Fiume dei fiori

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Fiume dei fiori
I
Diogo Ascêncio Cortes Ribera Flores – secondo quanto risultava
sul suo certificato di battesimo – aveva quindici anni quando il
padre lo portò per la prima volta a vedere una corrida. Andarono a Siviglia, per l’apertura della Fiera di San Miguel, la fiera di
settembre del 1915, con i tori di Santa Coloma, e la locandina
con José Gomez Ortega, detto Joselito «El Gallo», e Juan Belmonte. Sua nonna paterna, Glória Ribera Flores, era sivigliana,
figlia di padre e madre sivigliani. Era a Siviglia che il padre di
Diogo, Manuel Custódio Ribera Flores, aveva vissuto parte dell’infanzia e della giovinezza, vent’anni prima. E lì si era abituato a tornare, in compagnia di sua madre, fino a che era stata in
vita, per andare a trovare i nonni, ogni due anni. Ma questa volta, trascorsi molti anni e quando ormai né i suoi nonni né sua
madre erano più vivi, si trattava di una gita tra uomini, per i tori e la festa di San Miguel. Manuel Custódio aveva deciso di viaggiare soltanto col figlio più grande, con i due amici di sempre,
compaesani, con i quali condivideva la buona tavola e le riunioni al Caffè Centrale di Estremoz, con un mozzo di stalla che guidava la carrozza e si prendeva cura dei cavalli, e il suo servitore
personale, che doveva occuparsi del vestiario e di eventuali commissioni.
La madre era rimasta nel cortile, sulla porta di casa, per vederli partire alle prime ore del mattino di quel giovedì di fine settembre, col sole che non aveva ancora disperso del tutto la bruma sospesa sul terreno fangoso di fronte alla casa e sul quale il
primo sbattere delle ali delle oche allontanava le grida notturne
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delle civette e delle rane. Diogo non era felice di abbandonare
ciò che gli era familiare, il suo territorio di intimità e rifugio, la
madre che adorava e il fratello più giovane, Pedro, che aveva lasciato, con un sentimento di invidia e di tristezza, ancora addormentato nella stanza che condividevano. Gli dispiaceva pensare
che non avrebbe trascorso la fine di quelle vacanze in montagna, a preparare la rete per la caccia ai tordi nell’uliveto, a esplorare il torrente che attraversava la tenuta camminando in mezzo
all’acqua con i pantaloni sollevati per spaventare le rane e i piccoli pesci, che non sarebbe andato al vecchio mulino ad acqua
abbandonato, dove una volta aveva ammazzato una biscia a
sassate. Gli dispiaceva che non avrebbe passeggiato fin dove pascolava il gregge, al limitare della tenuta, su un terreno che terminava in una scarpata che scendeva a picco sul torrente, con
degli enormi massi che sembravano essere caduti dal cielo per
poi restare lì, interrati per sempre, dove suo padre amava cacciare le pernici, veloci come un soffio e silenziose come un pensiero, e dove amava trascorrere lunghe ore a chiacchierare con il
pastore, Virgolino, che sapeva distinguere da lontano tutti gli
uccelli, sentiva ogni suono nel raggio di chilometri, conosceva le
storie di tutti, dagli «antichi» ai vivi e, mentre parlava, srotolava
un fazzoletto sporco che aveva tolto dalla tasca del panciotto
per tirarne fuori un pezzo di formaggio di pecora duro e secco o
un resto di salsiccia che tagliava con minuzia col suo coltellino
sempre a portata di mano, per poi dividerlo con lui.
La madre gli aveva fatto un segno della croce sulla fronte, lo
aveva stretto contro il suo scialle di lana grossa, gli aveva detto
«Fatti guardare ancora, figlio mio», e lui le aveva posato un bacio sulla mano fredda di quella mattina, oggi tanto distante nella sua memoria.
A dire la verità, né suo padre né sua madre avevano chiesto la
sua opinione a proposito di quel viaggio. Nessuno gli aveva chiesto se avrebbe preferito rimanere o meno. Un giorno, erano a tavola per cena e il padre aveva semplicemente annunciato che sarebbe andato alla Fiera di Siviglia con Joaquim da Vila, commer-
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ciante a Estremoz, e col dottor António Sacramento, latifondista
dei dintorni e giudice nella circoscrizione. Poi, lo aveva fissato
come se non lo vedesse da tempo, e gli aveva domandato:
— E tu, Diogo, quanti anni hai adesso?
— Ne ho compiuti quindici a giugno, padre.
— Eh, hai l’età per diventare uomo. Verrai anche tu con noi.
Aveva guardato verso sua madre in cerca di aiuto, ma lei aveva abbassato gli occhi, come se suo padre avesse detto qualcosa
che l’aveva fatta vergognare. In questo modo venne decisa la
sua partenza, senza altri commenti.
Erano partiti prima delle otto del mattino, per una lunga tappa che li aveva portati, quasi a sera, alla frontiera di Ficalho, dove trovarono alloggio in un ostello nel quale il padre aveva prenotato in anticipo il vitto e l’alloggio per tutti e il cambio degli
animali. Portavano quattro cavalli da sella e due da tiro, legati
alla carrozza coperta del padre, oltre al nuovo cane da caccia di
Manuel Custódio, un bracco di nome Campione, ed Estremoz, il
cane da pernici di Joaquim da Vila. Alternavano i cavalli con la
carrozza, ma Diogo passò la maggior parte del tempo seduto davanti, vicino ad Azevinho, il cocchiere. A un certo punto, il padre, il dottor Sacramento e Joaquim da Vila erano scesi da cavallo e avevano proseguito davanti alla carovana, con i cani e i
fucili, per cacciare ai lati della strada. Due ore dopo, avevano
preso quattro pernici, una lepre e una coturnice, che erano state
appese all’esterno della carrozza, a frollare, per essere mangiate
di lì a due giorni, per cena.
A partire dal secondo giorno di viaggio, passata la frontiera,
intrapresero la difficile scalata della serra di Aracena, boscaglia
folta di sughereti, querceti e qualche eucalipto, con i cisti e gli
arbusti che ricoprivano il suolo e arrivavano quasi ad altezza
d’uomo. Incontravano a volte delle case sparse e dei paesi minuscoli, ma sembravano abitati soltanto da anziani o da creature in
fasce, se non addirittura completamente abbandonati. Le poche
persone che incrociavano li guardavano con curiosità e diffidenza, che scemava un po’ quando si avvicinavano e gli abitan-
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ti potevano constatare dai loro vestiti, dai cavalli e dalla carrozza, che si trattava di nobili possidenti portoghesi in viaggio verso Siviglia. Si diceva, stando alla testimonianza di alcuni, che
quello fosse un territorio di banditi sfuggiti alla giustizia e di briganti, e per la maggior parte del tempo il padre aveva obbligato
Diogo a viaggiare dentro la carrozza, nella quale stava sempre
anche uno degli adulti, con l’arma carica appoggiata sul sedile.
Nel tardo pomeriggio, in cima al fianco più scosceso di un
pendio, giunsero al paese di Aracena, composto da circa duecento case, poste a cavallo della serra, e lì alloggiarono in un ostello di qualità superiore al precedente. Usufruirono, stavolta, di un
bagno caldo, con l’acqua portata in grandi contenitori e rovesciata in una vasca di zinco, con un buon pezzo di sapone azzurro e bianco posato sul bordo, per rimuovere la polvere e la sporcizia del viaggio. I servitori cenarono in cucina, mentre loro si
sedettero a un tavolo presso il grande camino della sala, scaldandosi al fuoco di legna di quercia e passando piacevolmente il
tempo, in attesa della cena, con alcune fette di eccellente prosciutto di montagna affumicato e del vino dell’altopiano andaluso. Siviglia, ora, era a un solo giorno di cammino e l’umore degli uomini era francamente allegro, raccontavano storie e aneddoti e pregustavano i quattro giorni di festa che li aspettavano
nella capitale dell’Andalusia. Arrivarono la zuppa di legumi con
grano e patate, le pernici cacciate due giorni prima, cotte con un
ripieno di olive e pancetta, e un arrosto di stinco di maiale con
un’insalata di lattuga. Vennero portate varie caraffe di vino che
tornarono indietro vuote e anche Diogo, quella sera, ebbe diritto
a un bicchiere cerimoniale che gli intorpidì definitivamente il
corpo e lo spirito a tal punto da farlo cadere addormentato sulla
tavola. E fu così, in una cornice confortante, tra il cosciente e
l’incosciente, che ascoltò, come fossero state a distanza, le voci
degli uomini che conversavano e il suono della legna che scoppiettava nel camino, fino a quando, mezzo addormentato, sentì
che il padre lo prendeva in braccio, saliva la scale fino alla stanza e, senza neanche spogliarlo, lo infilava tra le lenzuola del let-
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to. Ripensandoci dopo, quella fu la prima e l’unica volta che suo
padre lo prese in braccio.
***
Era partito per Siviglia con suo padre all’età di quindici anni
e tre mesi ed era rientrato, tredici giorni dopo, che era un uomo
fatto. La madre lo notò subito, appena lo vide scendere da cavallo, entrambi inzuppati di sudore e distrutti dalla stanchezza, ma
il viso del figlio aveva una luce nuova che brillava nel più profondo dei suoi occhi castano scuro. Notò anche che ora le parlava in modo diverso, come se qualcosa di definitivo si fosse interposto tra loro, e che rispondeva con una superbia ridicola, e fino
a quel momento inusitata, alle domande insistenti del fratello,
guardandolo dall’alto in basso, aumentando così di gran lunga i
cinque anni scarsi che li separavano.
Siviglia lo aveva sbalordito appena passato il ponte sul Guadalquivir e avvistata da lontano la cupola della Giralda che si innalzava sui tetti della città. Aveva attraversato come in sogno la
Calle di Alcalà, il viale di fronte al Palazzo Reale di Alfonso XIII,
la cattedrale, la Plaza Mayor e l’immenso Parque Maria Luisa,
con i suoi alberi frondosi, alcuni portati dalle Americhe, sotto ai
quali i sivigliani andavano a ripararsi dal caldo assassino dei mesi estivi, gli innamorati si incontravano per parlare di matrimonio e gli amanti dei tradimenti da compiere.
Aveva avuto diritto a una stanza tutta per sé, all’Hotel d’Inghilterra, dove avevano preso alloggio. Non era mai stato in un
albergo, ne aveva solo sentito parlare dagli adulti, e passò un
tempo infinito a esplorare i cassetti del comodino, del cassettone e dell’armadio della stanza, alla ricerca di segreti dimenticati
da qualche ospite precedente, un’eternità a provare il letto, a
odorare le lenzuola, ad aprire e chiudere i rubinetti del bagno e
ad ascoltare l’animazione crescente che proveniva dalla strette
stradine del centro che lui spiava dalla finestra aperta. Scese al
piano terra per aspettare il padre e il suo seguito e, mentre atten-
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deva, si perse per gli immensi saloni dell’hotel, curiosando in
tutte le sale e attraversando tutte le porte, passando la mano sugli azulejos arabi delle pareti per assicurarsi che fossero reali, perché la loro bellezza gli sembrava eccessiva. Si stordì a guardare
gli altissimi soffitti a cassettoni di legno scuro intagliati con arabeschi, fregi e fiori, si deliziò al contatto del velluto liso e soave
dei divani del salone grande, e camminò come un sonnambulo
sugli spessi tappeti orientali dei corridoi. Gli sembrava di fluttuare in un sogno, come nei libri di fate che aveva letto nell’infanzia: principesse aleggianti, belle da morire, uscivano dagli
ascensori o attraversavano l’atrio e i saloni, sembravano non toccare il suolo, lo sfioravano appena, il lieve frusciare dei loro vestiti di seta interrompeva i loro discorsi mentre passavano, sospese ed eteree al braccio di cavalieri che egli avrebbe detto re o
signori del mondo. Travolto da tanta grandiosità, da tanto splendore, sprofondò nell’angolo di una poltrona, senza osare guardare più nulla in modo diretto, ascoltando il rumore dei tappi di
sughero delle bottiglie di champagne che saltavano al bar, le voci allegre che ridevano e parlavano con tono altissimo, alcune
nel francese che la madre gli insegnava, il rumore dei fiammiferi sfregati nella penombra dell’ambiente creata dai lumi a petrolio che accendevano lunghi sigari dalle etichette dorate, l’odore
di tabacco da uomo, il profumo delle signore che man mano si
impossessavano del salone e lo lasciavano prostrato, inebriato
da un piacere nuovo che non riusciva a identificare.
Il padre e gli amici scesero dalle stanze e uscirono tutti per
andare a cena. Sembrava che l’intera Siviglia fluttuasse come lui
in un carosello di sensazioni, di eccitazione, verso un punto in
cui tutto quanto sarebbe necessariamente esploso in un’apocalisse. Le persone si sgomitavano nelle strade strette, signore e cavalieri si incrociavano con sguardi in altre circostanze ritenuti
indiscreti, coppie portavano a passeggio figli assurdamente vestiti da marinaretti, governanti portavano a spasso culle su ruote, mendicanti stendevano la mano ai passanti, zingare fissavano i loro occhi neri negli occhi spaventati di coloro che incrocia-
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vano, afferrando loro la mano e promettendo un destino senza
ombre, procacciatori di clienti di alberghi e ristoranti interpellavano tutti quelli dall’aspetto danaroso, e ragazzi giovani, vestiti
poveramente da toreri senza quadriglia, camminavano a gruppi
di due o tre, con uno sguardo che supplicava la gloria di un pomeriggio o persino la gloria di una morte in un pomeriggio nell’arena.
A fatica si fecero strada fino al ristorante che cercavano, nella Plaza de América. Si installarono a un tavolo in fondo alla sala, una sala che sembrava il presagio del caos, col rumore delle
conversazioni mischiato al lamento di un canto flamenco che
una zigana intonava dall’altra parte del ristorante, accompagnata alla chitarra da due ceffi con delle cicatrici da rasoio sul viso
scuro. Una nube di fumo vagava come una bruma sulla luce tremula dei lumi a petrolio, insieme alle corse sfrenate di un battaglione di camerieri con la giacca bianca, che tenevano bene in
alto e misteriosamente in equilibrio vassoi di bicchieri di birra e
di vino, tapas e piatti fumanti di strane pietanze, e a una specie
di sussurro generale che era il soffio dei ventagli agitati dalle signore, che sorridevano, come se niente fosse, a cavalieri inzuppati di sudore che scorreva dai colletti inamidati delle camicie e
dai risvolti delle giacche.
In tutta la sua breve vita Diogo non aveva mai immaginato
un tale ambiente di orgia, di festa che sapeva di vino, di fumo, di
eccesso, di tentazione della donna e di perdizione degli uomini.
Era come un catalogo dal vero di tutti i vizi possibili di un uomo,
visto che non mancava neanche, vicino al corridoio che portava
alla cucina, un tavolo al quale quattro clienti, dal viso silenzioso
e chiuso, giocavano a carte indifferenti al rumore assordante e
alla confusione che regnavano. Per la prima volta in vita sua,
Diogo stava socchiudendo la porta di un mondo in cui gli uomini gettavano la maschera e si perdevano, come bambini, in una
licenziosità irresponsabile. E seppe, allora, che apparteneva a quel
mondo, seppe per quale ragione il padre lo aveva condotto con
sé in quel viaggio.
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Uscirono dal ristorante due ore dopo, il dottor Sacramento
col colletto già sbottonato e il viso stravolto, Joaquim de Vila
inciampando e insistendo a raccontare storie senza senso; solo
suo padre era apparentemente imperturbabile come sempre,
composto, alto, col passo fermo e lo sguardo che a Diogo sembrò distaccato, oppure pervaso da una tristezza indicibile, fisso
su un punto distante, oltre la gazzarra delle strade, adesso percorse da calessi con cavalli dalle criniere e dalle code abbellite
da strisce di carta colorate e da giovani donne con i capelli, i
cappelli e gli occhi neri come il carbone, che montavano all’amazzone, di fianco a una silenziosa scorta di cavalieri andalusi dal mortifero sguardo di nobili banditi, stretti nei loro corsaletti dai bottoni di madreperla. Su tutto quel passaggio, come
in una sfilata adornata e collaudata, c’era una polvere fina, sospesa nell’aria, che pareva coprire tutto con un pudico velo di
dissoluzione.
Una gitana di più di vent’anni, bellissima, con un figlio in braccio che succhiava da un seno perfetto e scoperto senza pudore,
saltò davanti a loro all’improvviso e afferrò la mano di Diogo,
prima che questi potesse ritirarla o che qualcuno degli altri avesse potuto fare un gesto per proteggerlo. Si inginocchiò ai suoi
piedi, il seno completamente fuori dal vestito ed esposto allo
sguardo estatico di Diogo, e cominciò una cantilena indecifrabile della quale lui non capì neanche una parola. Allora il padre
sorrise, porse una moneta alla zingara, lei strinse più forte la
mano di Diogo e cominciò:
— Niño, amore mio, dolcezza mia, quanto sei bello! Vivrai
due vite, non una soltanto. Ti sposerai, avrai dei figli… ma diversi. Viaggerai… molto lontano. Amerai, moltissimo, soffrirai e farai soffrire. Alla fine ti perderai, ti ritroverai, non saprei dirlo, ma
la decisione spetterà a te. Il cammino lo deciderai tu.
Si alzò, fece una specie di inchino di saluto, sempre col bambino attaccato al capezzolo, e sparì tra la polvere e la semioscurità della strada. Tutti risero, ma Diogo si sentì a disagio, non era
sicuro di aver capito bene la lettura della gitana, non sapeva se
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fosse importante o meno. Il padre gli passò un braccio sulle spalle, un gesto così raro per lui, e gli sorrise:
— Bene, Diogo, figlio mio. Sembra che il tuo destino sia tracciato, per lo meno la parte amorosa. È arrivato il momento di
cercare di trasformare le profezie in realtà. Sei pronto a cominciare ad essere un ometto e a mantenere segreti da uomo?
Joaquim da Vila e i dottor Sacramento risero, con aria da intenditori, ma lui non era altrettanto certo di aver compreso cosa
avesse voluto dirgli il padre. Gli stava accadendo tutto troppo in
fretta e confusamente, come in un sogno che non riusciva a decifrare. Comunque, appena entrato a Siviglia, aveva già deciso
che sarebbe stato pronto per qualsiasi cosa gli fosse accaduta.
— Sì, padre, sono pronto.
***
La casa chiusa era tutta velluti, color pesca, rossi, neri, tappeti spessi sui quali le ragazze camminavano scalze, luce tenue di
candelieri in ogni angolo e tavolinetti d’appoggio, ancora il fumo e l’odore dei sigari degli uomini e adesso il profumo a poco
prezzo delle donne di vita. Avevano dai quindici ai trent’anni,
gli uomini dai trenta all’infinito. In tutto ciò c’era lui, seduto sul
bordo di un divano, con le gambe incrociate, stravolto dalla
paura, che fingeva di non vedere nulla, neanche il padre, che
passava le sue lunghe mani, con le quali un tempo lo aveva castigato, sulle cosce di una giovane ninfa che gli sussurrava all’orecchio parole che lo facevano sorridere, un sorriso che Diogo
non aveva mai visto prima e che non sapeva come interpretare.
Una signora più anziana, trascinando un lungo vestito ricamato
fino ai piedi e con un maestoso passo da imperatrice del luogo,
entrò nel salone e il padre si alzò per baciarle la mano e dialogare con lei sussurrando, lanciando ogni tanto degli sguardi verso
di lui. Lei assentì con la testa a ciò che le diceva il padre e venne
a prenderlo, tendendogli la mano, che anche lui baciò, provocandole una risata sorprendentemente giovane per l’età matura
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che dimostrava. Gli parlò a bassa voce, dicendogli qualcosa che
lui neanche ascoltò, stordito com’era, mentre lo conduceva per
mano attraverso un corridoio fino a una stanza sul fondo, dove
lo invitò a entrare, facendogli segno di aspettare lì. E lui così fece: vide una stanza illuminata da due candelabri, una sola finestra chiusa, un grande letto già pronto, come se avesse dovuto
dormire lì, un cassettone con una bacinella, una brocca d’acqua
e due asciugamani rosa appoggiati sopra. Il tappeto sul pavimento era celeste e c’era un inatteso quadro del Sacro Cuore di
Gesù sulla parete, sopra al cassettone.
Diogo aveva fatto rapidamente tutta l’ispezione della stanza,
giurando a se stesso che non avrebbe mai più dimenticato i particolari di quella notte nella quale, per la prima volta, avrebbe
conosciuto il corpo intero di una donna, l’avrebbe vista nuda senza doversi nascondere, l’avrebbe potuta toccare quanto voleva,
provare cos’era penetrarla, come aveva sentito dire da Virgolino
quando glielo raccontava mentre erano lontani, nei pascoli, o
come aveva sentito raccontare una volta da una serva della cucina, senza che lei si accorgesse che lui stava ascoltando. E si mise a pregare tra sé, affinché la prima donna della sua vita non
fosse quella signora che lo intimidiva e che lo aveva portato in
quella stanza.
Non fu lei. Fu una ragazza di vent’anni, che si faceva chiamare Jolie, che aveva un sorriso aperto e ancora infantile, un corpo
magro, con anche e costole ben marcate, un seno piccolino ma
dai capezzoli grandi e scuri, una tela di ragno tra le gambe e delle gambe lunghe, come una cicogna. Gli diede un lieve bacio
sulla bocca e cominciò a svestirlo con calma, mentre gli faceva
la domanda tanto temuta:
— È la tua prima volta?
Mentre lei gli stava tirando giù i pantaloni lui sbirciò, impaurito, per assicurarsi di essere all’altezza della circostanza.
— No… è la seconda — rispose, senza troppa convinzione.
Ma, nonostante l’apparente impegno di lei e la propria mancanza di esperienza in materia, non si fece ingannare dai suoi
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sospiri e gridolini di presunto piacere. Capì che era stato un fiasco, ma si prese comunque tutto il piacere di vederla nuda, una
donna completamente nuda a sua disposizione, di toccarla, di
percepire la consistenza gelatinosa di un seno, la sensazione calda e umida di entrare dentro di lei e, soprattutto, la forza di sapere di aver posseduto una donna e che da quel momento in poi
avrebbe potuto parlare da pari a pari con qualsiasi uomo, tornare a scuola, entrare nel caffè della cittadina con un’altra aura, entrare in chiesa come un peccatore e non soltanto come un supplice. Dopo la rapida conclusione, desiderò che lei sparisse da lì, si
sentì un po’ sporco in sua presenza e troppo gonfio d’orgoglio
per condividere con lei quella sensazione. «C’est fini, Jolie», mormorò tra sé.
Il suo primo giorno come uomo cominciò presto, perché era
riuscito a dormire a malapena, girandosi e rigirandosi nel letto,
passando in rivista, nei dettagli, la stanza, il letto e Jolie. Il padre
aveva stabilito che si sarebbero visti alla reception dell’albergo
alle dieci del mattino ma, molto prima, lui già stava deambulando per le stradine e i vicoli della città. Osservava i servitori che
facevano le pulizie nelle case, che con la scopa spingevano verso le strade la spazzatura dei cortili interni, quei favolosi patii
arabi delle case andaluse. Inaspettatamente, a Siviglia stava piovigginando ed era come se quella pioggerella stesse spazzando
via, anch’essa, i resti della notte precedente. Nelle strade, nei viali e nelle piazze, nei passaggi coperti da detriti, Siviglia mostrava i segnali della prima notte di follia di San Miguel, ma, mentre
alcuni ubriachi e pelandroni dormivano ancora sulle panchine
dei giardini o agli angoli dei vicoli, alcuni cavalieri altezzosi, dai
capelli lisci di brillantina e profumati di acqua di colonia e del
bagno appena fatto, circolavano per le strade, andando al passo
sui loro cavalli agghindati e guardando con un’aria di commiserazione e disprezzo le vestigia dell’alba di festa.
Più tardi, durante la mattinata, le nuvole si spostarono verso
sud e il sole di Siviglia ritornò, annunciando il pomeriggio di fiesta. Uscì solo col padre, che aveva affittato un calesse, sul quale
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percorsero gran parte della città, andando in vari negozi, dove il
padre comprò finimenti per i cavalli, un fodero per il fucile, due
cappelli, mantiglie e ciondoli per la madre e delle ghette per gli
stivali di Pedro. Visitarono la cattedrale, dove Manuel Custódio
si inginocchiò e pregò per qualche minuto, al contrario del padre
che, per tutto il tempo, si limitò a parlare della città e a richiamare la sua attenzione sulle cose che più gli piacevano. Diogo notò
quanto egli fosse felice e rilassato, mentre parlava uno spagnolo
fluente con il cocchiere e i commessi dei negozi, mentre se ne
stava comodo sul sedile del calesse, un sigaretto appeso all’angolo della bocca e il volto, abitualmente chiuso e severo, disteso
da un sorriso soave e intimo. All’una passarono in albergo, dove
li attendevano il dottor Sacramento e Joaquim da Vila e tutti insieme uscirono per andare a pranzo, stavolta in un ristorante
molto tranquillo, con uno spiazzo all’aria aperta, con i tavoli coperti da tovaglie azzurre a quadretti. Pranzarono con una serie
di tapas1, accompagnate da un tinto de verano2 e al suono di un
violoncellista cieco che suonava arie andaluse, assistito da un
ragazzo con la cetra marocchina. Approfittando di una breve assenza del padre, il dottor Sacramento fissò Diogo, con l’aria ansiosa con la quale sembrava affrontare tutto nella vita:
— Allora, ragazzo mio, ieri notte ti sei divertito?
Diogo assentì col capo, arrossendo immediatamente.
— Ti ha trattato bene la tua ragazza?
Diogo sentì che doveva essere all’altezza di quella conversazione fra uomini, che avrebbe dovuto dire qualcosa di adeguato
alla situazione, ma la verità era che lui stesso non sapeva la risposta. Se lo aveva trattato bene? Aveva fatto quello che doveva,
no? Rispose di sì, imbarazzato dalla conversazione. Ma il dottor
Sacramento sembrava veramente interessato all’argomento:
— Com’è che si chiamava, la ragazza che ti ha rubato la verginità?
— Ha detto di chiamarsi Jolie.
1 Stuzzichini [n.d.t.].
2 Rosso estivo [n.d.t.].
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Il dottor Sacramento rise e strizzò l’occhio a Joaquim da Vila, in segno di intesa.
— Ah, Jolie, Jolie! Così non saprai mai il vero nome della prima donna della tua vita! Ma in fondo non è importante: è molto
probabile che ti dimenticherai del suo nome d’arte, con gli anni.
E allora il dottor António Sacramento, giudice titolare della
giurisdizione di Estremoz, si chinò in avanti prendendolo per un
braccio e, fissandolo negli occhi, pronunciò la saggia sentenza:
— Ragazzo mio, senti: non ricordo più il nome della prima
donna con la quale sono andato a letto, né se era bella o brutta,
bionda o bruna, spagnola o portoghese. Ma ricordo le circostanze e gli amici con i quali mi trovavo. Probabilmente, tra qualche
anno, non ricorderai il nome di Jolie, ma c’è una cosa che ricorderai per tutta la vita: colui che ti ha dato per la prima volta una
donna da provare è stato il tuo signor padre. Glielo devi, e questo un figlio non lo dimentica.
Quando uscirono dal ristorante, la città sembrava in preda a
una frenesia crescente, una massa di gente in movimento, come
fosse stata attratta da una calamita invisibile, si dirigeva tutta
verso la stessa direzione. Una moltitudine che camminava compatta, come un rullo compressore, a piedi, a cavallo, in carrozza,
sui calessi, per le strade, lungo le passeggiate, attraverso i giardini. Mancava ancora più di un’ora e mezza all’inizio della corrida, ma nonostante ciò, e il fatto che i biglietti fossero esauriti da
molto tempo, tutta Siviglia andava in direzione della Maestranza, come gli adoratori del Sole vanno verso ponente. Una corrente sorda, crescente, fatta di chiacchiere, di domande, di esclamazioni e grida sguaiate, divideva la moltitudine che andava
verso la piazza in due gruppi separati e inconciliabili: i fedeli di
Joselito e quelli di Belmonte. Erano entrambi figli diletti di Siviglia, veri andalusi designati dagli dèi a brillare nell’arena. José
Gomez Ortega, detto Joselito «El Gallo» o «Gallito», aveva appena vent’anni, ma aveva già preso il testimone da tre anni, proprio lì, nella Real Maestranza della sua Siviglia natale. Nipote,
figlio e fratello di matadores, era bello, elegante nell’arena e rap-
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presentava un modo di toreare classico che sembrava riuscirgli
senza alcuno sforzo, naturalmente, come un dono innato. Fratello del grande Rafael «El Gallo», da molti considerato il miglior
torero di sempre di tutta la storia della Spagna, aveva superato il
fratello, non nella tecnica, ma nel coraggio. Rafael era irregolare e pauroso, dopo una pioggia di critiche era arrivato a dire: «I
rimproveri li prende il vento, ma le cornate le prendo io». Come
tutti i matadores, anche Joselito aveva paura, ma l’affrontava
preparandosi scrupolosamente prima dell’inizio della stagione e
perfezionando senza posa il dominio di tutte le sorti3, affinché
nessuno gli sfuggisse. Aveva imparato come nessun altro a collegare i naturales4 in tondo, portando il grande Guerrita, ormai
ritiratosi, a esclamare che con Joselito era nato il torero moderno. La sua squadra, che comprendeva suo fratello Fernando «El
Gallo», era unanimemente considerata la migliore di tutta la
Spagna e la sua stella aveva brillato solitaria in tutte le plazas de
toros nelle quali veniva costantemente richiesto. Aveva regnato
da solo, ancora così giovane, fino al giorno in cui era comparso
nelle plazas Juan Belmonte – e ciò era accaduto poco più di un
anno prima. Belmonte era nato nel Triana, il più andaluso dei
quartieri di Siviglia. Era il contrario di Joselito: piccolo, brutto,
tozzo, con le braccia e le gambe corte, figlio di un modesto commerciante della città, nessuno lo aveva istruito, né gli aveva
istillato la vocazione ad essere matador. Ma fin da piccolo non
aveva pensato ad altro e a tredici anni aveva cominciato a imparare da solo, introducendosi nei piazzali degli allevamenti, nelle
notti di luna piena, e toreando a suo rischio e pericolo, senza
«aiuti» né pubblico, per poi andare, il mattino successivo, ad aiutare il padre al negozio. A diciassette anni aveva indossato per la
prima volta un traje de luces5, in Portogallo; a diciannove fu investito per la prima volta a Valencia, e finalmente cominciarono
a notarlo. Il leggendario «Lagartijo» aveva detto un giorno che la
3 Le mosse che compongono ognuna delle parti della corrida [n.d.t.].
4 Mossa con la muleta effettuata con la sinistra e senza aiuto dello stocco [n.d.t.].
5 Abito ricamato indossato dal torero per la corrida [n.d.t.].
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formula per imparare a toreare bene era saper sottrarre abilmente il corpo al passaggio del toro, perché o te quitas tú, o te quita
el toro6. Ma Belmonte aveva invertito la formula di Lagartijo e,
facendo questo, aveva rivoluzionato l’arte di toreare: col suo
gioco di anche, di braccia e di muleta7, era lui a fermare il toro
facendolo girare con la mano, comandandolo – templando8, come si cominciò a dire da allora in poi. Belmonte provocava il toro frontalmente, lo riceveva tranquillo, su cammini che aveva
scelto lui e mai tracciati prima, e lo teneva lì, fino all’addio, comandando in questo modo la disfida fin dall’inizio – no te quitas
tú ni te quita el toro9. La sua tecnica era talmente temeraria e mai
vista prima che «El Guerra» aveva consigliato, mesi prima, a chi
avesse voluto vederlo toreare, che si sbrigasse, perché quel ragazzo non sarebbe durato molto.
Manuel Custódio era un devoto del «Gallito». Esclamava a
quanti volessero ascoltarlo che nel modo di toreare di Joselito
erano riunite la scienza e l’arte della faena10 perfezionate nei secoli e riportate alla luce, in tutto il loro splendore. Anche António Sacramento propendeva per Joselito, che considerava un torero più classico, più puro, e su tale purezza di stile era capace di
dissertare a lungo al Caffè Centrale di Estremoz, per intere serate e bottiglie di acquavite, fino a far cadere a terra, estenuati, i
suoi oppositori. Comunque, non gli era indifferente quel torero
spettacolare e sempre sul filo del rasoio che era Juan Belmonte:
la sua frase preferita era: «Ogni corrida è una corrida e soltanto
alla fine se ne può ricavare una sentenza». Invece, Joaquim da
Vila era capace di uccidere e di morire in difesa di Belmonte – «Il
torero più pazzo che la Spagna abbia mai visto, il pazzo più lucido della Penisola, dall’occupazione romana».
Tre mesi prima, Manuel Custódio aveva fatto in modo di comprare i biglietti tramite il corrispondente di Estremoz, e in quel
6 O ti togli tu, o ti toglie il toro [n.d.t.].
7 Bastone al quale è appeso il panno rosso [n.d.t.].
8 Temperando [n.d.t.].
9 Non ti togli tu, né ti toglie il toro [n.d.t.].
10 Il lavoro del torero [n.d.t.].
24 MIGUEL SOUSA TAVARES
momento erano lì, seduti ai loro magnifici posti all’ombra, a contemplare la Maestranza che si riempiva di una folla che comunque sarebbe stata la terza parte di coloro che erano rimasti all’esterno e che evidentemente si sarebbero accontentati di seguire la corrida attraverso le reazioni che provenivano dall’interno
e che superavano i muri della vecchia plaza barocca per diffondersi sulla città improvvisamente silenziosa, in attesa delle notizie provenienti dall’arena.
Quel 30 settembre 1915 a ognuno dei due matadores capitarono due tori di Santa Coloma. La rivalità tra i due, iniziata in quell’anno, era allora all’apogeo ed era oggetto di una vera e propria
guerra civile tra aficionados, divisi tra «fazione José» e «fazione
Juan». Ma, tra di loro, la rivalità sorda delle prime corride, man
mano che il tempo passava, aveva lasciato il posto a un rispetto
reciproco, che, secondo la critica, si manifestava persino nel modo in cui l’uno sembrava assorbire i comportamenti dell’altro: José, il temple di Juan; e quest’ultimo il dominio naturale di José. Si
raccontava che in una corrida, nella quale condividevano il cartellone, poiché era nata una diatriba tra i «secondi» di entrambi
sull’ordine dei tori, avevano chiesto a Belmonte la sua opinione e
lui aveva risposto semplicemente: «Lo que diga José»11.
Con i due primi tori, entrambi furono all’altezza della loro fama. Belmonte ricevette il suo in veronicas12 successive e ritmate,
alternando con mezze veronicas e chicuelinas13 e, nel capote14,
brillò nei naturales e nei passes de pecho15, uccidendo in volapié,
cioè affrontando il toro ormai privo di forze e infliggendo una
stoccata decisa e profonda fino a quando l’animale non si inginocchiò sull’arena e cadde su un fianco, morto. Joselito fu ele11 Quello che decide José [n.d.t.].
12 Passaggio che consiste nell’attesa, da parte del torero, dell’attacco del toro, tenendo la cappa stesa con entrambe le mani, di fronte all’animale [n.d.t.].
13 Il torero affronta il toro a braccia aperte e stese in avanti, e fa un mezzo giro al passaggio dell’animale [n.d.t.].
14 Insieme di passaggi effettuati con la cappa corta che servono a misurare la forza e
la disposizione del toro [n.d.t.].
15 Conclusione del natural, con la muleta [n.d.t.].
FIUME DEI FIORI 25
gante e regolare con la cappa, ma fu nel capote che tutta la bellezza della sua arte cominciò a evidenziarsi, anche agli occhi di
Diogo, che ci capiva poco o niente. Toreò soprattutto con derechazos16 e naturales, soggiogando il toro a poco a poco, fino ad
averlo esausto di fronte a sé. Allora alzò la sua bella testa e guardò la Maestranza in silenzio, come un gladiatore che attende la
decisione del popolo e di Cesare. Poi, il suo sguardo tornò sul toro, quieto davanti a lui, gli puntò lo stocco, attese alcuni secondi per vedere se avrebbe caricato e infine infierì con un volapié,
unendosi al miura nero in un abbraccio di morte e di addio.
Nell’intervallo, la Maestranza era divisa, come ci si poteva
aspettare, ma gli intenditori erano d’accordo sul fatto che, fino a
quel momento del pomeriggio, non c’era ancora un vincitore tra
Juan e José. Diogo beveva una limonata gelata, mentre si guardava attorno nella plaza. Nonostante fosse pomeriggio inoltrato, e si fosse già in autunno, Siviglia era ancora calda e afosa e
tanto nelle gallerie quanto sugli spalti della Maestranza, i ventagli delle signore sventolavano ininterrottamente. Donne bellissime, eleganti, coi capelli neri lucidi che brillavano anche all’ombra, con lievi promesse immaginate nello sguardo che stordivano Diogo.
Il secondo toro, Belmonte lo ricevette estatico, in mezzo all’arena, nei medios, dopo averlo osservato mentre veniva investito dalle cappe dei toreri della sua quadriglia. Era forte e pieno
di vita. Era stravolto, con una furia che niente sembrava in grado di frenare. Ma lui, quando il toro caricò la prima volta verso
la sua veronica, non si mosse. Da sopra la spalla, lo vide proseguire con l’inerzia che lo trascinava, poi girò lentamente sui talloni, mantenendo sempre la stessa posizione, e tornò ad aizzarlo. Lasciò che invadesse il suo terreno, lasciò che le sue corna
passassero a pochi centimetri dal suo corpo, sempre senza muoversi, e tornò a fare la stessa cosa, con largas17, mezze veronicas
e chicuelinas, affinché capisse chi comandava lì, nel mezzo del16 Movimento della muleta eseguito con la mano destra [n.d.t.].
17 Passaggio con la cappa stesa [n.d.t.].
26 MIGUEL SOUSA TAVARES
l’arena. Poi si ritirò verso la barriera, per assistere al momento
delle banderillas. Quando il toro rimase da solo in mezzo all’arena, ferito ma altezzoso, Juan Belmonte si allontanò dalla barriera, avanzò di alcuni passi, e con un gesto circolare della mano
dedicò il terzo tércio18, che stava per iniziare, a tutto il pubblico.
La folla si alzò per applaudire ed era ancora in piedi quando iniziò il «tércio della morte», ricevendo il toro con un natural sublime per calma, vicino alla barriera. E lì rimase a lungo, alternando naturales a derechazos e poi trincheras, da destra verso sinistra. Infine, uccise il toro recibiendo19, con la mano destra che teneva la spada accostata al petto e il toro che caricava verso di
lui. La Maestranza si alzò tutta contemporaneamente e le grida
esplosero: «Belmonte, Belmonte!».
— Accipicchia! È o non è un torero? — urlava Joaquim da Vila, posseduto, prendendo il colletto di Manuel Custódio e scuotendolo.
— Devo riconoscere che è stata una grande faena — ammise
Manuel Custódio, cercando di mantenere le distanze.
— Grande? Accidenti, dottor Manuel, questa è stata la cosa
migliore che abbiate mai visto e che mai vedrete!
— Calma Joaquim, aspettate un attimo…
Effettivamente, era scritto che quel pomeriggio sarebbe stato
di Joselito «El Gallo». Con la cappa, trattenne il suo toro di nome
Cantinero in mezzo all’arena con un’eleganza che era quasi superba. Con le braccia faceva volteggiare la pesante cappa con
stile e naturalezza, mentre i piedi ruotavano per variare la direzione di quella delicata fase della corrida, ma riuscendo contemporaneamente a tenere il toro nell’area che aveva scelto, dimostrando così che aveva ben osservato la tecnica di templar di
Juan Belmonte. Ma con la muleta, stese il Cantinero. Lo massacrò con naturales e pases de pecho. Lo portò con la mano letteralmente dove voleva, lo preparò, come per un rituale, a una
morte grandiosa, tanto che alla fine, sembrava fosse il toro a
18 Una delle tre fasi in cui si divide la corrida [n.d.t.].
19 Invito al toro, per ucciderlo durante la carica [n.d.t.].
FIUME DEI FIORI 27
supplicarlo di ucciderlo. Ma prima ancora, Joselito posò un ginocchio a terra e chiamò il toro per farlo passare rasente alla sua
testa in derechazos soavi, prima uno frontale e poi uno posteriore. Infine, con quel mostro nero totalmente umiliato di fronte a
sé, vinto e stordito dalle grida della folla in piedi, tolse lo stocco
dalla cappa e si fermò eretto a contemplare l’avversario, la spada abbassata al lato del corpo, con la punta appoggiata a terra.
Si fece un silenzio impressionante nell’arena – un silenzio di
morte, pensò Diogo.
— Vergine della Macarena, fa’ che lo ammazzi con un colpo
solo… — mormorò Manuel Custódio tra i denti.
Joselito puntò la spada contro il Cantinero. Gli disse qualcosa che né Diogo, né nessuno in tutta la plaza riuscì a sentire, fece un gesto con la mano sinistra come a dirgli addio e quando
avanzò verso il toro, il toro stesso avanzò verso la morte: si incontrarono a metà strada. Come dicevano gli aficionados, il Cantinero morì al encuentro e quel pomeriggio memorabile di settembre, Joselito «El Gallo», figlio, nipote e fratello di toreri, figlio, nipote e bisnipote di sivigliani, andaluz tan claro y rico de
ventura20, divenne il primo torero di sempre al quale la plaza
concesse, in omaggio alla sua fantastica lotta, l’orecchio del suo
avversario. Lui e Juan Belmonte uscirono entrambi in quel tardo
pomeriggio dalla «Porta del Principe» della Maestranza, portati a
spalla dalla gente di strada, che aveva risparmiato per mesi per
poter assistere a quel giorno glorioso.
Nel lasciare la Maestranza, col sole già basso e l’immaginazione lontana, se Diogo avesse potuto conoscere il futuro, avrebbe saputo che Joselito sarebbe morto meno di cinque anni dopo,
a Talavera de la Reina, preso dal toro Bailador, della vedova Ortega – un toro apparentemente inoffensivo ma che ci vedeva bene da lontano e che fissò il viso e non la cappa. Alla notizia della sua morte, Guerrita commentò: «Se acabarán los toros!»21.
«Fratello» della Vergine di Macarena, Joselito ebbe diritto alla
20 Un andaluso così chiaro, così ricco d'avventura [n.d.t.].
21 Verranno uccisi i tori [n.d.t.].
28 MIGUEL SOUSA TAVARES
messa di esequie nella Cattedrale di Siviglia e per molti anni, il
giorno della sua morte, il 16 maggio, tutte le quadriglie che entravano nell’arena si schieravano e mantenevano un minuto di
silenzio in sua memoria.
Quanto a Juan Belmonte, destinato a morire giovane secondo «El Guerra», toreò fino al 1936, a 42 anni. Si racconta che una
volta il suo grande ammiratore e amico, lo scrittore e drammaturgo Valle Inclan, gli avrebbe detto che era un torero talmente
grande che gli mancava solo di morire nell’arena. Al che Belmonte ripose: «Se hará lo que se pueda, don Ramón»22. Sarebbe
morto, sì, a settant’anni d’età, suicidandosi con un colpo di pistola, secondo quanto narra la leggenda, ferito a morte dall’amore impossibile per una giovane gitana.
***
— Dài, Diogo, raccontami la storia dell’assalto!
— Un’altra volta, Pedro? Te l’ho già raccontata due volte!
— Solo un’altra volta, Diogo!
Diogo guardò con tenerezza il fratello, seduto al suo fianco
sulla riva del ruscello, mentre teneva una canna da pesca fatta di
bambù, con la quale cercava inutilmente di pescare qualcosa da
più di mezz’ora. Pedro era così, sempre impaziente di fare qualcosa, sempre curioso di sapere tutto, incapace di stare tranquillo
e rimanere semplicemente a guardare o ascoltare il silenzio delle cose, come tanto amava fare Diogo. Di notte, quando entrambi andavano a dormire nella stanza che condividevano, Pedro
resisteva per non cedere subito al sonno, insisteva per raccontare e ascoltare storie, certe volte continuava a parlare mentre Diogo, con la facilità che aveva sempre avuto nel prendere sonno,
già dormiva da molto. Ma per Pedro, che era ancora un bambino
di dieci anni, era come se tutta la vita che aveva davanti non potesse aspettare e sentisse l’urgenza di essere vissuta. Diogo si fa22 Faremo il possibile, don Ramón [n.d.t.].
FIUME DEI FIORI 29
ceva condurre dai sensi: si addormentava quando aveva sonno,
si svegliava quando non ne aveva più; Pedro, no: era come se
dormire fosse un po’ morire e l’ansia di vivere non potesse permettere quell’intervallo alla coscienza.
Quando passeggiavano assieme in campagna, a Diogo piaceva camminare in silenzio, attento al paesaggio, ai suoni, alle
piante e agli animali, assorto nelle sue contemplazioni e nei suoi
pensieri. Pedro camminava pervaso da un’inquietudine permanente: un momento tentava di sorprendere i passeri con la sua
fionda, un altro, correva appresso alle vacche per spaventarle, oppure si attardava a contare le pecore per avere conferma che il
gregge fosse al completo, o batteva con un bastone di legno sulle querce da sughero per vedere che non fossero secche all’interno, senza mai dimenticare di verificare il numero, scritto a calce
sulla scorza degli alberi, che indicava l’anno della successiva raccolta della corteccia, per cui, quando tornava a passare nello stesso luogo, conosceva gli alberi non già per il loro aspetto o portamento, ma per il numero scritto sulla corteccia.
Ma, pur se così diversi, Diogo voleva profondamente bene al
fratello, come a nessun altro, neanche a sua madre. Ammirava la
forza e la determinazione di quel ragazzino ancora così piccolo,
la sua fretta di crescere ed essere uomo, e sentiva quasi di avere
la missione di proteggerlo da se stesso e dai pericoli dei quali
non si rendeva conto, di vigilare sulla sua impazienza e sulla sua
audacia. E spesso, come in quel momento, si faceva carico di
svolgere un ruolo che non era il suo, solo per saziare l’ammirazione che sapeva che Pedro nutriva per lui, il fratello più grande,
col naturale ascendente del primogenito, con molti anni di vantaggio quanto a saggezza ed esperienza.
— D’accordo, allora, è andata così. Stavamo, come già ti ho
detto, sulla strada di Aracena verso la frontiera ed eravamo già in
ritardo, perché si era rotta una ruota della carrozza e avevamo
impiegato molto tempo per sostituirla con la ruota di scorta. Nel
frattempo stava scendendo la notte e si era fatto buio. Avevamo
acceso due lanterne davanti alla carrozza e una dietro, nostro pa-
30 MIGUEL SOUSA TAVARES
dre e Joaquim erano a cavallo, io e il dottor Sacramento nella
carrozza, condotta da Azevinho, con Hernani al suo fianco. Mi
sono accorto che nostro padre e Joaquim da Vila avevano tirato
fuori i fucili dai foderi e procedevano con le armi appoggiate di
traverso sulle groppe dei cavalli. Dopo un po’ abbiamo sentito un
rumore tra i cespugli, come se qualcuno si stesse muovendo chinato, ma, quando nostro padre si è fermato e si è messo all’ascolto, Azevinho ha detto: «È un cinghiale, padrone», e abbiamo continuato. Dopo una mezz’ora, la luna ha cominciato a sorgere alle
nostre spalle, un quarto crescente, e potevamo vedere un po’ meglio la strada di fronte a noi. Abbiamo continuato a procedere in
silenzio, nostro padre aveva acceso una sigaretta e Joaquim era
piegato sul collo del cavallo, come se si fosse addormentato. A un
certo punto, tutti abbiamo sentito allo stesso tempo un altro calpestio nel bosco alla nostra sinistra e, subito dopo, un movimento sordo, che sembrava di passi affrettati, a destra della strada.
Allora nostro padre ha fermato il cavallo e ha fatto segno ad Azevinho di fermare anche la carrozza. Siamo rimasti tutti in silenzio, ad ascoltare, io mi sentivo il cuore battere talmente forte che
non riuscivo ad ascoltare nessun altro suono al di fuori di quello.
— Avevi paura, Diogo?
— Sì, Pedro, stavo morendo di paura.
— Ma poi hai preso l’altro fucile di nostro padre, vero?
— Sì. Poi nostro padre ha detto: «Tutti gli uomini armati!». Il
dottor Sacramento ha preso uno dei suoi fucili e ne ha passato un
altro dal finestrino, con una manciata di cartucce, a Hernani, che
tremava come se avesse avuto la febbre. Poi, mi ha passato il secondo fucile di nostro padre e mettendo una scatola di cartucce
sul sedile, tra noi, mi ha detto: «Attento a questo finestrino, io
penso all’altro. Attento a non colpire tuo padre o Joaquim. A qualsiasi altra cosa che si muove, spara». Allora, nostro padre e Joaquim si sono messi dietro, ognuno da un lato della carrozza, per
coprire la retroguardia. E abbiamo ripreso il cammino, per altri
dieci minuti, molto lentamente e attenti a tutto, ma senza sentire
più niente. Poi, all’improvviso, mentre uscivamo da una curva,
FIUME DEI FIORI 31
abbiamo visto, a circa trenta metri, illuminato dalla luce della luna, un volto bianco a cavallo, fermo in mezzo alla strada. Nostro
padre ha gridato: «Alt! Chi va là? Parla o sparo!». Ma prima che
l’altro facesse qualche movimento, è risuonato uno sparo che veniva dal bosco, alla nostra sinistra, e la lanterna della carrozza
dalla parte del dottor Sacramento si è rotta in mille pezzi. Poi, già
ti ho detto che non ricordo molto bene cos’è successo dopo. Mi ricordo di aver visto i bagliori degli spari che venivano dai due lati
della strada, di aver sentito un grido di Hernani: «Madre santissima!» e, dietro di me, gli spari a ripetizione di nostro padre e di
Joaquim da Vila. Non so bene quando, ma mi sono reso conto
che al mio fianco, il dottor Sacramento sparava e ricaricava, una,
due volte, e poi ho visto gli arbusti muoversi alla mia destra, a
circa dieci metri da noi, e allora ho sparato in quella direzione i
due colpi del fucile. Mi è sembrato di aver sentito un gemito e il
rumore di un corpo pesante che cadeva, e subito dopo stavamo
galoppando quasi alla cieca e io cercavo ancora di ricaricare il fucile, ma senza riuscirci, perché le mani mi tremavano, e ci siamo
fermati soltanto molto tempo dopo, non so dire quanto, in mezzo
a una grande radura, dove non gli sarebbe stato facile avvicinarsi a noi senza essere visti da lontano. Hernani era stato colpito a
una spalla, anche uno dei cavalli della carrozza era stato colpito,
ma non c’erano segni di pallottole da nessuna parte e in meno di
un’ora eravamo a Ficalho, senza più nessuna allerta.
— Ma l’hai ammazzato, vero? — Gli occhi di Pedro brillavano
di ansia e aveva persino lasciato la canna da pesca per afferrare
il braccio del fratello.
— No, non penso di averlo ammazzato. Non so nemmeno se
l’ho colpito o se l’ho solo spaventato…
— L’hai ammazzato, l’hai ammazzato! Dimmi di sì, dimmi che
l’hai ammazzato!
— Ma perché vuoi tanto che io lo abbia ucciso?
— Perché era un bandito! Dobbiamo ammazzare tutti i banditi: è stato nostro padre a dirmelo!
Diogo guardò il fratello, pensieroso. Non gli era mai venuto in
32 MIGUEL SOUSA TAVARES
mente che poteva aver ucciso l’assalitore. Si ricordava appena di
aver provato una certa sicurezza quando aveva afferrato l’arma
che il dottor Sacramento gli tendeva, già carica, e quanto la paura che lo paralizzava fosse scomparsa all’istante, appena aveva
fatto fuoco in direzione di ciò che pensava fosse qualcuno imboscato tra gli alberi. Sì, la sicurezza incredibile che aveva provato
in quell’istante, la sensazione di forza, di autodifesa, il piacere di
far sparare l’arma, il suo rinculo sulla spalla, il bagliore della polvere nelle tenebre, il rumore dell’impatto dei pallini di piombo tra
le stoppie. Ma non aveva mai pensato seriamente che la conclusione del suo colpo poteva essere stata la morte di un uomo.
— No, Pedro, credo di non averlo ammazzato. Non so neanche per certo che lì ci fosse un uomo.
— E nostro padre, credi che lui abbia ucciso qualche bandito?
— Non ne ho idea, Pedro.
— Lui non ha detto se ne aveva ucciso qualcuno?
Diogo rise, ricordando il commento che il padre aveva fatto
quella sera, nell’ostello di Ficalho, attorno al camino del salone,
dopo che tutti si erano lavati, avevano cenato e si erano tranquillizzati:
— E pensare che mezza Europa si sta ammazzando nelle Fiandre, con carri armati, cannoni, mitragliatrici, granate e aerei, e
noi qui, al rientro dalla Fiera di Siviglia, tranquillamente a cavallo, a difenderci a colpi di fucile da caccia da un assalto di briganti! Siamo veramente in ritardo di un secolo! Cosa mi dici in
proposito, António? — dando una manata sulla schiena del dottor Sacramento, che fumava placidamente il suo sigaro cubano
comprato a Siviglia.
— Meglio così, amico mio! Stai tranquillo, che non perdi
niente ad aspettare. Scommetto che la prossima volta che andremo alla Fiera di Siviglia, sarà in automobile e su una strada come si deve. E che Dio ci conservi i nostri banditi coi fucili da caccia e ci guardi dagli altri, con le mitragliatrici e gli aerei!
— Questo è parlare! — confermò filosoficamente Joaquim da
Vila.