Narrazione e identità politica. - Dipartimento di Scienze sociali e
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Narrazione e identità politica. - Dipartimento di Scienze sociali e
WWW.SOCIOL.UNIMI.IT Dipartimento di Studi Sociali e Politici Università degli Studi di Milano Working Paper 3/07 Narrazione e identità politica. Quanto conta costruire una ‘buona’ narrazione in una campagna elettorale? Cinzia Bianchi WWW.SOCIOL.UNIMI.IT Dipartimento di Studi Sociali e Politici Facoltà di Scienze Politiche, via Conservatorio 7 - 20122 Milano - Italy Tel.: 02 503 18801 02 503 18820 Fax: 02 503 18840 E-mail: [email protected] Narrazione e identità politica: quanto conta costruire una “buona” narrazione in una campagna elettorale?* Cinzia Bianchi Per iniziare il mio intervento, vorrei preliminarmente rispondere alla domanda posta nel titolo. Se per “buona narrazione” si intende un racconto coerente di un progetto politico coerente, che si propone di spiegare gli obiettivi da raggiungere e su cui si chiede il voto agli elettori1, direi che l’ultima campagna elettorale italiana ci porta a formulare una risposta negativa. Non sembra che questa sia la mossa vincente per prevalere in una campagna elettorale, anche se poi si riesce a vincere le elezioni, per effetto della legge elettorale e di alcune altre ragioni che i politologi considerano piuttosto indipendenti dalla singola campagna elettorale. Insomma, se siamo propensi a pensare che una “buona” campagna elettorale sia la causa della vittoria elettorale, le elezioni politiche del 2006 sembrano invece confermare che una narrazione basata sullo scontro, sulle frasi ad effetto e sull’utilizzo di alcune tecniche persuasive come quelle di Berlusconi, sia tutto sommato vincente. Anche se poi Berlusconi non ha vinto le elezioni, è però chiaro a tutti che sia il vincitore della campagna elettorale2. * Una precedente versione di questo paper è stata presentata al XXXIV Congresso dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici Narrazione ed Esperienza. Per una semiotica della vita quotidiana Arcavacata di Rende (Cosenza), 17-19 novembre 2006. 1 Valentina Pisanty contrappone due tipi di narrazioni identitarie proprie del discorso politico: una “narrazione del compito difficile”, in cui l’obiettivo del Soggetto NON è principalmente quello di lottare contro l’avversario, se non limitatamente al fatto che quest’ultimo gli impedisce di raggiungere il suo obiettivo; e una “narrazione dello scontro” tra il Soggetto e un Antisoggetto, in cui l’obiettivo da perseguire cade in secondo piano. (paper in corso di pubblicazione) 2 Cfr. al proposito il recente libro Dov’è la vittoria? (Il Mulino, 2006) a cura di ITANES (Italian National Election Study) in cui si sostiene proprio che il vincitore delle elezioni (Prodi e la coalizione del Centro-sinistra) non è il vincitore della campagna elettorale. 1 Cercherò nelle prossime pagine di spiegare in modo più articolato questa mia risposta, partendo però da una premessa teorica. 1. Introduzione Si potrebbe infatti iniziare un intervento a un convegno di semiotica sulla campagna elettorale partendo da una definizione di cosa sia la comunicazione e il discorso politico, quali siano le sue categorie, i suoi confini e le sue pratiche, constatando come tale tipo di discorso si sia evoluto, vista anche la sempre maggiore sovrapposizione con altre forme discorsive (il marketing, la pubblicità, ma anche il linguaggio televisivo e, ovviamente, l’informazione). E questo sarebbe un modo a noi semiologi più consono di affrontare questo tipo di argomento. Seguiremmo in definitiva la linea tracciata da uno dei saggi semiotici più importanti sull’argomento, scritto da Paolo Fabbri e Aurelia Marcarino più di 20 anni fa3 a cui sono seguiti, in tempi più recenti, i lavori sociosemiotici di Eric Landowski e di molti altri che, spesso indagando oggetti e discorsi limitrofi, come la guerra, i conflitti e il “pensiero strategico”, hanno dovuto tener conto del discorso politico4. Vale la pena ricordare anche molte altre analisi di forme testuali specifiche come i manifesti, i dibattiti televisivi, o gli spot elettorali5. 3 P. Fabbri, A. Marcarino, “Il discorso politico”, in Carte semiotiche, 1, 1985. 4 Cfr, in particolare E. Landowski, La société rèfrèchie. Essais de socio-sémiotique, Seuil, Paris, 1989 (tr. it. La società riflessa, Meltemi, 1999): Présence de l’Autre. Essais de socio-sémiotique II, Puf, Paris, 1997; P. Fabbri, F. Montanari, “Semiotica della comunicazione strategica”, in L. Bozzo (a cura di) Studi di strategia, Angeli, 2001. Un’interessante ricostruzione dell’evoluzione dell’interesse semiotico nei confronti del discorso politico si trova in G. Marrone, Corpi sociali: Processi comunicativi e semiotica del testo, Meltemi, 2001, cap. 5. 5 Cfr. in particolare: P. Guarino e I. Pezzini “I manifesti elettorali. Le legislative del 2001” in A. Semprini (a cura di), Lo sguardo sociosemiotico (Angeli, 2003); I. Pezzini, Lo spot elettorale (Meltemi, 2001). Molti altri contributi semiotici sul discorso politico in momenti di campagna elettorali sono stati radunati in tre antologie curate da M. Livolsi e U. Volli per Franco Angeli: La comunicazione politica tra prima e seconda repubblica (1995); Il televoto (1997); Personalizzazione e distacco (2000). 2 Tornando al lavoro di Fabbri-Marcarino, colpisce, se così si può dire, l’attualità del saggio che contiene tutte le questioni fondamentali della semiotica del discorso politico: il problema della costruzione dell’oggetto “discorso politico” nel quadro più generale di una tipologia dei discorsi “naturali”; la metodologia di analisi che si può utilizzare; la necessità di considerare il discorso politico come “discorso in campo” (e pensiamo a questo proposito ai lavori di Landowski sulla “scena politica” e la sua teatralità) da cui deriva l’idea della strategia politica, composta da parole e da atti pragmatici, mosse, tattiche, ma anche da strategie narrative, enunciative e non per ultimo passionali. Già prendendo come riferimento questo saggio sarebbe sicuramente possibile, e forse anche utile, richiamare in modo critico tutti gli argomenti che una semiotica dovrebbe affrontare per analizzare il discorso politico nella sua complessità e anche dire qualcosa di sensato su una specifica campagna elettorale. Vorremmo però in questo intervento iniziare da un altro punto di vista, più esterno alla disciplina semiotica, cioè dalle riflessioni dei politologi per mostrare come alcune caratteristiche della politica da loro individuate incentivino l’analisi semiotica di singoli testi, frammenti testuali, di corpus più ampi e, in prospettiva socio-semiotica, aiutino a “ricostruire i criteri generali attraverso i quali una determinata società considera un’attività come strettamente politica e un’altra impolitica” (Marrone, 2001, p. 234). Vorremmo poi fare alcuni accenni alla questione dell’identità, dell’identificazione e dell’appartenenza politica, su cui molto hanno scritto antropologi, sociologi, politologi. Infatti, la questione dell’elezione politica è sempre strettamente collegata al problema dell’identificazione e dell’appartenenza politica: non c’è, si ripete da più parti, il passaggio all’atto pragmatico di apporre il proprio voto sulla scheda elettorale se non c’è una qualche forma di identificazione con il partito o la coalizione che si va votando, oppure una qualche opportunità espressa attraverso quel voto. Vedremo meglio questo punto. In buona sostanza, la recente campagna elettorale viene da me presa ad esempio di cosa sia oggi la comunicazione politica perché in essa si possono 3 ritrovare tutti quegli elementi che vengono ormai da almeno un decennio indicati dagli studiosi di comunicazione politica, italiani e stranieri, come caratteristici dell’attuale situazione6. 2. Le caratteristiche della comunicazione politica Quali sono allora le caratteristiche della politica odierna? L’essenza della comunicazione politica è sempre risieduta nello scontro di idee e nella ricerca del consenso in un contesto competitivo, ma la negatività di tale scontro sembra essere, ci dicono i politologi, una caratteristica piuttosto recente. A ciò poi vanno aggiunte altre caratteristiche piuttosto importanti per il nostro discorso come il fatto che ci sia una sorta di campagna elettorale permanente (o comunque i tempi della campagna elettorale si sono allungati sempre più e aldilà delle date ufficiali di inizio e fine della campagna stessa). Pensiamo appunto alla campagna elettorale 2006 che non si sa realmente quando è iniziata (già da gennaio la presenza di Berlusconi su tutti i canali fino all’ora dell’inizio ufficiale della campagna elettorale) e quando è finita (la storia dei brogli7, delle elezioni del Presidente della Repubblica, il referendum costituzionale), anche se è evidente a tutti noi che non è finita con la chiusura dei seggi e il conteggio delle schede elettorali. Il fenomeno della campagna elettorale permanente non è specifico del nostro sistema politico, ma da noi tutti gli elementi propri del discorso politico sembrano accentuarsi maggiormente che altrove, per specificità e anomalie del tutto peculiari. Alla campagna elettorale permanente e collegata a questa, si identificano 6 Tra tutti i contributi, cfr. in particolare G. Mazzoleni, La comunicazione politica, il Mulino, 1998. 7 Come ultima (?) coda della polemica sui brogli elettorali possiamo ricordare il documento- inchiesta Uccidete la democrazia! curato da Beppe Cremonini e Enrico Deaglio (regia di R. H. Oliva) che era stato preceduto da un instant book di fantapolitica di Agente Italiano intitolato Il broglio (Aliberti editore, 2006). 4 altri elementi caratteristici dell’attuale comunicazione politica: una professionalizzazione della politica, basata sul contributo di consulenti, sondaggisti e professionisti del marketing; una personalizzazione della politica, con le figure dei leader, sempre più un punto di riferimento intorno ai quali ruota l’intera scena politica; una mediatizzazione del discorso politico. Non mi vorrei soffermare troppo sul ruolo dei media nell’ambito sociale, poiché il loro potere è ormai riconosciuto da pressoché tutti gli studiosi di media studies. E un autore come Roger Silverstone risponde alla domanda “Perché studiare i media?”,8 dicendo che c’è il “bisogno di capire quanto sono potenti nella vita quotidiana, nella strutturazione dell’esperienza, in superficie e in profondità” (p. 223). Facendo un’aggiunta molto gradita a noi semiologi, sostiene che in particolare bisogna studiare “i testi dei media”, con gli strumenti e rivolgendo loro le stesse domande che rivolgiamo ad altri tipi di testi. “Il fatto che si tratti di testi popolari, in un certo senso ubiqui e effimeri, non toglie interesse a questo tipo di indagine; al contrario permette l’uso di strumenti di analisi che sono già stati utilizzati con buoni esiti altrove. Occorre capire come lavorano i media, cosa ci offrono e in quale maniera”(p. 59). E, per tornare in specifico al discorso politico, Silverstone sostiene che: “mentre un tempo avremmo potuto pensare ai media come a un complemento del processo politico, a un servitore di governi e partiti, al tempo stesso come a un fastidio e un guardiano (il “quarto potere”), oggi dobbiamo porci di fronte ai media come a soggetti fondamentalmente inscritti nel processo politico stesso: la politica, come l’esperienza, non può più neppure essere considerata fuori da un contesto mediale” (p. 223). Se quindi politica e media di massa sono così collegati, l’altro elemento portante del discorso politico è il populismo, cioè il richiamo generico alla “gente” e, per usare le parole di Eco9, “l’appello diretto al popolo (o la presunta 8 R. Silverstone, Why Study the Media?, Sage Publication, 1999 (tr. it Perché studiare i media?, Il Mulino, 2002). 9 Umberto Eco, A passo di gambero, Bompiani, 2006. 5 interpretazione della volontà popolare) fatto dal vertice” (p. 143). In particolare si dovrebbe parlare di “populismo mediatico” che, secondo Eco, è un regime nel senso più neutro possibile come forma di governo, “dove tra il Capo e il Popolo si pone un rapporto diretto, attraverso i mezzi di massa, esautorando così il parlamento”(pp. 141-142). “In un regime mediatico, continua Eco, dove il dieci per cento della popolazione ha accesso alla stampa di opposizione, e per il resto riceve notizie da una televisione controllata, da un lato vige la persuasione che il dissenso sia accettato (‘ci sono giornali che parlano contro il governo, prova ne sia che Berlusconi se ne lamenta sempre, quindi c’è libertà’), dall’altro l’effetto di realtà che la notizia televisiva produce, […] fa sì che si sappia e si creda solo quello che dice la televisione. Una televisione controllata dal potere non deve necessariamente censurare le notizie. [Ci sono tentativi, ma] il problema è che si può instaurare un regime mediatico in positivo, avendo l’aria di dire tutto” (pp. 137-138). In buona sostanza, conclude Eco, “un regime mediatico non ha bisogno di mandare in galera gli oppositori. Non li riduce al silenzio censurandoli, bensì facendo sentire le loro ragioni per prime” (p. 139) dal momento che in televisione ha ragione chi parla per ultimo. Al di là dei media e del comportamento dei politici, l’altro punto importante riguarda ciò che i politologi chiamano la “ricezione frammentata” della comunicazione politica così collegata alla diversificazione “centrifuga” e alla moltiplicazione dei canali di comunicazione. Questo è importante per noi perché ci permette di fare una riflessione anche più strettamente semiotica e metodologica. Vorrei collegare cioè questa constatazione sulla ricezione a ciò che Maria Pia Pozzato sostiene alla fine del suo intervento nel libro di Demaria su semiotica e memoria10. Pozzato parlando di un fenomeno piuttosto variegato ed eterogeneo come il terrorismo, dice: 10 Maria Pia Pozzato, “Postfazione” a Cristina Demaria, Semiotica e memoria, Carocci, 2006. 6 “… è facilmente prevedibile che la leggibilità globale dei fenomeni verrà progressivamente sempre meno. A maggior ragione, quindi, sarà importante riconsiderare l’effabilità locale dei testi: discorsi, documenti, testimonianze, immagini che la semiotica, per sua propria vocazione, ha gli attrezzi giusti per analizzare”(p. 205). Così, come suggeriva anche Silverstone, l’analisi testuale può sicuramente fare presa sull’odierno discorso politico. La sua frammentazione, le sovrapposizione di sincretismi e discrasie dei discorsi sociali che hanno come oggetto la politica, di cui sociologi e politologi hanno sentore, permette agli strumenti semiotici di ampliare ed approfondirne la portata, favorendo quel processo di verifica e riflessione sugli strumenti semiotici stessi (un tipo di riflessione a cui la teoria semiotica tiene sempre molto) e al contempo permette di aggiungere ulteriori tasselli interpretativi al fenomeno che si sta trattando. 3. Esempi di analisi semiotica Possiamo quindi fare cenno ad analisi che potrebbero sicuramente essere approfondite, a frammenti, eventi specifici della campagna elettorale intesi come esempi del fenomeno della comunicazione politica e dell’informazione. Facendo questo compiamo un’operazione attraverso la quale consideriamo più significativi questi esempi di altri per rendere ragione di un evento durato appunto mesi (ma su questo aspetto torneremo tra breve). Ecco appunto alcuni esempi: a) Prendiamo la trasmissione In mezz’ora del 12 marzo 2006, su RAITRE condotta da Lucia Annunziata il cui ospite era Silvio Berlusconi e che si concluse anticipatamente con l’uomo politico che lascia lo studio insultando la conduttrice. Questo frammento televisivo può essere affrontato analizzando sequenza per sequenza, domanda dopo domanda, per cercare dove si è annidato lo scontro tra i due attori, ma può essere anche affrontato ponendo lo sguardo sulla “crescita patemica” dello scontro, uno scontro non paritario tra politici ma tra un portavoce “forte” del discorso politico e uno altrettanto “forte” del discorso 7 giornalistico11. Le domande a cui si è cercato di dare risposta nei giorni immediatamente successivi, con commenti, articoli ed editoriali, erano le seguenti: Berlusconi se n’è andato o è stato cacciato dallo studio? Chi aveva ragione? Chi è il padrone di casa in una trasmissione, l’ospite o il conduttore? E così via. Tutte domande interessanti poiché, rispondendo a queste, si può ampliare la riflessione e considerare l’evento come un ulteriore tassello del rapporto tra media e politica di cui abbiamo parlato precedentemente. Ma mi sembra interessante spostare leggermente il punto di vista, e vedere come la vicenda sia stata riproposta dai telegiornali della domenica sera e del giorno dopo (12 e 13 marzo 2006)12. Devo dire che, a differenza di ciò che hanno fatto spesso durante la campagna elettorale, i telegiornali non hanno mostrato particolari differenze di impostazione della copertura dell’evento; hanno raccontato l’accaduto, hanno 11 Dopo alcune domande “scomode” di Lucia Annunziata sullo scandalo del Laziogate, sul fatturato pubblicitario di Mediaset e Rai, sulla libertà dei giornalisti, Berlusconi esordisce dicendo: “Mi fa dire qualcosa che può interessare agli Italiani? Adesso le dico io che cosa… Vorrei che lei mi domandasse perché gli elettori devono votare per noi e non per la Sinistra!”. Segue un battibecco tra i due con accuse varie (partigianeria, violenza, maleducazione) e poi la giornalista dice: “Vorrei avere il privilegio di essere una persona che con lei riesce a fare delle domande… ricevendo delle risposte” e poi “Resta il fatto che le domande qui in casa mia le faccio io”. Berlusconi ribatte: “Credevo che questa fosse la casa della RAI, di tutti gli Italiani… Mi domanda che cosa ha fatto il Governo in questi cinque anni? Mi domanda che cosa ha intenzione di fare nei prossimi cinque?”. Annunziata: “Ci arriviamo, Presidente.” Belusconi: “Quando? Alla fine della trasmissione?” Annunziata: “Mancano ancora 15 minuti…” E poi dopo qualche altro minuto di colloquio riguardante Montezemolo e la Confindustria si consuma lo scontro finale: Berlusconi: “ Se non mi lascia rispondere, io mi alzo e me ne vado!”; Annunziata: “Lei non può dire ‘Mi alzo e me ne vado’”; Berlusconi: “Io mi alzo e me ne vado e questo rimarrà come una macchia nella sua carriera professionale” e poi, già in piedi: “Lei ha illustrato bene come si comporta una persona che ha pregiudizi e sia di sinistra. Le posso dire una cosa: deve avere un po’ di vergogna per come si è comportata” a cui Annunziata ribatte con “Lei non sa parlare con i giornalisti!” 12 Sono interessanti in particolare i telegiornali della sera del 12 marzo perché fanno un resoconto anche dei commenti pomeridiani dell’allora Presidente del Consiglio che, durante un raduno di Forza Italia a Pescara, proietta la registrazione della trasmissione aggiungendo: “Avete visto come io sia stato sempre educato e come abbia anche subito il sovrapporsi della Signora a tutte le domande che davo. Poi voi non avete avuto modo di vederla mentre rispondevo perché continuava a farmi segni, a scuotere la testa, insomma cercava di mettermi in condizione di difficoltà. Naturalmente è molto difficile riuscirci!” 8 mostrato gli ultimi due minuti del colloquio-scontro e poi eventualmente hanno aggiunto un commento. Ciò di cui però non potevano rendere conto è proprio il crescendo patemico che inizia praticamente dopo solo alcuni minuti di trasmissione e instaura subito due livelli del discorso: un primo di risposta a domanda e l’altro che mira a far prevalere da parte di entrambi gli attori il proprio discorso sull’altro. O meglio, i telegiornali avrebbero potuto “raccontare”, “narrativizzare” non solo il “fattaccio” ma anche le passioni messe in gioco, collegate in questo caso a un gioco di potere. Quando si parla di passionalizzazione della politica bisognerebbe, lo sappiamo, lavorare analiticamente anche all’intersezione tra discorsi e alla loro sovrapposizione. Non solo parlare di come un discorso cerchi di coinvolgere l’elettore (spettatore/lettore) sulla passione o sulla ragione espressa dagli attori politici. Esempio di questa classica opposizione tra ragione e passione che emerge in politica è costituita dai consigli che la signora Prodi e la signora Berlusconi elargiscono ai loro consorti prima del secondo faccia a faccia del 3 aprile (La Repubblica, 2 aprile 2006). Il consiglio di Flavia Prodi è “Spiega, spiega, spiega” che si contrappone a quello di Veronica Berlusconi che consiglia “Sii te stesso, sii istintivo, coinvolgi gli elettori così come sai fare tu”. Noi semiologi lo sappiamo, bisogna rendere ragione anche del livello patemico del discorso in quanto tale, al di là del contenuto specifico in discussione. E’ rilevante da questo punto di vista che si stesse parlando della pubblicità su Mediaset e sugli affari delle aziende di Berlusconi? Forse no, lo scontro e la rottura si sarebbero potuti consumare su un qualsiasi altro argomento perché a prevalere in quel momento era un’altra logica. Per i TG è stato impossibile “rendere ragione” di quel pezzo di tv perché in questo caso il livello passionale e narrativo si intersecano e prevale il primo come motore della rottura, questa sì narrativa tra i due. b) Altro esempio. Il racconto degli speciali del pomeriggio-sera del lunedì del 10 aprile durante i quali i risultati elettorali, tra sondaggi, exit poll e dati dal Viminale, sono cambiati continuamente, con i conseguenti commenti e valutazioni sbagliate da parte di politici, commentatori e militanti politici che 9 mostravano, ad ogni cambiamento dei dati, il loro coinvolgimento passionale positivo o negativo a seconda dell’appartenenza politica13. Ovviamente in tutta la campagna elettorale i sondaggi hanno avuto una grossa importanza e, come sottolinea Gianfranco Marrone in Corpi sociali, “al di là del valore effettivo di quei sondaggi, o dei metodi adoperati per raccoglierli, quel che è importante è il teatro strategico di simulazione e di controsimulazione che [un dato] uomo politico, nell’atto di parlarne, mette in atto” (p. 232). Ma ciò che emerge dall’analisi del pomeriggio (sera e notte) post-elettorale è che si è creato un senso di veridicità dovuta all’uniformità dei dati dei sondaggi che riconoscevano da ormai diverse settimane la vittoria al Centro-sinistra. In questo caso sarebbe interessante approfondire la questione dell’estrema autoreferenzialità dei sistemi di previsione (se tutti gli istituti di ricerca hanno gli stessi dati o dati simili, allora quello è il dato “vero”!) da cui deriva la costruzione di effetto di verità. Gli exit poll stavano confermando i sondaggi precedenti e quindi i dati si sono, per così dire, “auto-verificati”. Ma oltre a questo c’è effettivamente anche un valore che comunemente si riconosce al dato statistico, che sia ovviamente più veritiero di un’opinione. Infatti dodici ore di televisione si sono basati su questa convinzione ben radicata nel nostro comune percepire il mondo: politici, commentatori e gente comune ha vissuto passionalmente queste discrasie tra dato aspettato (e sperato) e dato reale, una situazione ben evidenziate da Ballarò dell’11 aprile con un bel servizio di apertura della trasmissione, un buon esempio di sintesi degli umori collettivi14. Quindi questo esempio può essere riletto in chiave semiotica sottolineando l’importanza del dato, del numero, dell’orizzonte di verificabilità su cui siamo propensi a basare le nostre percezioni e passioni15. 13 Per un’analisi dei sondaggi e dei metodi usati per la rilevazione, cfr. R. Mannheimer, P. Natale, L’Italia a metà, Cairo Editore, 2006. 14 In verità questo servizio viene trasmesso dopo circa un quarto d’ora di trasmissione, dopo l’apertura dedicata alla cattura del boss mafioso Bernardo Provenzano con una intervista a Pietro Grasso, procuratore generale della Direzione Nazionale Antimafia. 15 Interessante da questo punto di vista una battuta di un militante del Centro-sinistra che intorno alle 23, quando ormai disperava sulla vincita della propria coalizione, dichiara molto deluso: “ Credevamo nei sondaggi di oggi pomeriggio, ma la realtà è un’altra!” 10 c) Altro esempio: i due faccia a faccia Prodi-Berlusconi del 14 marzo e 3 aprile 2006. Molto si è parlato delle regole del faccia a faccia e la domanda principe è stata: chi ha vinto e chi ha perso? E qui le risposte sono state ovviamente molto diverse. Quello che a noi potrebbe interessare riguarda il tentativo di neutralizzazione sia del discorso televisivo (regole su tutto il linguaggio filmico, i giochi di telecamere, il montaggio in diretta, i punti di vista, ecc. per riportare la televisione a mero mezzo di diffusione) sia del discorso giornalistico (i giornalisti ponevano domande identiche ai due sfidanti, il ruolo dei giornalisti-conduttori era semplicemente di notai del tempo) per far emergere il discorso dei due politici-leader di coalizioni (e non tanto il discorso politico che, abbiamo visto, è costitutivamente intersecato a altri tipi di discorsi del sociale). Se si fa poi un confronto tra il primo e il secondo scontro, sembra che Berlusconi abbia subito le regole del dibattito non apprezzandole per niente (e non ne ha fatto certo mistero!) ma nonostante ciò è riuscito lo stesso a piazzare un colpo da buon venditore (l’abolizione dell’ICI) grazie al quale ha sfiorato la vittoria elettorale. E’ interessante notare come nella pubblicazioni sulle elezioni non ci si sbilanci troppo rispetto all’efficacia di questa proposta; non si cerca di rispondere alla domanda specifica se essa abbia oppure no effettivamente fatto conquistare dei voti al Centro-destra; gli si riconosce una “indubbia presa comunicativa” (Itanes, p. 44) ma si aggiunge che probabilmente il contesto generale, e non tanto questa battuta, ha convinto alcuni elettori a votare di nuovo Berlusconi che ha così “quasi” vinto; ha insomma contribuito di più il balbettio del Centro-sinistra, specialmente riguardo ai temi economici, che non la battuta di Berlusconi. Credo che questo sia un dato di difficile verificabilità, ma è sicuramente emerso qui lo spirito del “buon venditore” che è proprio di Berlusconi. Eco in A passo di gambero, sottolinea come: “Colpisce in Berlusconi l’eccesso di tecnica del venditore. Il venditore non si preoccupa che voi sentiate l’insieme del suo discorso come coerente; gli interessa che, tra quanto dice, di colpo vi possa interessare un tema, sa che reagirete alla sola sollecitazione che vi può toccare e che, una volta che vi 11 sarete fissati su quella, avrete dimenticato le altre. Quindi il venditore usa tutti gli argomenti, a catena e a mitraglia, incurante delle contraddizioni in cui può incorrere. Deve fare in modo di parlare molto, con insistenza, per impedire che facciate obiezioni.” (pp. 128-129). Alla messa in atto di questa tecnica di vendita, si deve poi aggiungere una certa “furbizia” comunicativa: Berlusconi ha sfruttato il fatto di avere l’ultimo turno di parola, senza nessuna possibilità di replica, e ha piazzato lì il suo colpo utilizzando il suo linguaggio da venditore, interpellando direttamente lo spettatore/elettore e ripetendo in modo chiaro e inequivocabile la sua offerta, da non perdere!16 Molti altri esempi si potrebbero ovviamente trovare e si potrebbero analizzare con gli strumenti della semiotica del testo, ma anche quelli più specifici dell’intertestualità, sottolineando appunto richiami, citazioni, parodie e altro, anche tra sostanze espressive diverse. Rimane comunque una riflessione metodologica da fare riguardo all’opportunità e all’effettiva efficacia dell’applicazione di strumenti appropriati per le analisi (relativamente) micro su testi del discorso politico, così connesso e intrecciato con il discorso dell’informazione piuttosto che con quello pubblicitario e del marketing, se lo scopo non sia poi quello di riflettere sulla dinamica dei discorsi sociali (alla Landowski, per intenderci) ma voglia rimanere nell’ambito della spiegazione del singolo evento comunicativo. Da questa constatazione emergono sempre le stesse domande: come si costruisce un campione di analisi? Come si giudica la rilevanza dei singoli testi in un’analisi di ampio raggio? Ci può bastare un concetto come quello di pertinenza di prietiana memoria? Sebbene questo sia un punto che spesso sia stato discusso e la nostra disciplina continua a dare (e a darmi) delle risposte rassicuranti, la costruzione del 16 Berlusconi, guardando in macchina e con un leggero sorriso, dice: “ Noi aboliremo l’ICI. Avete capito bene? Aboliremo l’ICI su tutte le prime case e quindi anche sulla vostra.” 12 corpus di analisi e l’individuazione del frammento di testo significativo da analizzare, dove il senso si addensa tanto da poter essere considerato esemplificativo di un fenomeno o di una situazione più ampia, continua a farmi problema. E’ la mia una preoccupazione teorica più che di pratica di analisi, dal momento che, quando mi sono trovata a confrontare interdisciplinarmente queste mie analisi, ho trovato sempre conferma alle mie ipotesi e ho verificato la sostanziale appropriatezza locale dei nostri strumenti. Ma in ogni caso, l’applicazione di strumenti micro a campioni d’analisi ampi e così articolati, mi crea sempre un po’ di perplessità teoriche e rimane per me un problema aperto. 4. Identità e identificazione politica Ma vorrei adesso tornare alla questione della “battuta sull’ICI” di Berlusconi (ma ci si potrebbe concentrare anche su altre, come quella del “coglione” rivolto all’elettore di sinistra) per accennare brevemente all’altro argomento già presente nel titolo, cioè la questione dell’identità e dell’identificazione politica, perché questo ci permette di capire meglio anche l’importanza e il ruolo che tali battute ricoprono nella comunicazione dell’allora Presidente del Consiglio. Gli studiosi che si sono occupati del problema dell’identità possono essere accomunati (e mi scuso della brutalità della sintesi) da alcune idee fondamentali: il fatto che una identità si costruisca sempre e non sia predefinita; che sia sempre frammentata e in mutamento in una modernità in mutamento essa stessa (“liquida”, come la definisce Zygmund Bauman17); che possa essere costruita 17 Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, 2003. Nel libro Bauman ci spiega che “il mondo intorno a noi è tagliuzzato in frammenti scarsamente coordinati, mentre le nostre vite individuali sono frammentate in una successione di episodi mal collegati tra loro” (p.7). E continua: “Noi, abitanti del mondo della modernità liquida, differiamo dal passato. I riferimenti comuni delle nostre identità noi li inseguiamo, li costruiamo e li teniamo insieme mentre siamo in movimento, sforzandoci di tenere il passo di quei gruppi, anch’essi mobili, anch’essi in rapido 13 attraverso un processo di “narrativizzazione del sé”, come ci dice Stuart Hall18; e che dobbiamo imparare a convivere con uno “stato permanente di crisi”, come sostiene Eco durante un colloquio con Hall19. Un sociologo come Alessandro Pizzorno20 ci dice poi che l’identificazione politica è solo una conseguenza di un processo di identità collettiva più ampio e ciò che è veramente fondamentale è il processo stesso di costituzione collettiva, proprio di una logica di appartenenza quasi indipendente dall’attività “efficiente” (cioè la presa di decisioni politiche). In buona sostanza, contro le cosiddette “teorie neoutilitaristiche” di Oltreoceano, Pizzorno sostiene che in Italia prevale una logica di scelta politica che ha poco a che vedere, per esempio, con gli atti compiuti da un qualsiasi governo, mentre prevalgono altri criteri e una sostanziale logica dell’appartenenza. Alcune analisi empiriche confermano questa opinione, come, per esempio, il fatto che in Italia continui a prevalere la “territorializzazione del voto”21, una movimento, che ricerchiamo, che costruiamo e che cerchiamo di tenere in vita ancora un momento, ma non molto di più”. (p. 27) 18 Stuart Hall, “Chi ha bisogno dell’identità”, in Bianchi, Demaria, Nergaard, a cura di) Spettri del potere (Meltemi, 2002) e in Leghissa (a cura di) Politiche del quotidiano (Saggiatore, 2006) 19 Umberto Eco, Stuart Hall, “Il ruolo degli intellettuali è quello di creare crisi” in Stuart Hall, Politiche del quotidiano (Saggiatore, 2006), saggi scelti da Giovanni Leghissa. Sostiene Eco: “Nelle società antiche si sarebbe potuto vivere per millenni con la stessa struttura sociale o lo stesso genere d’informazione. In una società come la nostra, così profondamente pervasa dallo scambio d’informazione e di contatti, dobbiamo imparare a convivere con una condizione di crisi permanente”. (p. 113) Ciò è dovuto da un tratto costante della modernità che è “l’accelerazione del ritmo della crisi” di ogni tipo (biologica, fisica, culturale) e, conclude Eco, “il ruolo della cultura è quello di meditare su queste altalenanti dialettiche, e indicare criticamente in che modo sia possibile rovesciare questo senso di disillusione, d’impotenza” (p. 115). Solo così, forse, si può tentare di colmare quello che a Stuart Hall sembra un insanabile “divario tra la posizione politica della gente e le istituzioni e organizzazioni che le danno un’espressione politica formale”; “tra i partiti e le posizioni reali dei loro elettori, tra la loro idea delle opinioni politiche della gente e le vere opinioni della gente” (p. 111). 20 Alessandro Pizzorno, Le radici della politica assoluta, Feltrinelli, 1993. 21 Cfr. in particolare Ilvo Diamanti, Bianco, rosso, verde… e azzurro (Il Mulino, 2003), dove si sostiene che lo stretto legame dei partiti con il territorio sia continuato anche dopo la fine della Prima Repubblica. In alcune zone del Paese continua infatti a persistere uno stesso orientamento 14 caratteristica che è rimasta costante tra Prima e Seconda Repubblica e che non risente, se non marginalmente, della differenza di generazioni, di stato economico e di livello culturale degli elettori. Ciò che è cambiato è l’offerta politica (i partiti sono cambiati, si sono fatte e disfatte alleanze e cartelli elettorali, sono cambiate leggi elettorali e così via) ma non un’omogeneità di identificazione tra territorio e partiti o coalizioni politiche. Altre ricerche, come quella di Lorenzo De Sio22, mostrano come i cosiddetti elettori “fluttuanti” (o “in movimento”) siano una percentuale irrisoria, sebbene, in presenza di sistemi partitici bipolari in cui le due Coalizioni hanno consistenza simile, siano cruciali per l’esito della competizione. Ma, al di là della consistenza numerica, mi sembra più interessante il profilo che viene presentato di tali elettori. In molte altre democrazie occidentali con un sistema bipolare “alcuni strati della popolazione, dotati di maggiori risorse strutturali e cognitive” si sono liberati, se mai l’hanno avuta, “dalla gabbia del tradizionale voto di appartenenza per approdare al voto di opinione, in cui la decisione di voto non era più dettata da un obbligo sociale derivante dal proprio gruppo di riferimento, ma diveniva una decisione libera e in parte pragmatica, legata alle specifiche proposte programmatiche in campo”, dando così origine alla mobilità e a un vero e proprio “mercato elettorale”. In Italia invece c’è “una situazione in cui gli individui potenzialmente più facili da persuadere sono i meno istruiti, meno informati e meno interessati alla politica, che prenderanno le loro decisioni di voto in base ad aspetti secondari rispetto alle informazioni ricevute”. La competizione elettorale politico, in particolare nella “zona rossa” del Centro Italia (dal Partito Comunista Italiano ai suoi eredi), mentre in altre zone, come il Nord, la dissoluzione della Democrazia Cristiana (la “zona bianca”) ha costituito omogeneamente prima una “zona verde” (la Lega) e poi, dopo l’irrompere sulla scena politica di Forza Italia, una zona verde e “azzurra” (Forza Italia). Il Sud continua ad essere ondivago, così come è sempre stato anche nella Prima Repubblica. Per un’approfondita analisi del comportamento di voto durante l’ultima tornata elettorale cfr. R. Mannheimer, P. Natale, 2006. 22 “Dove sta davvero il mercato elettorale?”, paper presentato al panel “Gli elettori nell’era bipolare” della sessione “Il sistema politico italiano” del XX Congresso Nazionale SISP, Bologna, 12-14 settembre 2006, www.sisp.it. Cfr. anche gli interventi di De Sio in Itanes 2006 e Mannheimer, Natale 2006. 15 attraverso i media che raggiungono anche i cittadini meno informati e interessati alla politica, continua De Sio, sembra così inevitabilmente “destinata a fare ampio uso di messaggi inverosimilmente semplicistici, di meccanismi di persuasione più o meno scoperta e più o meno occulta, di formule ad effetto, di promesse non necessariamente mantenibili e così via”. “In altre parole, più che a un mercato ci troveremmo di fronte a un vero e proprio bazar elettorale, in cui i clienti più avvertiti vanno sempre nella stessa bottega, mentre gli unici disposti a cambiare negoziante sono i più sprovveduti, che però cadono in balia dell’imbonitore con la voce più potente o l’immaginazione più fantasiosa”. Ed ecco perché allora un’uscita ad effetto sull’abolizione dell’ICI, in quanto “pezzo forte” di una strategia comunicativa basata su una “narrazione dello scontro” (cfr. n. 1), abbia la possibilità di far cambiare l’esito di una tornata elettorale, mettendo a dura prova sondaggisti e professionisti della politica. L’elettore è infatti disposto a cambiare area politica da un’elezione all’altra, un comportamento impegnativo e minoritario, solo se la posta in gioco è molto alta. E questo ad ulteriore riprova del fatto che il mercato elettorale italiano sia “lontano dal cuore della politica; in regioni remote popolate da persone che in realtà di politica si interessano poco e sanno forse ancora meno”. Cos’è infatti successo nell’ultima campagna elettorale? Se si parla di identità politica e di appartenenza sembra quasi che le elezioni le abbia perse Berlusconi (nonostante la rimonta delle ultime ore), e non le abbia vinte l’Ulivo. Ma io sono convinta che Berlusconi ha quasi vinto ponendo l’accento su questioni di economia, mentre avrebbe con più probabilità vinto anche le elezioni puntando sulla contraddizione valoriale presente nell’Unione e nel suo Programma e che sta esplodendo (o esploderà) prima o poi su PACS, procreazione assistita, eutanasia – questioni che stanno alla base anche della futura nascita del Partito Democratico. Leggendo il Programma dell’Unione ci sono passaggi in cui il linguaggio serve a trovare un accordo valoriale e politico in modo superficiale, oppure, se lo vogliamo dire in modo diverso, a nascondere le diversità e tutti noi sappiamo che spesso il lessico e il discorso (nel senso di frasi 16 composte) nascondono invece di chiarire23. Per fare un esempio, Arturo Parisi in un’intervista recente (Corriere della sera, 16 ottobre 2006), alla domanda se nel Partito Democratico ci saranno molte tribù risponde: “E’ una certezza: nel Pd le tribù saranno molte. Quello che mi auguro è però che non siano la perpetuazione di nomi passati, ma nascano e mutino a partire dalle risposte che riguardano il futuro. La necessità di semplificazione dei partiti non deriva dalla semplificazione della società, semmai all’opposto dalla consapevolezza della sua crescente complessità. L’alternativa a pochi partiti di governo sono mille partiti d’identità: dai cattolico-democratici agli islamo-democratici passando per i teo-dem, e così via”. Come si fa quindi a costruire una identità politica nuova partendo da queste premesse? Vogliamo, per concludere, citare ancora una volta Lorenzo De Sio: “In questo caso una eventuale capacità dei partiti di stabilizzare nel corso dei prossimi anni le proprie strutture, identità politiche e programmatiche, reti organizzative e collaterali, potrebbe riportarci a una situazione in cui anche l’elettorato meno informato e interessato si stabilizza intorno a nuove appartenenze”. Le appartenenze del passato provenivano da forti identità che precedevano l’appartenenza a un partito: identità religiose, progetti di cambiamento rivoluzionario della società e così via, che solo poi, come sostiene Pizzorno, si traducevano in voto politico. Nessun soggetto sociale (e tanto meno i partiti di oggi) sembra in grado di ricostruire appartenenze così forti e il problema di come 23 Un esempio per tutti: “L’Unione proporrà il riconoscimento giuridico di diritti, prerogative e facoltà alle persone che fanno parte delle unioni di fatto. Al fine di definire natura e qualità di un’unione di fatto, non è dirimente il genere dei conviventi né il loro orientamento sessuale. Va considerato piuttosto, quale criterio qualificante, il sistema di relazioni (sentimentali, assistenziali e di solidarietà), la loro stabilità e volontarietà”. L’interpretazione e la relativa conversione in atti pragmatici della prima frase (così come di altri passaggi del Programma) aprirà presumibilmente conflitti interni alla coalizione del Centro-Sinistra. 17 raccontarle, prima, durante e dopo la campagna elettorale, diventa spesso del tutto secondario. 18 Bibliografia Bauman Z. 2003, Intervista sull’identità, Laterza Bianchi C., Demaria C., Nergaard S. (a cura di) 2002, Spettri del potere. Ideologià, identità e traduzione negli studi culturali, Meltemi De Sio L. 2006, “Dove sta davvero il mercato elettorale?” paper presentato al panel “Gli elettori nell’era bipolare” della sessione “Il sistema politico italiano” del XX Congresso Nazionale SISP (Bologna, 12-14 settembre 2006), www.sisp.it. Eco U. 2006, A passo di gambero, Bompiani Fabbri P., Marcarino A. 1985, “Il discorso politico”, in Carte semiotiche, 1 Fabbri P., Montanari F. 2001, “Semiotica della comunicazione strategica”, in L. 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