua cittadina sonnolenta sono nati o vissuti poeti (William Carlos Williams),
clown (Lou Costello), e anarchici (Gaetano Bresci). Nel finale arriva invece uno strano
giapponese. Non a caso, perché Jarmusch spesso si rivolge al Giappone e la morale
ultima qui è il mono no aware, la sensibilità malinconica per il loro fluire delle cose.
Un concetto che il cinema ha imparato dai lavori di Yasujiro Ozu, segreto modello di
questo film.
Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa
Paterson è il capoluogo della contea di Passaic nello Stato del New Jersey; ma è pure
il titolo di un famoso poema in cinque volumi di William Carlos Williams, il famoso
modernista americano che pur natio della vicina Rutherford fece di Paterson il suo
«luogo» di poesia: in quanto paesaggio, in quanto memoria, in quanto coscienza
collettiva.
Analogamente nel film di Jim Jarmusch, il titolo Paterson allude alla città in cui è
ambientato [...] e, insieme, è anche il nome del protagonista, un giovane conducente
di autobus che nelle pause dal lavoro si dedica a scrivere poesie (senza rima),
traendo ispirazione dalla quotidianità intorno a lui: oggetti trascurabili come un
pacchetto di fiammiferi, o frammenti di discorsi colti qua e là. Paterson vive in un
modesto nido d’amore con Laura, una fantasiosa iraniana (la deliziosa Golshifteh
Farahani) che si dedica a dipingere in astratte geometrie in bianco e nero tende e
pareti, a preparare deliziosi dolcetti e a strimpellare una chitarra sognando di
diventare una folk singer.
Raccontata nell'arco di una settimana la routine di Paterson (personaggio) è ogni
giorno la stessa [...] Di cose ne succedono poche […] ma alla fine di questo film girato
con cristallino nitore e animato da due incantevoli creature simili agli innamorati di
Peynet, ci si rende conto di aver molto capito dell’opera e del mondo artistico di W.C.
Williams, il cui scopo era isolare con estrema precisione di linguaggio l’immagine per
coglierne l’intima essenza.
È quello che fa il nostro Paterson, incarnato con ispirata semplicità da Adam Driver,
con i suoi deliziosi versi (scritti con gusto imagista dal poeta Ron Padgett); ed è
quello che fa Jarmusch con questa poetica riflessione sulla poesia.
Paolo Mereghetti. Corriere della Sera
La calma vita quotidiana del Paterson conducente, fatta di lavoro, dialoghi un po’
surreali con la moglie (Golshifteh Farahani) sempre alla ricerca di nuove sfide
(vendere dolcetti alla fiera, imparare la chitarra) e passeggiate serali col bulldog
Marvin comprensive di sosta al bar, oltre che di spazi per scrivere le sue poesie, è
raccontata da Jarmusch con altrettanta metodicità. [...]. Cambiano solo le poesie di
Paterson (in realtà del poeta Ron Padgett) che lo spettatore legge scritte sullo
schermo, cambiano i dialoghi dei passeggeri dell’autobus (uno riguarda anche
l’anarchico italiano Gaetano Bresci, vissuto pure lui a Paterson), cambiano ma
nemmeno troppo gli incontri serali del bar e naturalmente i dialoghi con la moglie
ma non cambia il senso di questo ritratto in levare, lieve e ironico, che rivendica con
bella determinazione il suo statuto anti-epico e anti-spettacolare. Paterson uomo
sembra uguale a Paterson città, rassicurante in una metodicità che ogni tanto viene
incrinata da qualche inaspettata irruzione del caso — il guasto che blocca l’autobus,
l’incontro con un turista-poeta giapponese [...] — ma che non riesce mai a mettere
davvero in discussione un tempo e una vita destinati a ripetersi all’infinito. E che
rimandano allo spettatore il senso della fragilità delle cose (e dell’esistenza) e di
come il cinema riesca miracolosamente a catturarle.
Antonio Montefalcone. Bestmovie
Paterson è il titolo del poema epico di William Carlos Williams, grande poeta
americano. Ma è anche il nome di una piccola città del New Jersey e il nome del
protagonista di questo film, a sua volta fan del libro di poesie di Williams e lui stesso
poeta. Le coincidenze e i rimandi non sono un caso nell’ultima pellicola di Jim
Jarmush. Pellicola che, pur nello stile minimalista e ironico a cui ci ha abituato il
regista, sembra stavolta pura astrazione visiva, perfetta fusione tra “forma” e
“sostanza” cinematografica e al tempo stesso come un quadro affascinante e
interessante sull’esistenza dell’uomo, non soltanto del protagonista: un ritratto
agrodolce, come in bianco e nero (i colori preferiti dalla moglie di Peterson) ma
anche molto concreto di una quotidianità ordinaria e immobile, immersa in uno
stato di eterna sospensione o circolarità (come i cerchi che sua moglie dipinge) che
cerca sfumature e significati persino dove non dovrebbero esserci. Queste sfumature
fanno la differenza e sono dettate però dal ruolo che assumerà la poesia. Peterson,
interpretato da Adam Driver (Driver, altra coincidenza, vuol dire guidatore) fa
l’autista di autobus; [...] Tra meraviglia e afflizione, a trovare la rima interna tra le
cose, a far uscire un senso da esse, sarà proprio la poesia. Per il protagonista essa è
tutto, molto più che passione o inclinazione personale, è ispirazione, è spinta vitale,
è luce e forza. E’ questo suo talento a regalargli uno sguardo acuto e sensibile sul
mondo, a trasfigurare la ripetitiva e catatonica realtà in cui vive in qualcosa di
idilliaco, dolce e accettabile […]. Il regista declina in versi lo scorrere del tempo, delle
sensazioni e delle emozioni, dei sentimenti e delle riflessioni, fissati in un bacio, in
un’azione, in un sorriso, in uno stato d’animo, in uno sguardo. Tutto e tutti passano
per una messinscena contemplativa attenta ai dettagli, gli stessi (visivi, uditivi,
sensoriali) del protagonista pronto a scrivere parole su fogli bianchi, pronto ad
accettare persino la rottura della routine quotidiana nelle inaspettate variazioni
destabilizzanti, viste però come un disordine necessario per maturare. In lui c’è un
senso di sospensione: quella di quando ci si appresta a dialogare con la complessità
sfuggente della realtà. […] E’ un tipo di cinema raro, audace, prezioso, che riesce nel
suo intento e che come le sue poesie non esplica traduzioni, ma solo una
sospensione dal giudizio, e un invito a guardare con gli occhi avidi, curiosi e
accomodanti del protagonista, vero alter-ego del regista, il senso e il non-senso
dell’esistenza, accogliendone il mistero e il suo aspetto più vitale.
Francesco Boille. Internazionale
Uno specchio rovesciato di tanto cinema americano e, insieme, del caos, del
tumulto, della violenza della società statunitense. Questo è Paterson, il nuovo film di
Jim Jarmusch, regista emblema del cinema indipendente americano. Fedele a se
stesso – in fondo il film parla proprio di questo –, il cantore del minimalismo al
cinema realizza uno dei suoi film in cui questa vena è più radicalizzata cercando però
d’innovare, sorprendere e incantare […].
Ibridando come sempre elementi tra i più disparati, per esempio la poesia più timida
e discreta ma profonda di Paterson con i motivi grafici dall’estetica decorativa di
Laura […] Jarmusch illustra pian piano il suo mondo fatto di piccole cose che
sembrano niente e sono forse tutto.
[...]L’iteratività è quasi da strip a fumetti, si pensi a un capolavoro della grandezza del
minimale dalle infinite varianti come i Peanuts di Schulz […] o ad uno dei più grandi
fumetti degli ultimi decenni: L’Uomo che cammina di Jiro Taniguchi. [...] La continua
gioia e meraviglia estatica nella quotidianità mediocre, la profondità nella semplicità,
non è fornita solo dal senso dei dettagli ma anche dalla potenza della forza
compositiva che suscita riflessione ed emozionata contemplazione […].
In Paterson la medesima emozione affiora [...] nel finale, quasi prossimo al cinema
intriso di cultura francese del sudcoreano Hong Sang-soo, un finale che vuole essere
un vero sommovimento, gentile ma profondo, della routine e dunque una vera e
propria rivelazione […].