La strega di Port`Alba e l`albero della rivoluzione

Transcript

La strega di Port`Alba e l`albero della rivoluzione
La strega di Port’Alba e l’albero della rivoluzione
Maria con gli occhi rosso fuoco e la pelle d’avorio, Maria la favola nera del
largo Sciuscelle. Maria la pazza che prima di morire lanciò il suo anatema alla
folla venuta ad assistere al suo supplizio: «La pagherete. Tutti. Voi, i vostri
figli, i vostri nipoti, tutti. La pagherete». Se Napoli è città di ombre, c’è
un’ombra che ancora si aggira tra le antiche mura di Port’Alba. Un’ombra
dalla chioma rosso fuoco. Che sbuca dai vicoli e si ferma sempre nello stesso
punto. E sopravvive nelle leggende della gente del luogo. Oggi Port’Alba è
incrocio di traffici e studenti, affari minuscoli e compravendite di libri usati. Un
caleidoscopio di voci, di suoni, colori. E bar letterari. Ma c’è stato un tempo in
cui quest’angolo, tra i più suggestivi della città, era teatro di favole nere, di
storie da brivido. Come la storia di Maria. Capelli rosso fuoco e pelle d’avorio:
era bella Maria, la desideravano tutti. Venivano dall’Anticaglia per incrociare il
suo sguardo. Aveva vent’anni, un sorriso malizioso e un fidanzato geloso,
Michele. Geloso e pazzo d’amore. Maria abitava in quella via che oggi è
Port’Alba, ma che nel Seicento era conosciuta da tutti come largo Sciuscelle.
Proprio nel tratto che collegava i due archi di quest’antica porta, infatti,
cresceva un grande carrubo i cui frutti, da sempre, i napoletani chiamano
sciuscelle. La casa di Maria era piccola ma dignitosa, e sorgeva lì, all’ombra
del grande carrubo, dove oggi si trova una pizzeria. E proprio sotto il grande
albero di carrube, in una notte di tuoni e di piogge, accadde qualcosa
d’incredibile. Che cambiò per sempre la vita di Maria e di Michele, che era
diventato il suo sposo. I due innamorati facevano ritorno, sottobraccio, a casa
quando sentirono un tuono in lontananza, più fragoroso degli altri, e una forza
misteriosa sbarrò il passo al ragazzo. E lo immobilizzò, impedendogli di
avvicinarsi alla porta di casa. Sconvolta e fradicia, Maria cercò di trascinare
Michele verso casa. Ma Michele, immobile, restò come pietrificato al di là del
carrubo. Accorse la gente del quartiere, ma non servì a nulla. Quando Maria,
stremata, decise di rientrare a casa Michele non la seguì, non potè seguirla.
E la ragazza con gli occhi di fuoco, che tutto il quartiere ammirava, restò a
dannarsi per giorni, disperata e incredula. Poi, con la morte nel cuore, capì
che aveva perso per sempre il suo amore. E a poco a poco - racconta ancora
la leggenda - si trasformò in una creatura orribile, divenne cupa e torva, i
vecchi amici cominciarono a evitarla, a toglierle il saluto, a segnarsi al suo
sguardo. Maria era diventata una strega, la strega di Port’Alba. I suoi capelli
imbiancarono, il volto si trasformò in un declivio di rughe. E l’antico carrubo, il
largo Sciuscelle, si trasformò in un crocevia di calunnie, in un luogo di
maldicenze. Erano anni, decenni, terribili. Di inquisizioni e silenzi. Di processi
sommari e di condanne esemplari. Maria la rossa, il cui bianco vestito da
sposa aveva commosso tutti, fu condannata a una morte atroce, quella che
toccava alle streghe. Maria la strega fu rinchiusa in una gabbia, proprio sotto
l’attuale Port’Alba, e lasciata morire di fame e di sete. Per giorni e giorni
chiese inutilmente pietà. Poi tacque. Solo un attimo prima di spirare ritrovò la
voce. Una voce cattiva, che lanciò il suo anatema alla folla venuta ad
assistere al supplizio: «La pagherete tutti». E chiuse gli occhi per sempre. Il
suo cadavere rimase in quella gabbia per settimane. Poi, anziché
decomporsi, cominciò a pietrificarsi. La strega stava trasformandosi
lentamente in una mummia. I giudici dell’inquisizione si affrettarono a far
scomparire la gabbia temendo che in quella metamorfosi si nascondesse un
prodigio. Ma per diversi anni ancora restò un gancio - unica testimonianza di
quell’orribile esecuzione - sotto l’arco di Porta’Alba. E un’ombra che secondo
le voci del popolo da allora continua ad aggirarsi di notte tra librerie e
botteghe. La leggenda di Maria, dunque, è ambientata sotto l’antica porta
edificata nel 1625 da don Antonio Alvarez de Toledo - duca d’Alba e
discendente del più famoso don Pedro de Toledo - per agevolare l’ingresso
della popolazione nella città antica. È una storia, quella di Port’Alba, a sua
volta avvolta nella leggenda. Quel varco si rese necessario dal momento che
gli abitanti del Borgo Mercatello - l’attuale piazza Dante originariamente si
chiamava così perché in alcuni giorni della settimana vi si svolgeva il mercato
- vi avevano praticato un buco, un «pertuso», sufficiente però a far passare
una persona sola per volta. Tanto osceno e indecente doveva apparire quel
«pertuso» da costringere le autorità - il Tribunale di fortificazione - a farlo
turare. Ma il rappezzo durava un giorno, due al massimo: puntualmente, il
popolo del Mercatello correva a riaprire il foro nell’antico bastione angioino.
Fino a quando il duca d’Alba, che aveva fama d’essere un uomo tutto d’un
pezzo, decise di correre drasticamente ai ripari. E commissionò a Pompeo
Lauria, una specie di achitetto star dei suoi tempi, l’incarico di aprire un
passaggio nel torrione, che fu da quel momento in poi chiamato Port’Alba. La
costruzione della «porta delle sciuscelle», dunque, risale al 1625. Trentuno
anni più tardi, nel 1656, l’attuale piazza Dante fu raffigurata, come in un
fotogramma che ne catturò il respiro in uno dei momenti più tragici della vita
cittadina, nel celebre dipinto di Micco Spadaro «Largo Mercatello durante la
peste del 1656». Quell’anno il largo del Mercatello era diventato il lazzaretto
della città, colpita dalla terribile epidemia, e accolse innumerevoli moribondi.
Lo stesso Micco Spadaro, il cui vero nome era Domenico Gargiulo, aveva
trovato rifugio dai monaci della Certosa di San Martino. La realizzazione del
celebre emiciclo, progettato da Vanvitelli, risale invece a oltre un secolo più
tardi: nel 1757 il vecchio largo Mercatello assunse una nuova denominazione,
Foro Carolino, in onore a Re Carlo di Borbone. Ma la statua equestre di Re
Carlo, originariamente alloggiata nel loggione centrale, fu abbattuta durante
la Repubblica Partenopea del 1799 e sostituita dai patrioti con un «albero
della libertà». Vilipendio che fu ovviamente punito con la forca durante la
repressione borbonica. I cadaveri dei congiurati, rei di aver «decapitato» Re
Carlo, rimasero appesi per giorni e giorni. La piazza fu anche teatro di un
terrificante caso di antropofagia: il fegato di uno dei congiurati fu cotto e
mangiato «dalla turba forsennata che non aveva più freno e che arrivò
finanche ad ammazzare, restando impunita, alcuni che non avevano voluto
prendere parte a questo macabro festino...».