Dottor Caos – 10 dieci pillole contro la crisi

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Dottor Caos – 10 dieci pillole contro la crisi
Dottor Caos – 10 dieci pillole contro la crisi
Autore: Marco Apolloni
«Nutre la mente solo ciò che la rallegra» (Sant'Agostino, Le Confessioni)
Collettivo Idra © 2013 - I diritti di questo libro appartengono al legittimo proprietario e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons.
Il mito delle origini in Francis Ford Coppola e in Mircea Eliade
1. Un'altra giovinezza (2007)
Thriller, spy-story, mélo? Come Gianni Canova, intervistato sull'argomento, propendo per il
sincretismo dei tre generi, uniti in un unico genere in questa straordinaria narrazione filmica del
grande maestro Francis Ford Coppola. Lo stesso Canova, nell'intervista a cui mi riferisco, precisa
che vi è però una lieve predominanza del genere mélo.
Il tema pervasivo del tempo (nostro invalicabile limite), le atmosfere oniriche e gli eventi
rocamboleschi narrati contribuiscono a darci quest'idea. Il film di Coppola mi fa venire in mente,
per certi versi, l'ultimo film di Stanley Kubrick Eyes wide shut (1999), tratto dalla novella Doppio
sogno di Arthur Schnitzler. Anche in Un'altra giovinezza domina il tema del conflitto fra realtà e
sogno, scene orgiastiche (più presenti nella pellicola di Kubrick) e il tema del doppio (più presente
nell'opera di Coppola).
Di certo si tratta di un film non facile, che va visto e rivisto per poter essere compreso. Magari
sarebbe meglio vederlo in orario diurno, perché specie la prima parte è molto lenta. Ciò non toglie i
suoi meriti, anzi. Diceva Platone «le cose belle sono difficili». L'impressione – comunque – è che
siamo al cospetto di un bel film. Bello per com'è congegnato e per come interroga la precaria
condizione umana, appesa sul filo del tempo-tiranno. Filo, questo, conduttore di ciascuna esistenza
e ancor più dell'esistenza meravigliosa del protagonista della pellicola (tratta da un romanzo di
Mircea Eliade), Dominic.
Studioso di linguistica e di religioni orientali (tratti questi comuni al suo autore), Dominic Matei
ama due sole cose: 1) Laura, il suo primo (e per ciò indimenticabile) amore, 2) e l'opera incompiuta
della sua vita, un saggio che vorrebbe risalire sino alle origini del linguaggio. Laura però decide di
lasciarlo, perché sente che il suo innamorato in realtà ama più la sua opera che lei.
È a questo lancinante rimpianto che pensa il settantenne Dominic svegliandosi una mattina con la
luna di traverso e con un solo chiodo fisso: la busta azzurra contenente stricnina, per porre fine alle
sue pene d'amore.
Il deus ex machina (o intervento dall'alto) gli piomba addosso, tutto a un tratto, e lo colpisce
attraverso un fulmine, proprio mentre lui è a Bucarest, deciso a compiere il suo progetto suicida. Il
fulmine che avrebbe dovuto ucciderlo in realtà lo ringiovanisce. Cosicché al suo risveglio dal coma
dimostra la metà degli anni.
Aiutato dal professor Roman Stanciulescu, primario del reparto della clinica dov'è in cura, viene
sottratto alle autorità naziste1. I nazisti venuti a conoscenza del caso dell'uomo sopravvissuto alla
1 Siamo nel 1938. La Romania ha appena stretto un patto con la Germania hitleriana. Patto, questo, che la obbliga ad un
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scarica di un fulmine, che per giunta si vocifera sia addirittura ringiovanito, non tardano ad
avanzare le loro pretese sul paziente, e vorrebbero espatriarlo per fargli degli esperimenti, come una
cavia da laboratorio.
Dominic, braccato dalle SS, si rifugia nella neutrale Svizzera. Da qui si sposta in India sulle orme di
un nuovo amore, Veronica (in una vita precedente Rupini, discepola di Chandrakirti, filosofo
buddhista del VI-VII secolo d.C.), che è anche la sua unica possibilità di redimersi dal precedente
amore fallito con Laura. Insieme a Veronica/Rupini si trasferisce poi nella mediterranea Malta. Qui
Dominic e il suo doppio malevolo (una sorta di Mr. Hyde secondo l'acuta interpretazione dataci da
Canova) si trova a un bivio, scegliere: se terminare la sua opera grazie all'aiuto delle estasi
parasensoriali dell'amata, oppure se salvarle la vita, visto che tali estasi la stanno divorando.
Anticipare il finale sarebbe un delitto, che non è mia intenzione commettere. Vi consiglio solo di
vederlo attentamente, per non lasciarvi sfuggire dei piccoli passaggi, però necessari al fine di una
comprensione totale della pellicola. Anche se la comprensibilità nel caso di Un'altra giovinezza non
è fondamentale, poiché (sempre citando Canova) ci sono film che vanno compresi e altri, come
questo, che ci comprendono.
A ogni modo, il messaggio del film è ben riassunto dal seguente paradosso taoista (citato da
Dominic durante un'allucinazione nel caffè Select): «Una volta Chuang Tzu sognò che era una
farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte, e ignara di essere Chuang Tzu. Bruscamente si
risvegliò, e si accorse con stupore di essere Chuang Tzu. Non seppe più allora se era Tzu che
sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Tzu».
In fin dei conti, il fascino di Un'altra giovinezza è che nulla è come appare e l'essere potrebbe anche
non essere. Paradosso, questo, che la nostra visione del mondo occidentale non ci permette di
comprendere a fondo. Da Parmenide in poi, la ferrea logica occidentale è basata sul principio di non
contraddizione ed è appunto per essa una contraddizione in termini pensare che qualcosa sia e al
contempo non sia. Viceversa la fluida logica orientale è contraddizione pura: l'essere contiene il non
essere, il vuoto il pieno, la luce le tenebre e via dicendo.
La pellicola di Coppola, così come il romanzo di Eliade, strizzano tutti e due gli occhi alla fluida
logica orientale, che si nutre di paradossi. Del resto, non è mica detto che la logica occidentale sia
più veritiera di quella orientale. Che cos'è in fondo la verità, s'interroga Ponzio Pilato nell'atto di
sospendere il giudizio su Gesù Cristo? E su questa domanda continua a interrogarsi ancora oggi la
filosofia occidentale, che magari potrebbe trovare un prezioso alleato nel pensiero orientale. Poiché
solo dall'unione di questi due giganti, filosofia occidentale da una parte e pensiero orientale
dall'altra, potrà risultare una Nuova Era per il genere umano.
regime di collaborazionismo col potente alleato.
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Detto questo e fermo restando la mia promessa di non anticipare il finale, non credo di farvi alcun
torto ricapitolando la posta in gioco: Dominic per salvare l'amata Veronica/Rupini deve scegliere di
uccidere il suo doppio, rinunciando per sempre all'opera di una vita. È una scelta dura e difficile,
ribadiamo, ma vivere significa dover scegliere e persino chi sceglie di non scegliere compie una
scelta suo malgrado.
Come vedete, la pillola azzurra e la pillola rossa di Matrix (1999) è un ritornello sempre attuale.
«Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai.
Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant'è profonda la tana del bianconiglio»
come dice Morpheus a Neo. Anche Matrix come Un'altra giovinezza e Eyes wide shut appartiene al
filone cinematografico che intende mettere in discussione il netto confine fra realtà e sogno,
privilegiandone uno più sfumato. Tale filone ci lascia intendere l'esistenza di un Demiurgo cattivo
che gioca con le nostre sorti e sdoppia le nostre esistenze.
Il tema dello sdoppiamento è ricorrente vuoi in Dominic e vuoi in ognuno di noi. Senza il doppio
che ci abita, non potremmo nemmeno concepire le doppiezze che compiamo ogni giorno. Una lotta
incessante si consuma dentro noi; e spesso a uscirne vincitrice – purtroppo – è la nostra parte
peggiore. La storia umana è storia della lotta di ogni uomo con il suo doppio; non fa eccezione il
protagonista di Un'altra giovinezza, Dominic, il quale deve lottare con esso per sconfiggere la
ferrea logica occidentale, che da sola è incapace di abbracciare l'insanabile contraddizione umana,
ovvero: dover vivere come se si dovesse morire adesso e pensare come se non si dovesse morire
mai, parafrasando un celebre aforisma di Jim Morrison...
2. La filosofia di Un'altra giovinezza
La filosofia nasce e si sviluppa prettamente in Occidente, mentre in Oriente al suo posto si
annoverano il pensiero confuciano e le religioni induiste, buddhiste, taoiste. Dunque, se in Oriente
si è sviluppata una logica unitaria, che ingloba l'accettazione e il superamento della contraddizione
(la verità è bianca e nera insieme), in Occidente si ha invece una logica duale, che non va oltre lo
scoglio del principio di non contraddizione (la verità o è bianca o è nera).
Dunque, il dualismo è il minimo comun denominatore della filosofia occidentale da Parmenide fino
a noi oggi. Anche se, a onor del vero, la filosofia occidentale in senso stretto nasce nel VI secolo
a.C. per opera dei primi filosofi naturalisti: Talete, Anassimandro e Anassimene, originari della
colonia greca di Mileto; ognuno di essi propugna un arché (o principio primo), il primo l'acqua, il
secondo l'infinito (o ápeiron), il terzo l'aria. Tuttavia i più influenti pensatori della filosofia
occidentale restano: Parmenide, Platone e Aristotele, i cui strascichi sono giunti fino ai nostri giorni
e – per il momento – non sembrano destinati a scomparire.
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Il personaggio di Dominic è una rivisitazione del mito nietzscheano del Superuomo 2. Persino la sua
smania di arrivare alle origini del linguaggio è un impulso riconducibile alla sua volontà di potenza,
di derivazione nietzscheana. Volontà, questa, che gli fa, ad esempio: leggere libri soltanto con
l'imposizione della mano, sparare allo scienziato nazista Josef Rudolf senza neppure aver bisogno
d'impugnare la pistola ma con la sola forza della mente, e altre meraviglie del genere. La sua
volontà come tutti i grandi poteri (da cui derivano delle grandi responsabilità, direbbe nientemeno
che l'Uomo Ragno) ha però un contro e questo è che risucchia l'energia vitale di Veronica, il suo
secondo amore, specchio del primo.
Fra una riflessione sull'uomo post-istorico e un'altra sulla metempsicosi (o trasmigrazione delle
anime) questa pellicola fila via contorta, eppure semplice. Se ha un difetto quello è infatti:
annunciare temi profondi, senza tuttavia approfondirli. Viceversa il suo pregio è secondo me
connesso appunto al suo difetto, cioè: stuzzica la nostra curiosità e ci illumina talvolta con
riflessioni preziose, senza però mai risultare pesante. Paradossalmente la pesantezza del film è più
nella forma, se vogliamo, che nel contenuto. Sembra e lo è in effetti il film di un accademico,
Coppola, tratto dal romanzo di un altro accademico, Eliade; con la sola eccezione, che l'uno è
accademico di cinema e l'altro di religioni.
Se proprio si vuol trovare una pecca alla filmografia coppoliana è un certo manierismo formalista.
Pensiamo, oltre a Un'altra giovinezza, alla trilogia del Padrino, o ad Apocalypse now, e non
possiamo non notare un gusto quasi ossessivamente formale in chi sta dietro la macchina da presa,
che tuttavia si lascia ampiamente perdonare grazie alla profondità doestoevskijana dei personaggi,
nessuno dei quali è solo buono o cattivo, ma tutti doppi come il professor Dominic Matei di
Un'altra giovinezza, o come il capitano Willard di Apocalypse now, o infine come il boss Michael
Corleone del Padrino. Nessun uomo è solo buono o cattivo, sembra volerci dire Coppola. E Dio
solo sa quanto sia vera quest'affermazione...
3. Rivoluzione e religione
La mia idea è che le rivoluzioni siano state eventi necessari, la cui azione palliativa (badate bene:
non curativa) è servita per ritardare il processo d’inaridimento e desolazione dell’uomo moderno.
Con le rivoluzioni si è sempre voluto infrangere il continuum della storia. Ovvero: l'eterna
ripetizione di un tempo sempre uguale e monotono, che si rinnova di continuo e che per dirlo con il
grande storico delle religioni Mircea Eliade: appartiene alle società arcaiche. Esse tramite i riti di
rinnovamento delle sementi nei campi testimoniavano il loro profondo attaccamento verso usanze
2 Non a caso, il pensiero di Eliade è diretto discendente di quello nietzscheano. Un suo saggio, in particolare, lo
testimonia, mi riferisco a: Il mito dell'eterno ritorno, scritto nel 1945, pubblicato poi nel 1949.
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già consolidate, le quali dovevano riproporsi di generazione in generazione, originando così il mito
dell'eterno ritorno3. Quest'eterna ripetizione del tempo sarebbe irredimibile e ci condurrebbe alla
disperazione di una visione non finalistica della storia, a meno che non aderissimo a una visione
storica che tenga ben presente la nuova categoria della fede. Nuova perché introdotta dal giudeocristianesimo e da una figura su tutte: Cristo. Egli ha saputo sobbarcarsi su di sé la croce del mito
dell'eterno ritorno riuscendo a rivoluzionare a tal punto la nostra visione del tempo da diventare un
autentico spartiacque fra un tempo prima e uno dopo la sua venuta.
Aggiungo anche, con René Girard, che egli è stato capace di superare lo sbarramento posto dalla
vecchia logica vetero-testamentaria del sacrificio rituale e di tutti i meccanismi di capro-espiatorio.
Immolandosi sull'Altare dell'umanità, Cristo ci ha consegnato un mondo migliore: non più legato a
logiche tribali e a leggi del taglione. Un mondo nel quale il comandamento supremo è «amerai il
prossimo tuo come te stesso»4, compresi i tuoi nemici. Sintetizzato, poi, dal prezioso insegnamento
da “cioccolatini Perugina” agostiniano «ama e fa ciò che vuoi». L'amore prima di tutto, insomma.
La possente categoria della fede, dunque, può essere un'arma davvero utile. Se ben calibrata, essa
permette la sopportazione del peso gravoso della storia, sia rifugiandosi nel mito dell'eterno ritorno,
alla maniera dell'uomo arcaico, che nell'idea di Dio, alla maniera dell'uomo moderno. Le altre
categorie, filosofiche o meno, conducono l'essere umano, tutte immancabilmente e senza eccezioni,
alla disperazione più terrificante. Il falso mito della ragione non può in alcun modo tenere testa al
potere riconciliante delle religioni.
L'indispensabilità delle religioni in un'ottica salvifica dell'umanità è tanto più importante al giorno
d'oggi, se consideriamo la capillare infiltrazione di filosofie che scartano l'idea di Dio, siano esse:
nichiliste, esistenzialiste, relativiste. Anche se persino Martin Heidegger, ovvero uno dei maggiori
esponenti della corrente esistenzialista novecentesca, al termine della sua riflessione filosofica ha
ammesso che: «Ormai solo un dio può salvarci». Chissà, forse, perché si è reso conto dell'inutilità di
formulare un'ennesima metafisica che segua la linea già tracciata da Nietzsche, ossia del famoso
detto: «Dio è morto». Poiché, in fin dei conti, dire ciò equivarrebbe a dire che l'uomo è morto.
Poiché è risaputo come l'idea di Dio sia nata insieme all'uomo, che ne è talmente connaturato da
non poterne fare a meno.
Allacciandomi al già citato Eliade: la concezione migliore avutasi con la proliferazione del giudeocristianesimo è stata la sacralizzazione del tempo, del tempo paolino dell'unica volta a dispetto del
tempo nietzscheano, e delle società arcaiche, dell'eterno ritorno. Concezione, questa, che ha reso le
3 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007.
4 Mt 22, 39.
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nostre esistenze tanto più preziose in quanto uniche e irripetibili. Ogni esperienza che viviamo
nell'arco della nostra esistenza – infatti – la viviamo un'unica volta, ecco il senso profondo della
concezione temporale paolina.
Prendendo a prestito una metafora eraclitea: è un po' come quando ci si bagna più volte nell'acqua
di un fiume, non bagnandosi mai tuttavia nella stessa acqua, bensì in un'acqua continuamente
rinnovata. Per ciò si usa l'espressione sacralità del tempo: il tempo viene letteralmente sacralizzato.
La concezione del tempo profano precedente, invece, dava ad intendere che non c'era niente di
davvero sacro, poiché ogni singolo rito veniva ripetuto ciclicamente nello stesso e identico modo.
Prima del giudeo-cristianesimo, infatti, vigeva un'indiscriminata profanazione del tempo, in quanto
non vi era distinzione alcuna tra sacro e profano. Tutto prima era soltanto profano. Tutto dopo
divenne sacro, ossia dopo la materializzazione sullo scacchiere della storia della poetica e
rivoluzionaria figura di Cristo. Poetica perché professante un amore incondizionato. Rivoluzionaria
perché fautrice della dimensione originaria che è in ognuno di noi, la cosiddetta: scintilla divina
degli gnostici.
A sua volta la religione giudeo-cristiana è strettamente imparentata col mito dell'eterno ritorno;
difatti, numerosi riti del secondo – ci dice Eliade – sono sopravvissuti e si sono integrati nel primo,
in un perfetto connubio sincretistico. Si veda, tra tutti, l'anno cristiano la cui ripetizione ciclica è
palesata dal suo calendario liturgico: il Natale testimonia la Nascita, la Pasqua invece la Morte e
successiva Resurrezione. Quindi il giudeo-cristianesimo ha conservato l'usanza dei culti precedenti
di edificare il suo nuovo culto sulle antiche e già consolidate radici del precedente. Questo per non
disorientare troppo i suoi credenti e fornire ad essi delle coordinate cultuali già preordinate. Proprio
la ciclicità dell'anno cristiano rivela la lontana parentela del giudeo-cristianesimo con i culti delle
società arcaiche legati alla rigenerazione illimitata del tempo, seppur esso ha saputo orientare il
tutto in chiave prettamente escatologica/finalistica; ovvero, per i cristiani, a differenza dei pagani, ci
sarà una Fine – il Giorno del Giudizio – a tutta la sequela di fini tronche e provvisorie fin qui
succedutesi. Questa Fine richiama l'idea già enunciata da Platone nel libro decimo della Repubblica
e più precisamente nel mito di Er, secondo cui: bisogna comportarsi bene in questa vita, se non si
vuol affrontare successive reincarnazioni in vite più sfavorevoli.
In estrema sintesi, l'idea platonica – anticipatrice di quella che poi sarà anche l'idea cristiana – è che
presto o tardi dovremmo tutti fare i conti con la giustizia divina, che non è fallace come quella
umana. Questa è anche, a dire il vero, l'unica consolazione che rimane al vecchio Jean-Jacques
Rousseau, quello – tanto per intenderci – delle passeggiate solitarie, che si vede vittima di un
complotto molto più grande della sua umana, dunque limitata, comprensione.
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Nonostante l'escathon cristiana annunciante la fine della storia, il mito dell'eterno ritorno sopravvive
persino nel giudeo-cristianesimo, poiché vi è un'ineludibile e intrinseca difficoltà dell'uomo a
rapportarsi con l'idea della Fine, sia essa la propria o quella dell'intera umanità. Finché l'uomo sarà
uomo: per ogni Fine ci sarà un nuovo Inizio. Forse è per ciò che lo scrittore aforistico tedesco Karl
Kraus – ripreso da Walter Benjamin nelle sue Tesi sulla storia – ha scritto che: «L'origine è la
meta».
La vita dell'uomo arcaico è imitazione dell'archetipo 5 divino. Da un lato si deve considerare che nel
suo antropomorfismo di fondo l'uomo proietta sulle divinità alcuni suoi spiccati caratteri e aspetti
«umani troppo umani» direbbe Nietzsche. D'altro lato, invece, si consideri il dualismo platonico,
secondo cui: la «Città interiore»6 deve fare i conti con una esteriore. Quella interiore esiste solo nei
più alti discorsi degli uomini ed è atta a perfezionare le imperfezioni di quella esteriore. Senza lo
stimolo di questa «Città interiore» quella esteriore cadrebbe presto in rovina. Ecco spiegato il
perché dell'utopia platonica, come di ogni altra utopia del resto, che è tendere al miglioramento
incessante.
Da non confondere, però, il tema del miglioramento con quello del progresso. Spesso usati come
sinonimi, migliorare e progredire in realtà non lo sono affatto. Infatti si può migliorare senza per
ciò progredire. Il miglioramento non coincide con il progresso se si crede nell'irripetibilità dello
stato di natura rousseauiano, vale a dire: nell'età dell'oro dell'umanità secondo la mitologia greca, o
dell'eden perduto secondo la religione giudaico-cristiana. Perché chi dice che le leopardiane
«magnifiche sorti e progressive» siano l'unica via al miglioramento? E poi ancora, chi dice che
invece del progresso, se si crede davvero nel rousseauiano stato di natura (pre-morale e pre-sociale),
non sia preferibile il regresso? Regresso inteso come ritorno alle vere origini dell'uomo, quando la
società non l'aveva ancora intaccato come fecero i marosi con la statua del Glauco marino. Per
attuare un simile regresso c'è bisogno di una definitiva Rivoluzione, confidando nell'etimo della
parola revolvere, cioè tornare indietro. E dove tornare se non in illo tempore, ovvero nel tempo
dell'inizio?
Ammettiamo con ciò che «l'origine è la meta» per dirlo con Karl Kraus. La meta finale diventa
l'eden ritrovato, cioè riscoprire la condizione originaria. Il più terribile dei mali dell'uomo, la morte,
ad esempio, secondo l'ottica del giudeo-cristianesimo non è che il triste retaggio della nostra
cacciata dal giardino dell'eden. Se ritroveremo il nostro paradiso perduto – ma mai dimenticato –
potremo riconquistare la nostra immortale condizione di beatitudine.
5 Termine derivante dal greco arché, principio, e tipos, modello.
6 Platone, Repubblica, 592 B.
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4. Il tempo dell'inizio
Ogni concetto umano è ispirato a un fantomatico concetto divino. L'atto di consacrazione di uno
spazio, al fine di renderlo abitabile, equivale a tramutare il «caos» in «cosmos», afferma Eliade:
«Gli innumerevoli gesti di consacrazione […] tradiscono l'ossessione del reale, la sete del primitivo
per l'essere»7. Di solito ciò che sancisce il rito della consacrazione è il sacrificio fondativo, che
secondo lo studioso francese René Girard è il fondamento stesso della nostra civiltà occidentale 8.
Lui è convinto che solamente con l'avvento di Gesù Cristo si è passati dalla logica della violenza
vetero-testamentaria a quella dell'amore neo-testamentaria. Per ciò dovremmo convenire che Cristo
stesso non volle rompere con la tradizione, ma semmai innovarla. Ciononostante gran parte
dell'ebraismo non si convertì al cristianesimo e non riconobbe mai la natura divina di Cristo.
Tuttavia questo non ha impedito lo stacco decisivo dal Dio ebraico violento e vendicativo al Dio
cristiano amorevole e misericordioso.
Il «simbolismo del centro» è la pietra angolare fondante ogni civiltà umana. Dice Eliade:
Le città e i luoghi santi sono assimilati alle cime delle montagne cosmiche. Per questo Gerusalemme e Sion
non sono state sommerse dal diluvio. [...] La sommità della montagna cosmica non è soltanto il punto più
alto della terra, ma è anche l'ombelico della terra, il punto in cui ha avuto inizio la creazione. […]
L'antichissima concezione del tempio come imago mundi, l'idea che il santuario riproduce il tempio nella sua
essenza, si è trasmessa all'architettura sacra dell'Europa cristiana: la basilica dei primi secoli della nostra èra
e la cattedrale del medioevo riproducono simbolicamente la Gerusalemme celeste. 9
Oltre alle creazioni della natura, quali le montagne, e quelle dell'uomo, quali i templi antichi e
moderni, tutto riporterebbe alla «simbologia del centro». Il centro infatti è il luogo d'origine del
sacro. È risaputo il richiamo mistico di elevazione spirituale proprio delle montagne, dove l'uomo,
scalandole, pretende se non di ascendere al divino, quanto meno di approssimarsi ad esso. Se il
«centro» dunque delimita lo spazio per antonomasia del sacro, tutto ciò che è al di fuori di esso è
profano, ossia quel luogo degradato dove il divino cede il passo all'umano. Si dice umano tutto ciò
che è decomponibile, ovvero che è sotto la tirannia della morte e corruzione della materia.
La ripetizione rituale è ciò che caratterizzava tutte le popolazioni arcaiche. V'è una sola fondazione,
a dispetto di molte creazioni. Le seconde, le creazioni, non sono che ripetizioni della fondazione
archetipica-originaria. La fondazione è avvenuta una volta sola e ha gettato le fondamenta, poggiate
sull'abisso, dell'esistenza umana. Tale abisso è costituito dal nulla eterno della morte. È possibile
7 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p. 20.
8 Girard, R., Il sacrificio, Milano, 2004.
9 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, pp. 24-25-26.
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superare quest'ultima, secondo l'ottica fideistica-religiosa, per mezzo di un passaggio a “miglior
vita”.
Una delle religioni più nichiliste quali il buddhismo, è tutta incentrata sul principio del nulla, il
nirvana, che rappresenta l'annullamento del ciclo di morti e rinascite. Pure la filosofia occidentale
tramite il suo padre-fondatore, Platone, concepisce il paradiso come luogo di annullamento di ogni
separazione e di pura contemplazione del bello o vero 10, vedi l'Iperuranio, ossia il sopra-mondo
delle idee del quale è un riflesso sbiadito il sotto-mondo delle copie: copia imperfetta della copia
perfetta. Per ciò il più importante neoplatonico, Plotino, ha collocato nell'Uno il vertice più alto del
suo pensiero, che in età tardo-imperiale viene poi mischiato al culto di Mitra, Eliogabalo e a quello
del Sol Invictus. Specie quest'ultimo ha avuto un ruolo cruciale nell'affermazione della religione
cristiana in seno all'Impero romano. Una coincidenza nient'affatto casuale fa cadere il giorno della
nascita di Gesù proprio il 25 dicembre: giorno natale pure del Sol Invictus.
Persino la stessa religione cristiana è da taluni 11 accusata di nichilismo, anche se Eliade ci vede
piuttosto un superamento delle antiche concezioni legate ai miti dell'eterno ritorno, poiché in essa vi
è il trionfo del tempo unico su quello ciclico.
Il tema della fondazione ne ripropone uno altrettanto scottante: quello dell'inizio. Tale inizio ha
strettamente a che fare con la consacrazione anche se non più di uno spazio, bensì di un dato tempo.
All'origine infatti per tutti i miti e tutte le religioni vi è un tempo mitico, pre-sacrale, ovvero primadel-sacro. Poiché così come vi è originariamente uno spazio sacro altrettanto vi è un tempo sacro e
questo è il tempo dell'inizio, cioè per dirlo con Eliade:
Con il paradosso del rito, ogni spazio consacrato coincide con il centro del mondo, proprio come il tempo di
un qualsiasi rituale coincide con il tempo mitico dell'«inizio». […] Un rituale qualsiasi […] si sviluppa non
soltanto in uno spazio consacrato, cioè essenzialmente distinto dallo spazio profano, ma anche in un «tempo
sacro», «in quel tempo» (in illo tempore, ab origine), cioè quando il rituale è stato compiuto per la prima
volta da un dio, da un antenato o da un eroe.12
La consacrazione è per l'immaginario mitico-religioso l'equivalente della distinzione per quello
filosofico. Infatti si consacra per distinguere, ossia separare/discernere, il sacro dal profano.
Gli uomini sin dalla notte dei tempi non hanno fatto che ripetere i loro atti o gesti rituali ispirandosi
a presunti «modelli divini». La religione giudaico-cristiana, ad esempio, prevede il riposo del
«settimo giorno» poiché in tale giorno il suo Dio si è riposato dopo l'atto della creazione. Lo stesso
10 Per la filosofia platonica i concetti di bello e vero sono pressoché sinonimi.
11 Si veda: Dostoevskij, la leggenda del Grande Inquisitore contenuta ne I fratelli Karamazov.
12 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p. 29.
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discorso vale per i seguaci di Dioniso13, che nel ripetere ritualmente i riti orgiastici non fanno che
commemorare le gesta mitiche – ossia risalenti al mito – del loro dio; vale altrettanto per il rito del
matrimonio, che ha un corrispondente modello divino nella ierogamia14, ovvero «l'unione tra il cielo
e la terra»15. Dal cielo infatti proviene il nutrimento, la pioggia, necessario per fertilizzare la terra. Il
che è precisamente quanto avviene nell'atto amoroso fra l'uomo e la donna, laddove il primo
simboleggia appunto il cielo fertilizzante e la donna invece la terra gravida. Il matrimonio fra
Didone ed Enea, raccontatoci da Virgilio nell'Eneide, con l'abbraccio dei due novelli sposi
simboleggia la congiunzione degli elementi dispensatori di vita. Per ciò la loro unione viene
celebrata in mezzo a una pioggia battente che ha per scopo l'adempimento dell'inseminazione della
terra.
Altri esempi di questo tipo pullulano nella letteratura occidentale, Eliade ci porta quelli di Demetra
e Giasone unitisi in primavera, ossia proprio nel momento dell'anno in cui la terra è fresca di
semina. Un dato rilevante dimostra come soprattutto nel centro-nord Europa, fino a non molto
tempo fa, era frequente l'«unione simbolica delle coppie nei campi» 16; altrettanto avveniva in Cina.
Quest'usanza – dunque – era comune sia all'Occidente che all'Oriente, e di conseguenza a tutti i
culti. Tant'è che Eliade afferma: «L'assimilazione dell'atto sessuale e del lavoro dei campi è
frequente in numerose culture»17.
In sostanza: sia i riti orgiastici che matrimoniali c'insegnano che l'intera vita umana è poggiata su
basi extra-umane.
5. Ridiventare bambini
Ripetere un gesto archetipico vuol dire riattualizzarlo, renderlo di nuovo attuale. Fa parte di questo
processo di «riattualizzazione» il ripetersi delle guerre. Esse sono evidentemente fondate su motivi
irrazionali, altrimenti sarebbero inspiegabili le carneficine che ne derivano. Quindi, le guerre e non
solo – anche i duelli o le edificazioni – hanno una precisa origine rituale, il cui motivo ispiratore è
riattualizzare «quel» tempo mitico quando tutto ha avuto inizio. Lo studioso di religioni Georges
Dumézil, nel suo Gli Dèi dei Germani, ha gettato luce sull'origine archetipico-divina dei conflitti
umani18. Chiarificatore è l'esempio della religione guerresca dei vichinghi, che si origina dallo
scontro epico fra due schiere di divinità: gli Dèi Asi e i Vani. Nell'ottica di questa mitologia
religiosa che vede nella guerra il suo fulcro costitutivo è spiegabile la notevole bellicolisità che ha
13 Otto, W.-F., Dioniso, Genova, 2006.
14 Tali unioni prendono il nome dal termine greco hieros gamos, che significa matrimonio sacro.
15 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p. 32.
16 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p. 33.
17 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p.34.
18 Dumézil, G., Gli Dèi dei Germani, Milano, 1991.
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contraddistinto durante tutto l'arco della storia le popolazioni germaniche del centro-nord europeo.
Del resto, se il loro orizzonte mitico-religioso traeva spunto da combattimenti incessanti e se gli
stessi vichinghi s'immaginavano il loro paradiso come un luogo dove ci si divideva fra due
occupazioni soltanto, banchettare e guerreggiare, non si poteva pretendere che essi sviluppassero
un'indole pacifica. La guerra è inscritta profondamente nel DNA di queste popolazioni, che hanno
mantenuto questa loro peculiarità fino in epoca recente. Non è un caso, infatti, che il degenerativo e
drammatico fenomeno del nazionalsocialismo si sia originato proprio in Germania e non altrove.
Con ciò non si vuol insinuare alcunché di capzioso, bensì constatare un'evidenza, con tutto il carico
di responsabilità che ne consegue.
Il detto eracliteo secondo cui «il carattere è il destino di un uomo», a quanto pare si può estendere
anche a un popolo al cui carattere, spesso e volentieri, coincide – nel bene e nel male – un destino.
Tuttavia, ponendo il freno a un certo fatalismo di circostanza, che non si vuol qui minimamente
lasciar passare, è pur vero che conoscendo il nostro carattere possiamo decidere di cambiare il
nostro destino. Altrimenti non avrebbe più senso la logica del libero arbitrio, che si deve preferire
per il nostro bene a quella della predestinazione. Poiché se niente può essere cambiato, niente
avrebbe più senso. Laddove, invece, proprio il senso è il tessuto connettivo delle nostre esistenze. E
appunto trovare un senso è lo scopo più alto e nobile dell'esistenza umana.
Conoscere le forze soverchianti che ci schiacciano, non vuol dire semplicemente arrendersi ad esse.
L'amor fati è la scelta più avvilente che una persona possa fare, sia dal punto di vista pratico che
teoretico. Affidarsi ciecamente al detto orientale secondo il quale «non importa a che ora ci si alzi al
mattino tanto il nostro destino si alza un'ora prima di noi» è assurdo quanto da vili. Magari è inutile
tentare di cambiare le sorti della tela della nostra esistenza già decise da Àtropo, una delle tre Moire
secondo la mitologia greca, le altre due sono Clòto e Làchesi. Ma tentare è ciò che trasforma le
nostre semplici vite in: vite eroiche...
A tal proposito, ci viene in aiuto la suddetta mitologia, con l'esempio edificante dei Titani, i figli
ribelli degli Dèi, i quali tentarono di spodestare i loro padri dall'Olimpo, malgrado le loro speranze
di riuscita si approssimassero allo zero.
Nel periodo romantico furono in molti a rivalutare la leggenda dei Titani e da ciò in letteratura
derivò il termine titanico, per denotare quelle imprese che, pur perse in partenza, vale la pena
combattere. Certo, si obietterà su che senso abbia conseguire tante “vittorie di Pirro” quando si è
destinati a perdere l'ultima battaglia, quella decisiva, riguardante la nostra sopravvivenza. A
quest'obiezione mi sento di rispondere, dicendo che forse il senso sta appunto nel tentare
l'intentabile, la scalata all'Olimpo, affinché non sia mai detta l'ultima parola e magari un giorno si
possa trionfare come nelle nostre più rosee utopie, o quanto meno si possa dire il giorno della resa:
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ho tentato, che equivale un po' a dire ho vissuto.
Senza il coraggio di un simile titanico tentativo crollerebbe l'edificio del senso. Come se ciò non
bastasse, una volta caduto il senso trionferebbe la logica nichilista del «tutto è permesso», della
quale si fa portavoce il personaggio dostoevskijano Ivan Karamazov 19. Se tutto fosse davvero
permesso non avrebbe più senso scegliere di vivere e morire, poiché essendo tutto permesso e ogni
cosa insensata, la scelta stessa diventerebbe indifferente. Chi possiede un carattere titanico crede
ancora, invece, nel potere della scelta. Secondo questi è bene scegliere di vivere ed eventualmente
morire dando un senso a quanto si è fatto in vita. Poco importa, poi, che tale senso sta ad ognuno
trovarlo strada facendo.
Senso e scopo sono in quest'ottica perfettamente sinonimi. Questo è il non indifferente traguardo
raggiunto dalla filosofia esistenzialista: atea. Per chi ateo invece non è l'equivalente del senso/scopo
è facilmente rintracciabile nel principio di Dio.
Per il credente Dio è l'origine e la meta del suo cammino su questa terra. Da qui in avanti, però, la
filosofia non può più incamminarsi e sconfina nel territorio off limits della teologia, che è proprio la
scienza di Dio. Non a caso uno dei più grandi filosofi esistenzialisti dello secolo scorso, Martin
Heidegger, nei suoi ultimi lavori teoretici sconfinò decisamente nella teologia. Alcuni dei suoi più
acerrimi nemici lo accusarono per questo di misticismo. Accusa senz'altro infamante per un filosofo
illuminista, complimento invece per uno romantico. In ogni caso non poi così terribile, visto che la
storia c'insegna che il mistico è colui che scopre Dio in ogni singolo ciuffo d'erba e questa è per me
una buona cosa.
Il mistico è un credente eccezionale, intendendo con ciò l'eccezione e non la regola. Egli non ha
bisogno di provare con degli espedienti retorici l'esistenza di Dio (come fa invece il teologo), ma lo
sente dentro di sé e lo vede in ogni manifestazione del creato. La fede del mistico è incarnata dalla
sua stessa esistenza, dedita all'adorazione quotidiana di Dio; adorazione che è anche un'immersione
panica nel tutto della natura. (Ricordo, infatti, che tutto deriva dal greco pan e Pan è appunto il dio
greco della natura.) Hölderlin definisce questo sentimento d'immersione panica «sentirsi uno con il
tutto». Sentendosi parte di questo tutto il mistico crede nel continuo flusso e riflusso dell'energia
vitale, sente di essere eterno perché si riconosce nel perdurare della natura, quasi che: finché c'è
natura, per lui c'è anche speranza d'immortalarsi in essa.
Eliade afferma che: «La luna è il primo morto, ma anche il primo morto che risuscita» 20. Con ciò
egli vuol dirci che la luna è il simbolo per eccellenza della rigenerazione ciclica, o meglio della
morte e rinascita della vita, ancor prima del dio greco Dioniso21 o del Figlio unigenito del Dio
19 Dostoevskij, F., I fratelli Karamazov, Milano, 2003.
20 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p. 89.
21 Gli aggettivi dionisiaco e lunare vengono usati in maniera quasi sinonima.
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cristiano. Ecco spiegato perché le fasi lunari vanno di pari passo con le fasi di morte e rinascita
della vita. Ogni organismo vivente nasce, cresce, s'indebolisce e infine muore. La morte è il ritorno
all'informità, al nulla. La nostra arbitraria suddivisione del tempo nell'arco di un anno solare
racchiude il significato stesso (allegorico) della morte: ciascun anno muore per lasciare il posto
all'anno entrante. Il rinnovamento di quest'ultimo è necessario per il rafforzamento del ciclo
inesorabile della vita. «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma» c'insegna Lavoisier. Ciò
implica un ritorno: al «caos», all'«orgia», alle «tenebre», all'«acqua», all'«Atlantide» 22. Senza questo
ritorno sarebbe impossibile la rigenerazione-rinascita: del cosmo, della società, dell'agricoltura,
della vita umana e della storia.
Il più convinto promotore, tra i filosofi, del mito dell'eterno ritorno, Friedrich Nietzsche, nello
Zarathustra sostiene che: «Bisogna aver un caos dentro di sé per generare una stella danzante». Con
ciò lui vuol dire esattamente che è impossibile concepire alcunché d'importante senza considerare
che alla base di ogni nuova creazione c'è l'annichilazione del vecchio. Ecco perché ci parla di una
trasmutazione dei valori; del ridare, cioè, un nuovo valore ai vecchi valori, instillando in essi una
nuova linfa per sopravvivere ai tempi che corrono. L'uomo invecchia, secondo Nietzsche, così come
i valori fondati dall'uomo. Colui che non è disposto a ri-fondarli e ri-valutarli ciclicamente è da
considerarsi uno stolto. S'inscrive in questo ragionamento la sua Maledizione del cristianesimo. La
religione cristiana per Nietzsche costituisce appunto un retaggio dell'uomo arretrato, che non è più
al passo coi tempi.
Se i tempi cambiano è perché il tempo scorre. Tale scorrimento del tempo produce in noi uno
scollamento da questa vita, che sentiamo sfuggirci... ogni nostro respiro è un miracolo, più
esattamente è il miracolo stesso della vita. La nostra precarietà temporale (siamo nel tempo ma non
sappiamo per quanto ancora) fa di noi delle creature malate di tempo. Per sanare la nostra precaria
condizione dovremmo recuperare la nostra purezza/innocenza perduta. Come sentenzia Gesù coi
suoi discepoli: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non
entrerete nel regno dei cieli [...]»23. La purezza/innocenza dei bambini è la meta ambita da tutti i
mistici-panteisti che s'incamminano sulle orme di Dio. In ciò aveva visto giusto Giovanni Pascoli,
escogitando la figura del «fanciullino»; non esiste condizione più beata in terra di quella del
bambino e ridiventare bambini è comprensibilmente l'unica nostra possibilità di riconnetterci alla
dimensione originaria perduta, a causa del peccatum originale.
L'eudaimonia, beatitudine, e l'enthusiasmos, entusiasmo, dei bambini è quanto di più si avvicina
alla condizione dell'uomo avutasi, per dirlo con Eliade: in illo tempore, «in quel tempo», ovvero nel
tempo dell'inizio.
22 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p. 90.
23 Mt 18,3.
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6. Il pastore, il serpente e l'eterno ritorno
Secondo Eliade le «profondità acquatiche» simboleggiano la vacuità dell'inizio. Del resto, la vita si
è originata in una pozza d'acqua; e senza di essa non ci sarebbe stata vita sul nostro Pianeta. I primi
organismi viventi hanno proliferato nell'acqua e non sulla terra, perché nella seconda mancavano i
presupposti; la prima – invece – conteneva nutrimento e ossigeno, non si aveva bisogno di apparati
complessi per respirare, nutrirsi, muoversi... nell'acqua è avvenuta la mutazione dal «caos» al
«cosmos», ovvero: il passaggio dall'informità alla formazione della materia organica e delle prime
forme di vita unicellulari24. Ciò per quanto riguarda le origini della vita. Mentre per quel che
concerne le origini del pensiero bisogna risalire all'antica Grecia.
Il filosofo che per Eliade incarna meglio la «mentalità primitiva» è Platone, che non per questo ne
esce in qualche modo sminuito filosoficamente. Infatti è riconosciuto a Platone di aver fatto quanto
ha potuto «con i mezzi dialettici» arretrati della sua epoca. Basti pensare alla sua teoria delle idee,
la quale non fa che riferirsi a un modello archetipico superiore. Per il co-fondatore, insieme a
Socrate, della filosofia occidentale ogni cosa presente nel sotto mondo è l'immagine sbiadita
dell'idea originaria di quella determinata cosa, ben più vivida, nel sopra mondo delle idee:
l'Iperuranio. Quando Eliade sostiene che l'ontologia «primitiva» dell'uomo arcaico aveva
decisamente una «struttura platonica»25 non si discosta troppo dal vero.
I re dell'antichità, come i faraoni, ad esempio, davano alle loro gesta una valenza extra-umana, che
richiamava le gesta della divinità. Non a caso il rapporto degli antichi con la storia è sempre stato
problematico; per sopportarne il peso si affidarono alla ripetizione ciclica di rituali e archetipi
sempre identici. In quest'ottica i faraoni venivano divinizzati dai loro sudditi, i quali vedevano in
loro l'emanazione del divino. Riconoscere nel faraone il dio-Ra significava per gli Egizi perpetrare
la linea di continuità con la loro storia mitica. Le popolazioni arcaiche, ci spiega Eliade, si
difendevano dall'irreversibilità e novità della storia opponendo il loro modello rituale reversibile e
antico, ereditato dalle loro divinità creatrici.
Il tema dell'abolizione della «storia» è alla base dei miti dell'eterno ritorno. Tali miti venivano usati
dall'uomo arcaico per difendersi dalla tirannia della storia, che con il suo inarrestabile corso li
disorientava costringendoli ad escogitare un rimedio estremo, che spesso consisteva nel rifiuto
radicale della stessa. Siccome li spaventava, la storia era del tutto accantonata dagli antichi, che
tendevano a livellare tutto, ad appiattire cioè ogni evento uniformandolo al sistema del rito, avente i
suoi cicli e i suoi modelli extra-umani. Il rito in realtà altro non è che la rigenerazione ciclica della
cosmogonia. Intendendo con rigenerazione una rinascita, ovvero: «nuova nascita». L'«anno nuovo»
24 Quelle pluricellulari si sarebbero sviluppate solo in seguito.
25 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p. 42.
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rappresenta l'avveramento del rito della rigenerazione-rinascita cosmogonica. Ogni anno vi è
l'eterna ripetizione della cosmogonia.
L'eterno ritorno assume – di solito – le figure del serpente, poiché esso «simboleggia quasi ovunque
ciò che è latente, preformarle, indifferenziato»26. Esso rimanda all'unità primordiale e
indifferenziata, alle atmosfere notturne; in breve, alla notte dei tempi quando ciò che era latente,
preformale e indifferenziato ha preso forma. Il serpente è la vita che si rigenera di continuo, che
ricaccia indietro la morte. Il suo mordersi la coda racchiude il mito dell'eterno ritorno, e cioè: il
punto di congiunzione tra l’inizio e la fine, fra il passato e il futuro, che s’incontrano nell’a-t-t-i-m-o
faustiano.
Tutto ciò sta a significare il deprezzamento della storia operato dagli antichi. Essi – inoltre –
opponevano al tempo e allo spazio profano il loro tempo e spazio sacro. Con ciò davano, seppur a
modo loro, una valorizzazione metafisica all'esistenza umana. Laddove – invece – la filosofia
novecentesca, a cominciare da Nietzsche, proprio nella metafisica ha scovato il male dell'uomo
moderno, che per curare le proprie afflizioni deve ritornare all'Esperia 27 della mitologia greca, vale a
dire: a quel luogo mitico dove tutte le mele sono d'oro.
L'uomo nietzscheano guarito da ogni male metafisico ha il volto del pastore dell'enigma dello
Zarathustra. È il Tristano di Wagner – che ben conosceva e apprezzava Nietzsche – poiché «il
sonno morboso del pastore nietzscheano è simile al sonno di Tristano malato» 28. La filosofia di
Nietzsche incita a vivere e agire. Per far questo è decisiva la volontà di potenza, che è affermazione
della vita e rifiuto della morte. Per meglio dire: egli dà valore unicamente alla vita. E per ciò porta
l’esempio degli antichi desiderosi di vivere dimentichi della storia e dei moderni – al contrario –
malati di vivere e di storia29.
Nietzsche nei suoi scritti c'invita a rispolverare i vecchi miti pastorali, di una civiltà sanata sotto
ogni aspetto. In essa sì che ci si poteva ancora immergere in un sonno ancestrale e ristoratore,
capace di conciliare tutti i propri demoni e di farci risorgere con un sorriso. Proprio come fece il
dio-sorridente Dioniso Zagreo rinato a nuova vita dopo esser stato fatto a pezzi dai Titani.
Si può accostare il pensiero fatalista di Nietzsche a quello dell'imperatore-filosofo Marco Aurelio
Antonino, secondo il quale: «La morte sorride a tutti, un uomo non deve fare altro che sorriderle di
rimando». Esso non va, però, male interpretato. In realtà si può imparare da esso la leggerezza del
vivere bene fino in fondo la nostra vita, pur essendo però consapevoli della sua limitatezza. Tale
26 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p. 73.
27 Dal greco Hespería, in latino Hesperia. Secondo la leggenda l'Esperia si trova nell'estremo Occidente del mondo,
oltre i confini della terra abitata.
28 Biondi, G., L'enigma della serpe secondo Nietzsche, Roma, 2001, p. 20.
29 Sulle controindicazioni derivate da un culto eccessivo della storia, si veda: Nietzsche, F., Sull'utilità e il danno della
storia per la vita, Milano, 2001.
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aforisma dovrebbe insegnarci piuttosto a goderci ogni istante delle nostre esistenze, le quali proprio
in quanto serie di unici istanti sono tanto più preziose. D'altronde l'essere-per-la-morte
heideggeriano ha un senso abbastanza analogo, ovvero: pur sapendo che le nostre esistenze hanno
un punto di arrivo, dobbiamo essere ancor più motivati a far bene durante il nostro cammino, così
da poter sopravvivere nel ricordo di chi verrà dopo di noi.
L'Hagakure – Il codice segreto dei samurai30 recita: «La via del samurai è la morte». Ciò insegnava
ai samurai, guerrieri del medioevo giapponese, a vivere leggeri seppur con consapevolezza e onore;
consapevolezza che per loro si originava dalla conoscenza, senza veli né paure ingiustificate, della
propria condizione transitoria; onore – invece – che traeva spunto da una condotta di vita
impeccabile e al servizio31 del proprio daimyō32.
Nel citato episodio dello Zarathustra il pastore morde e poi sputa la testa del serpente per respingere
il male di vivere dell’uomo moderno, incarnato nella leggendaria figura di Tristano, ossia l’anima
triste per eccellenza. Dopo aver assaporato il più sincero disgusto, questo pastore alias Tristano
riassapora la vita con tutto il suo carico di gioie e sofferenze. Un ruolo essenziale lo svolge il rigetto
del veleno esistenziale contenuto nella testa del serpente. Quest'atto inconsulto – risalente alla
tradizione alchemica – è un atto da Übermensch, da Oltreuomo. Per Nietzsche occorre essere
veritieri, e cioè: spasimanti della verità, poiché essa sola ha il valore di nobilitarci e di elevarci al
rango di Oltreuomini, che significa Uomini dell'Oltre, che oltrepassano ogni barriera posta dalla
morale e dalla metafisica pre-nietzscheana. Per ciò, riprendendo Nietzsche: quello di uomo è un
concetto ormai antiquato33, che va al più presto superato per sancire una catarsi e conseguente
rinascita dell'uomo moderno. Lui è convinto che bisogna comprendere a fondo il mistero
dell'esistenza, fin tanto da imparare ad amarla sopra ogni altra cosa. E il mistero di tutti i misteri è
che non c'è nessun mistero. La vita è una scoperta quotidiana, che si fa solo vivendo.
L'insegnamento – in definitiva – che si deve trarre dall'enigma del pastore e della serpe è che si
deve tagliare la testa al drago e mordere la vita per assaporarla appieno. Rifiutare la morte è l'istinto
più naturale e primordiale di cui disponiamo, ma tale rifiuto si può solo realizzare, accettando la vita
per quel che è. Prima lo capiremo e prima impareremo a vivere meglio.
Il sorriso del dio rinato Dioniso Zagreo è la chiave per comprendere l'enigma della vita, che è quello
di essere vissuta malgrado a volte possa risultarci insensata. Arrendersi alla filosofia del nonsense è
un controsenso, in quanto che cos'è la filosofia stessa se non un'infaticabile ricerca di senso? Vivere
30 Testo imprescindibile per capire la cultura e la mentalità giapponese.
31 Il nome samurai deriva con tutta probabilità dal verbo saburau, che significa servire o tenersi a lato. Dunque – se
preso alla lettera – indica colui che serve.
32 Il daimyō era la carica feudale – equivalente a quella europea di gran signore – più importante fra il XII secolo e il
XIX secolo in Giappone.
33 Per citare il felice titolo di un'opera del filosofo Günther Anders «l'uomo è antiquato».
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memori del monito oraziano carpe diem, senza dimenticare che: ciò che siamo hic et nunc è merito
di tutto ciò che siamo stati e continueremo ad essere finché l'ultimo alito di vita non abbandonerà il
nostro corpo.
Quando Vasco canta che vuole trovare “un senso a questa vita / anche se questa vita un senso non
ce l'ha” cita o plagia, come preferite, Nietzsche. A dimostrazione che cultura alta e cultura popolare,
gira e rigira sempre le stesse cose dicono. Dietro ai paroloni di un filosofo o alle strofe di una
canzone si nasconde un leitmotiv: l'uomo di tutti i tempi e di ogni estrazione sociale continua a
porsi le stesse domande dalla notte dei tempi. E la risposta più convincente, per quanto scontata,
alla quale siamo arrivati è vivere ricercando senso. Solo così magari si potrà essere così fortunati da
trovarlo...
7. L'essere nel tempo
L'orizzonte degli archetipi si differenzia da quello giudaico-cristiano, poiché: il primo trova
compimento in un istante extra-temporale, il secondo invece si compie nel tempo. Il primo è il
tempo ciclico dell'eterno ritorno degli archetipi, il secondo è quello lineare dell'unica volta
giudaico-cristiano. In sostanza, con il giudeo-cristianesimo si è avuta una valorizzazione della
temporalità. Con esso l'uomo ha superato i propri complessi primitivi e si è riconosciuto per quel
che è in effetti: una creatura temporale in quanto è nel tempo. Temporalità, questa, che ha ben
rilevato Heidegger nel suo Essere e tempo34. Poiché è impensabile l'essere dell'uomo senza
connetterlo direttamente al tempo (finito) della sua vita. Per ciò quella heideggeriana può esser
definita come la filosofia dell'esser-ci hic et nunc.
Essere e tempo in realtà sono i due rovesci della stessa medaglia. Ovvero: noi siamo nel tempo e
poi, anche, nello spazio. Pertanto è lecito definirci abitatori dello spazio-tempo. Riportando la frase
d’apertura di Essere e tempo: «L’essenza di un uomo è la sua esistenza»... e dato che essenza ed
esistenza sono la stessa cosa, potremmo dire che l’essenza dell’esistenza è – appunto – esistere per
scoprirlo, così come il segreto della vita è viverla.
La scoperta della dimensione temporale dell'esistenza nella nostra35 cultura è attribuibile al giudeocristianesimo. Tale scoperta ha però aperto una ferita irreparabile nell'animo umano: la caducità.
Infatti, scoprendo il suo essere nel tempo, l'uomo ha compreso la sua condizione di creatura caduca.
Mentre il pensare per archetipi lo aveva confortato, in un certo senso, inscrivendo la sua vita in
un'interconnessione con tutte le altre vite passate-presenti-future. L'uomo arcaico credeva che la
propria vita non fosse che una ripetizione del già-stato. E ciò lo aiutava a sopportare meglio la
propria transitorietà, il proprio essere-di-passaggio-su-questa-terra, poiché appartenente a un piano
34 Heidegger, M., Essere e tempo, Milano, 2006.
35 Con nostra intendiamo la cultura occidentale.
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cosmico più grande di lui e del quale lui non era che una minuscola pedina.
Con l'avvento del giudeo-cristianesimo si verifica una polarizzazione della storia, o meglio ha inizio
la storia vera e propria dell'uomo, che prima era stata solo preistoria, vale a dire: qualcosa di
precedente alla storia. Non a caso, la data di nascita di Cristo funge da spartiacque fra il tempo
prima e quello dopo la sua venuta. Per ciò possiamo considerare la storia umana come teofania, in
quanto libera espressione della volontà divina. Fermo restando, però, che sia l'escatologia giudeocristiana che l'orizzonte salvifico da essa prefiguratoci non rinfranca come l'orizzonte archetipico,
che inscriveva la vita dell'uomo arcaico in un quadro prestabilito e per ciò più confortante.
Il cammino di liberazione dagli archetipi iniziato con il giudeo-cristianesimo è tutto incentrato sulla
promessa della fede e di un mondo migliore di là da venire. Alla monotona e certa routine
dell'uomo arcaico, si è sostituita l'indefinita e incerta utopia dell'uomo moderno, caratterizzato da
continui dissidi interiori. L'intera sua esistenza poggia perlopiù su basi traballanti. Viceversa l'uomo
arcaico sapeva bene a cosa andava incontro ogni giorno, ossia alla stessa confortante e ripetitiva
quotidianità. A tal proposito, Eliade ritiene che il giudeo-cristianesimo ha superato l'orizzonte
limitato degli archetipi, prefigurando così l'avvento di una nuova epoca, moderna, e di un nuovo
uomo, moderno.
Lo stesso Eliade afferma, a proposito della «ontologia arcaica», che: «[…] soltanto tenendo conto di
questa ontologia si giunge a comprendere […] il comportamento, anche il più stravagante, del
«mondo primitivo»; infatti questo comportamento corrisponde a uno sforzo disperato per non
perdere il contatto con l'essere»36. Per superare il nulla della sua vita profana, ossia non ritualizzata,
nella quale scorre piattamente il tempo, l'uomo ha bisogno di scoprire il suo vero essere. Il mito
dell'eterno ritorno può gettare più di una luce sul grande mistero dell'essere. Uno di questi lumi è
senz'altro la concezione circolare della storia, che proprio nel suo continuo ripetersi trova la sua
giustificazione «ontica», la sua – per così dire – metafisica archetipica.
Nel dare significato all'evento originario della cosmogonia – si veda il passaggio dal «caos» al
«cosmos» – l'uomo arcaico voleva rendere significativa, cioè autentica, la sua stessa vita. Ciò che la
modernità ha più smarrito dello spirito dell'antichità è la ricerca spasmodica dell'autentico.
Heidegger parla di vita autentica da contrapporre ad un'altra inautentica, che la nostra società ipertecnologica ci somministra giorno per giorno, avvelenandoci l'esistenza. Chi sceglie di vivere
autenticamente dà piena espressione al suo essere, a dispetto – invece – di chi sceglie di vivere
nell'inautentico dove tutto è incentrato sul potere della diceria. Se seguiamo il filo logico del
pensiero heideggeriano: gli antichi vivevano una vita davvero autentica, governata cioè dal «si fa» e
non dal «si dice», quindi tutta impostata sull'azione e non sull'inazione, che è la negazione stessa del
36 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p. 93.
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fare. Infatti, il maggior pregio degli antichi è che essi facevano in prima persona e non dicevano
soltanto come avviene con noi contemporanei. Noi siamo ancorati all'abietto «si dice» ed essendoci
limitati soltanto a dire ci siamo quasi del tutto scordati della bellezza del fare (diciamo quasi
poiché, tanto per dirne una, l'uomo non ha mai smesso di far danni), del vivere agendo e non
subendo le molteplici circostanze della vita. La differenza fra loro e noi è che: la vita degli antichi
era un prodotto artigianale dell'azione, la nostra un prodotto industriale dell'inazione.
In definitiva, per ritornare all'autenticità degli antichi dovremmo re-imparare a fare di più e a dire di
meno. Il nostro problema (solo apparentemente insormontabile) è che siamo tutti bravi a dire, ma
solo pochi di noi fanno qualcosa realmente o, comunque, non fanno abbastanza. Ci teniamo tutti
occupati, quello sì, ma essere occupati, avere un'occupazione specifica, non significa fare. Per fare
davvero occorre diventare ciò che siamo in potenza e non so voi ma il solo modo che io conosco è
seguire la propria vocazione, comportarsi diversamente significherebbe svendersi al miglior
offerente. E malgrado la crisi, non è ancora arrivato il momento delle svendite...
8. Antipatia per la storia
Un certo atteggiamento antistorico è sopravvissuto all'orizzonte degli archetipi e si è tramandato in
quello del giudeo-cristianesimo. Infatti, nella tacita e passiva accettazione della storia da parte dei
giudeo-cristiani si cela una loro insofferenza verso la medesima, vissuta più come ostacolo per la
loro liberazione che come tramite per permettere la realizzazione del loro piano escatologico.
Sia la concezione archetipica che quella giudeo-cristiana, dunque, sono rivelatrici di un comune
sentire antistorico, vuoi dell'uomo arcaico e vuoi anche di quello moderno-contemporaneo.
Entrambi si pongono in una posizione di lotta contro la storia, avvertita come un macigno
insostenibile che, alla maniera di Sisifo, si deve ogni volta far rotolare giù dalla rupe per poi
riprenderlo e ripetere il gesto in un'eterna espiazione, fine a se stessa.
Tuttavia è facilmente spiegabile l'antipatia congenita dell'uomo di ogni epoca e dimora per la storia,
inquadrando la dimensione storica in quella temporale. Per l'uomo la storia ha sempre rappresentato
il tempo e quest'ultimo altro non è che il suo sommo tiranno, che gli frappone davanti lo scoglio
invalicabile della mortalità. Per questo l'uomo da sempre mal sopporta il tempo storico, ovvero: il
tempo della propria storia, con il quale ha tutt'al più imparato a convivere forzatamente, senza
sviluppare un sentimento di reciprocità con esso.
Eliade sostiene che: «La progressiva decadenza dell'uomo è segnata nella tradizione buddistica da
una continua diminuzione della vita umana» 37. Tra i precursori della modernità – proprio per ciò
incompreso dai suoi contemporanei – vi è senza dubbio Rousseau, anticipatore dell'idea moderna di
37 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p. 115.
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decadenza dell'uomo. Questi è nato in seno a Madre Natura e solo poi si è trasformato in creatura
doppia e malevola, a causa del decadimento progressivo avutosi con l'irruzione della società. L'idea
di un'umanità crepuscolare, avente ormai i giorni contati, venne accentuata durante le prime decadi
del XX secolo, dal clima pesante di fine dell'umanità che si respirava a cavallo fra le due guerre
mondiali. (Fine, questa, annunciata in un po' tutte le tradizioni religiose.) Uno dei massimi teorici
della Konservative Revolution Oswald Spengler parlò addirittura di tramonto dell'Occidente38, di un
Occidente cioè in declino, applicando concetti di fisiologia umana 39 alle civiltà, tra cui quella
occidentale, che come tutti gli apparati fisiologici si origina, sviluppa e – infine – tramonta.
(Arrivando ai giorni nostri, non si contano più ormai i teorici della decadenza.)
Per la religione indù vi sono quattro grandi cicli cosmici detti «quattro yuga», afferma Eliade. Essi
non fanno che riproporci in una salsa diversa lo stesso retrogusto concernente l'irrimediabile perdita
delle proprie origini, che ha provocato quindi il graduale quanto inarrestabile deperimento
dell'umanità. Per i buddhisti ciò veniva indicato dalla progressiva diminuzione della durata della
vita umana. Tali concezioni orientali possono ricondursi ambedue alla concezione giudeo-cristiana
del paradiso perduto per colpa del peccatum originale. Prima di esso – infatti – l'uomo era
immortale.
Esiste una diretta connessione fra queste tre diverse e al contempo molto simili concezioni: induista,
buddhista e cristiana. Esse denotano tutte lo stesso immancabile «rifiuto della storia» (e del tempo)
che è comune a ogni sentire umano.
Per dirlo con Eliade: «Il tempo, per il semplice fatto che è durata, aggrava continuamente la
condizione cosmica e implicitamente la condizione umana»40. L'apokatastasis o apocalisse è quindi
la benvenuta per il messianismo giudeo-cristiano, poiché porrà fine ai cicli cosmici e l'uomo
ringiovanirà ritornando ai fasti delle origini. Prima, però, l'uomo dovrà sopportare la «valle di
lacrime» – di biblica memoria – che è questo mondo, sempre più corruttibile.
Tempo di spada e di lupi caratterizza la parabola discendente dell'umanità, che è però risollevata dal
millenarismo, o chialismo, del giudeo-cristianesimo. Secondo i millenaristi, o chialisti, il regno di
Dio verrà anticipato da un periodo d'interregno di Gesù Cristo che durerà mille anni e nel quale
Satana rimarrà ai ceppi in attesa del giorno del Giudizio universale, quando verrà ristabilita la
giustizia divina in terra. C'è una cosa che accomuna l'utopia rousseauiana-marxiana con il
millenarismo/chialismo giudaico-cristiano ed è l'indefessa speranza, o meglio, la fede incrollabile in
un futuro migliore. Un'altra cosa, invece, diversifica l'utopia dal chialismo, ovvero l'immanenza
della prima, a dispetto della trascendenza del secondo. Poiché l'utopia si realizza nella storia,
38 Spengler, O., Il tramonto dell'Occidente, Parma, 2005.
39 La sua concezione venne definita fisiognomica.
40 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p. 117.
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mentre il chialismo si compie al di fuori di essa. La prima sancisce il trionfo della storia, il secondo
il rifiuto della stessa.
Pensatori rivoluzionari, quali Rousseau41 e Marx, si differenziano da pensatori restauratori, quali
Eliade e Spengler, poiché essi pur essendo dei pessimisti sociologici – come i loro colleghi
restauratori – e riconoscendo, il primo, nella società, il secondo invece, nel capitale, i vizi corruttori
dell'uomo moderno, ciononostante rimangono degli ottimisti antropologici. Anch'essi auspicano il
ritorno alle origini, ma il loro non vuol essere un ritorno a camminare a quattro zampe, parafrasando
Voltaire contro Rousseau, bensì vogliono fondare una differente socialità, non più egoista bensì
altruista.
La società perfetta marxiana, la volontà generale rousseauiana, altro non sono che un'evoluzione
critica dell'idea di progresso... Marx e Rousseau, pur non essendo teneri con il progresso in
generale, rivendicano l'esigenza di marciare uniti sotto la sua bandiera per condurre l'umanità verso
la redenzione dai propri vizi capitali. Diversamente il ritorno alle origini professato da Eliade e
Spengler è uno sbarramento invalicabile all'idea di progresso, alla quale costoro oppongono una
netta resistenza.
Siccome però, ritornando a Voltaire, camminare a quattro zampe non ci è più possibile, visto che il
treno dell'evoluzione procede spedito per il suo binario, velleitario sarebbe qualunque tentativo di
ritornare alla dimensione ferina. Dunque, pur essendo affascinante l'idea di ritornare a un'umanità
pre-sociale, sappiamo tutti bene quanto questa via sia impercorribile. E comunque, non tutto il
progresso – avutosi grazie all'avvento della società – è venuto per nuocere. Bisognerebbe soltanto
far tesoro del miglior progresso e gettare via quello peggiore. Come riconoscere l'uno dall'altro?
Niente di più semplice, ad esempio: il progresso che ci ha permesso di curare malattie prima
incurabili è il miglior progresso, quello che ci ha consentito di spremere come un limone il nostro
Pianeta è senz'altro il peggior progresso... basta distinguere e finché serviranno distinzioni la
filosofia avrà ancora parecchio su cui lavorare.
9. Progresso possibile o futuro senza futuro?
Spesso per far meglio si è finiti col fare peggio. Qual è l'alternativa? A dirla tutta, chi non fa niente,
non sbaglia mai. Allora è giusto non far niente? No, non lo è, per il semplice motivo che bisogna lo
stesso far qualcosa, pur essendo consapevoli del rischio. Poiché vero è che si può fare peggio, ma è
altrettanto vero che si può fare meglio. Per ciò tanto vale correre il rischio. A questo proposito,
vorrei citare le parole di Diego Fusaro, tenace critico del modello capitalista:
41 Anche se, a proposito del Ginevrino, condividiamo il seguente aforisma di Groethuysen: «Il pensiero di Rousseau era
rivoluzionario, lui no».
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[...] il capitalismo diventa come l'aria che respiriamo, qualcosa a cui siamo assuefatti e di cui non riusciamo
più a fare a meno: nella misura in cui si eleva a unico modello su scala mondiale, diventa impossibile
sottoporlo a critica in nome di qualcos'altro, che è venuto meno, assorbito dal suo antico rivale. Crolla la
speranza nell'altro proprio perché l'altro è venuto a mancare. 42
Basta mettere rivoluzione al posto di giudizio universale e si ottiene l'ideale marxista, secondo
Fusaro. Sulla scia della distinzione di Ernst Bloch, il quale ha individuato nel marxismo due
correnti, una «calda» e una «fredda», Fusaro rivendica l'importanza della prima corrente – quella
«calda» – che apre alla dimensione utopico-religiosa, a scapito della seconda – quella «fredda» –
arroccata invece in una sterile dimensione economicista. Per integrare la tesi blochiana di un
marxismo millenarista, Fusaro riconosce in esso più che una scienza economica: una filosofia della
storia alternativa alla teologia giudaico-cristiana. In ciò lui segue la scia di Löwith, il quale nel suo
Significato e fine della storia sostiene che il marxismo ha sostituito l'escatologia del giudeocristianesimo con la propria concezione escatologica. Secondo quest'ottica: la società perfetta è del
paradiso ritrovato giudeo-cristiano. Löwith liquida pertanto la filosofia della storia come una
teologia inferiore.
Ciò detto, l'utopia marxista non sarebbe che la riproposizione in forma secolarizzata dell'utopia
giudeo-cristiana. Löwith proprio durante il trionfo della corrente «calda» su quella «fredda», che è
all'origine della Rivoluzione d'Ottobre prima e del conseguente regima totalitarista sovietico poi, ha
rilevato il fallimento ideologico di un'utopia, quale quella marxiana, che oltre ad aver ispirato le
applicazioni distorte del «socialismo reale», è a suo parere ancora intrisa di un lessico metafisico e
di un dogmatismo religioso, che invece di essere scardinati furono da essa ancor più tenacemente
consolidati.
Malgrado alcune specifiche sacche di resistenza comunista (si veda la Cina ad esempio), in generale
non resta che constatare il fallimento dell'ideologia comunista, caduta con il muro di Berlino nel
1989. Detto questo, però, non resta che constatare l'assoluta mancanza di alternative credibili – o
comunque sia abbastanza forti – da opporre al capitalismo diventato nel frattempo padrone
incontrastato dei nostri destini. In un contesto simile: il capitalismo ha avuto vita facile negli ultimi
anni. È pur vero però che al cannibalesco capitalismo americano si è frapposto un capitalismo
europeo decisamente più morbido, dotato cioè di ammortizzatori sociali – fatti propri anche dai
governi della destra sociale europea. Ammortizzatori, questi, dovutisi alle parziali, ma non per
questo meno importanti, conquiste della Rivoluzione francese e delle edificanti battaglie sindacali
che, a tutt'oggi, non hanno perduto l'antico vigore, in vista del raggiungimento di una lenta quanto
42 Fusaro, D., Filosofia e speranza, Padova, 2005, p. 119.
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faticosa giustizia ed uguaglianza sociale, almeno in materia di diritti-doveri del cittadino.
In questi tempi di crisi mondiale, nel nostro tramontante Occidente si distinguono due correnti di
pensiero epocali: la corrente europea e quella americana. Quella europea (progressista o
conservatrice poco importa) con l'eccezione della Germani e dei Paesi anglosassoni e scandinavi ha
raccolto il lascito della Rivoluzione del 1789 e ha sviluppato poi una politica di welfare (o stato
sociale) volta ad aiutare concretamente i disagiati e i lavoratori di bassa manovalanza, altrimenti
abbandonati a loro stessi e alla loro miseria, che se non altro in Europa godono dell'assistenza
sanitaria pubblica. Quella americana (democratica o repubblicana non importa) è invece composta
da ostinati capitalisti e neodarwinisti sociali, i quali non hanno fatto altro che applicare alla società
le leggi darwiniane di selezione naturale, provocando così un allargamento della forbice tra i ricchi
sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Perché è troppo facile individuare nella povertà una
colpa. Questa spiegazione potrebbe magari andar bene per un protestante, ma io in quanto cattolico
– con tutti i vizi annessi, per carità, lo ammetto – non me la sento di dare cieca fiducia al dogma
della predestinazione. A volte si può essere poveri anche non per propria colpa. E sarà un caso ma
l'irremovibilità della Germania protestante nel gestire alcune situazioni di questa delicata crisi, si
contrappone nettamente a noi viziosi e sfaticati popoli latini. Come diceva Aristotele la verità è nel
mezzo e bravo chi la trova... anche se, certo, un tedesco o statunitense potrebbe ribattere che in
quanto greco, persino il filosofo di Stagira potrebbe aver avuto torto... battute a parte, io rimango
dell'idea che la caritas cristiana, con tutte le sue implicazioni, sia un valore da riscoprire in
quest'epoca di sanguinosi tagli e dure lotte sociali.
Il fallimento dell'ideologia comunista, unica vera oppositrice dell'ideologia capitalista, ha provocato
la distorsione attuale del capitalismo diventato nel frattempo sempre più sfrenato nel vero senso
della parola; cioè incapace di darsi alcun freno razionale, men che meno morale. C'è chi ha tentato,
con miseri risultati, di creare una parvenza di alternativa, instaurando un «capitalismo etico», che è
però – come afferma il filosofo Emanuele Severino – una contraddizione in termini, un ossimoro
dico io. Difatti, se da una parte l'etica presupporrebbe dei paletti da rispettare, dall'altra il
capitalismo vorrebbe rovesciare selvaggiamente e a ogni costo tutti quei paletti che ostacolano la
sua irrefrenabile corsa all'aumento di guadagno.
Il solo incubo che assilla i capitalisti non è tanto il riscaldamento globale del pianeta, quanto la
diminuzione della produzione e conseguente immissione nel mercato della merce, il più delle volte
scadente – si veda per questo la deriva della qualità a favore della quantità43. È irrilevante per essi
sfruttare illimitatamente risorse che sanno essere limitate, tanto il loro ottuso modo di pensare li
porta a rimandare i problemi veri e propri – ben più gravi della diminuzione della produttività – al
43 Si è perduto il senso di una metafisica della qualità per dirlo con Pirsig, autore de Lo zen e l'arte della manutenzione
della motocicletta.
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domani: sempre più minacciato, intanto, dall'improvvido agire dei capitani d'impresa di oggi.
Perché a una crisi economica si può sempre sopravvivere, a una serie di calamità naturali innescate
dall'uomo un po' meno...
Mi sembra alquanto ovvio rilevare che il vero problema dei nostri giorni è che: una volta era la
politica che interveniva sull'economia, ora è soltanto l'economia ad intervenire sulla politica 44. Le
democrazie mondiali assomigliano sempre più a delle plutocrazie, dove il più ricco (e non il più
meritevole) comanda45, e queste sono incompatibili con un progresso equo e solidale. Queste
plutocrazie, inoltre, non sono minimamente sensibilizzate alle problematiche ambientali, che
dovrebbero essere invece in cima all'agenda politica di ciascun governante che miri alla
sopravvivenza della nostra specie su questo Pianeta. Fatto, questo, per niente scontato, anzi...
Le plutocrazie fanno scempio indiscriminato dell'ambiente, favorendo all'opposto un progresso
nichilistico, che se andrà avanti di questo passo finirà col determinare la nostra rovina. Altro che
crisi di liquidità...
Il nichilismo plutocratico negli Stati Uniti è ancor più tenace che in Europa. Infatti la degenerazione
del consumatore medio americano farebbe impallidire il più esagerato consumatore europeo... e non
si è troppo lontani dal vero dicendo che, a parità di condizioni sociali, la roba che entra nel carrello
della spesa di un americano è almeno il doppio di quella di un europeo. Gli americani meritevoli
senz'altro del loro altissimo tenore di vita, frutto della loro etica protestante del lavoro direbbe
Weber, stanno però – a nostro avviso incautamente – adottando la strategia dello struzzo: fingere
che ci siano risorse per tutti così da mantenere i loro assurdi livelli di consumo pro capite, non
curandosi però – Al Gore a parte – dei preoccupanti sconvolgimenti climatici 46, che si
preannunciano addirittura peggiori di quelli economici già in atto.
Il governo statunitense anziché proporre una cura a tali sconvolgimenti si limita ad abbozzare
soluzioni palliative: guai a rinunciare al vocabolo crescita per paura di cadere vittima della spietata
44 È ciò che ha messo in luce recentemente il movimento transnazionale di Occupy Wall Street, il cui merito è aver
posto l'accento sul palese controsenso sul quale si regge la società capitalista: il potere economico – e di conseguenza
politico – è oggi detenuto dal 1% dei grandi risparmiatori, mentre il restante 99% dei piccoli risparmiatori deve
accontentarsi delle briciole. I sit-in di protesta a Zuccotti Park (New York) hanno avuto per scopo quello di
sensibilizzare l'opinione pubblica globale sul drammatico tema dello squilibrio socio-economico dei nostri tempi,
foriero di continue tensioni sociali. Tensioni, queste, che promettono di aumentare non si sa fino a che livello, nella
speranza che si scongiuri il peggio.
45 Salvadori, M.-L., L'idea di progresso, Roma, 2006, p. 123. «Il libero mercato, rivolto come un'arma tagliente dai
conservatori neoliberisti contro lo statalismo invadente e persino soffocante, ha mostrato a mano a mano più
chiaramente di essere l'ideologia di soggetti ispirati a un «neofeudalesimo» industriale e finanziario, capace di portare la
plutocrazia direttamente al governo, come avvenuto in maniera palese e senza precedenti nel paese più potente del
mondo, vale a dire negli Stati Uniti, durante le amministrazioni di George W. Bush».
46 Tanto – secondo il cittadino medio americano – sono i soliti comunisti a mettere in giro queste dicerie catastrofiste
indubbiamente false, se non fosse che un loro insospettabile ex vice-Presidente, Al Gore, se n'è responsabilmente fatto
portavoce. Anche perché s'è comunista difendere il Pianeta in cui viviamo, che è la nostra Casa, allora ci auguriamo per
il bene della nostra specie che prevalga questo buon senso comunista. Comunismi a parte, solo gli stolti o i furbi
crediamo possano etichettare come comunista la difesa della nostra comune Casa, ovvero del nostro unico Pianeta.
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vendetta delle lobby capitaliste, che nell'ombra manovrano le “stanze dei bottoni” e chi ci sta
dentro. Della serie: cambiano i governi ma non le politiche, che vengono decise – ormai da anni, i
più pessimisti direbbero da sempre – dai consigli di amministrazione delle grandi corporation. Di
questi tempi, visto come stanno le cose, nascondere la testa sotto la sabbia alla maniera degli struzzi
non mi pare l'atteggiamento migliore.
Come se non bastasse, i capitalisti più spregiudicati finanziano addirittura eccentrici studi, che
smentirebbero – non si sa bene su quali basi – i danni provocati dal riscaldamento globale del
Pianeta. Com'era lecito attendersi, la stragrande maggioranza della gente crede loro, non fosse altro
che per i tanti canali di cui dispongono per veicolare il loro distorto messaggio alla popolazione, per
cui non esiste alcun pericolo, quando in realtà che c'è ce lo dicono tutti gli scienziati super partes,
ossia quelli che non sono al soldo dei potenti di turno.
Questi capitalisti spregiudicati avranno pure l'informazione dalla loro, ma – per fortuna – in
controtendenza si sta via via sviluppando una contro-informazione ambientalista (il cui scopo è
informare più della presunta informazione stessa), che sta raggiungendo ampi strati della
popolazione. Contro-informazione, questa, veicolata perlopiù nella silenziosa, ma sempre più
influente: rete globale. Per quanto paradossale possa sembrare (ma la verità talvolta lo è),
nell'epoca di internet la salvezza del nostro Pianeta corre sui fili delle connessioni super-veloci
ADSL47.
Oltre ai capitalisti «senz'anima», gli altri nemici irriducibili del progresso equanime e solidaristico
sono i fondamentalisti «dall'anima oscurantista»48. Questi ultimi vorrebbero ricondurci a un
medioevo della ragione, con la strategia nichilista degli attacchi-suicidi contro i luoghi simbolo
della civiltà capitalista occidentale. L'aspetto curioso da notare è che i fondamentalisti nemici del
progresso si scagliano contro i capitalisti, anch'essi a loro volta nemici del progresso, per i motivi
che ho detto, con la sola attenuante – anche se non dovrebbero esserci attenuanti per chi condanna il
proprio futuro e il futuro dei propri figli – che i fondamentalisti ne sono consapevoli, i capitalisti no,
o tutt'al più fingono di non esserlo. Entrambi cooperano, combattendosi a vicenda, alla stessa
nichilistica smania auto-distruttiva.
La storia dell'uomo è storia di tutte le esperienze che gli sono accadute, dalla notte dei tempi a oggi.
Per ciò l'uomo, pur avendo nostalgia del non-più, deve procedere speditamente verso il voler-essere
del non-ancora. (Volere che è potere, Bacone, e anche volontà di potenza, Nietzsche, che è pura
volizione di se stessa, Heidegger.) Il nostro volere è un anelare a diventare persone migliori,
creature sempre più perfette: malgrado l'imperfezione alla base dell'idea stessa di perfezione, dal
47 Asymmetric Digital Subscriber Line.
48 Salvadori, M.-L., L'idea di progresso, Roma, 2006, p. 131.
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momento che quest'ultima non è umana e, soprattutto, non è cosa di questo mondo. Tutto
considerato, quindi, non possiamo fare a meno dell'idea di progresso.
Visto il fallimento del progresso necessario incarnato dall'ideologia comunista, credo si debba – a
maggiore ragione – riporre le proprie caute speranze sul progresso possibile49. Anche se,
ammettiamo, il progresso è il peggior nemico di se stesso e la sua stringente logica, assunta tanto
dai paesi marxisti quanto da quelli capitalisti, dopo aver a lungo sfruttato – a partire dalla
rivoluzione industriale – il nostro Pianeta, deve ora cominciare a fare i conti con lo sfruttamento
illimitato di risorse altresì limitate; sfruttamento che ci si sta ritorcendo contro come un boomerang,
con una sequela incalcolabile di danni ambientali di cui il riscaldamento globale è solo la cifra
finale.
Arrivati a questo punto non possiamo permetterci ulteriori tentennamenti e consapevoli del fatto che
scegliere di non scegliere è la peggior scelta, dobbiamo scegliere a favore di un'etica della
responsabilità – memori del principio responsabilità di Hans Jonas50 – e assumerci il gravoso
compito di salvare il nostro Pianeta dalle nostre stesse mani.
E a chi mi chiedesse: quale responsabilità? Risponderei... quella di lasciare un mondo quanto più
possibile migliore ai nostri figli, visto che esso è un bene che non ci appartiene, ma di cui godiamo
soltanto nel presente. E com'è giusto che ne hanno goduto prima di noi i nostri padri in passato e
altrettanto giusto che ne godranno i nostri figli in futuro, ovvero: le future generazioni. Il loro futuro
comincia nel nostro presente. Poiché le nostre scelte, se coraggiose, potranno sì: fare la differenza,
cambiare le carte in tavola e ridonare speranza a un futuro, attualmente, senza futuro.
49 Salvadori, M.-L., L'idea di progresso, Roma, 2006. Nel cap. II viene chiarita molto bene la distinzione fra i due
diversi tipi di progresso: necessario e possibile.
50 Jonas, H., Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Torino, 2002.
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