Miccio - Scuola di Formazione Ipsoa

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Miccio - Scuola di Formazione Ipsoa
I PRESUPPOSTI DI AMMISSIONE AL CONCORDATO PREVENTIVO
1.
2.
3.
4.
I poteri del tribunale nella fase di ammissione del concordato preventivo
Il controllo del Tribunale nella fase di omologazione del concordato preventivo
L’articolo 173 l.f. e la revoca dell’ammissione al concordato preventivo
I finanziamenti alle imprese in crisi dopo la riforma dell’estate 2012.
1. I requisiti di ammissione al concordato preventivo.
1. Il dato normativo di riferimento.
Le disposizioni della legge fallimentare che assumono rilievo ai fini del giudizio
sulla ammissione alla procedura di concordato preventivo sono contenute negli
articoli 160, 161, 162 e 163, che è opportuno riprodurre per esteso.
L’articolo 160 così recita:
“Presupposti per l'ammissione alla procedura.
I. L’imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato
preventivo sulla base di un piano che può prevedere:
a) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi
forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi
compresa l’attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni,
quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e
titoli di debito;
b) l’attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato
ad un assuntore; possono costituirsi come assuntori anche i creditori o società da
questi partecipate o da costituire nel corso della procedura, le azioni delle quali siano
destinate ad essere attribuite ai creditori per effetto del concordato;
c) la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi
economici omogenei;
d) trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse.
II. La proposta può prevedere che i creditori muniti di diritto di privilegio, pegno o
ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la
soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della
collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al
valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione
indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui
all'art. 67, terzo comma, lettera d). Il trattamento stabilito per ciascuna classe non
può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione.
III. Ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato di
insolvenza.”
L’articolo 161 della legge fallimentare dispone quanto segue:
“Domanda di concordato
La domanda per l'ammissione alla procedura di concordato preventivo è proposta
con ricorso, sottoscritto dal debitore, al tribunale del luogo in cui l'impresa ha la
propria sede principale; il trasferimento della stessa intervenuto nell'anno
antecedente al deposito del ricorso non rileva ai fini della individuazione della
competenza.
Il debitore deve presentare con il ricorso:
a) una aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria
dell'impresa;
b) uno stato analitico ed estimativo delle attività e l'elenco nominativo dei creditori,
con l'indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione;
c) l'elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso
del debitore;
d) il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente
responsabili;
e) un piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di
adempimento della proposta.
Il piano e la documentazione di cui ai commi precedenti devono essere
accompagnati dalla relazione di un professionista, designato dal debitore, in
possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d), che attesti la
veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo. Analoga relazione
deve essere presentata nel caso di modifiche sostanziali della proposta o del piano.
Per la società la domanda deve essere approvata e sottoscritta a norma dell'articolo
152.
La domanda di concordato è comunicata al pubblico Ministero ed è pubblicata, a
cura del cancelliere, nel registro delle imprese entro il giorno successivo al deposito
in cancelleria.
L'imprenditore può depositare il ricorso contenente la domanda di concordato
unitamente ai bilanci relativi agli ultimi tre esercizi e all'elenco nominativo dei
creditori con l'indicazione dei rispettivi crediti, riservandosi di presentare la
proposta, il piano e la documentazione di cui ai commi secondo e terzo entro un
termine fissato dal giudice, compreso fra sessanta e centoventi giorni e prorogabile,
in presenza di giustificati motivi, di non oltre sessanta giorni. Nello stesso termine,
in alternativa e con conservazione sino all'omologazione degli effetti prodotti dal
ricorso, il debitore può depositare domanda ai sensi dell'articolo 182-bis, primo
comma. In mancanza, si applica l'articolo 162, commi secondo e terzo. Con decreto
motivato che fissa il termine di cui al primo periodo, il tribunale può nominare il
commissario giudiziale di cui all'articolo 163, secondo comma, n. 3; si applica
l'articolo 170, secondo comma. Il commissario giudiziale, quando accerta che il
debitore ha posto in essere una delle condotte previste dall'articolo 173, deve
riferirne immediatamente al tribunale che, nelle forme del procedimento di cui
all'articolo 15 e verificata la sussistenza delle condotte stesse, può, con decreto,
dichiarare improcedibile la domanda e, su istanza del creditore o su richiesta del
pubblico ministero, accertati i presupposti di cui agli articoli 1 e 5, dichiara il
fallimento del debitore con contestuale sentenza reclamabile a norma dell'articolo
18.
Dopo il deposito del ricorso e fino al decreto di cui all'articolo 163 il debitore può
compiere gli atti urgenti di straordinaria amministrazione previa autorizzazione del
tribunale, il quale può assumere sommarie informazioni e deve acquisire il parere
del commissario giudiziale, se nominato. Nello stesso periodo e a decorrere dallo
stesso termine il debitore può altresì compiere gli atti di ordinaria amministrazione. I
crediti di terzi eventualmente sorti per effetto degli atti legalmente compiuti dal
debitore sono prededucibili ai sensi dell'articolo 111.
Con il decreto che fissa il termine di cui al sesto comma, primo periodo, il tribunale
deve disporre gli obblighi informativi periodici, anche relativi alla gestione
finanziaria dell'impresa e all'attività compiuta ai fini della predisposizione della
proposta e del piano, che il debitore deve assolvere, con periodicità almeno mensile
e sotto la vigilanza del commissario giudiziale se nominato, sino alla scadenza del
termine fissato. Il debitore, con periodicità mensile, deposita una situazione
finanziaria dell'impresa che, entro il giorno successivo, è pubblicata nel registro
delle imprese a cura del cancelliere. In caso di violazione di tali obblighi, si applica
l'articolo 162, commi secondo e terzo. Quando risulta che l'attività compiuta dal
debitore è manifestamente inidonea alla predisposizione della proposta e del piano,
il tribunale, anche d'ufficio, sentito il debitore e il commissario giudiziale se
nominato, abbrevia il termine fissato con il decreto di cui al sesto comma, primo
periodo. Il tribunale può in ogni momento sentire i creditori.
La domanda di cui al sesto comma è inammissibile quando il debitore, nei due anni
precedenti, ha presentato altra domanda ai sensi del medesimo comma alla quale non
abbia fatto seguito l'ammissione alla procedura di concordato preventivo o
l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti.
Fermo restando quanto disposto dall'articolo 22, primo comma, quando pende il
procedimento per la dichiarazione di fallimento il termine di cui al sesto comma del
presente articolo è di sessanta giorni, prorogabili, in presenza di giustificati motivi,
di non oltre sessanta giorni .”
Il successivo articolo 162 dispone quanto segue:
“Inammissibilità della proposta
I. Il Tribunale può concedere al debitore un termine non superiore a quindici giorni
per apportare integrazioni al piano e produrre nuovi documenti.
II. Il Tribunale, se all’esito del procedimento verifica che non ricorrono i presupposti
di cui agli articoli 160, commi primo e secondo, e 161, sentito il debitore in camera
di consiglio, con decreto non soggetto a reclamo dichiara inammissibile la proposta
di concordato. In tali casi il tribunale, su istanza del creditore o su richiesta del
pubblico ministero, accertati i presupposti di cui agli articoli 1 e 5 dichiara il
fallimento del debitore.
III. Contro la sentenza che dichiara il fallimento è proponibile reclamo a norma
dell’articolo 18. Con il reclamo possono farsi valere anche motivi attinenti
all’ammissibilità della proposta di concordato.”
Infine, l’articolo 163 dette le seguenti prescrizioni:
“Ammissione alla procedura
I. Il tribunale, ove non abbia provveduto a norma dell’articolo 162, commi primo e
secondo, con decreto non soggetto a reclamo, dichiara aperta la procedura di
concordato preventivo; ove siano previste diverse classi di creditori, il tribunale
provvede analogamente previa valutazione della correttezza dei criteri di formazione
delle diverse classi.
II. Con il provvedimento di cui al primo comma, il tribunale:
1) delega un giudice alla procedura di concordato;
2) ordina la convocazione dei creditori non oltre trenta giorni dalla data del
provvedimento e stabilisce il termine per la comunicazione di questo ai creditori;
3) nomina il commissario giudiziale osservate le disposizioni degli articoli 28 e 29;
4) stabilisce il termine non superiore a quindici giorni entro il quale il ricorrente
deve depositare nella cancelleria del tribunale la somma pari al 50 per cento delle
spese che si presumono necessarie per l'intera procedura, ovvero la diversa minor
somma, non inferiore al 20 per cento di tali spese, che sia determinata dal giudice.
Su proposta del commissario giudiziale, il giudice delegato può disporre che le
somme riscosse vengano investite secondo quanto previsto dall’articolo 34, primo
comma.
III. Qualora non sia eseguito il deposito prescritto, il commissario giudiziale
provvede a norma dell’ articolo 173, primo comma.”.
2. A seguito della presentazione di una proposta di concordato preventivo, il
Tribunale è dunque chiamato a verificare, ai sensi dell’articolo 162, comma 2, la
sussistenza dei presupposti di ammissione di cui agli articoli 160, commi primo e
secondo, e 161 della legge fallimentare.
Per avvicinarsi al tema dei presupposti di ammissione al concordato preventivo, è
utile ricordare come la già richiamata disciplina del c.d. concordato prenotativo
contenga il riferimento a tre atti:
1) la domanda di concordato, da indirizzare al tribunale nella forma del ricorso, con
il quale si chiede l’ammissione alla procedura. Connesse al profilo della
domanda sono le tematiche della competenza territoriale; del concordato di
gruppo; della fallibilità oggettiva e soggettiva e dello stato di crisi; delle società a
capitale pubblico; del concordato c.d. prenotativo;
2) la proposta, che è atto unilaterale tra vivi a contenuto patrimoniale che ha come
destinatari i creditori ed è disciplinato, nei limiti della compatibilità, dalle regole
generali sui contratti (cfr. art. 1324 c.c.). La proposta contiene gli impegni del
proponente destinati a divenire irrevocabili con l’omologazione; connesse al
profilo della proposta sono le tematiche del trattamento dei creditori privilegiati e
chirografari; della transazione fiscale e contributiva; delle classi;
3) il piano, che è il presupposto economico-finanziario che consente di formulare la
proposta e la rende credibile (in altre parole: il piano è il modo attraverso il quale
il creditore pensa di realizzare la proposta). Connesse al profilo del piano sono
le tematiche dell’atipicità del piano; del concordato chiuso, in continuità o con
cessione dei beni; del controllo del Tribunale sulla fattibilità oggettiva e
soggettiva.
Domanda, proposta e piano richiamano, quindi, la gran parte dei requisiti di
ammissione alla procedura; altri, pur non espressamente indicati dalla norma,
possono individuarsi in via interpretativa dal sistema.
E’ dunque utile passare in rassegna, distinguendoli secondo la connessione con
domanda, proposta e piano, i singoli presupposti di ammissione alla procedura
concordataria che vengono fatti oggetto di controllo da parte del Tribunale, in
quanto in questo modo chi intenda avanzare una proposta di concordato preventivo
può verificarne preventivamente la corretta predisposizione.
1) Requisiti di ammissibilità connessi alla domanda di concordato.
a) Competenza territoriale.
La proposta di concordato deve essere presentata, a norma dell’articolo 161, presso
il Tribunale del luogo in cui l’impresa ha la sua sede principale; sempre secondo la
medesima disposizione il trasferimento della sede intervenuto nell’anno antecedente
al deposito del ricorso non rileva ai fini della individuazione della competenza.
Per sede principale deve intendersi quella in cui è localizzato il centro dell’attività
direttiva, amministrativa, organizzativa, di coordinamento dei fattori produttivi
dell’impresa, senza che rilevi il luogo di ubicazione dei fattori di produzione,
qualora esso non coincida con il luogo in cui si svolge l’attività organizzativa e
amministrativa (ex pluribus, Corte di Cassazione, sezione I, 14 settembre 2004, n.
18535 e 11 marzo 2005, n. 5391).
Di regola la sede principale si presume coincidente con la sede legale; può essere
tuttavia offerta prova contraria. Ad esempio, il recente provvedimento con il quale è
stata posta in stato di insolvenza la società Tirrenia Navigazione è stato emesso dal
Tribunale di Roma che ha ravvisato la propria competenza territoriale pur essendo la
sede legale della società nella città di Napoli (cfr. T. Roma 11.8.2010).
La verifica della sussistenza della competenza territoriale è svolta anche di ufficio
dal Tribunale.
b) Il problema del concordato di gruppo.
Si è posta in dottrina ed in giurisprudenza, in assenza di una regolamentazione
normativa, la tematica dell’ammissibilità del c.d. concordato di gruppo, ossia della
possibilità di richiedere, con un unico ricorso e sulla base di un piano unitario,
l’ammissione alla procedura di concordato preventivo di più società tra loro
controllate o collegate e facenti, dunque, parte di un “gruppo” di imprese.
La giurisprudenza più recente (cfr. T. Roma 7.3.2011, in Dir Fall., II, 247; T. Roma
25.7.2012, in www.ilcaso.it; T. Monza 24.4.2012, in www.ilcaso.it) sembra essersi
orientata in senso favorevole, a condizione che l'attivo e il passivo di ogni società
vengano tenuti distinti, come distinte siano le adunanze dei creditori e le conseguenti
votazioni.
I vantaggi in termini di trattazione omogenea da parte del tribunale sotto il profilo
sia degli orientamenti interpretativi che dei tempi di definizione delle varie
procedure (rectius, subprocedure) appaiono evidenti.
Non mancano, tuttavia, una serie di problemi, ed in primo luogo quello della
competenza territoriale: laddove non ricorra il caso in cui tutte le società abbiano la
sede legale nel circondario del medesimo tribunale, sembra difficile ipotizzare una
deroga – normativamente non prevista – al criterio legale della competenza
territoriale, che impone ad ogni società coinvolta nella procedura di promuovere il
ricorso presso il tribunale nel quale ha la sede principale, salvo ipotizzare una
medesima competenza territoriale laddove si alleghi e si dimostri che la sede
principale di tutte le società (pur aventi sedi legali in tutto od in parte diverse) fosse
in effetti la stessa nel senso che le decisioni strategiche per tutte le società venivano
assunte nel medesimo luogo.
In secondo luogo, occorre chiedersi quali conseguenze potrebbero derivare dalla
mancata approvazione od omologazione di una delle proposte concordatarie sulle
altre procedure (o sub procedure); è verosimile l’applicazione del criterio simul
stabunt, simul cadent (spesso peraltro espressamente previsto nel ricorso, nel senso
che è lo stesso proponente a rendere esplicito che ogni proposta concordataria è
condizionata al buon esito delle altre) nel senso che l’unitarietà del piano alla base
di tutte le proposte di concordato di regola dovrebbe rendere non fattibili le proposte
concordatarie delle altre società del gruppo.
c) Assoggettabilità al fallimento.
L’impresa che chiede di essere ammessa alla procedura concordataria deve rientrare
nel novero di quelle fallibili, e dunque deve rivestire la qualità di imprenditore
commerciale - individuale o collettivo – che si collochi al di sopra di almeno uno dei
parametri di fallibilità (attivo; ricavi; debiti) previsti dall’articolo 1 della legge
fallimentare.
Il concordato preventivo è difatti uno strumento esdebitatorio previsto dalla legge
per evitare il fallimento anche nella prospettiva di una possibile continuazione
dell’attività di impresa; se, prima della riforma, il fallimento rappresentava
l’inevitabile sbocco alternativo della procedura nel caso di non accoglimento della
istanza concordataria, oggi detto esito, pur non necessitato continua a dover essere
almeno possibile per il caso in cui la società istante si trovi in concreto in una
situazione di insolvenza.
In tal senso depongono sia l’art. 162 legge fallimentare – il quale, con riferimento
alla fase di ammissione alla procedura concordataria prevede che il Tribunale,
dichiarata l’inammissibilità della domanda possa – ma non debba, atteso che
potrebbe occorrere previamente accertare lo stato di insolvenza, non più
automaticamente esistente - dichiarare il fallimento della ricorrente, su istanza di
uno dei creditori o del pubblico ministero.
I vantaggi derivanti dalla ammissione alla procedura concordataria (oggi ancora più
accentuati essendo scomparsa la condizione costituita dalla soglia minima del 40%
di soddisfacimento dei creditori chirografari, e consistenti in ultima analisi nel fatto
che mediante il concordato una particolare maggioranza dei creditori può
legittimamente imporre alla minoranza dissenziente di accettare un pagamento in
percentuale del proprio credito con definitiva cancellazione, verso l’impresa
proponente, del residuo insoddisfatto) non sono dunque ottenibili dai soggetti non
sottoponibili al fallimento.
d) Società pubbliche e procedure concorsuali.
A norma dell’art. 1, comma 1 della legge fallimentare sono soggetti alla
dichiarazione di fallimento gli imprenditori commerciali, esclusi gli enti pubblici.
Si è posto, quindi il problema della fallibilità (e conseguenzialmente della possibilità
di promuovere una procedura di concordato preventivo) delle società a
partecipazione pubblica.
Secondo una prima tesi, le società partecipate da un ente pubblico sarebbero
assoggettabili al fallimento in base alle regole generali dettate dalla legge
fallimentare: sarebbero, in altre parole, soggetti fallibili in quanto strutturate in un
tipo societario (tesi, ad avviso di chi scrive, da prediligere).
Secondo altra linea interpretativa, invece, sarebbe possibile ipotizzare una
applicazione analogica della esenzione disposta dall’art. 1, comma 1, l.f.. All’interno
di questo orientamento secondo taluni il discrimen per l’esenzione dalle procedure
concorsuali sarebbe da individuarsi nel carattere strumentale e necessario
dell’attività rispetto alle finalità pubblicistiche (cfr. App. Torino, 15 febbraio 2010);
secondo altra opzione ermeneutica
invece oltre all’attività strumentale
occorrerebbero – per godere della esenzione - anche altri requisiti, come la
previsione “di consistenti limitazioni all’autonomia degli organi societari che
derivano dall’introduzione di previsioni statutarie che ancorano l’operatività della
disciplina societaria alla previa adozione di atti di formazione secondaria, del dato
della esclusiva titolarità pubblica del capitale sociale, dell’ingerenza nella nomina
degli amministratori da parte di organi promananti direttamente dallo stato, nonché
dell’erogazione da parte dello stato di risorse finanziarie per il raggiungimento degli
obiettivi previsti” (Cons. Stato, 31 gennaio 2006, n. 308).
Una recente sentenza della Suprema Corte resa a S.U. sembra escludere, che la
partecipazione pubblica in una società di capitali sia elemento sufficiente a renderla
non assoggettabile a fallimento ed alle altre procedure concorsuali, salvo il caso di
società c.d. in house, ossia società che siano: i) interamente partecipate dall’ente
pubblico o da enti pubblici; ii) che l’ente sia il destinatario prevalente dell’attività
della società; iii) che l’ente si sia riservato in base allo statuto poteri diretti
d’intervento e condizionamento dell’attività della società che non si riducono al
mero potere del socio di maggioranza di condizionare la vita della società attraverso
l’utilizzo dei poteri connessi alla partecipazione (Cass. SU. 25.11.2013, n. 26283).
Oltre alla giurisprudenza citata, si segnala Cass. Sez. 1, 6 dicembre 2012, n. 21991
in Fall., 2013, 1273; Cass. 27 settembre 2013, n. 22209; T. Palermo decr. 8 gennaio
2013, in www.il fallimentarista.it con nota di P. Pizza; Trib. S. Maria Capua Vetere,
22 marzo 2012, in www.ilfallimentarista.it nonché Trib. Nola, 10 giugno 2010, Trib.
Velletri, 8 marzo 2010, Trib. Catania, 26 marzo 2010 consultabili in: www.ilcaso.it.
Anche ai fini della rassegna dei principali indirizzi giurisprudenziali e dottrinali, cfr.
L. E. Fiorani, Società “pubbliche” e fallimento, in Giur. comm., 2012, I, p. 532. Cfr.,
altresì, G. D’Attore, Società in mano pubblica e fallimento: una terza via è possibile,
in Fall., 2010, 691; F. Fimmanò, L’ordinamento delle società pubbliche tra natura
del soggetto e natura dell’attività, in Il Caso.it, II, 245/2011; L. Panzani, La
fallibilità della società in mano pubblica, in www.ilfallimentarista.it, 18.12.2013.
e)
Stato di crisi del debitore.
L’art. 160 legge fallimentare prevedeva, nella formulazione precedente alla riforma,
che la domanda di ammissione al concordato potesse essere avanzata
dall’imprenditore “che si trova in stato di insolvenza, fino a che il suo fallimento non
è dichiarato”.
La nozione di stato di insolvenza cui l’art. 160 faceva riferimento veniva
costantemente interpretata dalla giurisprudenza nel senso di ritenerla non dissimile
da quella rilevante ai fini della dichiarazione di fallimento se non per il fatto che nel
concordato l’insolvenza non doveva essere tale da impedire una prognosi favorevole
in ordine al pagamento dei creditori almeno nei tempi e nelle misure minime
previste dalla legge ma che, tuttavia, anche quando tale possibilità veniva apprezzata
favorevolmente, l'insolvenza non si distingueva da quella richiesta per il fallimento,
che, infatti, doveva essere dichiarato quando mancavano le altre condizioni di
ammissione alla procedura (5).
A seguito della riforma l’art. 160 legge fallimentare, nella formulazione introdotta
con il decreto legge 16 marzo 2005, n. 35, convertito nella legge 14 maggio 2005, n.
80, faceva riferimento non più alla nozione di stato di insolvenza, bensì a quella di
stato di crisi, senza darne alcuna specifica definizione ed ingenerando il dubbio che
le imprese insolventi non potessero più accedere al concordato preventivo.
A risolvere ogni dubbio è intervenuto il legislatore che con l’art. 36 del Decreto
Legge 30.12.2005, n. 273, ha aggiunto all’art. 160 legge fallimentare un secondo
comma per il quale “ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche
lo stato di insolvenza”.
Se, quindi, può ritenersi ormai acclarato che la norma consente anche alle imprese
insolventi di ricorrere alla procedura di concordato preventivo, il vero problema
potrebbe essere in futuro quello di distinguere le fattispecie di crisi non ancora
sfociate nella insolvenza – meritevoli di ammissione alla procedura concordataria –
da quelle situazioni di difficoltà transitoria nelle quali la grande maggioranza delle
imprese può cadere e che tuttavia non arrivano ad integrare il presupposto dello
stato di crisi giuridicamente rilevante per poter essere ammesse al beneficio del
concordato. In altre parole, una interpretazione troppo ampia del concetto di stato di
crisi potrebbe consentire un uso strumentale del concordato finalizzato ad abbattere
in modo consistente i debiti dell’impresa, così eludendo le finalità proprie
dell’istituto ed esponendo i creditori al rischio di vedere decurtati i loro crediti anche
in casi nei quali in realtà non ne ricorrerebbero le condizioni di legge.
f) Il concordato prenotativo.
L’articolo 161, commi 2 e 3, l.f. prevede che al ricorso debbano essere allegati una
serie di documenti, la presenza dei quali viene verificata dal Tribunale a pena di
inammissibilità del ricorso (ovvero nel termine assegnato dal tribunale nel caso di
ricorso c.d. prenotativo). Tra di essi vi è la relazione del professionista che attesta la
veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano. In ordine al contenuto della
relazione del professionista ed al controllo del Tribunale sui giudizi in essa formulati
si rimanda al successivo paragrafo dedicato al tema.
Il decreto legge 22.6.2012, n. 83, convertito nella l. 7.8.2012, n. 134, ha previsto la
possibilità (art. 161 comma 6) di depositare il c.d. ricorso prenotativo (chiamato
anche ricorso in bianco, o con riserva) rimandando ad un momento successivo la
presentazione della proposta, del piano e della documentazione di cui ai commi 2 e
3, in un termine fissato dal tribunale variabile, secondochè sia o meno pendente una
istanza di fallimento, da sessanta a centoventi giorni, e prorogabile per non oltre
sessanta giorni.
A seguito del deposito del ricorso c.d. prenotativo si producono immediatamente gli
effetti tipici connessi all’introduzione della richiesta di ammissione alla procedura di
cui all’articolo 168 l.f. e principalmente: divieto di iniziare o proseguire azione
esecutive o cautelari; divieto di acquisto di diritti di prelazione; inefficacia delle
ipoteche giudiziale iscritte nei novanta giorni precedenti. Questa, in effetti, è la ratio
dell’istituto: consentire che si determinino gli effetti protettivi del patrimonio
dell’impresa dipendenti dal deposito di un ricorso per l’ammissione alla procedura di
concordato preventivo pur se detto ricorso non sia ancora completo in tutti i suoi
profili (in particolare, nella proposta ai creditori e nel piano concordatario).
Nel fase c.d. preconcordataria possono essere compiuti, ai sensi dell’art. 161 comma
7, senza autorizzazione alcuna gli atti di ordinaria amministrazione (tra i quali
rientrano i pagamenti delle obbligazioni contratte dopo il deposito del ricorso); gli
atti di straordinaria amministrazione, purchè urgenti, devono invece essere
autorizzati dal Tribunale. I crediti dei terzi sorti per effetto degli atti legalmente
compiuti dal debitore sono prededucibili ai sensi dell’articolo 111 l.f..
Quanto alla non agevole distinzione tra atti di ordinaria ed atti di straordinaria
amministrazione, un valido criterio è fare riferimento all'art. 2486 c.c. comma 1, e
dunque ritenere che tutto ciò che incide sul patrimonio dell'impresa e va a
pregiudicare, anche potenzialmente, le risorse che devono necessariamente essere
destinate ai creditori sia atto di straordinaria amministrazione (criterio peraltro
seguito, sia pure senza particolari approfondimenti concettuali, dalla Cassazione per
gli atti da autorizzare a cura del giudice delegato secondo l’art. 167 l.f.).
Ad esempio, un contratto di affitto di azienda è destinato ad incidere sul patrimonio
dell’impresa perché - pur mettendo al riparo il debitore dai rischi di gestione
immediati - richiede una valutazione di affidabilità dell'affittuario (per impedire che
distrugga o distragga l'azienda) ed analoga considerazione potrebbe farsi per la
cessione di un contratto di leasing; invece una procedura di CIGS non potrebbe
considerarsi atto di straordinaria amministrazione perché destinata a ridurre i costi
del personale e, quindi, l'impatto di tale costo sugli impieghi.
Una trasformazione societaria, in questa prospettiva, di regola non è atto di
straordinaria amministrazione di per sé, ma la circostanza potrebbe essere valutata
caso per caso.
Il Tribunale ha inoltre la possibilità – non l’obbligo – di nominare sin da subito il
commissario giudiziale con poteri, tuttavia, essenzialmente di controllo e di
segnalazione al Tribunale di eventuali condotte in frode ai creditori ovvero
inutilmente dilatorie.
2) Requisiti di ammissibilità connessi alla proposta di concordato.
a) Il controllo in ordine al fatto che la proposta concordataria garantisca il
pagamento integrale dei creditori privilegiati ovvero che, in caso di pagamento
parziale di questi ultimi, sia presente e correttamente utilizzata la relazione di stima
del valore dei beni sui quali i crediti privilegiati insistono a norma dell’articolo 160,
comma 2, l.f.
Come si è già ricordato, la proposta concordataria può prevedere che i creditori
muniti di diritto di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti
integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a
quella realizzabile sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di
mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato
nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'art. 67,
terzo comma, lettera d).
In sostanza, il proponente dovrà simulare un vero e proprio piano di riparto, avuto
riguardo al valore di mercato dei beni della società proponente, e solo qualora da tale
simulazione emerga l’incapienza di una o più categoria di creditori privilegiati potrà
procedere alla loro considerazione e trattamento in termini analoghi ai chirografari.
Ciò potrà avvenire, laddove si intenda pagare in percentuale i creditori privilegiati
generali, solo nelle ipotesi di apporto di c.d. finanza esterna (o con la postergazione
di alcuni crediti, o, secondo una parte della dottrina, con l’acquisto di beni del
debitore ad un valore dichiaratamente superiore al prezzo di mercato, situazione
assimilabile all’apporto di finanza esterna) perché diversamente il denaro destinato
al pagamento in percentuale dei creditori chirografari dovrebbe essere
inevitabilmente e obbligatoriamente utilizzato per il soddisfacimento integrale dei
privilegiati generali.
Qualora, pertanto, si intenda offrire un pagamento in percentuale dei creditori
privilegiati, sarà necessario allegare alla proposta, accanto alla relazione del
professionista che attesti la fattibilità del piano, altra relazione di altro professionista
(scelto dalla stessa impresa proponente) che certifichi i valori dei beni sui quali i
crediti privilegiati hanno diritto di soddisfarsi con preferenza (e dunque non solo gli
immobili, ma anche mobili, crediti, giudizi in corso).
Questa regola deve operare anche con riferimento al credito per rivalsa Iva, assistito
da privilegio speciale ex art. 2758, comma 2, codice civile, che potrà essere
degradato a chirografario solo attraverso il meccanismo previsto dall’art. 160,
comma 2, legge fallimentare, ossia sulla base di una “relazione giurata di un
professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, comma 3, lettera d),
legge fallimentare; tale effetto, al contrario, non si produce indicando generalmente,
nell’elenco nominativo dei creditori ex art. 161, legge fallimentare, i crediti dei c.d.
fornitori come chirografari, senza distinguere la parte imponibile dalla parte di
credito per rivalsa Iva (così T. Roma 2 agosto, 2010, in www.ilcaso.it).
In tali casi l’entità del soddisfacimento del privilegiato deriverà dalla sommatoria
della parte di credito c.d. capiente con la percentuale di pagamento della parte di
credito non coperta dal valore dei beni dell’impresa. Nulla vieta che ai creditori
privilegiati – per quanto concerne la porzione di credito non coperta dal valore dei
beni della società proponente il concordato – sia offerta la medesima percentuale dei
chirografari, ossia, in altre parole, che non siano collocati – sempre, si ripete, per la
parte incapiente del credito – in alcuna classe ma trattati al pari e con la stessa
percentuale di tutti gli altri chirografari.
Si è posto, in giurisprudenza, la questione in ordine alla qualificazione della
proposta di concordato che preveda il pagamento integrale dei creditori privilegiati,
ma non immediato, bensì differito nel tempo, sotto il profilo dell’eventuale
ammissione al voto degli stessi.
Non sembra potersi dubitare del fatto che, laddove i tempi di pagamento dei
creditori privilegiati siano dipendenti dai tempi tecnici di liquidazione dei beni sui
quali il privilegio insiste, gli stessi debbano ritenersi integralmente soddisfatti e non
possano essere ammessi al voto (così, condivisibilmente, T. Mantova, 12.4.2012, e
T. Roma, 29.7.2010, in ilcaso.it).
Laddove, invece, così non sia, la proposta di concordato deve ritenersi
inammissibile: i creditori privilegiati capienti non sono difatti destinatari della
proposta concordataria, al punto che la legge esclude il diritto di voto salvo rinuncia
al privilegio da parte degli stessi, e dunque la posizione giuridica del loro credito
non può essere in alcun modo intaccata.
Questo principio è stato limitato nel caso già citato del concordato c.d. in continuità
(art. 186 bis l.f., comma 2 lett. C) a norma del quale il piano può prevedere una
moratoria fino ad un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti
di privilegio, pegno o ipoteca, e che in tale caso detti creditori non hanno diritto al
voto. Laddove invece dei beni sui quali insiste la causa di prelazione sia prevista la
liquidazione, allora la moratoria non è possibile e valgono le regole generali già
esposte (ossia i tempi di pagamento saranno correlati a quelli delle cessioni).
b) Ricorso, laddove si intendano pagare in percentuale debiti fiscali o contributivi,
ad una transazione fiscale o contributiva.
La maggior parte delle imprese che propongono un concordato preventivo hanno
debiti fiscali e contributivi, in massima parte con natura privilegiata (vale ricordare
come l’art. 23, comma 37, del D.L. 6 luglio 2011, n. 98 abbia esteso il privilegio
erariale anche alle sanzioni tributarie e, pertanto, ad oggi la categoria dei crediti
fiscali chirografari sia alquanto ridotta). Spesso parte di questi crediti sono in via di
accertamento, o non ancora accertati; il fatto che la titolarità dei medesimi faccia
capo allo stato (per i debiti fiscali) o all’INPS (per i debiti contributivi) rende inoltre
più complessa anche la partecipazione al voto di questi creditori.
Per tale ragione è stato introdotto l’istituto della transazione fiscale, regolato
dall’articolo 182 ter l.f..
La disciplina della transazione fiscale si applica soltanto ai tributi amministrati dalla
quattro agenzie fiscali a cui è affidata la gestione del sistema finanziario e tributario
dello Stato (agenzia delle entrate; agenzia del demanio; agenzia del territorio;
agenzia delle dogane); sono quindi da considerare transigibili, a titolo di esempio,
l'IRPEF, l'IRES, con le relative addizionali ed imposte sostitutive, l'IRAP, le accise,
l'imposta di bollo, l'imposta di registro, le imposte ipotecarie e catastali, le imposte
sulle successioni e donazioni, le tasse automobilistiche, le tasse sui contratti di
borsa, le imposte demaniali, i dazi di importazione ed esportazione. La transazione
non si applica invece alle entrate diverse da quelle di natura tributaria gestite dalle
agenzie fiscali.
Sono, inoltre, transigibili anche interessi, indennità di mora e sanzioni.
Non possono essere invece oggetto di transazione i tributi propri degli enti locali,
non amministrati dalle Agenzie Fiscali, quali l'ICI, la Tarsu/Tia, la Tosap/Cosap,
l'imposta comunale di pubblicità, i diritti sulle pubbliche affissioni, ecc.
La transazione fiscale si attiva depositando, accanto ad un ricorso per ammissione al
concordato preventivo, anche una proposta di transazione fiscale presso l’agenzia
delle entrate ed il concessionario per la riscossione competenti; alla domanda
devono essere allegate le copie delle dichiarazioni fiscali per le quali non è
pervenuto l'esito dei controlli automatici, nonché delle dichiarazioni integrative
relative al periodo sino alla data di presentazione della domanda, per consentire
l'esatta quantificazione e il consolidamento del debito fiscale.
Con la proposta di transazione fiscale l’impresa debitrice:
a) sollecita gli uffici finanziari ad operare un quantificazione (c.d.
consolidamento) accelerata e globale dei debiti fiscali (relativamente, come detto, ai
tributi amministrati dalle agenzie fiscali).
Il competente agente della riscossione è tenuto a trasmettere, entro trenta giorni dalla
data della presentazione, al debitore la certificazione attestante l'entità del debito
iscritto a ruolo scaduto o sospeso e l’ufficio, nello stesso termine, deve procedere
alla liquidazione dei tributi risultanti dalle dichiarazioni ed alla notifica dei relativi
avvisi di irregolarità, unitamente ad una certificazione attestante l’entità del debito
derivante da atti di accertamento ancorché non definitivi, per la parte non iscritta a
ruolo, nonché da ruoli vistati, ma non ancora consegnati al concessionario.
In tal modo è possibile offrire ai creditori maggiori certezze in ordine ad un profilo –
quello dell’ammontare dei debiti fiscali – che spesso rende problematica
l’esecuzione del concordato preventivo, con l’emersione di ulteriori tributi non
considerati nella proposta concordataria. E’ assai discusso se, accanto a questo
obiettivo, se ne realizzi anche un secondo, ossia la c.d. “cristallizzazione” del debito
fiscale: ci si chiede, in altre parole, se, una volta scaduto il termine di trenta giorni
dalla data di presentazione della proposta stabilito per la trasmissione al debitore di
una certificazione dei debiti sia iscritti che non ancora iscritti a ruolo (art. 182 ter
comma 2) sarebbe possibile per l’amministrazione finanziaria procedere ad ulteriori
atti di accertamento. Non vi sono sul punto pronunce della Suprema Corte;
l’amministrazione finanziaria ritiene non esistente alcuna preclusione al compimento
di atti di accertamento anche successivamente alla scadenza del termine fissato;
b) propone un pagamento parziale o dilazionato dei debiti fiscali, nei limiti
indicati dall’articolo 182-ter comma 1. Questo è l’ambito nel quale
l’amministrazione finanziaria ha discrezionalità nell’accettare una falcidia dei propri
crediti;
c) rende possibile la partecipazione dell’amministrazione finanziaria
all’adunanza dei creditori, e dunque anche l’espressione del voto.
Circa il perfezionamento della proposta di transazione, l'art. 182- ter prevede due
distinte situazioni:
1) tributi non iscritti a ruolo ovvero iscritti in ruoli vistati ma non ancora consegnati al
Concessionario del servizio nazionale della riscossione alla data di presentazione
della domanda: l'adesione o il diniego alla proposta di transazione vengono
formalizzati con atto del direttore dell'ufficio, su conforme parere della direzione
regionale e sono espressi mediante voto favorevole o contrario in sede di adunanza
dei creditori (ovvero successivamente, ai sensi dell'art. 178 l.f.)
2) tributi iscritti a ruolo e già consegnati al concessionario alla data di presentazione
della domanda: il concessionario esprime il voto in sede di adunanza dei creditori, su
indicazione del direttore dell'ufficio, previo conforme parere della direzione generale.
La questione della obbligatorietà o meno della transazione fiscale era, in assenza di
arresti del giudice di legittimità, uno dei più delicati e dibattuti. Ci si chiedeva, in altre
parole, se in presenza di debiti fiscali, potesse scegliersi di applicare sic et simpliciter
la normativa generale sul trattamento dei debiti privilegiati di cui all’articolo 160,
comma 2, l.f. (pur mettendo in conto la contrarietà dell’amministrazione finanziaria in
sede di votazione) con possibilità di degradazione del debito fiscale in chirografario
secondo le regole generali, oppure se per realizzare detto obiettivo (trattare la parte
incapiente del debito fiscale come chirografario, e dunque pagarlo in percentuale)
dovesse necessariamente proporsi una transazione fiscale.
L’interrogativo assumeva profili di particolare delicatezza con riferimento al debito
IVA e per ritenute, che secondo l’articolo 182 ter poteva al massimo essere
dilazionato, ma non falcidiato, almeno con riferimento alla sorte capitale (le sanzioni
e gli interessi sono invece sicuramente falcidiabili come precisato anche dalla
circolare dell’agenzia delle entrate n. 40/E del 18.04.2008).
Vi era una posizione probabilmente definibile come maggioritaria nel senso della
obbligatorietà della transazione fiscale (T. Roma 20 aprile 2009, cit., per il quale
“qualora la proposta di concordato preventivo riguardi anche crediti (e relativi
accessori) relativi a tributi amministrati dalle agenzie fiscali o a contributi
amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie, per
tali crediti dovranno trovare applicazione anche le disposizioni contenute nell’art. 182
ter, legge fallimentare, nonché, per quanto riguarda i crediti contributivi, quelle di cui
al D.M. 4 agosto 2009; ne consegue che la transazione fiscale deve essere considerata
parte integrante ed indefettibile, a pena di inammissibilità, della proposta di
concordato).
Secondo altra lettura, invece, il ricorso alla transazione fiscale doveva ritenersi
facoltativo con conseguente possibilità di pagamento in percentuale anche del credito
IVA (cfr. Corte d'Appello di Torino, 23 aprile 2010 – Pres. Griffey – Rel. Stalla
secondo la quale “l’art. 146 del d.lvo 5/06, introducendo l‘istituto della transazione
fiscale, ne ha evidenziato il carattere meramente facoltativo e discrezionale per il
debitore, il quale "può proporre" la dilazione del pagamento, ovvero il pagamento
parziale dei tributi aventi natura tanto chirografaria quanto privilegiata, senza peraltro
venire escluso (pur in presenza di debiti tributari) dalla possibilità di adire al
concordato senza formulare alcuna proposta di tal genere; con il che, i debiti maturati
nei confronti del fisco usufruiranno, secondo il loro rango, della sorte comune a tutti
gli altri debiti oggetto di concordato”; cfr. anche Corte d’Appello di Firenze, 13 aprile
2010 – Pres. Bellagamba – Rel. Romoli secondo la quale la transazione fiscale
prevista dall'articolo 182 ter, legge fallimentare non è un procedimento obbligatorio,
nel senso che l'imprenditore che si trovi nelle condizioni previste dall'articolo 160 può
formulare una proposta di concordato preventivo che preveda il pagamento integrale
ovvero la falcidia dei crediti tributari, anche senza seguire l'iter descritto dall'articolo
182 ter e dunque senza perseguire gli effetti di consolidamento del debito fiscale e
della cessazione del contenzioso che la citata norma ricollega all'esito positivo della
transazione fiscale, la quale deve perciò essere considerata come facoltativa per quel
debitore che, per qualsiasi motivo, non avesse interesse a conseguire gli effetti
anzidetti (disponibili su www.ilcaso.it).
In argomento è sopravvenuta una pronuncia della Suprema Corte (trattasi di
Cassazione civile, sez. I, 4 novembre 2011, n. 22931, confermata da Cass. n. 7667
del 16 maggio 2012 e da Cass. pen. 31 ottobre 2013, n. 44283) che ha affermato i
seguenti principi:
i) la transazione fiscale (che riguarda tutti i tributi amministrati dalle agenzie fiscali,
e dunque praticamente tutti i tributi ad esclusione di quelli locali) è facoltativa, nel
senso che il proponente può farvi ricorso ma non è obbligato a valersene;
ii) se il proponente se ne avvale, godrà del vantaggio di avere una certificazione
rapida del debito fiscale da parte dell’amministrazione finanziaria con riferimento
sia a quello già accertato che a quello ancora da accertare, e l’estinzione dei
giudizi in corso relativi ai giudizi dedotti nell’accordo transattivo, con - possibile maggiore capacità di ottenere il consenso degli altri creditori (vale subito precisare
che, come chiarito dalla Suprema Corte, il proponente non è obbligato ad
adeguarsi alla determinazioni dell’agenzia delle entrate modificando la proposta,
ma ben può decidere di continuare a contrastare le pretese dell’erario se del caso
appostando le opportune riserve. In tal caso ovviamente non si avrebbe
l’estinzione dei giudizi in corso);
iii) il proponente può anche decidere di non avvalersene, trattando l’erario come un
qualsiasi altro creditore privilegiato;
iv) sia che si faccia ricorso alla transazione fiscale, sia che non si utilizzi questa
facoltà l’IVA dovrà comunque essere pagata secondo le regole dettate dall’articolo
182 ter;
v) sia che si faccia ricorso alla transazione fiscale, sia che non si utilizzi questa
facoltà il consenso dell’erario non è indispensabile per l’omologazione, nel senso
che il credito dell’erario “conterà” nel concordato così come gli altri crediti
ammessi al voto in ragione dell’ammontare del credito.
Dal momento che a seguito dell’intervento operato con il D.L. 31 maggio 2010, n.
78 il regime dell’IVA è stato esteso anche alle ritenute (ossia ai debiti per
versamenti che l’imprenditore avrebbe dovuto fare quale sostituto di imposta) può
ipotizzarsi che il principio affermato dalla suprema corte (necessità di pagamento
integrale) valga anche per questa obbligazione.
Quanto alla transazione contributiva è verosimile che sia da considerarsi
facoltativa anch’essa (sempre che non venga a monte ritenuta illegittima per
violazione di legge dei decreti di attuazione rispetto alla norma di legge primaria:
in senso implicitamente favorevole alla legittimità dei decreti attuativi T. Roma
2.8.2010, in ilcaso.it, secondo il quale “con il decreto ministeriale 4 agosto 2009,
emanato ai sensi dell'articolo 32, comma sei, del decreto legge 29 novembre 2008,
numero 185, il legislatore ha ritenuto di stabilire precisi limiti al pagamento,
nell'ambito del concordato preventivo (o di un accordo di ristrutturazione dei
debiti ex art. 182 bis, legge fallimentare) dei crediti per contributi dovuti agli enti
gestori di forme di previdenza e di assistenza. Da ciò consegue che tali limiti
dovranno essere rispettati non solo dalle pubbliche amministrazioni interessate al
fine di vincolare la loro condotta in presenza di proposte di concordato, ma anche
da coloro che formulino proposte di concordato che involgano crediti contributivi,
il cui trattamento non potrà pertanto derogare ai limiti fissati dalle citate
disposizioni legislative. (Nel caso di specie, il tribunale ha disposto che la
proposta di concordato preventivo avrebbe dovuto prevedere: a) il pagamento
integrale dei crediti privilegiati per contributi dovuti all’INPS per l’assicurazione
obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti (artt. 2753-2778, n. 1, c.c.)
e dei crediti privilegiati per premi dovuti all’INAIL (art. 4.3 del decreto-legge 910-1989, n. 338, convertito dalla legge 7-12-1989, n. 389); b) il pagamento non
inferiore al trenta per cento di tutti i crediti chirografari di INPS ed INAIL)”.
I riferimenti normativi della transazione contributiva sono: articolo 32 comma 6
legge 28.1.09, n. 2 di conversione del D.L. 29.11.2008, n. 185 che rinvia ad un
decreto del ministero del lavoro 4 agosto 2009 che a sua volta rinvia a due
circolari INPS (15.3.2010, n. 38) INAIL (26 febbraio 2010, n. 8).
Il debitore può effettuare la proposta di cui al primo comma anche nell’ambito
delle trattative che precedono la stipula dell’accordo di ristrutturazione di cui
all’articolo 182-bis.
La proposta di transazione fiscale, unitamente con la documentazione di cui
all'articolo 161, è depositata presso gli uffici indicati nel secondo comma
dell’articolo 182-ter, che procedono alla trasmissione ed alla liquidazione ivi
previste.
Nei successivi trenta giorni l’assenso alla proposta di transazione è espresso
relativamente ai tributi non iscritti a ruolo, ovvero non ancora consegnati al
concessionario del servizio nazionale della riscossione alla data di presentazione
della domanda, con atto del direttore dell’ufficio, su conforme parere della
competente direzione regionale, e relativamente ai tributi iscritti a ruolo e già
consegnati al concessionario del servizio nazionale della riscossione alla data di
presentazione della domanda, con atto del concessionario su indicazione del
direttore dell’ufficio, previo conforme parere della competente direzione generale.
L’assenso così espresso equivale a sottoscrizione dell’accordo di ristrutturazione.
Vale infine ricordare come l’istituto della transazione fiscale sia applicabile anche
agli imprenditori agricoli in virtù dell’art. 23, comma 43 del d.l. n. 98/2011, che
ha esteso l’accordo di ristrutturazione ex art. 182 bis (nell’ambito del quale è
parimenti prevista la possibilità della transazione fiscale) anche a tali soggetti, di
regola esclusi in quanto non assoggettabili ex art. 1 l.f. a procedure concorsuali.
c) Correttezza dei criteri di formazione delle diverse classi di creditori.
Qualora il piano contenga – trattasi infatti di una mera eventualità, e giammai di
obbligo: in tal senso ed espressamente Cass. 10.2.2011, n. 3274, in Fall., 2011, 403
– la previsione di un soddisfacimento in modo differenziato dei creditori in ragione
della classe di appartenenza, la formazione delle classi di creditori deve avvenire, ai
sensi dell’art. 163 comma 1 legge fallimentare, “correttamente”, ossia i creditori
devono essere raggruppati in modo omogeneo secondo posizione giuridica ed
interessi economici (così recita l’articolo 160 l.f.) al fine di evitare che creditori
appartenenti alla medesima tipologia creditoria possano essere soddisfatti in modo
diverso.
In ordine al significato della locuzione "secondo posizioni giuridiche e interessi
economici omogenei", la Suprema Corte, con la sentenza 4.2.2009, n. 2706 , in
Fall., 2009, 789 ha precisato che il riferimento alle posizioni giuridiche rimanda alla
distinzione tra creditori chirografari, privilegiati e postergati mentre l’espressione
interessi economici omogenei richiamerebbe la “posizione dei crediti aventi
medesime caratteristiche in relazione alla categoria di appartenenza dei creditori”
(concetto di non chiarissima determinazione). Secondo la tesi prevalente queste
nozioni giustificherebbero distinzioni tra creditori fondate sulla natura del credito
(privilegiato, chirografario, postergato); sulla condizione giuridica (contestato,
condizionale, esecutivo); sulla causa del credito (di lavoro; per fornitura, per mutuo,
per factoring, e così via) senza escludere anche la possibilità di operare ulteriori
distinzioni “trasversali” come quella, ad esempio, tra creditori per piccoli importi e
creditori per importi maggiori nonché quella tra creditori muniti o non muniti di
garanzie esterne.
L’articolo 160 precisa altresì che il trattamento stabilito per ciascuna classe non può
avere l’effetto di alterare l’ordine della cause di prelazione, ed anche questo profilo
sarà fatto oggetto di indagine da parte del Tribunale.
Quanto al significato della norma da ultimo citata, essa va intesa – almeno secondo
l’opinione maggioritaria - nel senso che, laddove sia previsto un pagamento in
percentuale dei creditori privilegiati (perché, evidentemente, il loro credito è in tutto
od in parte incapiente rispetto al valore dei beni sui quali il privilegio insiste) la
percentuale offerta ai creditori privilegiati inseriti in una determinata classe non sia
inferiore a quella offerta ai creditori privilegiati (inseriti in una classe diversa) che
abbiano una collocazione successiva nell’ordine delle cause di prelazione stabilito
dal codice civile.
d)
Nell’ambito delle classi una particolare attenzione deve essere rivolta al caso
in cui siano presenti creditori postergati, con particolare riferimento ai postergati ex
lege ai sensi degli articoli 2467 c.c. e 2497 quinquies c.c., come modificati con la
riforma del diritto societario del 2003, ossia ai soci che abbiano concesso
finanziamenti alla società.
In via generale, per i soci il vantaggio di concedere finanziamenti alla società in
luogo di eseguire conferimenti in conto capitale consiste nel fatto che il capitale non
può essere restituito ai soci (condotta che, anzi, costituisce reato: art. 2626 c.c.)
mentre i prestiti possono essere restituiti senza presentare le garanzie di stabilità che
offre il capitale sociale. Per la società, i finanziamenti concessi dai soci, rispetto ai
finanziamenti bancari, hanno di regola un costo minore e possono essere concessi
agevolmente, senza necessità di particolare istruttoria.
La concessione di finanziamenti in luogo di conferimenti in conto capitale, per
converso, rappresenta un potenziale danno per i creditori sociali, i quali si
vedrebbero affiancati, come creditori concorrenti, anche dai soci per crediti di
restituzione di somme erogate alla società.
Il legislatore del 2003 ha introdotto, per le società a responsabilità limitata, una
disciplina che non limita la facoltà dei soci di finanziare la società, ma pone regole
penalizzanti rispetto ai creditori sociali, prevedendo (art. 2467 c.c.) che il rimborso
dei finanziamenti dei soci alla società è postergato rispetto agli altri creditori, e se
detto rimborso è avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della
società deve essere restituito. Il comma secondo dell’articolo 2467 c.c. detta inoltre
la definizione di finanziamento del socio: quello, in qualunque forma effettuato, che
è stato concesso in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività
svolta dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al
patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale
sarebbe stato ragionevole un conferimento.
L’articolo 2497 quinquies estende la regola della postergazione ai finanziamenti
effettuati in favore della società da chi esercita attività di direzione e coordinamento
o da altri soggetti ad essa sottoposti.
Vale osservare come ciò significhi che la norma si applica (a prescindere dal fatto
che la società finanziata sia una s.r.l.: potrebbe anche essere una società di tipo
diverso) :
i)
ai finanziamenti effettuati dalla capogruppo in favore della società sottoposta;
ii)
ai finanziamenti effettuati da società sottoposta ad altra società sottoposta (c.d.
cross-stream);
iii)
ai finanziamenti effettuati da una controllata inferiore ad una controllata
superiore (c.d. up-stream intermedi).
Non si applica invece ai finanziamenti effettuati dalla società del gruppo
direttamente in favore della holding che su di essa esercita attività di direzione e
coordinamento (c.d. up-stream diretti, ossia finanziamenti c.d. ascendenti).
Ciò premesso, in caso di presenza di creditori postergati occorre chiedersi: 1) se
siano creditori concorsuali che debbano trovare spazio nel concordato; 2) in caso
affermativo, in quali termini possano trovare spazio, ossia se possano essere
destinatari di una proposta di pagamento analoga a quella degli altri creditori (in
altre parole, se possano essere accomunati agli altri creditori in un concordato senza
classi) ovvero se debbano essere necessariamente costituti in classe autonoma; 3) se
ad essi spetti il diritto di voto.
In tema è intervenuta la Suprema Corte che, con la già citata sentenza 2706/2009
(resa tuttavia, con riferimento ad una fattispecie di c.d. rito intermedio, ossia
precedente al correttivo del 2007) ha affermato:
1) che i creditori postergati vanno collocati in una autonoma classe, essendo portatori di
interessi economici (ma più propriamente forse avrebbe dovuto farsi leva sul profilo
della posizione giuridica) non omogenei a quelli degli altri creditori (per l’esattezza,
tuttavia, nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte era stato proposto un
concordato con classi, e la Corte ha ritenuto non corretto l’inserimento dei creditori
postergati in altra classe composta anche da creditori di tipo diverso; non può dunque
ritenersi che la Corte abbia affermato l’obbligatorietà, nel caso di presenza di creditori
postergati, di formazione di una classe);
2) che il principio della postergazione (ossia del soddisfacimento successivo) può essere
derogato purchè con la maggioranza assoluta non solo del ceto chirografario, ma
anche la maggioranza in ciascuna delle classi (oggi, la maggioranza delle classi).
Si tratta di pronuncia assai discussa, e che pertanto non è dato sapere se possa
costituire un precedente destinato ad essere seguito; la Corte, inoltre, non si è
espressa sulla questione del diritto di voto (in ordine alla quale non mancano
pronunce di merito: cfr. T. Messina 29.12.2005, in Fall. 2006, 678 e T. Bologna
26.1.2006 in Fall., 2006, 676, entrambe annotate da Panzani; T. Bologna
26.10.2006, in Fall., 2007, 579 annotata da Zanichelli; T. Firenze 26.4.2010, in Fall.,
2010, 873; T. Padova 16.5.2011, in www.ilcaso.it).
In conclusione, la disciplina dei crediti postergati resta estremamente controversa;
ad avviso di chi scrive i creditori postergati non potrebbero essere considerati
creditori concorsuali e ciò in quanto la loro posizione di creditori destinati ad essere
pagati solo in caso di integrale pagamento degli altri creditori li colloca, in sede di
concordato preventivo (ossia di procedura di regola destinata a pagare solo in
percentuale i creditori chirografari) oggettivamente al di fuori del perimetro della
procedura concorsuale. Anche la tesi della derogabilità, a maggioranza assoluta dei
chirografari e con la maggioranza delle classi, al principio della postergazione pare
non corretta a fronte della norma di legge che li pospone a tutti gli altri creditori; i
creditori postergati non potrebbero – ma si ripete, il tema è oggettivamente
controverso - essere tenuti in alcuna considerazione in sede concordataria.
3) Requisiti di ammissibilità connessi al piano concordatario.
a) Predisposizione di un piano di ristrutturazione dei debiti e soddisfacimento dei
crediti.
L’articolo 160 della legge fallimentare prevede espressamente che l’imprenditore
può proporre domanda di concordato preventivo sulla base di un piano di
ristrutturazione dei debiti e soddisfacimento dei crediti; non è quindi revocabile in
dubbio che la presenza di un piano sia una condizione di ammissibilità alla
procedura concordataria, atteso che senza il piano la proposta concordataria
risulterebbe del tutto priva di contenuto.
La norma si limita ad indicare taluni possibili contenuti del piano, senza tuttavia che
detta elencazione possa ritenersi esaustiva (depone chiaramente in tal senso l’uso
dell’espressione “può prevedere”) e pertanto l’imprenditore può anche avanzare
proposte di contenuto in tutto od in parte diverse (c.d. atipicità della proposta
concordataria); deve pertanto ritenersi superata la previgente bipartizione delle
proposte concordatarie secondo gli schemi del concordato con garanzia o del
concordato con cessione dei beni (cui derivava una diversità di disciplina in
particolare per l’ipotesi di inadempimento) nei quali anche le proposte c.d. miste
venivano necessariamente fatte rientrare.
L’atipicità del contenuto del piano di ristrutturazione è l’indice più evidente della
struttura “aperta” del nuovo istituto concordatario, nel senso che è oggi rimesso al
soggetto proponente stabilire se orientare il piano nel senso della conservazione
dell’impresa ovvero della sua liquidazione al fine di pagare i creditori, nonché a
determinare in concreto le modalità per perseguire la finalità prescelta.
Con l’espressione “soddisfazione dei crediti” il legislatore ha inoltre voluto chiarire
che i crediti potranno essere soddisfatti anche in modo diverso dall’adempimento
(ossia dal pagamento di una somma di denaro) ad esempio con l’attribuzione di
azioni, quote o obbligazioni di una società di nuova costituzione alla quale viene
ceduta l’azienda.
Nella pratica, pur continuando a registrarsi un numero maggioritario di concordati
tradizionali modellati sullo schema della cessione dei beni ai creditori, sono in
crescita le proposte di concordato c.d. chiuse, nel senso di proposte che contengono
già al loro interno l’indicazione sia dell’acquirente dell’azienda che del prezzo di
cessione, con preliminari di acquisto già sottoscritti (pur se condizionati
all’omologazione del concordato) e spesso accompagnati da affitto di azienda in
favore del promissario acquirente.
Si tratta di concordati che presentano il vantaggio di offrire all’imprenditore in crisi
la certezza che l’azienda verrà ceduta ad un soggetto scelto dallo stesso proponente
(spesso si tratterà di società riconducibile alla stessa compagine sociale) ed ai
creditori la certezza di incassare un prezzo prestabilito (senza dover subire l’alea
dell’incanto tipica del concordato con cessione dei beni) la cui congruità sarà, del
resto, stata verificata da parte del commissario giudiziale (con possibilità, oltre
tutto, di opposizione all’omologazione per motivi di convenienza da parte di
creditori dissenzienti rappresentanti almeno il 20% del debito complessivo: art. 180
l.f.). Una variante del concordato chiuso prevede che nella proposta si contempli la
possibilità di dare corso ad un tentativo di vendita dell’azienda sul mercato, e che
solo in difetto di interessati disposti ad offrire più del terzo promissario acquirente
sia dia esecuzione al contratto preliminare.
Non mancano anche concordati misti, nel senso che per taluni asset si prevede la
cessione ad un soggetto predeterminato (quindi secondo lo schema “chiuso”) e per i
rimanenti beni la cessione dei beni ai creditori.
L’ammissibilità dei concordati c.d. chiusi o preconfezionati è generalmente
riconosciuta; in senso favorevole cfr. anche V. Zanichelli, in nota a Cass. 18.1.2013,
n. 1237, in Fall., 2013, 558.
b) Il concordato con cessione dei beni. Approfondimenti.
La previgente legge fallimentare, come è noto, prevedeva in modo espresso la
possibilità che il concordato preventivo si realizzasse nella forma della cessione dei
beni ai creditori.
La cessione dei beni ai creditori secondo la giurisprudenza era inquadrabile nello
schema della cessione dei beni ai creditori (cessio bonorum) regolata dagli articolo
1977 segg. c.c., e consisteva in un mandato irrevocabile a gestire e liquidare i beni
del debitore affidato agli organi della procedura, senza che in loro favore si
realizzasse al cin trasferimento della proprietà (cfr. in tal senso Cass. 5306 del
1/6/1999, in Fall., 2000, 486, per la quale “La cessione dei beni proposta con la
istanza di concordato preventivo non si perfeziona già con il deposito di essa o quantomeno - con il decreto di ammissione assecondato dalla pubblicità prevista
dall'art. 166 della legge fallimentare, e neppure con la sentenza di omologazione del
concordato, dovendosi invece l'istituto in questione ricondurre, sia pure con le
caratteristiche proprie di un procedimento complesso ed articolato, alla figura
generale della cessione dei beni ai creditori prevista dall'art. 1977 cod. civ., la quale
si sostanzia in un mandato irrevocabile a gestire e liquidare i beni del debitore, senza
alcuna efficacia traslativa della proprietà, e con il quale si conferisce agli organi
della procedura la legittimazione a disporre dei beni dell'imprenditore al fine di
soddisfare il ceto creditorio”. Cfr. anche Cass. 709/1993).
Ciò non significava che le regole civilistiche potessero applicarsi tout court anche al
concordato con cessione dei beni, ma solo in quanto non fosse diversamente
disposto dalla legge fallimentare: ad esempio, si riteneva che mentre la cessione ex
art. 1977 c.c. potesse riguardare anche parte del patrimonio del debitore, il
concordato con cessione dei beni dovesse invece avere ad oggetto l’intero
patrimonio (così Cass. 24.10.2003, n. 16013); l’effetto esdebitatorio proprio del
concordato preventivo (art. 184 l.f.) operava invece nella cessio bonorum civilistica
solo se espressamente previsto dalle parti, altrimenti la liberazione avveniva solo
nei limiti di quanto ricevuto (art. 1984 c.c.).
L’articolo 186 l.f. ante riforma prevedeva, inoltre, che la risoluzione di questo
concordato non potesse avvenire se all’esito fosse stata ricavata una percentuale
inferiore al 40% (posto dalla legge come soglia minima di soddisfacimento dei
creditori chirografari).
Con l’entrata in vigore della riforma, si ritiene che il concordato con cessione dei
beni sia tuttora una declinazione possibile del piano concordatario, sia per la
previsione, nell’articolo 160, della “cessione dei beni” quale modalità di
realizzazione del piano, sia, più in generale, in ragione del principio di atipicità della
proposta concordataria.
Se rimane, quindi, tuttora valido il rinvio allo schema di cui agli artt. 1977 segg. c.c.,
il mutato quadro normativo – in particolare: abrogazione della soglia minima del
40% di pagamento dei creditori chirografari; possibilità di proporre concordati c.d.
misti; diverso regime della risoluzione - ha sollevato dubbi di vario ordine.
b1) Se sia ammissibile una proposta di concordato con cessione dei beni che si limiti
a prevedere l’obbligo per la società proponente di mettere a disposizione dei
creditori tutto il proprio patrimonio, senza indicazione della percentuale offerta ai
creditori e dei tempi di liquidazione.
La risposta della giurisprudenza è, ormai, negativa nel senso che si ritiene che,
quanto meno ai fini della intelligibilità e della piena comprensione della proposta da
parte dei creditori, è necessario che in essa si indichi la percentuale di presumibile
soddisfazione dei crediti come anche dei tempi ipotizzabili per la liquidazione (cfr.
Cass. 23.6.2011 n. 13817).
b2) Se sia ammissibile una proposta di concordato preventivo con cessione dei beni
che preveda l’indicazione della percentuale di soddisfacimento dei crediti ma in
termini non vincolanti per il proponente, ossia non quale garanzia di raggiungimento
di quel risultato bensì in funzione chiarificatrice della proposta stessa.
La risposta della giurisprudenza di legittimità (come della prevalente giurisprudenza
di merito) è
positiva, nel senso che ritenere l’obbligatorietà di questo impegno
equivarrebbe a “ritenere sempre necessario che il concordato assuma quanto meno la
forma del concordato misto, nel quale la cessione dei beni è sempre accompagnata
dall’impegno a garantire ai creditori una percentuale minima di soddisfacimento”
mentre “l’oggetto dell’obbligazione ben può essere, e tale è in difetto di diversa ed
in equivoca assunzione di responsabilità, unicamente l’impegno a mettere a
disposizione dei creditori i beni dell’imprenditore” (così Cass. 23 giugno 2011, n.
13817). In tal senso anche la recente Cass. s.u. 23 gennaio 2013, n. 1521, che ha
quindi definitivamente risolto la questione.
Nella giurisprudenza di merito vi sono tuttavia anche voci di segno diverso, pur se
antecedenti alla citata sentenza delle s.u., tra le quali merita di essere ricordato T.
Milano 21.1.2010 (in Fall., 2010, p. 1315) e T. Milano 28.10.2011 (c.d. caso San
Raffaele, in Fall., 2012, 78).
Nel caso di concordato preventivo con cessione dei beni senza impegno a
corrispondere una determinata percentuale (l’ipotesi di gran lunga preferita nella
pratica) la risoluzione potrà avvenire a norma dell'art. 186 legge fall., qualora
emerga che esso sia venuto meno alla sua funzione, in quanto, secondo il prudente
apprezzamento del giudice del merito, le somme ricavabili dalla liquidazione dei
beni ceduti si rivelino insufficienti, in base ad una ragionevole previsione, a
soddisfare, anche in minima parte, i creditori chirografari e, integralmente, i creditori
privilegiati (Sez. 1, Sentenza n. 13446 del 20/06/2011).
b3) Si pone, talvolta, la questione della ammissibilità di una proposta concordataria
che preveda una cessione parziale dei beni ai creditori, mentre la restante parte è
destinata a rimanere nella titolarità della società proponente.
Questa tipologia di proposta deve, secondo un orientamento, ritenersi non
ammissibile, (cfr. T. Roma 29.7.2010, in ilcaso.it e T. Roma 25.7.2012, in ilcaso.it)
perché perseguirebbe la finalità illecita di consentire al debitore di sottrarre parte dei
suoi beni alla esecuzione concorsuale, in violazione degli artt. 2740 c.c. e 2910 c.c.,
senza che quanto disposto dall’articolo 1977 c.c. in tema di cessione ai creditori
contrattuale (che consente la cessione anche parziale) possa assumere rilievo atteso
che in questo secondo caso non si determina l’effetto esdebitatorio tipico del
concordato: il debitore, con la cessione ex art. 1977 c.c. è liberato verso i creditori
nei limiti di quanto hanno ricevuto (art. 1984 c.c.) ed i creditori possono agire anche
sui beni non ceduti dopo avere liquidato le attività cedute (art. 1980 c.c.). In altre
parole, il proponente potrebbe godere dell’effetto esdebitatorio del concordato solo
ove ceda tutti i suoi beni ai creditori (attraverso una cessio bonorum integrale ovvero
pre-individuando singoli acquirenti) ovvero proponga un concordato in continuità
(ossia senza cessione dei beni ai creditori o a terzi).
Non mancano tuttavia anche letture differenti, che fanno leva da un lato sul fatto che
il previgente articolo 160, nel riferirsi al concordato con cessione dei beni,
disponeva espressamente la cessione di “tutti” i beni del proponente, precisazione
non reiterata nell’articolo 160 come riformulato a seguito della riforma; dall’altro, la
atipicità della proposta concordataria unitamente al fatto che la valutazione in ordine
alla convenienza della stessa è rimessa ai creditori deporrebbe in favore della
sottrazione di questo tipo di indagine al Tribunale.
Dalla recente riforma del concordato preventivo attuata nell’agosto 2012 possono
trarsi elementi a supporto della tesi negativa esposta, nella parte in cui, regolando il
c.d. concordato in continuità (art. 186 bis) ha previsto che in detta ipotesi
(intendendosi per tale un concordato che preveda la continuazione dell’esercizio
dell’impresa da parte del debitore ovvero la sua cessione a terzi) una cessione
parziale dei beni non funzionali all’esercizio dell’impresa ai creditori (es.: degli
asset non strategici) è lecita in quanto funzionale ad un obiettivo ritenuto meritevole
di tutela dal legislatore, quello della continuazione dell’attività di impresa. In altre
parole, la conservazione di parte del patrimonio in capo al proponente (o al terzo
cessionario) in questo caso non soddisfa un interesse – illecito – a sottrarre parte del
patrimonio alla garanzia dei creditori, ma l’interesse – lecito - alla continuazione
dell’attività di impresa.
Nel senso della impossibilità di una cessione parziale dei
beni cfr. anche T. Roma 25.7.2012, in www.ilcaso.it).
b4) Ci si è chiesti se nella proposta di concordato con cessione dei beni sia possibile
prevedere che il ruolo di liquidatore giudiziale venga svolto dall’amministratore o
dal liquidatore sociale.
Una recente sentenza della Cassazione, la n. 1237 del 18.1.2013 (conosciuta anche a
per l’affermazione della impossibilità di nominare liquidatore lo stesso commissario
giudiziale, per conflitto di interessi) affronta anche il tema della qualificabilità del
concordato, in concreto, come concordato con cessione dei beni, e della possibilità
di nominare liquidatore il soggetto indicato dal ricorrente, se in possesso dei
requisiti di cui all’art. 28 LF. La Suprema Corte afferma che “l’indubbia, originaria
e permanente, natura dispositiva, e quindi derogabile”, della disposizione “se il
concordato ….. non dispone diversamente”, contenuta nell’’art. 182 L.F., “valorizza
l’autonomia privata nella determinazione del contenuto di tale forma di concordato
preventivo, ciò in consonanza con la natura prevalentemente contrattuale che
caratterizza il concordato preventivo nel regime introdotto dal d.lgs. n. 169 del
2007 e, conseguentemente, con il decisivo rilievo attribuito alla volontà dei creditori
ed al loro consenso informato (cfr. ex plurimis la sentenza n. 21860 del 2010)”.
Se, in linea di principio, il Tribunale non può disattendere l’indicazione fatta dalla
società ed approvata dai creditori, deve tuttavia sottolinearsi come il soggetto
proposto debba essere in possesso dei requisiti di cui all’art. 28, tra i quali vi è
anche l’assenza di conflitti di interesse: il combinato disposto degli articoli 28 e 182
l.f. è stato, sul punto, recentemente interpretato dalla Suprema Corte in termini
rigorosi, assumendo, tra l’altro, che “l'avere ricoperto la carica di amministratore o
di liquidatore della società fino alla richiesta di concordato costituisce una situazione
di potenziale conflitto di interessi che potrebbe costituire condizione ostativa alla
nomina” (così Cass. civile, Sez. I, 15 maggio 2011 n. 15699).
Potrebbe dunque ipotizzarsi una condizione di inadeguatezza soggettiva
dell’amministratore o del liquidatore della società a ricoprire – anche - il ruolo di
liquidatore giudiziale sotto il profilo dell’esistenza di un potenziale conflitto di
interessi, che potrebbe quindi indurre il Tribunale a procedere ad una nomina diversa
(in tal senso cfr. anche T. Roma, decr. N. 6/2014 del 27/29.1.2014).
c) Il concordato in continuità.
Il decreto legge 22.6.2012, n. 83, convertito nella l. 7.8.2012, n. 134, ha dettato una
disciplina speciale all’articolo 186-bis per il concordato con continuità aziendale (cfr.
in tema da ultimo Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, in Fall., 2013,
1222).
Per concordato con continuità aziendale deve intendersi il concordato sorretto da un
piano che prevede “la prosecuzione dell'attività di impresa da parte del debitore, la
cessione dell'azienda in esercizio ovvero il conferimento dell'azienda in esercizio in
una o più società, anche di nuova costituzione”.
Quindi, si ha continuità aziendale:
a) Quando il debitore continua ad esercitare l’attività d’impresa;
b) Quando il debitore cede l’azienda in esercizio a terzi;
c) Quando il debitore conferisce l’azienda in altra società, anche di nuova costituzione.
Non sembra vano ricordare come la responsabilità solidale dell’acquirente ex art.
2560 comma 2 c.c. per debiti inerenti l’azienda ceduta e risultanti dalle scritture
contabili non opera per le cessioni in esecuzione del concordato (art. 105, comma 4,
l.f. richiamato dall’art. 182 l.f.); la responsabilità per i debiti verso i lavoratori ex art.
2112 c.c. è invece sempre sussistente, salvo quanto disposto nell’ambito
dell’accordo raggiunto con le organizzazioni sindacali: art. 47, commi 4 bis e 5 della
legge 29.12.1990, come modificata dalla l. n. 134/2012.
L’articolo 186-bis non crea una nuova procedura di concordato preventivo, atteso
che il concordato con continuità era ammissibile anche in passato, in quanto
rientrava nel principio di atipicità della proposta di concordato dettato dall’articolo
160 l.f.
L’articolo 186-bis introduce, più semplicemente, una normativa speciale che si
applica ogni qual volta un debitore proponga un concordato con continuità aziendale
secondo la definizione data dalla norma. Per tutto quanto non derogato dalla
normativa speciale continua ad applicarsi la disciplina generale in tema di
concordato.
La normativa speciale consiste nell’introdurre cautele (per i creditori, al fini di
ridurre il rischio che la continuazione dell’attività di impresa si traduca in un danno
per loro) e vantaggi (ossia norma di agevolazione della continuità aziendale).
1) le cautele:
- il piano deve contenere anche un'analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla
prosecuzione dell'attività d'impresa prevista dal piano di concordato, delle risorse
finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura (186 bis comma 2 lett.
a);
- la relazione del professionista di cui all'articolo 161, terzo comma, deve attestare che
la prosecuzione dell'attività d'impresa prevista dal piano di concordato è funzionale
al miglior soddisfacimento dei creditori (186 bis comma 2 lett. b);
2) i vantaggi:
- il piano può prevedere, fermo quanto disposto dall'articolo 160, secondo comma, una
moratoria sino ad un anno dall'omologazione per il pagamento dei creditori muniti di
privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui
quali sussiste la causa di prelazione. In tal caso, i creditori muniti di cause di
prelazione di cui al periodo precedente non hanno diritto al voto;
- vi è la possibilità di pagare, previa attestazione specifica del professionista, i creditori
anteriori (art. 182 quinquies comma 4); detta possibilità è di regola negata giusto il
disposto dell’art. 168 (quel pagamento che non si può ottenere coattivamente tramite
un giudice a maggior ragione non si può conseguire per effetto di una spontanea
determinazione dell’impresa).
E’ dubbio se la possibilità di pagare i crediti anteriori sia contemplata in misura pari
a quanto offerto in sede concordataria (e dunque il beneficio, rispetto agli altri
creditori concordatari, riguardi solo il tempo della prestazione, anticipato rispetto
agli altri) ovvero possa essere anche ottenuto per l’intero (e dunque il beneficio,
rispetto agli altri creditori, riguardi, oltre il quando, anche il quantum). La norma
sembra ripresa dall’articolo 3, comma 1 bis, del D.L. 347/2003, convertito nella
legge 39 del 2004, in tema di amministrazione straordinaria, ambito nel quale si è
ritenuto che potesse essere autorizzato il pagamento integrale; va segnalato tuttavia
come T. Milano, in una circolare interpretativa della norma abbia prescelto l’opzione
del pagamento percentuale.
T. Roma 30/10/2012, rel. Odello, ha ritenuto altresì necessario, ai fini
dell’autorizzazione al pagamento dei crediti anteriori, che la prestazione sia non
fungibile in tempi rapidi, ossia che non sia possibile ottenere da altro soggetto le
medesime prestazioni (senza essere, quindi, costretti a pagare i debiti anteriori)
- la prosecuzione dei contratti in corso di esecuzione (anche con la p.a.: art. 186 bis
comma 3). Si tratta della c.d. continuità contrattuale, nel senso che il deposito della
domanda di concordato non può costituire causa di risoluzione del contratto, ed
eventuali clausole contrattuali di segno diverso sarebbero inefficaci;
- la partecipazione a gare per l’assegnazione di contratti pubblici (art. 186 bis comma
4)
Come norma di chiusura, si prevede che se nel corso di una procedura iniziata ai
sensi del presente articolo l'esercizio dell'attività d'impresa cessa o risulta
manifestamente dannoso per i creditori, il Tribunale provvede ai sensi dell'articolo
173. Resta salva la facoltà del debitore di modificare la proposta di concordato.
Queste sono le regole speciali dettate per il concordato in continuità, che si
aggiungono ad altre regole generali – valide per ogni tipologia di concordato, non
solo quello con continuità – che comunque facilitano la continuità aziendale. In
particolare:
- la sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione (182 sexies)
Se il capitale sociale si riduce al di sotto del minimo legale e gli amministratori non
provvedono alla convocazione dell’assemblea per la riduzione e contemporaneo
aumento dello stesso sino al minimo legale, si determina una causa di scioglimento
della società (con conseguente potere degli amministratori di gestire la società ai soli
fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale (2486 c.c.)
Anche in una situazione del genere, una società può comunque essere ammessa alla
procedura di concordato preventivo, sia di liquidazione che con continuità, anche se
abbia interamente perso il capitale sociale ed anche se il piano di concordato preveda
espressamente la prosecuzione dell’attività imprenditoriale. Allo stesso modo,
l’integrale perdita del capitale sociale non impedisce alla società di depositare
istanza per l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti e di
continuare ad operare regolarmente fino al momento della omologazione
dell’accordo stesso.
- la possibilità di sciogliersi dai contratti in corso di esecuzione alla data del ricorso
(169 bis)
Circa la nozione di contratto in corso, se pur il legislatore non ha usato gli stessi
termini utilizzati nell’art. 72 l.fall. (contratto “ancora ineseguito da entrambe le
parti” al momento del fallimento) bensì quella di “contratti in corso di esecuzione
alla data della presentazione del ricorso” (nozione apparentemente più ampia,
perché idonea a ricomprendere anche contratti in cui una delle parti abbia già
eseguito la propria prestazione) si lascia tuttavia preferire un’interpretazione
restrittiva della nuova norma nella direzione di un medesimo ambito applicativo
delle due disposizioni: possono quindi ritenersi rapporti pendenti quelli che
abbiano un fatto costitutivo anteriore al deposito del ricorso e per i quali in quel
momento nessuna delle parti abbia eseguito la propria prestazione principale (cfr. ad
esempio T. Monza Trib. Monza, decr. 16.1.2013, in Il Fallimentarista, per il quale
non potrebbe sciogliersi il mutuo nel caso in cui il mutuante abbia già erogato
l’intero importo dovuto, solo residuando il debito restitutorio del mutuatario).
Quanto al problema della determinazione dell’indennizzo, si ritiene di condividere la
tesi secondo la quale – una volta aperta la procedura concordataria - il giudice
delegato potrà intervenire sulla quantificazione in adunanza solo ai fini del voto,
mentre nell’ipotesi di controversia tra le parti la questione sarà risolta – come per
l’accertamento di qualsiasi credito nel concordato preventivo - in sede
extraconcorsuale, dal giudice civile.
- la possibilità di contrarre finanziamenti prededucibili (c.d. ponte, ossia finalizzati al
deposito del ricorso: 182 quater comma 2; finanziamenti dopo il deposito del ricorso
ma prima dell’ammissione: 182 quinquies commi 1 e 2 e 3; finanziamenti in
esecuzione del concordato: 182 quater comma 1).
Problematico è il caso di cessione dell’azienda non gestita dal debitore ma affittata a
terzi. E’ concordato in continuità ?
Una parte della giurisprudenza ritiene che non si ha concordato preventivo con
continuità aziendale se vi è già un contratto di affitto di azienda in essere ovvero se
il piano prevede l'immediata stipula, previa autorizzazione giudiziale, di un contratto
di affitto d'azienda, in vista della futura cessione dell'azienda all'affittuario,
condizionatamente all'omologa del concordato, in quanto in tal caso non si avrebbe
una cessione dell'azienda in esercizio da parte del debitore, bensì di un terzo. Di
conseguenza, da un lato la relazione del professionista non dovrebbe avere il
contenuto specifico di cui all’art. 186 bis, comma 2, lett. a (ossia l’indicazione
specifica di costi e ricavi) e b (ossia l’attestazione che la prosecuzione dell’attività
d’impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento
dei creditori) dal momento che le condizioni di rischio dell'attività d'impresa non
ricadrebbero direttamente sul ceto creditorio concordatario, che ha a disposizione
come attivo concordatario (dapprima) i canoni di affitto e (poi) il prezzo di cessione
(cfr. T. Terni 29.1.2013 ma anche di recente Tribunale di Milano, 28.11.2013);
dall’altro non potrebbero invocarsi le norme di agevolazione specifica sopra
ricordate.
Altra parte della giurisprudenza è invece di avviso contrario, ritenendo che questa
fattispecie rientri nella fattispecie di concordato con continuità aziendale (cfr. Trib.
Bolzano 27.2.2013 e Trib. Firenze 19.3.2013); è assai discutibile tuttavia (e si
predilige la tesi negativa) che in questo caso il professionista debba attestare anche
costi e ricavi attesi dall’affittuario.
In dottrina, è stato efficacemente osservato che “….nessuna questione sulla
continuità aziendale in concreto potrebbe porsi qualora l’azienda fosse affittata.
Infatti, in virtù del contratto di affitto, l’azienda è restituita al mercato; è condotta
sotto la responsabilità dell’affittuario: il quale sopporta il relativo rischio d’impresa.
Non sarebbero prospettabili, nemmeno in tesi, norme di favore quali quelle previste
dalla legge fallimentare con riguardo alla continuità aziendale, di cui mai potrebbe
giovarsi non l’imprenditore in procedura bensì un soggetto estraneo alla procedura
medesima. E questo non soltanto perché in tal modo si altererebbero le condizioni
date del mercato, consentendo indebiti vantaggi differenziali ad un operatore rispetto
a tutti gli altri operatori che operano a parità di condizioni; ma anche perché,
perlopiù, lo stesso affittuario non sarebbe nemmeno interessato ad avvantaggiarsi di
tali regole, previste infatti appositamente per imprenditori in procedura.
Ovviamente, all’applicazione di tali regole non sarebbe nemmeno interessato
l’imprenditore in procedura, giacché quelle stesse regole sono relative alla
conduzione di una azienda che egli non sta conducendo. In conclusione, poiché
l’unico problema posto dalla continuità aziendale è nella sopportazione del rischio
d’impresa da parte dei creditori concorsuali, tutte le volte che questo rischio di
impresa non è sopportato o non è più sopportato dai creditori concorsuali, non si
pone questione di continuità aziendale” (così F. Di Marzio, Affitto di azienda e
concordato in continuità, in www.Ilfallimentarista.it, 15.11.2013).
Con riguardo al contratto di affitto, possiamo allora dire che continuità aziendale e
affitto di azienda si pongono in un rapporto di reciproca esclusione: dove vi è
continuità aziendale non può esservi affitto di azienda; dove vi è affitto di azienda
non può esservi continuità aziendale.
Ci si è chiesti se il concordato c.d. prenotativo sia compatibile con il concordato in
continuità. In altre parole, se con il concordato prenotativo ci si riserva il deposito
del piano, come si fa a sapere se il piano che verrà presentato sarà in continuità ?
La risposta sul piano normativo viene data dal legislatore, che all’art. 182 quinquies,
comma 4, prevede espressamente la domanda di ammissione al concordato con
continuità aziendale anche ai sensi dell’art. 161, sesto comma. E’ tuttavia evidente
che per ottenere le autorizzazioni giudiziali (in particolare, il pagamento dei creditori
anteriori) dovrà essere prospettato quanto meno nelle linee generali il piano per
consentire al tribunale le necessarie valutazioni ed approfondimenti.
d) Il controllo del Tribunale sulla fattibilità della proposta concordataria.
La questione più rilevante e maggiormente dibattuta sia in dottrina che in
giurisprudenza riguarda la possibilità – e dunque l’obbligo - per il Tribunale, di
verificare la fattibilità del piano concordatario.
Sul piano formale, il combinato disposto degli articoli 161-163 della legge
fallimentare sembra deporre in senso negativo.
A norma del citato articolo 162, comma 2, l.f., difatti, il Tribunale dichiara
l’inammissibilità della proposta se verifica che non ricorrono i presupposti di cui
agli articoli 160, commi 1 e 2, e 161; tra di essi (ossia tra i presupposti) vi è la
relazione del professionista che attesta la fattibilità del piano, ragione per la quale
l’oggetto dell’indagine del tribunale non potrebbe ritenersi esteso direttamente alla
fattibilità del piano, bensì, semmai, alla relazione del professionista che l’attesta.
Sul piano sostanziale, non si comprenderebbe la necessità della relazione del
professionista se, poi, il Tribunale dovesse anche di ufficio svolgere la medesima
indagine già demandata dalla legge al professionista.
Ciò non significa che il Tribunale debba limitarsi a verificare la mera
esistenza della relazione del professionista, bensì che l’oggetto della sua indagine
sarà la completezza, coerenza e la logicità delle valutazioni espresse dall’attestatore,
e dunque solo indirettamente, e nella misura in cui la relazione sia incompleta,
incoerente o illogica, la fattibilità del piano concordatario.
A seguito di un ampio dibattito nella giurisprudenza di merito, la Corte di
Cassazione dopo alcune pronunce a sezioni semplici (Cass. 25.10.2010, n. 21860;
Cass. 14.2.2011, n. 3586) è infine intervenuta sul tema a sezioni unite (Cass.
23.1.2013, n. 1521).
Secondo tale ultima pronuncia il controllo del Tribunale dovrà svolgersi
secondo tre direttrici, esplicitamente tracciate dalla Corte: 1) “..verificando
l’idoneità della documentazione prodotta (per la sua completezza e regolarità) a
corrispondere alla funzione che le è propria, consistente nel fornire elementi di
giudizio ai creditori” in conformità alla consolidata giurisprudenza di legittimità e,
segnatamente, a Cass. 21860/2010 e 3586/2011 (esplicitamente richiamate); 2)
“..accertando la fattibilità giuridica della proposta”; 3) “..valutando l’effettiva
idoneità di quest’ultima [cioè della proposta] ad assicurare il soddisfacimento della
causa della procedura come sopra delineata”.
Analizzando le conclusioni cui la Cassazione è giunta, può notarsi come il
primo controllo che il Tribunale è chiamato a svolgere (quello avente ad oggetto
l’idoneità della documentazione prodotta a corrispondere alla funzione che le è
propria) venga enucleato facendo espresso riferimento all’orientamento
maggioritario nella giurisprudenza della stessa corte secondo il quale (con
particolare riferimento alla relazione del professionista ed al giudizio di fattibilità in
esso contenuto) il Tribunale può e deve, anche d’ufficio, verificare che la relazione
del professionista corrisponda al “tipo” previsto dal legislatore, e dunque che sia
adeguatamente motivata indicando le verifiche effettuate, la metodologia ed i criteri
seguiti per pervenire ad un giudizio di fattibilità del piano concordatario. Sotto
questo profilo, quindi, vi è continuità rispetto alla linea interpretativa in precedenza
seguita.
Il secondo controllo, avente ad oggetto la “fattibilità giuridica” del piano e
della proposta (la Corte non sembra operare particolari distinzioni tra i due atti) altro
non è, a ben vedere, che un’altra denominazione del controllo sulla legittimità
(intesa quale conformità a norme imperative di legge) della proposta di concordato e
del piano ad esso sotteso, e che non si è mai dubitato che il Tribunale potesse e
dovesse svolgere anche di ufficio: detto controllo riguarderà non solo l’ipotesi
(invero, di scuola) indicata dalla Corte di cessione ai creditori di beni di proprietà di
terzi, ma anche profili quali, ad esempio, il corretto trattamento dei creditori
privilegiati o la corretta formazione delle classi e, più in generale, ogni aspetto
attinente alla realizzabilità tecnico-giuridica della proposta e del piano. Anche in
questo caso, dunque, non si ravvisano elementi di novità nella posizione della corte
rispetto alla giurisprudenza maggioritaria (ma potrebbe dirsi, sul punto, totalitaria)
sia di merito che di legittimità.
Il terzo controllo riguarda l’accertamento della idoneità della proposta a
realizzare la “causa della procedura”, ossia a garantire un pur minimo
soddisfacimento dei creditori chirografari: in altri termini, secondo la Suprema Corte
il Tribunale è chiamato ad intervenire ogni qual volta riscontri “l’assoluta
impossibilità di realizzazione” del piano e, dunque, anche della proposta quale
circostanza suscettibile di determinare un deficit causale della procedura.
A tal proposito, occorre subito osservare come si tratti di un controllo che,
così ricostruito, più che attenere alla fattibilità intesa in senso economico (ossia alla
prognosi di realizzabilità del piano) riguarda anch’esso la fattibilità in senso
giuridico, interessando un elemento essenziale dell’atto-proposta concordataria
quale la causa della stessa (e proprio per questo, a ben riflettere, fatto rientrare
nell’ambito cognitivo del tribunale).
Per comprendere il confine tra giudizio sulla fattibilità economica (rimesso ai
creditori) e controllo sulla fattibilità giuridica (spettante al tribunale) si immagini
una proposta di concordato con cessione dei beni rispetto alla quale il commissario
giudiziale, nella sua relazione, si sia pronunciato nel senso della possibilità di
realizzare una percentuale di soddisfacimento dei creditori chirografari inferiore a
quella indicata dalla proponente, ma pur sempre sussistente: la decisione in ordine a
quale prospettiva possa essere maggiormente verosimile e conveniente (se quella
indicata nella proposta, o quella manifestata dal commissario) apparterrebbe, in
questo caso, esclusivamente ai creditori. Più incerto il caso in cui il commissario
giudiziale si sia espresso nel senso della assoluta inidoneità del piano a pagare
anche in misura minimale i creditori chirografari: ad avviso di chi scrive
occorrerebbe verificare la motivazione del giudizio del commissario, nel senso che,
ove la stessa poggi esclusivamente su una diversa stima del valore dei beni, la
fattispecie rientrerebbe in una ipotesi di fattibilità economica e dunque il giudizio
andrebbe rimesso ai creditori; ove invece il commissario abbia (ad esempio) rilevato
una massa passiva più consistente di quella indicata dalla società, il Tribunale
dovrebbe verosimilmente avviare un procedimento di revoca ex art. 173 l.f. in
quanto la proposta di concordato risulterebbe priva – per ragioni obiettive, e non già
per un contrasto nell’ambito di un giudizio di valore dell’attivo - dell’elemento
causale.
Nella direzione proposta sembra muoversi anche una successiva pronuncia
della Suprema Corte che ha ulteriormente ribadito che “il giudice ha il dovere di
esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di
concordato, non restando questo escluso dall'attestazione del professionista, mentre
rimane riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio,
che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi
inerenti. (il corsivo è dello scrivente. Trattasi di Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11014 del
09/05/2013).
e) La convenienza della proposta concordataria.
Prima della riforma del 2005, la convenienza della proposta concordataria
rispetto all’alternativa fallimentare era senza dubbio alcuno un requisito di
ammissibilità al concordato preventivo valutabile anche di ufficio dal Tribunale.
A seguito della riforma – e trattasi di uno dei più rilevanti elementi di novità
– non è più previsto alcun controllo del Tribunale in ordine al profilo della
convenienza della proposta concordataria (rispetto evidentemente alla liquidazione
fallimentare) il cui apprezzamento è affidato in via esclusiva alla volontà dei
creditori (salvo il caso peculiare del c.d. cram down riservato alle sole ipotesi di
concordati con classi: cfr. art. 180, comma 4, l.f., e salvo il caso, previsto dalla
medesima disposizione, nell'ipotesi di mancata formazione delle classi, di
opposizione formulata dai creditori dissenzienti che rappresentano almeno il venti
per cento dei crediti ammessi al voto).
La convenienza della proposta concordataria rispetto alla liquidazione
fallimentare non è, quindi, più un requisito di ammissione alla procedura.
Si tratta di una scelta del legislatore coerente da un lato con l’intenzione di
valorizzare l’autonomia dei creditori (i quali potrebbero, ad esempio, preferire un
pagamento inferiore a quello teoricamente ritraibile dalla liquidazione concorsuale
dei beni purchè prevedibilmente conseguibile in tempi molto brevi)
e dall’altro
con l’estensione del concordato anche a quelle situazioni di crisi dell’impresa non
destinate necessariamente a sfociare, in caso di rigetto della proposta concordataria,
nel fallimento: è chiaro che in questo secondo caso mancherebbe una effettiva
alternativa cui comparare, in termini di vantaggiosità, la proposta concordataria,
atteso che una eventuale liquidazione concorsuale tradizionale, per così dire,
potrebbe non avvenire o realizzarsi in un momento successivo in condizioni
economiche e patrimoniali dell’impresa anche molto diverse.
Il controllo del tribunale nella fase di omologazione del concordato preventivo.
L’articolo 180, comma 3, l.f. dispone che se non sono proposte opposizioni il
tribunale, verificata la regolarità della procedura e l’esito della votazione, omologa il
concordato con decreto motivato non soggetto a gravame.
In sede di omologazione il Tribunale dovrà quindi verificare, anche di ufficio,
tutti gli aspetti relativi alla regolarità formale della procedura e della votazione; è
discusso se debba, anche di ufficio, riesaminare la sussistenza dei requisiti di
ammissibilità alla procedura concordataria sopra descritti, ma la risposta tende ad
essere affermativa (cfr. T. Palermo 18.5.2007, in Fall., 2008, 75; cfr. però anche T.
Milano 9.3.2007, in Fall., 2007, 696, con nota critica di G. Bozza).
In caso di opposizioni, alla cognizione del Tribunale è devoluto anche quanto
dedotto al fine di contrastare l’omologazione della proposta concordataria.
E’ discusso se la questione della fattibilità del piano sia sindacabile in sede di
opposizione, ed eventualmente se solo su opposizione o anche d’ufficio.
La Suprema Corte, con la sentenza 23 giugno 2011 n. 13817 ha negato la
rilevabilità ex officio della questione della fattibilità del piano concordatario; è
tuttora aperta (nel senso che mancano precedenti) la questione della sindacabilità su
opposizione.
Sul punto, vale ricordare come il più volte citato intervento normativo
dell’agosto 2012 ha introdotto all’articolo 179 un comma secondo che così recita:
“quando il commissario giudiziale rileva, dopo l’approvazione del concordato, che
sono mutate le condizioni di fattibilità del piano, né dà avviso ai creditori, i quali
possono costituirsi nel giudizio di omologazione fino all’udienza di cui all’articolo
180 per modificare il voto”.
La norma, consentendo ai creditori l’opposizione ai fini del mutamento del voto,
sembra non consentire l’opposizione per far valere l’infattibilità del piano,
rimettendola integralmente alle valutazioni dei creditori ed al gioco delle
maggioranze.
In argomento non può tuttavia non essere richiamata la più volte citata sentenza
della Suprema Corte resa a S.U. n. 1523/2013, che ha in modo espresso affermato
principi destinati ad operare anche nella fase di omologazione: può quindi ritenersi
che rientri nel perimetro dell’accertamento officioso del Tribunale il caso della
assoluta ed oggettiva inidoneità della proposta e del piano ad assicurare un pur
minimale soddisfacimento dei creditori chirografari, e ciò in quanto in tale
fattispecie il tribunale sarebbe chiamato ad omologare una proposta concordataria
priva di causa e dunque radicalmente nulla.
Sia nel caso di assenza che in quello di presenza di opposizioni, non spetta al
Tribunale alcun controllo in ordine alla convenienza del concordato rispetto
all’alternativa fallimentare: lo si deduce in modo inequivoco sia dall’abrogazione di
quanto disposto dall’articolo 181 l.f. nella formulazione antecedente alla riforma
(secondo il quale il Tribunale in sede di omologazione doveva valutare “la
convenienza economica del concordato per i creditori, in relazione alle attività
esistenti ed all’efficienza dell’impresa”) sia dal tenore letterale del nuovo articolo
180, comma 4, l.f., il quale ammette (in tal modo delimitandola) la possibilità di
valutare la convenienza della proposta concordataria nella sola ipotesi di concordato
con classi in cui sia stata proposta opposizione da parte di un creditore appartenente
ad una classe dissenziente denunziando il fatto che in sede fallimentare il credito
vantato sarebbe stato soddisfatto in misura superiore.
La regola, come già anticipato, è stata parzialmente circoscritta con l’intervento
dell’agosto 2012 prevedendo la possibilità di un controllo da parte del Tribunale
anche nel concordato senza classi nel caso in cui i creditori dissenzienti che
rappresentano il venti per cento dei crediti ammessi al voto contestino la
convenienza della proposta.
Non sembra vano ricordare infine, quanto statuito dalla Corte di Cassazione Sez.
I Civile, 18 giugno 2008, n. 16598: “Dopo l'omologazione del concordato, tutte le
questioni che hanno ad oggetto diritti pretesi da singoli creditori e che attengono
all'esecuzione del concordato - concernenti la sussistenza, l'entità ed il rango del
credito - mancando nel concordato preventivo la fase di formazione dello stato
passivo, danno dunque luogo a controversie sottratte al potere decisionale del
Giudice delegato e che devono costituire materia di un ordinario giudizio di
cognizione (Cass. n. 23721 del 2006; n. 523 del 1999; n. 8116 del 1998; n. 6859 del
1995; n. 6083 del 1978).
Laddove, pertanto un credito non sia stato preso in considerazione in sede di
adunanza dei creditori ovvero sia stato considerato in misura inferiore a quella
ritenuta dovuta, il creditore non dovrà opporsi alla omologazione bensì introdurre un
ordinario giudizio di accertamento del credito nei confronti della impresa in
concordato e della procedura concordataria, salvo il disposto dell’articolo 176 l.f.
(ossia il caso in cui la loro esatta quantificazione avrebbe avuto riflessi sulla
formazione delle maggioranze di legge, unica circostanza che legittima la deduzione
di tale profilo già in sede di omologazione del concordato).
3) L’articolo 173 l.f. e la revoca dell’ammissione al concordato preventivo.
A norma dell’articolo 173 l.f. comma primo “il commissario giudiziale, se
accerta che il debitore ha occultato o dissimulato parte dell’attivo, dolosamente
omesso di denunciare uno o più crediti, esposto passività insussistenti o commesso
altri atti di frode, deve riferirne immediatamente al tribunale, il quale apre d’ufficio
il procedimento per la revoca dell’ammissione al concordato, dandone
comunicazione al pubblico ministero e ai creditori”.
Il comma secondo aggiunge che “all’esito del procedimento, che si svolge nelle
forme di cui all’articolo 15, il tribunale provvede con decreto e, su istanza del
creditore o su richiesta del pubblico ministero, accertati i presupposti di cui agli
articolo 1 e 5, dichiara il fallimento del debitore con contestuale sentenza,
reclamabile a norma dell’articolo 18.
Il comma terzo, infine, dispone che “le disposizioni di cui al comma secondo si
applicano anche se il debitore, durante la procedura di concordato compie atti non
autorizzati a norma dell’articolo 167 o comunque diretti a frodare le ragioni dei
creditori o, se in qualunque momento risulti che manchino le condizioni prescritte
per l’ammissione del concordato”.
La norma contempla tre categorie di eventi che possono condurre alla revoca del
concordato.
a) Condotte del debitore antecedenti al concordato.
Il primo comma elenca una serie di condotte del debitore che precedono il
concordato che, se accertate dal commissario, determinano la revoca
dell’ammissione
Talune condotte (con elencazione non tassativa) sono tipicamente individuate;
altre sono raccolte nella clausola generale degli “altri atti di frode” (espressione dalla
quale può desumersi che anche le fattispecie tipizzate giustificano la revoca
dell’ammissione in quanto atti di frode).
La nozione di atti di frode non è di agevole interpretazione.
Secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza (cfr. T. Sulmona
19.1.2006, in Fall., 2006, 608) per atti di frode devono intendersi solo quelli
consistenti in false rappresentazioni documentali della realtà patrimoniale del
debitore, non ricomprendendo, quindi, in essi l’eventuale compimento di atti
distrattivi posti in essere in epoca antecedente al concordato.
Secondo altra tesi, per atti di frode devono intendersi tutte quelle condotte
preordinate a pregiudicare gli interessi dei creditori del concordato a vantaggio
dell’imprenditore, in esse ricomprese anche le condotte dolosamente distruttive o
dissipatorie del patrimonio dell’impresa che abbiano determinato o concorso a
determinare lo stato di crisi o di insolvenza dell’impresa (es.: locazione di lungo
termine dell’azienda a canoni non di mercato; cessione di ramo di azienda a prezzo
non di mercato. In tema cfr. T. Cagliari 12.3.2009; T. Milano 20.7.2007, in Dir.
fall., 2008, 5, 2 con nota di G. Schiano di Pepe e Giur. It., 2008, 1, 118, con nota di
G. Fauceglia).
In tema, è di recente intervenuta la Suprema Corte con una importante e
complessa pronuncia (Cass. 23.6.2011., n. 13817, edita in Fall., 2011, 933) che ha
interpretato in senso restrittivo la nozione di atto in frode alla luce della complessiva
riforma della legge fallimentare, statuendo quanto segue:
b) La fattibilità del piano non è sindacabile dal Tribunale non solo in sede di ammissione
alla procedura concordataria, ma anche di subprocedimento di revoca ex art. 173 l.f.
(e dunque nella fase post- ammissione e sino alla votazione dei creditori).
L’esistenza di una relazione del commissario giudiziale, difatti, secondo la Corte
non muta i termini della questione in quanto detta relazione è indirizzata ai creditori,
i quali potranno comparare la proposta ed il giudizio reso dall’attestatore con il
giudizio reso dal commissario giudiziale in sede di votazione, e ciò salvo il caso in
cui dalla relazione del commissario emerga non già una discrepanza nelle
percentuali di soddisfacimento dei crediti, bensì l’assoluta impossibilità di
riconoscere alcunché ai creditori chirografari (caso nel quale la revoca appare
doverosa);
c) Per atto in frode non deve intendersi qualsiasi condotta volontaria antecedente il
concordato idonea a pregiudicare le aspettative dei creditori, bensì una condotta
volta ad occultare ai creditori il compimento di interventi sul patrimonio del
debitore avvenuti antecendemente alla presentazione del concordato, così alterando
la formazione di un c.d. consenso informato sulla proposta concordataria. In altre
parole, secondo la Corte, venuto meno qualsiasi profilo di meritevolezza del debitore
per l’accesso al concordato, non rileva attraverso quali operazioni una impresa si
trovi in una data situazione patrimoniale, ma solo che dette operazioni siano state
rese palesi nella proposta di concordato al fine di consentire ai creditori di valutare
la convenienza della proposta concordataria rispetto all’alternativa fallimentare (c.d.
consenso informato): pertanto, solo se dette condotte siano state taciute nella
proposta concordataria ricorreranno gli estremi dell’atto in frode suscettibile di
comportare la revoca dell’ammissione. Del resto, aggiunge la Corte, anche in caso
di approvazione del concordato se sono state poste in essere condotte penalmente
rilevanti saranno perseguite nella sede appropriata (art. 236 l.f.) senza che tuttavia
ciò possa avere interferenza con le determinazioni dei creditori sub specie di revoca
dell’ammissione al concordato;
d) L’unico limite è costituito dall’abuso dello strumento concordatario, ossia il caso in
cui si dimostri che determinate condotte depauperative del patrimonio siano state
poste in essere con la prospettiva e la finalità di avvalersi dello strumento
concordatario
e) Condotte del debitore successive all’ammissione al concordato.
L’articolo 173, terzo comma, prima parte, prevede che siano causa di revoca
dall’ammissione al concordato il compimento di atti per i quali sia prevista
l’autorizzazione del giudice delegato ex art. 167 l.f. o comunque diretti a frodare i
creditori. Questa disposizione ha avuto applicazioni assai sporadiche nella pratica.
f) L’articolo 173, terzo comma, ultimo periodo, prevede, infine, una ipotesi di revoca
dell’ammissione derivante da una rivalutazione del Tribunale, spesso alla luce degli
accertamenti svolti dal commissario, dei presupposti di ammissione alla procedura.
Si tratta della fattispecie di applicazione dell’articolo 173 di gran lunga più
ricorrente, con particolare riferimento alla revoca dell’ammissione per avere il
commissario accertato la non fattibilità del piano (ad esempio a seguito di stime sul
valore dell’azienda, o di una giudizio sulla non recuperabilità dei crediti esposti
dall’impresa).
Il giudizio di non fattibilità del piano svolto dal commissario, tuttavia, come già
detto non conduce di per sè alla revoca del concordato (salva l’ipotesi della radicale
non realizzabilità della proposta: Cass. s.u. 1523/2013).
In questo caso, infatti, la proposta di concordato (ove non venga modificata per
adeguarsi alle valutazioni del commissario) ed il giudizio del commissario contenuto
nella relazione verranno sottoposte alla discussione ed al voto dei creditori, ai quali
spetterà decidere se dare comunque fiducia alla proposta concordataria,
accettandone anche gli eventuali rischi.
Laddove elementi incidenti sulla fattibilità del piano emergano invece dopo
l’adunanza ma prima dell’omologazione, soccorre quanto disposto dal novellato
articolo 179 l.f. secondo il quale “quando il commissario giudiziario rileva, dopo
l'approvazione del concordato, che sono mutate le condizioni di fattibilità del piano,
ne dà avviso ai creditori, i quali possono costituirsi nel giudizio di omologazione
fino all'udienza di cui all'articolo 180 per modificare il voto”.
4) I finanziamenti alle imprese in crisi dopo la riforma dell’estate 2012.
A seguito della riforma dell’estate 2012 il sistema dei finanziamenti alle imprese in
crisi ha trovato una probabilmente definitiva disciplina, incentrata sul beneficio della
prededuzione, che può essere così ricostruito.
a) Finanziamento c.d. ponte. Art. 182 quater comma 2: finanziamento (da chiunque ed in
qualsiasi forma effettuato: è venuto meno il riferimento alle banche ed intermediari
finanziari, e dunque opera anche nel caso di finanziamenti di familiari
dell’imprenditore, fornitori, terzi interessati all’acquisto)
in funzione della
presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo
o della domanda di omologazione di accordo ex 182 bis, qualora: 1) i finanziamenti
siano previsti dal piano; 2) la prededuzione sia espressamente disposta nel
provvedimento con cui il tribunale accoglie la domanda di ammissione al concordato
ovvero l’accordo sia omologato.
Deve trattarsi di finanziamenti funzionali alla presentazione del piano, e dunque si
tratterà essenzialmente di denaro necessario a garantire la continuità aziendale
(pagamento dipendenti, fornitori essenziali, INPS, fisco) o il pagamento del deposito
per spese di giustizia; NON potrà trattarsi di finanziamenti strumentali alla
attuazione del piano, atteso che la norma tutela non già i finanziamenti strumentali
alla realizzazione del piano tout court ma, più limitatamente, la possibilità di
presentare una domanda di concordato o di accordo.
I creditori per detti finanziamenti, tuttavia, saranno esclusi dal voto e dal computo
delle maggioranze per l’approvazione del concordato ai sensi dell’articolo 177 e dal
computo della percentuale dei crediti prevista dall’articolo 182-bis, primo e sesto
comma (art. 182-quater, u.c.).
I benefici accordati dalla legge a questi finanziamenti sono due:
1) La prededuzione ai sensi e per gli effetti dell’articolo 111 l.f.. Ciò in concreto
significa:
a) Che se al concordato o all’accordo ex 182 bis seguirà un fallimento, quel credito per
finanziamento sarà prededucibile;
b) Secondo la migliore dottrina, la prededuzione opererà già nella stessa procedura di
concordato preventivo, sia nel caso di finanziamento erogato in vista della
presentazione di una domanda di concordato, sia nel caso di finanziamento erogato
in vista di un accordo ex 182 bis cui sia seguito un ricorso per concordato
preventivo.
Gli argomenti a sostegno di questa tesi sono numerosi, ed in particolare:
- I creditori sono esclusi dal voto nel concordato e dal computo delle maggioranze sia
nel concordato che negli accordi. Questa previsione lascia intendere che siano
indifferenti al concordato, e lo sono in quanto prededucibili;
- Il richiamo all’articolo 111 è fatto senza specificare che si tratta di prededuzione
limitata al successivo fallimento, e non anche ad altra procedura concorsuale;
- Sul piano sistematico, sarebbe del tutto singolare che un finanziamento che rende
possibile la presentazione di un concordato sia trattato meglio nell’eventuale
successivo fallimento (ossia in caso di insuccesso del concordato) che nel
concordato che ha contribuito a rendere possibile (o nel concordato che segua
l’accordo ex 182 bis)
2) Il rimborso eventualmente intervenuto prima della dichiarazione di fallimento non è
revocabile giusto il disposto dell’articolo 67, comma 3, lett. E) in quanto esecutivi
del concordato o dell’accordo;
b) Art. 182 quinquies comma 1: finanziamento chiesto DOPO il deposito del ricorso
per concordato preventivo (anche solo prenotativo ex art. 161 sesto comma) o della
domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione ma PRIMA
dell’ammissione al concordato o dell’omologazione dell’accordo.
Deve trattarsi di finanziamento:
1) autorizzato dal Tribunale, eventualmente assunte sommarie informazioni;
2) attestato da un professionista come funzionale alla migliore soddisfazione dei
creditori (cioè: senza quel finanziamento le prospettive di soddisfacimento dei
creditori sarebbero inferiori).
Prima della riforma dell’estate 2012, era un’area scoperta anche se probabilmente
colmabile con il ricorso all’articolo 167 l.f. ed all’autorizzazione per atti di
straordinaria amministrazione.
Oggi, il legislatore ha completato il sistema anche con questa previsione (peraltro
difficilmente compatibile col caso di un concordato c.d. prenotativo del tutto in
bianco, ossia senza piano, neppure abbozzato).
Non sembra necessario che questo finanziamento sia erogato nella prospettiva della
continuazione dell’attività di impresa, come dimostra il fatto che l’attestatore deve
pronunciarsi con riferimento al criterio miglior soddisfacimento dei creditori, mentre
solo nel caso del quarto comma (autorizzazione al pagamento di crediti anteriori) è
necessaria anche la verifica della essenzialità per la prosecuzione dell’attività di
impresa.
c) Art. 182 quater comma 1: Finanziamento (da chiunque ed in qualsiasi forma
effettuato: è venuto meno il riferimento alle banche ed intermediari finanziari, e
dunque opera anche nel caso di finanziamenti di familiari dell’imprenditore,
fornitori, terzi interessati all’acquisto) in esecuzione di un concordato preventivo
ovvero di un accordo di ristrutturazione omologato.
Si tratta quindi di finanziamenti erogati DOPO l’ammissione alla procedura di
concordato, ma non necessariamente dopo l’omologazione (se interviene prima
dell’omologazione, è dubbio se serva l’autorizzazione ex art. 167 l.f.: potrebbe
essere prudenzialmente preferibile comunque fare detta richiesta al tribunale); dopo
l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione.
E’ essenziale che tali finanziamenti siano contemplati nel piano; la norma non lo
prevede espressamente ma si ritiene implicito nel fatto che si tratti di un
finanziamento esecutivo dello stesso.
I benefici che assitono questo tipo di finanziamenti sono gli stessi sopra indicati a
proposito dei c.d. finanziamenti ponte.
I finanziamenti di cui ai primi due commi dell’art. 182 quater commi 1 e 2 sono
assistiti dai medesimi benefici anche se effettuati dai soci, nei limiti dell’80% del
loro ammontare, e ciò in deroga agli articoli 2467 e 2497 quinquies c.c. che di regola
prevedono la postergazione rispetto alla soddisfazione di altri creditori.
In altre parole: i crediti per finanziamento dei soci e di chi esercita attività di
direzione e coordinamento, di regola postergati, divengono prededucibili se
sussistono le condizioni di cui all’articolo 182 quater l.f.
Dott. Fabio Miccio