Recensione di F. Rossi in "Rassegna di diritto civile 3/2012"

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Recensione di F. Rossi in "Rassegna di diritto civile 3/2012"
Rassegna di diritto civile 3/2012 / Recensioni
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Achille Antonio Carrabba, Donazioni, in Tratt. dir. civ. CNN, diretto da
P. Perlingieri, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2009, pp. X+942.
1. Nonostante il susseguirsi incessante, sin dall’indomani dell’introduzione del
codice civile tuttora in vigore, di studi della dottrina aventi ad oggetto le donazioni, molti dei quesiti che queste suscitano sono ancóra oggi lontani dal registrare soluzioni del tutto appaganti. Per averne conferma è sufficiente pensare alle
persistenti difficoltà che incontra chi cerca di individuare i criteri che permettono
di distinguere le donazioni dagli «altri atti di liberalità» di cui all’art. 809 c.c.; difficoltà che aumentano sensibilmente quando si consideri la necessità di determinare gli elementi che le differenziano, da un lato, dai negozi gratuiti in genere e,
dall’altro, dalle prestazioni di solidarietà.
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Tra i piú prestigiosi contributi che, di recente, hanno riconsiderato l’intera materia delle donazioni si colloca il volume di Achille Antonio Carrabba, inserito
nel Trattato di diritto civile del consiglio nazionale del notariato diretto da Pietro Perlingieri.
La rivisitazione delle donazioni eseguita da A.A. Carrabba costituisce un sicuro arricchimento degli studi in argomento, sia per la completezza e il livello di
profondità dell’analisi eseguita, sia per l’originalità dei risultati ai quali il Nostro
perviene nel rispondere alle tante domande sollevate dalle disposizioni riguardate.
Sebbene di fronte ad una disciplina che non può essere presa in esame se non
attraverso una continua serie di rimandi reciproci tra norme e istituti contemplati
in libri differenti del codice civile e in una pluralità di leggi speciali, l’A. riesce a
non fare smarrire il lettore, grazie ad un impianto sistematico pregevolmente costruito, dal quale emergono nitidamente gli eventuali conflitti di interessi sottostanti alle fattispecie concrete di volta in volta visitate e le soluzioni prospettate
dalla dottrina e dalla giurisprudenza per dirimerli.
Arduo in verità appare il compito di chi intenda tracciare, sia pure in sintesi,
le linee guida di un’opera tanto estesa, nonché scegliere, tra i vari problemi posti dalle regole dettate dal legislatore per le donazioni, quelli reputati come principali dall’A. Questi, all’inizio del primo degli otto capitoli in cui è diviso il volume, sottolinea che l’opportunità di una rimeditazione sul legame che intercorre
tra negozio gratuito, liberalità e contratto di donazione è suggerita dalla crescente
rilevanza che, sia per lo scambio di valori economici che per la soddisfazione delle
esigenze della persona, hanno assunto le prestazioni gratuite, previste in varie
norme anche estranee al codice del 1942.
A.A. Carrabba aderisce all’orientamento interpretativo che nega la correttezza
dell’inquadramento della liberalità nel (preteso) genus costituito dal negozio gratuito alla luce, da un lato, dell’esistenza di liberalità attuate tramite contratti onerosi e, dall’altro, della peculiare natura che riveste la donazione modale, non di
rado utilizzata dal donante per il soddisfacimento di suoi interessi anche patrimoniali. Pone in risalto, poi, l’insufficienza tanto del profilo funzionale quanto
del risultato economico a chiarire il significato del termine «liberalità». Dopo aver
evidenziato, da una parte, la diversità dei concetti di gratuità e liberalità e, dall’altra, gli ostacoli che l’interprete può incontrare – in virtú della mancanza di
uniformità di disciplina degli atti di liberalità – nell’individuare la normativa applicabile alle situazioni via via sottoposte al proprio vaglio, A.A. Carrabba, segnalando una pluralità di fattispecie previste nel codice civile, dimostra che tra le
disposizioni riferibili ai rapporti originati da titoli gratuiti e quelle che regolano
rapporti caratterizzati da liberalità sussiste somiglianza, ma non uguaglianza. Illazione, questa, che appare corretta, cosí come l’altra secondo la quale la responsabilità del soggetto tenuto ad eseguire una prestazione è considerata dal legislatore tanto meno rigorosamente quanto piú si avvicini a quella che grava sul donante nella donazione c.d. «pura». Una volta illustrate alcune ipotesi nelle quali
il regime di responsabilità è invece unico, cioè prescinde dall’onerosità o dalla gratuità della vicenda, il Nostro individua nei «princípi di proporzionalità, per quanto
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concerne l’aspetto quantitativo, e di ragionevolezza, per quanto riguarda l’aspetto
qualitativo degli interessi in gioco» (p. 16 s.), quei princípi che devono guidare
chi miri a rinvenire le regole da applicare a situazioni non riconducibili ad alcuna
tipologia prevista dalla legge.
La rilevanza dei suddetti princípi nell’attività interpretativa è piú volte ribadita nell’opera relativamente a diverse problematiche, poiché il riferimento ad essi
viene giudicato come imprescindibile per qualificare gli atti e idoneo a garantire
la corretta selezione delle norme che possono risolvere le medesime problematiche. L’utilizzazione di tali princípi si rivela ancóra piú necessaria alla luce della
complessità dell’operazione di ricerca delle caratteristiche che permettano di distinguere con certezza gli atti gratuiti dalle liberalità. Infatti tanto l’impoverimento
della sfera giuridico-patrimoniale del donante quanto la natura non patrimoniale
dell’interesse che lo muoverebbe non costituiscono, secondo l’A., connotati adeguati per diversificare sempre l’àmbito delle liberalità da quello degli atti gratuiti.
Gli argomenti prodotti per dimostrare la logicità di questa conclusione sembrano
convincenti, in particolare quelli che confutano la pertinenza del primo dei due
criteri ora accennati: dall’inapplicabilità di parte della disciplina delle donazioni
agli atti gratuiti aventi ad oggetto obbligazioni di fare non deriverebbe comunque l’impossibilità di una «individuazione in termini di liberalità delle fattispecie
concrete, in quanto lo stesso art. 809 al secondo comma espressamente sottrae alcune ipotesi di liberalità dall’applicazione della normativa richiamata al primo
comma» (p. 17).
Neppure la natura dell’interesse del disponente viene giudicato dall’A. elemento decisivo ai fini della determinazione del discrimen tra liberalità e gratuità.
Tale opinione sarebbe confermata dall’esistenza di atti «in apparenza» (p. 19) liberali, ma a ben guardare supportati da interessi economici. Escluso che la distinzione in questione possa essere fondata sull’arricchimento economico del beneficiario, dal momento che tale arricchimento non è giudicato essenziale perché
si configuri una liberalità – per cui dalla sua mancanza deriverebbe soltanto l’inapplicabilità delle regole relative a tale effetto –, il Nostro, prendendo spunto
dall’art. 64, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, sottolinea che, per qualificare le differenti
tipologie di atti, non si può prescindere dall’esame dei profili qualitativi della fattispecie concreta presa in considerazione, «sulla base del principio di ragionevolezza, senza fare affidamento su un unico elemento identificante» (p. 20).
Quanto al criterio idoneo a permettere di discernere gli atti di liberalità da
quelli di mera cortesia, rilevato che sia il «piano fattuale» (p. 22) che le regole giuridiche escludono che debbano essere giudicate estranee all’area delle liberalità le
prestazioni di fare cosí come all’area degli atti cortesi le prestazioni di dare, l’A.
rimarca ancóra una volta l’importanza del principio di proporzionalità nell’individuare la disciplina applicabile al caso concreto riguardato. Confutata, poi, l’opinione che reputa possibile rinvenire nell’esiguità del valore economico della prestazione ciò che connoterebbe gli atti di cortesia – per fugare ogni dubbio in proposito viene prospettata l’ipotesi di un trasporto amichevole di un soggetto per un
lungo viaggio –, il Nostro nega senza mezzi termini che l’assenza di un interesse
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economicamente apprezzabile che muove il soggetto a compiere atti di cortesia
costituisca elemento rilevante per operarne la diversificazione rispetto alle liberalità donative. Evidenziato, infine, il fallimento dei tentativi di effettuare la distinzione de qua sulla base della meritevolezza degli interessi, che «a volte presentano
una sostanziale equivalenza nella fattispecie gratuita e in quella amichevole» (p. 25),
oppure della funzione degli atti in questione, atteso che entrambe le tipologie non
necessariamente sono valutabili in termini di onerosità e/o corrispettività, al Nostro non resta che concludere che la qualificazione di ciascuna vicenda sottoposta
al vaglio dell’interprete va effettuata «sulla base di un apprezzamento complessivo
e qualitativo» (p. 26), che tenga conto tanto della dimensione sociale in cui è stata
realizzata, quanto di «una serie di indici rivelatori della prestazione cortese» (ibidem), quali l’essere isolata, occasionale ecc., che potrebbero non essere determinanti nella considerazione della stessa vicenda se giudicati singolarmente.
Evidenti e assai importanti sono le ripercussioni della determinazione del tipo
di responsabilità eventualmente gravante sull’autore dell’atto di cortesia nei confronti del suo destinatario. In proposito A.A. Carrabba sostiene che l’applicabilità ad ogni prestazione cortese dell’art. 414 c. nav., ricondotto nell’àmbito della
responsabilità aquiliana, «non impedisce una valutazione concreta dei fatti e degli interessi in gioco» (p. 31) nella singola fattispecie considerata e «valorizza l’elasticità delle disposizioni normative interessate per la soluzione giusta della singola vicenda» (ibidem) nelle ipotesi in cui, attraverso l’art. 1227 c.c., richiamato
dall’art. 2056 c.c., occorra diminuire o escludere il risarcimento del danno.
Quanto alle prestazioni etiche e superetiche, il Nostro sottolinea che esse mancano di doverosità giuridica e l’inopportunità del loro accostamento alle obbligazioni naturali: infatti queste ultime, a differenza delle altre, troverebbero giustificazione in rapporti precedenti e i beneficiari delle attribuzioni assumerebbero importanza nella loro individualità. Proprio l’irrilevanza che di solito ha per il beneficiante la persona del destinatario della prestazione etica o superetica è decisiva, ad avviso dell’A., per escludere la correttezza della qualificazione etica o superetica in termini di donazione. In ogni caso le norme che disciplinano il contratto di cui all’art. 769 c.c. non sarebbero applicabili alle prestazioni in questione,
in quanto inadeguate.
La coerenza sia del metodo di indagine adottato in tutta l’opera, sia delle risposte fornite alle molteplici questioni interpretative esaminate, emerge anche
quando, nell’ipotesi di inadempimento di prestazioni etiche o superetiche, l’A.,
avendo escluso la giuridicità del rapporto tra promittente e promissario, nega, da
un lato, che la mera promessa possa suscitare affidamento nel destinatario e, dall’altro, la responsabilità dell’agente in caso di interruzione dell’esecuzione della
prestazione; con la conseguenza che nessun indennizzo o rimborso dovrà essere
corrisposto al beneficiario, salvo che sia rilevabile un comportamento antigiuridico del promittente. In quest’ottica l’inerenza delle medesime prestazioni alla
persona umana e al suo modo di realizzarsi giustificano le macroscopiche differenze che, sotto il profilo della responsabilità, le connotano rispetto sia alle prestazioni amichevoli sia alle liberalità donative.
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Tra le prestazioni di solidarietà legalmente tipizzate, non concernenti l’attività
o gli scopi dell’ente e imposte per generiche finalità di beneficenza, il Nostro ammette la possibile natura liberale esclusivamente di quelle nelle quali sussista nel
disponente un margine di discrezionalità nel decidere la destinazione, richiesta dal
legislatore, di parte degli utili.
Si è già costatato che A.A. Carrabba spesso pone in risalto la necessità per
l’interprete di valutare in concreto la singola fattispecie che è chiamato a qualificare e l’importanza, a tale fine, dell’individuazione degli interessi effettivi ad essa
sottesi. Soltanto questa valutazione permetterebbe di comprendere, ad esempio,
la doverosità o no della prestazione compiuta da un ente del libro primo del codice civile ed eventualmente la natura donativa della medesima prestazione. Allo
stesso modo, secondo l’A., per distinguere le obbligazioni naturali dalle liberalità,
segnatamente dalle donazioni remuneratorie, non è sufficiente prendere in considerazione soltanto l’animus del soggetto che effettua la prestazione ovvero unicamente la quantità di quest’ultima o ancora esclusivamente il sostrato sociale che
la giustifica; occorre, infatti, giudicare complessivamente la vicenda che si intende
qualificare, prestando la massima attenzione agli interessi concreti dei suoi protagonisti, da valutare (pertanto) sempre con criteri di ragionevolezza.
Con gli stessi criteri interpretativi fin qui illustrati l’A. prende posizione su
ciascuna delle numerose questioni concernenti la determinazione della disciplina
applicabile alle liberalità d’uso. Segnala «l’erroneità di affidarsi per la selezione di
detta disciplina ad indici sostanzialmente formalistici, quali ad esempio la presunta
natura eccezionale di un precetto o l’astratta funzione del negozio» (p. 117), affermando che è necessario cercare la soluzione piú adatta senza eseguire un’interpretazione per singoli stadi. In sintesi, viene accolta la tesi – elaborata e sostenuta soprattutto da Pietro Perlingieri, cui hanno via via aderito numerosi autori
– che giudica non conforme alla legalità costituzionale l’interpretazione c.d. «per
gradi».
L’A. osserva che, per stabilire quali norme si applichino alle donazioni indirette, la questione principale che deve affrontare l’interprete, quando intenda comporre i vari interessi coinvolti in ognuna delle fattispecie analizzate, riguarda il
metodo giuridico piú che la selezione della regolamentazione; «selezione a volte
tanto intuitiva e tanto necessitata sotto il profilo logico-sistematico da imporsi ragionevolmente anche con percorsi argomentativi diversi» (p. 133). L’accennata questione, infatti, consiste non nello «stabilire aprioristicamente la natura eccezionale
di una disposizione o l’inconciliabilità di differenti discipline» (p. 134), ma nel
«decidere come applicare tali discipline a situazioni che esprimono piú profili»
(ibidem). In particolare, secondo A.A. Carrabba, fatta eccezione per le disposizioni in tema di forma, tutte le altre che regolano il contratto contemplato dall’art. 769 c.c. sono idonee, almeno in astratto, ad operare anche per le liberalità
non donative. Di conseguenza, non essendo affatto scontata la ricorrenza di un
conflitto tra le norme del codice concernenti i diversi mezzi utilizzabili dai privati per fini di liberalità e quelle aventi ad oggetto la donazione, l’interprete dovrebbe effettuare «in concreto» (p. 141) la scelta della regolamentazione della fat-
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tispecie vagliata e, soltanto qualora risulti impossibile il riferimento ad un concorso di norme, sarebbe tenuto ad individuare la disciplina applicabile sulla scorta
di quanto stabilito dall’art. 809 c.c.
2. All’inizio del secondo capitolo, il piú esteso del volume, la coerenza del
metodo di indagine utilizzato dall’A. e la particolare attenzione che questi, colta
la ratio di ogni disposizione, riserva agli interessi concreti sottesi alle fattispecie
di volta in volta prese in esame trovano ulteriore conferma nelle risposte fornite
ai quesiti suscitati dalle norme del codice civile concernenti la capacità del donante e del donatario. Spiccano, al riguardo, gli argomenti che spingono il Nostro a legare la «piena capacità di disporre» di cui all’art. 774 c.c. alla maturità
del donante, cioè alla sua capacità di discernimento, permettendo in tal modo di
giudicare ammissibili numerose donazioni di modico valore che altrimenti non risulterebbero consentite. Il contenuto del medesimo articolo, coordinato con il disposto dell’ultimo comma dell’art. 397 c.c., viene poi interpretato di là dal suo
tenore letterale, nel senso che al minore emancipato autorizzato all’esercizio di
attività imprenditoriale sarebbe vietato compiere non donazioni che non siano
«matrimoniali», bensí quelle non motivate da esigenze o vantaggi aziendali e/o
imprenditoriali.
Quanto alla diversità della disciplina contenuta nell’art. 775 c.c. rispetto a
quanto previsto dall’art. 428, comma 2, c.c. relativamente ai presupposti che devono ricorrere per l’annullabilità del contratto concluso dall’incapace naturale, l’A.
non ha dubbi nell’individuare nella mancanza «dell’equivalenza delle prestazioni
ovvero di profili di onerosità o di corrispettività» (p. 166) la ragione per la quale
il legislatore ha negato rilevanza al pregiudizio del donante e alla malafede del
donatario nel primo degli anzidetti articoli. Ciò, secondo il Nostro, non esclude
l’applicazione dell’art. 428 c.c. alle fattispecie di donazioni «soprattutto modali,
che realizzano equilibri di posizioni assai vicini a quelli propri di contratti onerosi e a prestazioni corrispettive» (p. 167).
Il principio di ragionevolezza induce, poi, A.A. Carrabba ad applicare in via
interpretativa all’interdetto, evitando cosí una disparità di trattamento difficilmente
giustificabile, la protezione accordata dall’art. 776 c.c. all’inabilitato, cioè ad un
soggetto affetto da una menomazione meno grave rispetto al primo; protezione
consistente nell’esonero dall’onere di provare la sua incapacità per ottenere l’annullamento delle donazioni successive alla domanda giudiziale di inabilitazione.
La peculiare attenzione dell’A., verosimilmente ascrivibile anche all’attività
svolta in prima persona nella veste di notaio, a ciò che accade dal punto di vista
pratico allorché si realizzano i presupposti richiesti dal codificatore perché si configurino le diverse fattispecie di donazioni emerge ancóra una volta quando sostiene che il divieto di cui all’art. 778, comma 1, c.c., si applica anche alle ipotesi
di mandato a donare senza rappresentanza. Muovendo dalle situazioni che possono presentarsi proprio dinanzi al notaio, il Nostro non condivide la tesi opposta, sebbene evidenzi che quest’ultima si presenta in astratto in sintonia con le
modalità operative del mandato.
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Confutata la fondatezza delle ragioni, giudicate anacronistiche, che parte della
letteratura giuridica pone alla base del diniego della capacità di donare degli enti,
ampio spazio viene dedicato all’analisi dei problemi interpretativi concernenti la
capacità di ricevere donazioni.
L’A. illustra la varietà di opinioni fiorite tra gli studiosi relativamente alla struttura che connota la donazione in favore di nascituri, alla qualificazione da dare
all’evento della nascita e, infine, al soggetto da considerare titolare dei beni oggetto della donazione in pendenza della nascita.
La corretta individuazione delle differenti situazioni giuridiche nelle quali si
trovano donante e donatario prima dell’eventuale venuta ad esistenza di quest’ultimo agevola la comprensione delle riflessioni svolte a proposito della trascrizione degli atti di donazione in favore di nascituri. La considerazione del patrimonio donato come autonomo permette ad A.A. Carrabba di sostenere la trascrivibilità degli anzidetti atti, nonostante l’inesistenza del beneficiario, contro il
solo donante «attraverso la previsione portata dall’art. 2645 c.c. o secondo quanto
dispone l’art. 2643, n. 5, c.c.» (p. 215).
Il Nostro giudica unica la donazione congiuntiva di cui all’art. 773, comma 1,
c.c. Confuta, pertanto, la tesi che rileva nell’anzidetta donazione piú negozi legati «dalla contestualità e da una reciproca interferenza in ordine alla determinazione del bene oggetto dell’attribuzione» (p. 246). Afferma al riguardo che, ove
fosse accolta la tesi or ora accennata, la clausola contemplata dall’art. 773, comma
2, c.c. «si risolverebbe in ogni caso in un gioco di condizioni apposte alle diverse
proposte di donazione, in grado di sospendere l’effetto della maggiore acquisizione (rectius: dell’accrescimento) sino alla mancata accettazione degli altri donatari» (ibidem). La valutazione della donazione de qua come unica permette all’A.
di considerare la clausola di accrescimento anche «come indice di una precisa
scelta del donante per il caso di accettazione solo da parte di alcuni dei beneficiari» (ibidem) e finisce col fornire una spiegazione convincente della previsione
di un’apposita clausola per l’operatività dell’accrescimento, a differenza di quanto
stabilito in materia testamentaria.
Sottolineata la necessità di effettuare non in astratto, bensí con riferimento alla
specifica vicenda considerata e quindi agli interessi ad essa sottesi, la valutazione
della liceità o no della clausola con la quale il donante decide un accrescimento
del diritto di proprietà successivo all’accettazione e alla morte del donatario, l’A.
passa ad esaminare la disciplina delle sostituzioni nelle donazioni. Mette in risalto
i tratti che accomunano le anzidette sostituzioni, ordinarie e fedecommissarie, rispetto a quelle previste per gli atti di ultima volontà; ossia quei tratti che giustificherebbero il consolidamento dell’orientamento interpretativo favorevole all’applicazione alle prime delle regole dettate per le seconde. Pone poi in evidenza le
differenze sussistenti tra le due tipologie di sostituzioni e osserva che l’art. 795
c.c. «non considera la fattispecie da un punto di vista strutturale, ma si limita a
vietare e a legittimare alcuni risultati effettuali» (p. 256).
Le risposte fornite da A.A. Carrabba ai molteplici problemi sollevati dal contratto di donazione non di rado risultano in stridente contrasto con quelle ac-
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colte dalla maggioranza degli interpreti. Viene sostenuta, ad esempio, l’ammissibilità di tutti i vincoli preliminari alla conclusione del contratto con argomenti
solidi, che prescindono dall’individuazione, rispettivamente, della causa della donazione e del significato dello «spirito di liberalità» di cui all’art. 769 c.c. Il che
è emblematico, giacché la dottrina e la giurisprudenza prevalenti negano l’anzidetta ammissibilità, reputando incompatibile la sussistenza di vicende prodromiche al perfezionamento del contratto con la libertà che il donante deve avere nel
momento in cui esprime la propria volontà liberale.
L’A. si sofferma sul rapporto intercorrente tra la disciplina del contratto in
generale e quella prevista per il contratto di donazione e si discosta anche qui,
relativamente a qualche profilo, dall’opinione dominante tra gli interpreti: basti
pensare che non esclude la configurabilità di trattative, proposte e controproposte finalizzate alla conclusione del contratto di cui all’art. 769 c.c., cosí manifestando una concezione di tale contratto che sembra rivelarsi in piena sintonia con
le funzioni che lo stesso assolve al giorno d’oggi.
In linea, invece, con l’indirizzo seguito dalla maggioranza degli autori è il convincimento secondo cui il principio di intangibilità della sfera giuridica altrui «non
è posto in modo rigido e insuperabile all’interno del sistema civilistico» (p. 292),
come del resto confermerebbero quelle norme del codice che in diversi settori
sembrano consentire l’attribuzione ad un terzo di effetti giuridici esclusivamente
vantaggiosi (almeno in astratto) senza che ne occorra acquisire preventivamente
il consenso, salva la possibilità di un successivo rifiuto.
Le riflessioni svolte nell’opera in esame sugli interessi che il legislatore ha inteso tutelare stabilendo che il contratto di donazione necessita della forma dell’atto pubblico sotto pena di nullità si inseriscono nell’àmbito delle discussioni,
che ancóra di recente coinvolgono numerosi studiosi, sul se quello di libertà delle
forme sia davvero il principio generale e sulle ragioni che giustificherebbero la richiesta, in alcune previsioni normative, della forma ad substantiam.
Meritevole di particolare attenzione è la ricostruzione operata del ruolo della
forma dell’atto pubblico nella donazione. In proposito viene rilevato che la maggioranza delle tesi elaborate in argomento coglie soltanto una parte di verità sostenendo che le prescrizioni in materia di forma tutelano alternativamente la posizione del donante o altri interessi. È sottolineata, infatti, la capacità della forma
solenne di garantire tutti gli interessi coinvolti: essa è idonea non soltanto a proteggere il donante, favorendone sia una piú attenta ponderazione relativamente
all’atto che intende compiere sia la formazione di una volontà libera, ma anche
a conferire certezza al negozio, nonché a soddisfare altre esigenze, come ad esempio quella di accertare la sussistenza dello spirito di liberalità.
L’osservazione secondo la quale «è ben possibile una giustificazione causale
dell’attribuzione fondata su un interesse non patrimoniale e comunque una giustificazione non economica dell’attribuzione» (p. 303) sembra sufficiente ad A.A.
Carrabba per negare che la forma, che peraltro ha la capacità di nascondere i motivi dell’attribuzione, svolga nel contratto di donazione una funzione surrogatoria della causa donandi, «come dimostrerebbe l’esperienza delle donazioni indi-
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rette» (ibidem). Alla forma «non può riconoscersi una importanza causale, trovando spazio altrimenti fattispecie sostanzialmente astratte» (p. 304).
Rilevate le difficoltà di comprendere le ragioni per le quali nel codice civile
sono contenute norme particolari a proposito della donazione di beni mobili,
viene sostenuta l’«opportunità di una interpretazione razionale e non meramente
letterale» (p. 316) delle stesse.
La forma va considerata – qui il Nostro riporta fedelmente le parole di Pietro Perlingieri – «non soltanto come un aspetto della dichiarazione e della fattispecie, cioè come struttura descrittiva, ma anche come possibile importante aspetto
del regolamento di interessi» (p. 330), posto a garanzia di quest’ultimo e «di funzioni e di interessi piú meritevoli» (ibidem). La condivisione di questa concezione
spinge l’A. a non giudicare aprioristicamente come eccezionali le norme che impongono vincoli di forma e a non abbracciare incondizionatamente il preteso principio di simmetria delle forme.
Quanto alla modicità delle donazioni di cui all’art. 783 c.c., A.A. Carrabba
opina che quivi sia previsto un criterio unico, in cui l’aspetto oggettivo e quello
soggettivo sono coessenziali e vanno contemperati tra loro attraverso un giudizio
concreto dell’attribuzione patrimoniale che utilizzi il criterio di proporzionalità.
Nessun dubbio il Nostro mostra quando sostiene la necessità, al fine della trascrizione della donazione c.d. «ex intervallo», della presentazione sia della proposta che dell’accettazione a seguito della conclusione del contratto, cioè di regola dopo che sia stata effettuata al donante la notifica dell’accettazione. L’inutilità della trascrizione della sola proposta è la ragione principale per la quale nega
la trascrivibilità delle proposte ferme di donazione, ove reputate ammissibili. Osserva peraltro che la ragione appena accennata dovrebbe spingere a reputare parimenti non trascrivibile l’opzione di donazione. Rileva, tuttavia, che l’introduzione della disciplina della trascrizione dei contratti preliminari ha determinato
un’apertura in senso favorevole alla trascrivibilità dei contratti prodromici alla realizzazione di atti di trasferimento di diritti reali, in senso favorevole in particolare alla trascrivibilità del contratto di opzione.
3. All’inizio del terzo capitolo, dedicato all’oggetto delle donazioni, l’A. segnala che l’individuazione di quest’ultimo, non agevole già nel contratto in genere, si rivela ancóra piú difficile negli atti di liberalità, sia per la sussistenza di
regole specifiche, ulteriori rispetto a quelle contemplate dall’art. 1346 ss. c.c., sia
per la continua emersione di nuove realtà economiche che possono essere riguardate dalla volontà liberale. Abbandonata, pertanto, ogni pretesa di comprendere nella propria indagine tutte le entità idonee a costituire oggetto di donazioni,
A.A. Carrabba ribadisce la difficoltà di determinare il significato dell’«oggetto»
del contratto, da alcuni autori trasposto sul piano della funzione e/o degli effetti,
da altri identificato con l’oggetto della prestazione o con il bene. L’A., sul punto,
evita di prendere posizione, verosimilmente perché non lo ritiene necessario ai
propri fini, mentre riconosce «una certa utilità» (p. 363), per il prosieguo dell’esposizione, alla divisione delle liberalità contrattuali, effettuata da una parte della
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dottrina, in donazioni con effetti reali, donazioni con effetti obbligatori e donazioni liberatorie.
A proposito dell’ipotesi di attribuzione al terzo della determinazione dell’oggetto della donazione A.A. Carrabba sostiene l’applicabilità della disciplina dettata dall’art. 1349 c.c., nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 778 c.c., e quindi
l’ammissibilità tanto dell’arbitrium boni viri quanto dell’arbitrium merum. Reputa
possibile sia che il donante si riservi l’individuazione del donatum tra piú beni
indicati o entro precisi limiti di valore, sia che la stessa individuazione venga rimessa al donatario. Persuasiva è l’osservazione secondo la quale in quest’ultima
ipotesi non è di ostacolo alla sua configurabilità «la particolare natura dell’atto
donativo e la personalità della volizione del donante piú di quanto non lo siano
rispetto alla determinazione ad opera del terzo» (p. 366). Né – viene puntualizzato – contro la plausibilità della soluzione or ora richiamata potrebbe essere addotto l’eventuale interesse del donatario ad accrescere il valore dell’attribuzione
patrimoniale, poiché il donante ha già stabilito il limite massimo della diminuzione del proprio patrimonio.
Delicata è la questione concernente l’individuazione dell’àmbito di applicazione dell’art. 771, comma 2, c.c., laddove si riferisce ad un’«universalità di cose».
Secondo un’autorevole lettura interpretativa, tale àmbito ricomprenderebbe soltanto le universalità di beni mobili omogenei tra loro, ma non altre figure, quali
l’eredità e l’azienda. Tuttavia l’A. osserva in proposito che radicalmente opposta
risulterà la conclusione alla quale si perverrà, ove si ritenga che la regola posta
dall’art. 771, comma 2, c.c. non costituisce eccezione al divieto, stabilito dal comma
precedente, di donazione di beni futuri, «potendo peraltro le cose successivamente
aggiunte non essere tali sia dal punto di vista oggettivo che da quello soggettivo»
(p. 372).
Relativamente all’ipotesi di donazione di eredità, l’A. nota che, quand’anche
si opinasse che nelle singole entità che formano il complesso patrimoniale sono
comprese pure le passività, il riferimento oggettivo della donazione «non potrebbe
che essere a ciò che residua al donatario detratte le passività ereditarie» (p. 374).
Una volta sottolineato che il legislatore esprimerebbe una considerazione unitaria dell’azienda e del ramo di azienda al pari dell’eredità, A.A. Carrabba ricorda
che vi è chi reputa la donazione universale come una sola liberalità avente ad oggetto un complesso unitario di beni e chi sostiene, invece, che «si sia in presenza
di piú donazioni aventi ad oggetto singole entità connotate dalla comune appartenenza al donante» (p. 376). Evidenziate le conseguenze che produce la condivisione dell’una o dell’altra tesi in ordine sia al requisito della forma che alle passività del donante, l’A. prospetta che la soluzione del dilemma debba essere ricavata ancóra una volta dalla volontà concreta delle parti, essendo possibile realizzare tanto una donazione universale del complesso dei beni del disponente, quanto
«una vicenda liberale con attribuzione al beneficiario di una pluralità di diritti,
che a sua volta può rilevare come un’unica donazione avente ad oggetto piú beni
o come una pluralità di donazioni» (p. 377).
Le riflessioni svolte a proposito della possibile giustificazione del divieto di
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donazione di beni futuri di cui all’art. 771, comma 1, c.c. rappresentano una chiara
conferma della meticolosità con la quale l’A. procede, per individuare con esattezza la ratio di ogni istituto, nella disamina degli argomenti prospettati dalla letteratura giuridica. Rifiutato l’accoglimento delle tesi che collegano tale divieto al
principio donner et retenir ne vaut o all’intenzione del legislatore di frenare la
prodigalità del donante, viene negato parimenti che l’attualità dello spoglio sia elemento indefettibile per la configurabilità di una donazione. Si conclude, pertanto,
che gli interessi tutelati dal divieto in questione probabilmente sono gli stessi sottostanti alla disciplina dei patti successori, diretti ad evitare pressioni lesive della
libertà di disporre.
Un’attenzione particolare viene riservata alla possibilità di sottoporre le donazioni di cose altrui al divieto sancito dall’art. 771, comma 1, c.c. Tutte le osservazioni proposte dalla letteratura giuridica a favore dell’invalidità di siffatte donazioni sono confutate in modo minuzioso dal Nostro, che sottolinea innanzitutto che la res altrui non è accostabile al bene futuro sia dal punto di vista logico, «ben potendo tale res essere sia presente che futura» (p. 388), sia da quello
giuridico, giacché ognuna delle due categorie di beni ha una propria regolamentazione specifica. Ribadita, poi, la difficoltà di determinare la giustificazione del
divieto de quo, l’A. pone in evidenza che la consapevolezza, nel beneficiante, dell’impoverimento della sfera giuridico-patrimoniale che gli deriverebbe dall’atto di
attribuzione può sussistere anche in presenza di un trasferimento dei beni non
attuale, cosí come del resto è testimoniato pure dalla disciplina delle donazioni
di prestazioni periodiche. Ciò confermerebbe che la ratio del medesimo divieto
non sarebbe ravvisabile nella volontà del legislatore di limitare l’eventuale prodigalità del donante. Né maggiore consistenza è attribuita all’argomento che si basa
sul tenore letterale dell’art. 769 c.c., che si esprime in termini di «suo diritto» con
riferimento all’atto di disposizione del donante, atteso che il codice civile vigente,
sebbene contenga formule analoghe anche relativamente al testamento (v. art. 587),
disciplina il legato di cosa altrui. Negato, infine, un eventuale accostamento della
donazione di cosa altrui al contratto preliminare di donazione pure per la diversità degli effetti che ne scaturiscono, l’A. conclude per l’ammissibilità di una siffatta donazione e per la possibile applicazione dell’art. 1478 c.c. all’anzidetta fattispecie donativa.
Ad avviso dell’A., possono formare oggetto del contratto di cui all’art. 769
c.c. non soltanto i crediti – per cui viene sottolineato che in questa ipotesi opera
sia la disciplina della donazione sia quella prevista per la cessione del credito –,
ma anche il trasferimento del contratto di cui all’art. 1406 ss. c.c., la cui causa invece, secondo un orientamento interpretativo, non potrebbe essere liberale. Un’attenta analisi della specificità dell’oggetto dell’istituto or ora richiamato induce il
Nostro a reputare, da un lato, che il contratto possa essere ceduto a vario titolo,
anche se sia stato parzialmente eseguito e, dall’altro, che contro la considerazione
della cessione in questione in termini di donazione neppure potrebbe essere fatta
valere la presenza di obblighi a carico del cessionario, essendo donazione, ad esempio, anche la fattispecie nella quale è posto un modus a carico del donatario; con
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la conseguenza che occorrerà semplicemente coordinare le due discipline, proprio
come si è costatato a proposito della donazione di crediti. D’altronde – si osserva
– la dottrina ammette pacificamente la donazione di azienda, alla quale si avvicina l’ipotesi di cessione de qua.
A.A. Carrabba propone, poi, una serie di argomenti diretti ad avallare la legittimità della donazione del possesso, intesa quale donazione della situazione di
fatto sul bene distinta dal diritto cui solitamente corrisponde, e a superare pertanto le obiezioni fondate sulla personalità e l’intrasmissibilità del possesso, nonché sull’indefettibilità dell’apprensione materiale del bene. Al rilevo critico basato
sulla pretesa mancanza di arricchimento del donatario risponde che i commoda
possessionis producono vantaggi per quest’ultimo, non limitati alla mera percezione dei frutti.
Nell’intera opera spicca l’insistenza con la quale viene sottolineata la compatibilità di una fattispecie donativa con la presenza di obblighi, legali o convenzionali, gravanti sul beneficiario o comunque con profili di onerosità che limitino
la vantaggiosità dell’attribuzione patrimoniale. Cosí la previsione di un solarium
non escluderebbe la rilevabilità di una donazione dello ius edificandi o della proprietà superficiaria; parimenti gli obblighi posti a carico dell’enfiteuta non impedirebbero che il donatario si arricchisca in virtú di una donazione di un’enfiteusi
già costituita. Anzi l’A. reputa che le ragioni che inducono la dottrina prevalente
ad ammettere la donazione ora evocata possano valere anche per sostenere la configurabilità di donazioni costitutive del diritto di enfiteusi. Al riguardo pone in
evidenza che la tipicità caratterizza tale diritto, non la causa del negozio che lo
costituisce; per cui sarà ancóra una volta la valutazione concreta della fattispecie
a chiarire la volontà delle parti, in particolare il ruolo dalle stesse attribuito alle
prestazioni dell’enfiteuta.
Nel paragrafo nel quale viene affrontato il problema dell’ammissibilità di donazioni di situazioni giuridiche soggettive di varia natura (diritti potestativi, aspettative di diritti ecc.) ampio spazio viene dedicato alla donazione di partecipazione
sociale. Rimarcata l’unitarietà di quest’ultima, nonostante le formalità necessarie
al donatario per opporre alla società la sua acquisizione e per diventare socio
siano diverse a seconda dello specifico tipo societario considerato, l’A. si sofferma
in particolare sulla questione dell’efficacia da attribuire alla donazione in tutte
quelle ipotesi nelle quali quest’ultima non può essere opposta alla società e ai
terzi, ad esempio perché vi è un divieto di cessione della partecipazione sociale
oppure perché risulta indispensabile il consenso degli altri soci, che lo abbiano
negato. Orbene, dopo avere rilevato che tutte le soluzioni prospettate dagli interpreti sul punto non sono adeguate, reputa coerente, se le parti hanno giudicato la partecipazione sociale come entità unitaria, considerare la donazione de
qua come improduttiva di effetti pure tra le stesse.
Con riferimento alla ricostruzione della donazione con riserva di usufrutto,
A.A. Carrabba, in conformità con l’indirizzo prevalente tra i giudici di legittimità, sostiene l’«unicità negoziale» (p. 444) della fattispecie in questione e, a differenza di chi reputa duplici gli effetti (l’uno traslativo, l’altro costitutivo), sotto-
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linea l’«aspetto oggettivo» (ibidem) del negozio di liberalità, col quale si dispone
unicamente della nuda proprietà. L’opinione testé illustrata e la pretesa irrilevanza
della soluzione da dare al quesito, che per l’A. neppure si porrebbe, circa il titolo, originario o derivativo, giustificativo dell’usufrutto inducono il Nostro a negare l’indispensabilità della trascrizione anche a favore del donante usufruttuario,
giacché l’adeguata pubblicizzazione del trasferimento della nuda proprietà farebbe
venire meno qualunque possibilità di conflitto da dirimere tramite la trascrizione
stessa. Quanto all’eventuale valutazione della natura della riserva di usufrutto a
vantaggio di altro soggetto in termini di proposta di donazione, puntualizza che
un’interpretazione siffatta non si adatterebbe facilmente a comprendere l’ipotesi
di accettazione non contestuale ad opera del beneficiario, pur osservando che sarebbe possibile superare gli ostacoli di carattere ermeneutico utilizzando lo schema
disegnato dall’art. 1411 c.c. Tuttavia – nota l’A. – l’attribuzione del diritto reale
minore limitativa della proprietà già donata «appare difficilmente giustificabile
come proposta contrattuale non ancóra accettata e non suscettibile di autonoma
trascrizione» (p. 448). Di conseguenza segnala l’opportunità di distinguere la donazione accettata dei diritti in esame a due soggetti differenti, consistente in due
negozi distinti sebbene contestuali, dall’ipotesi «di vera e propria riserva di usufrutto, quale modalità limitante il diritto donato» (p. 449), che permette al donante di assegnare ad altri l’usufrutto, cosí definendo l’oggetto della liberalità, con
un negozio unilaterale ad efficacia reale immediata, soggetto all’eventuale rifiuto
del destinatario.
Confutata, poi, l’interpretazione della riserva al successivo usufruttuario di cui
all’art. 796 c.c. in chiave di proposta di donazione in quanto, oltre ad apparire
non convincente, di frequente non risulterebbe corrispondente all’effettiva volontà
delle parti coinvolte, l’A. mette in evidenza, da un lato, che il medesimo articolo
appare in perfetta sintonia con quanto stabiliscono gli artt. 698 e 979 c.c. e, dall’altro, che la ratio delle anzidette previsioni normative è da rinvenire nel divieto
di sostituzioni fedecommissarie, «considerato il risultato raggiungibile con la disposizione a favore di piú persone di usufrutti successivi con effetti dopo la morte
del soggetto disponente» (p. 452).
La poco chiara (almeno in apparenza) formulazione di alcune disposizioni contenute nel codice civile viene superata agevolmente grazie alla profonda conoscenza che A.A. Carrabba mostra di avere dei lavori che hanno preceduto la loro
introduzione, delle norme del codice del 1865, nonché di quelle dei codici civili
che hanno maggiormente influenzato il legislatore del 1942.
La lettera dell’art. 769 c.c., che fa riferimento a donazioni nelle quali il beneficiante assume obbligazioni, non esclude che queste ultime possano avere ad oggetto una prestazione di dare. L’A. sottolinea che la configurabilità di donazioni
siffatte non costituisce l’unica eccezione alla preferenza che il codice civile, sulle
orme del code Napoléon, attribuisce all’immediatezza degli effetti traslativi quale
conseguenza dell’accordo raggiunto dai contraenti. Infatti il consenso di cui all’art. 1376 c.c., da un lato, non risulta sufficiente per il trasferimento di diritti in
non pochi contratti e, dall’altro, necessita comunque di un quid ulteriore ai fini
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dell’opponibilità erga omnes del diritto acquistato. Le obbligazioni di dare, peraltro, si rivelano “utili” sia nei rapporti trilaterali, poiché si pongono in sintonia
col principio dell’intangibilità della sfera giuridico-patrimoniale altrui, che in quelli
che intercorrono tra donante e donatario, atteso che quest’ultimo ha la possibilità di rinunziare al credito ed eventualmente di verificare che il donante esegua
ulteriori prestazioni alle quali è tenuto nella fattispecie concreta.
Nessun dubbio l’A. mostra nel considerare possibile che la donazione abbia
ad oggetto un’obbligazione di fare. La prestazione di fare, infatti, è giudicata idonea sia ad arricchire il beneficiario, che risparmierà spese ed energie necessarie per
compiere uguale opera o servizio, sia a depauperare il beneficiante. Quanto alla
non agevole distinzione tra le donazioni obbligatorie di fare e gli altri contratti
gratuiti tipici capaci di realizzare lo stesso risultato, viene negato che la presenza
di un interesse patrimoniale del beneficiante costituisca elemento che, da solo,
consentirebbe di escludere la ricorrenza di una donazione, giacché tale interesse
potrebbe essere manifestato dal donante con la previsione di un modus. Secondo
il Nostro, soltanto un giudizio globale di tutti i profili della singola fattispecie
concreta presa in considerazione permetterebbe di operarne la qualificazione corretta.
L’A. reputa ammissibile la donazione c.d. «liberatoria». Dopo avere sottolineato che la bilateralità di tale fattispecie «non rappresenta semplice sovrastruttura» (p. 476), giustificandosi per gli interessi sottostanti alla stessa fattispecie, e
averla distinta dalla rinunzia, prospetta alcuni esempi a conferma dell’utilità delle
donazioni liberatorie, che permetterebbero di conseguire risultati altrimenti non
raggiungibili.
4. Nel capitolo quarto vengono esaminate le varie clausole che possono essere inserite nel contratto di donazione per dare rilevanza ai motivi.
Relativamente all’eventuale previsione di una condizione all’interno della liberalità, l’A. sostiene l’applicabilità della disciplina prevista per la condizione apposta al contratto in genere e non al testamento. Rimarca, in particolare, producendo numerosi esempi aventi ad oggetto soprattutto condizioni di contrarre matrimonio, la necessità di valutare in concreto se nella singola vicenda riguardata
l’evento condizionale limiti la libertà individuale e, quindi, se il comportamento
dedotto nella clausola costituisca un illecito.
Il fondamento successorio del patto di riversibilità e la funzionalità anche mortis causa di quest’ultimo inducono A.A. Carrabba a ridimensionare la rilevanza
del quesito concernente la natura da assegnare al medesimo patto. Di notevole
importanza, invece, viene reputata l’individuazione sia della natura della riserva
di disporre, sia del modo con il quale è possibile rendere compatibile tale istituto, da un lato, con il divieto dei patti successori e, dall’altro, con la pretesa indefettibilità del carattere dell’irrevocabilità caratterizzante la donazione e, piú in
generale, il contratto. Dopo aver illustrato puntualmente le ragioni che impedirebbero di accogliere le ricostruzioni della riserva di disporre dei beni donati in
chiave di donazione sottoposta a condizione sospensiva o risolutiva – ricostru-
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zioni che trovano ostacoli insormontabili nell’esigenza di rispettare, allorché si intenda interpretare una fattispecie negoziale, la volontà effettiva dei protagonisti
interessati e/o in divieti stabiliti dalla legge –, il Nostro considera pertinente in
tale fattispecie richiamarsi al recesso e ribatte punto su punto alle obiezioni sollevate dalla dottrina circa la correttezza del riferimento all’istituto or ora menzionato, fino a concludere che la riserva, come il recesso, consente al donante «di
riconsiderare la propria posizione in ordine al rapporto contrattuale, nella specie
in relazione alla liberalità, e di determinare la quantità dell’attribuzione» (p. 521).
Quanto al termine, della cui apponibilità nel contratto di donazione nessuno
dubita, viene sottolineato che, nel caso in cui termine iniziale sia il giorno della
morte del donante, occorrerà comprendere se sia stato violato il divieto dei patti
successori previsto dall’art. 458 c.c., divieto di cui l’A. ipotizza l’opportunità di
una reinterpretazione. Relativamente al termine finale, considerato compatibile con
le donazioni obbligatorie e con quelle dispositive di diritti reali minori, si osserva
che la soluzione del problema concernente la possibilità che esso sia inserito in
una donazione di proprietà coincide con la risposta al quesito sull’ammissibilità
nel nostro ordinamento giuridico della c.d. «proprietà temporanea».
Il tema del ruolo rivestito dal modus nel contratto di donazione è affrontato
con un’impostazione in buona parte differente da quella riscontrabile nella prevalenza degli studi in proposito, coerentemente con il metodo di indagine seguito
nell’intera opera, che evita astratte collocazioni sistematiche delle fattispecie. A.A.
Carrabba non esclude che la donazione modale possa essere giudicata in termini
di onerosità e/o di corrispettività. Ai solidi argomenti prodotti dalla dottrina dominante per dimostrare il rilievo secondario dell’onere replica ricordando che non
manca chi ricostruisce il medesimo istituto in chiave opposta. Emblematica al riguardo è la pluralità di letture interpretative proposte con riferimento all’art. 793,
comma 4, c.c. Tale discordanza di opinioni conferma che bisogna procedere con
estrema cautela prima di ricavare illazioni in un senso o nell’altro.
Parimenti non può essere risolta soltanto dal punto di vista teorico la questione della qualificazione da attribuire alla natura della donazione modale, soprattutto nell’ipotesi in cui l’onere sia stato l’unico motivo determinante della liberalità. Dopo avere rammentato sia che il modus viene regolato da alcune disposizioni che si conciliano con un atto di liberalità e da altre, invece, compatibili con un atto oneroso, sia che l’elasticità della disciplina dell’onere consente alle
parti «di realizzare una non trascurabile fattuale corrispettività» (p. 544), l’A. conclude che sono le medesime parti «a determinare in concreto sia il grado di onerosità della fattispecie, sia la corrispettività della stessa vicenda» (p. 545); con la
conseguenza che l’interprete dovrà valutare la specifica donazione presa in esame,
per individuare la natura che la connota e, quindi, la disciplina ad essa applicabile.
La necessità di procedere alla valutazione non in astratto di ogni fattispecie
donativa da vagliare viene ribadita anche quando viene affrontato il problema relativo a quale sia il criterio che permetterebbe di distinguere l’onere dalla condizione. Al riguardo viene rilevato che, sebbene siano evidenti le diversità tra i due
elementi accidentali dal punto di vista teorico, nella pratica spesso non è agevole
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comprendere se ricorra l’uno o l’altro, per cui occorrerà indagare sulla volontà
effettiva delle parti e non giudicare decisive le parole utilizzate. Uguale metodo
viene seguito allorché, sottolineata la funzione della clausola risolutiva di cui all’art. 793, comma 4, c.c., il Nostro si pone l’obiettivo di individuare, alla luce degli interessi concreti dei contraenti, la disciplina applicabile alla medesima clausola con riferimento ai profili non regolati dall’articolo ora citato.
Si è piú volte notato che una costante dell’opera è l’attenzione riservata agli
interessi sottostanti alle vicende esaminate, a quegli interessi che vengono accuratamente diversificati e valutati comparativamente per stabilire quali meritino priorità di tutela da parte dell’ordinamento giuridico. In perfetta sintonia con questa
impostazione metodologica risultano le riflessioni sulle ragioni che sarebbero alla
base dell’ampia autonomia concessa al donante dall’art. 356 c.c. L’A. sostiene che
la scelta del legislatore di permettere al donante di attribuire al curatore, relativamente ai beni donati al minore, poteri che di regola spettano ai genitori e al
tutore è legata non tanto al carattere fiduciario della nomina del curatore stesso
e/o all’eventuale sfiducia nei confronti dei rappresentanti legali, quanto all’esigenza
di soddisfare l’interesse dell’incapace, il quale potrebbe ricevere beni la cui gestione, per risultare efficiente, richiede competenze non possedute dai rappresentanti appena richiamati. La medesima esigenza consentirebbe parimenti all’interprete di giudicare ammissibili ulteriori previsioni negoziali, delle quali viene dato
minuziosamente conto.
5. Nel capitolo quinto A.A. Carrabba prende in esame gli elementi richiesti
dal codificatore perché si configuri un contratto di donazione e, quindi, ciò che
lo distinguerebbe dagli altri negozi gratuiti. Già dalle prime pagine sul tema si
evince l’inesistenza di un criterio universale in grado di disvelare quali siano i caratteri esclusivi della donazione. La decisione di collocare un contratto nell’area
coperta dall’art. 769 ss. c.c. postula l’esatta individuazione degli interessi in gioco,
essendo il tipo de quo estremamente elastico, capace di pianificare una pluralità
di interessi.
Il Nostro non ha la pretesa di cogliere il minimo comune denominatore tra
le numerose donazioni che le parti possono perfezionare. Nessuna sorpresa suscita, pertanto, la decisione di rinunciare in partenza al tentativo di proporre un
(ennesimo) criterio volto a chiarire una volta per tutte quale sia il connotato immancabile di ogni contratto di donazione.
L’A. si limita a ripercorrere con la chiarezza e incisività consuete i risultati ai
quali è giunta la dottrina in ordine al significato dell’arricchimento e dello spirito
di liberalità, considerati tradizionalmente dalla letteratura giuridica il “cuore” della
definizione di cui all’art. 769 c.c., come si deduce del resto dall’ampio spazio dedicato alla determinazione dell’anzidetto significato in tutte le opere piú importanti in argomento. Mette in evidenza che nessuna ricostruzione concernente l’arricchimento è riuscita a sottrarsi a rilievi critici penetranti: basti ricordare ad esempio, da un lato, che l’apponibilità di un onere il cui adempimento assorba interamente il valore del donatum smentisce l’assunto secondo il quale la donazione
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accresce necessariamente il patrimonio del beneficiario e, dall’altro, che non sarebbe corretto non qualificare come «donazione» l’attribuzione di un bene «di
valore piú affettivo che economico» (p. 584).
Problematica è altresí l’individuazione dell’essenza dello spirito di liberalità, la
cui interpretazione in termini di altruismo, molto diffusa, cozzerebbe secondo il
Nostro sia con la disciplina dell’onere, sia con la sussistenza di trasferimenti patrimoniali disposti dal donante non per recare beneficio, ma per disfarsi di beni
idonei a creare svantaggi. Né, ad avviso dell’A., lo spirito di liberalità potrebbe
essere considerato come libertà del donante di scegliere discrezionalmente il donatario, giacché le liberalità d’uso, le donazioni remuneratorie e le fattispecie di
trasmissione del patrimonio familiare ai discendenti con atto inter vivos smentirebbero in tutto o in parte la plausibilità dell’accennata proposta interpretativa.
Esclude, poi, che il quid che caratterizza la donazione sia l’interesse non patrimoniale che il donante intenderebbe soddisfare, atteso che l’apponibilità dell’onere di compiere certi atti a favore dello stesso donante per realizzarne esigenze
di natura patrimoniale costituirebbe ragione sufficiente a confutare l’opinione ora
richiamata. Altre ricostruzioni intendono per «spirito di liberalità» la volontà di
effettuare un’attribuzione patrimoniale senza corrispettivo o in assenza di obbligo
(giuridico o extragiuridico). Nessuna di queste però farebbe luce, secondo l’A.,
sull’elemento su cui riposa la distinzione tra donazione e altri negozi gratuiti; e
ciò, ove anche si trascuri che sovente il donante viene spinto a compiere la liberalità da un dovere giuridico o extragiuridico.
La rilevanza dei motivi individuali che inducono a donare, se da una parte
rende ancora piú difficoltosa l’individuazione di un contenuto positivo dello «spirito di liberalità», dall’altra spinge l’interprete a domandarsi quale sia la causa del
contratto di cui all’art. 769 c.c. Dopo avere segnalato rapidamente i molteplici
orientamenti fioriti sul tema e gli argomenti che si oppongono all’accoglimento
di ognuno di essi, l’A. si interroga sulla condivisibilità della celebre tesi secondo
la quale sarebbe la forma richiesta per la donazione a “salvare” l’attribuzione patrimoniale resa in mancanza di una controprestazione o di una causa praeterita.
Dopo avere chiarito che la forma non può «svolgere di per sé […] un ruolo
causale» (p. 594), A.A. Carrabba reputa preferibile, per cogliere la funzione della
donazione, prendere in considerazione innanzitutto la causa del contratto in genere e il rapporto tra quest’ultima e il tipo negoziale.
La condivisione, da parte dell’A., della concezione della causa in termini di
funzione economico-individuale, se da un lato evita la confusione tra «causa» e
«tipo» sovente riscontrabile tra i sostenitori della tesi di Emilio Betti relativa alla
causa del negozio giuridico, dall’altro mette in risalto «l’impossibilità di considerare la causa del contratto […] sempre elemento qualificante il tipo legale» (p.
599), essendo inconfutabile che una pluralità di contratti può assolvere la stessa
funzione e che il medesimo tipo può essere adoperato per piú funzioni concrete.
In quest’ottica, se la riconduzione al tipo contrattuale postula un giudizio della
specifica vicenda negoziale cui i privati hanno dato vita, bisognerà giudicare errato il metodo seguito da chi, rilevato nella definizione legislativa un dato repu-
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tato essenziale, «qualifica come corrispondenti al tipo normativo solo quei negozi
in cui sia possibile riscontrare tale dato» (p. 600). Ciò confermerebbe che «interpretazione e qualificazione del contratto devono essere effettuate in modo unitario» (ibidem).
Alla luce delle riflessioni fin qui sinteticamente esposte l’A. conclude che la
mancanza dell’arricchimento o dello spirito di liberalità non comporta inevitabilmente l’esclusione della fattispecie dal novero delle donazioni. La qualificazione
di una vicenda nell’àmbito di queste ultime scaturirebbe, infatti, da una valutazione concreta e da una sua comparazione con l’intero modello disegnato dal legislatore.
L’elasticità del tipo si giustificherebbe, pertanto, in virtú della varietà sia delle
motivazioni concrete che possono essere riscontrate nel contratto e che verosimilmente sono alla base della scelta del codificatore di disciplinare figure particolari di donazioni, sia delle funzioni che il contratto de quo può svolgere.
Viene poi osservato che la testimonianza piú lampante dello stretto legame
sussistente tra causa e motivi nel contratto di donazione si riscontra nelle figure
di liberalità contemplate dall’art. 770, comma 1, c.c., di ciascuna delle quali è sottolineata l’idoneità, data la genericità dei termini adoperati dal legislatore, ad includere numerosissimi casi e, quindi, a soddisfare le piú svariate esigenze. Evidenziata l’incertezza sui connotati di ognuna delle figure appena richiamate, l’A.
sostiene che, per qualificare la fattispecie concreta presa in considerazione, occorre non utilizzare un criterio quantitativo «o legato al tipo di servizio» (p. 611),
ma operare «una valutazione qualitativa» (ibidem) basata sugli interessi, che tenga
nel dovuto conto lo stato soggettivo del donante.
Una conferma di come i motivi possano penetrare nella causa delle donazioni
di cui all’art. 770, comma 1, c.c., si ha nell’ipotesi di errore sul motivo remuneratorio. In proposito il Nostro osserva, discostandosi dalla letteratura giuridica
prevalente, che, quando tale errore incide sul fondamento giustificativo del contratto, il beneficiante potrebbe essere tutelato dall’azione di arricchimento senza
causa.
Quanto alla donazione c.d. «mista», riassunte le varie ricostruzioni dell’istituto proposte dagli interpreti, l’A. segnala le critiche formulate dalla dottrina alla
sua riconduzione nell’area delle donazioni indirette. Dopo avere condiviso tali critiche, nota che lo stesso effetto liberale può essere conseguito di fatto da altro
negozio diverso dalla donazione, che non rilevi come donazione mista; per cui
giudica non corretta, quando i contraenti «con maggiore trasparenza realizzano
una donazione mista» (p. 620), la qualificazione di quest’ultima come «negozio
indiretto» o come «donazione indiretta». Una volta chiarito che in astratto tutte
le previsioni normative che regolano la donazione sono applicabili alle donazioni
miste, il Nostro rileva che le diposizioni del codice civile richiamate dalla dottrina per svincolare le stesse donazioni dalle prescrizioni di forma di cui all’art.
782 c.c. si riferiscono in realtà ad ipotesi di donazioni indirette, per cui non esclude
affatto che per le donazioni miste ricorrano le medesime ragioni che giustificano
la richiesta della forma prevista dall’articolo innanzi citato per le donazioni. La
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possibilità di applicare differenti disposizioni confermerebbe, allora, la necessità
per l’interprete di valutare la vicenda concreta «in modo da raggiungere, in presenza di aspetti diversi, spesso contrapposti ma concorrenti alla realizzazione di
un particolare equilibrio negoziale […], una soluzione ragionevole, da confrontare anche con gli interessi dei terzi» (p. 628).
Sottolineato il ruolo non preminente che assume oggi il testamento tra i mezzi
idonei a regolare situazioni giuridiche patrimoniali in vista della morte del disponente, l’A. si sofferma sulla donazione si praemoriar e su quella cum moriar,
pervenendo a risultati convincenti. L’apponibilità di termine e condizione per dare
rilevanza ai motivi del disponente e l’opinione secondo la quale «il tempo dell’effetto non è decisivo per l’individuazione della funzione concreta della fattispecie» (p. 631) dovrebbero escludere che le clausole innanzi citate possano essere inserite nella donazione per regolare aspetti successori, aspetti cioè che «non
dovrebbero in teoria trovare spazio data l’irrevocabilità dello strumento utilizzato
e la ratio che sta a fondamento del divieto dei patti istitutivi di cui all’art. 458
c.c.» (p. 632). Rammentati, dunque, i criteri utilizzati dai giudici di legittimità per
verificare se l’atto sia valido in quanto non ricadente nel menzionato divieto, segnala che una nuova lettura interpretativa dell’art. 458 c.c. «potrebbe essere quella
orientata a non considerare soggette alla sanzione della nullità le disposizioni strutturalmente inter vivos con funzione successoria se attributive di singoli beni o diritti» (p. 634). Sostiene, pertanto, l’opportunità di restringere la portata del divieto in questione, in sintonia del resto con un’interpretazione sistematica ed evolutiva dello stesso, in attesa dell’eventuale modifica dell’art. 458 c.c. da parte del
legislatore. In quest’ordine di idee il patto di famiglia non farebbe altro che incidere sull’area di operatività del divieto di patti successori, giacché l’azienda (o
la partecipazione societaria) potrebbe costituire l’unica entità rinvenibile nel patrimonio del disponente e in tal caso, quindi, l’attribuzione da questi compiuta
non sarebbe una mera dazione a titolo particolare.
6. Nel capitolo sesto, dedicato agli effetti e all’inadempimento del contratto di
donazione, l’A. pone in risalto immediatamente le difficoltà che, ai fini dell’inquadramento sistematico della garanzia per evizione, incontra la letteratura giuridica, divisa tra chi richiama in proposito le garanzie in senso tecnico e chi, invece, colloca questo istituto nell’area della responsabilità, salvo poi precisare a
quale ipotesi di responsabilità fa riferimento. Osserva che le diverse ricostruzioni
possono giungere sul piano applicativo a significativi punti di contatto. Nota che
le disposizioni in merito vanno considerate come espressione della volontà del legislatore di graduare la responsabilità contrattuale e di certo non di escluderla.
L’esonero dalla responsabilità comporterebbe, infatti, che la condotta del donante
dovrebbe essere sanzionata ai sensi dell’art. 2043 c.c.; il che urterebbe con l’intento legislativo di giudicare con minore severità l’evizione negli atti di liberalità.
L’esigenza di non gravare il donante delle conseguenze scaturenti dall’eventuale applicazione delle norme relative alla responsabilità aquiliana e la necessità
di un’interpretazione dell’art. 798 c.c. che non prescinda da quanto disposto da-
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gli artt. 797 e 789 c.c. inducono l’A. a propendere per «la sussistenza di una, se
pur attenuata, responsabilità contrattuale» (p. 651) del disponente per i vizi della
cosa donata. Analogamente a quanto sostenuto con riguardo alla garanzia per evizione, per evitare «una disarmonia ingiustificabile» (ibidem), viene affermata l’opportunità dell’equiparazione della colpa grave al dolo di cui all’art. 798 c.c.
Secondo l’A., affinché sia configurabile il dolo, previsto come presupposto per
l’operatività delle suddette norme, non è richiesta la specifica intenzione del donante di provocare danno al donatario, atteso che la condivisione dell’opinione
opposta dovrebbe fare i conti con due conseguenze reputate «discutibili» (p. 656),
ossia con «la riduzione eccessiva dei casi in cui risulterebbero operative le garanzie e la loro esclusione di fatto qualora il donatario non riuscisse a provare
siffatta intenzione del donante» (ibidem).
Quanto all’inadempimento del contratto di donazione, viene puntualizzato che
tale tema si intreccia con quello delle garanzie e, a conferma di questo assunto,
è prospettata l’ipotesi della richiesta, da parte del donatario, dell’adempimento, allorché quest’ultimo sia stato inesatto, ad esempio perché il bene donato presenta
vizi; richiesta che è giudicata possibile, sebbene non manchino argomenti che depongono in senso contrario.
L’attenuazione della responsabilità stabilita dall’art. 789 c.c. suscita nell’interprete il dubbio se incomba al donatario l’onere di provare che l’inadempimento
scaturisce da dolo o colpa grave del donante o se debba essere considerata presunta la colpa grave di quest’ultimo, che potrebbe però essere esonerato da responsabilità dimostrando di essersi comportato con la minima diligenza dovuta.
In proposito A.A. Carrabba sottolinea l’iniquità dei risultati ai quali giunge la
dottrina prevalente, che giudica irresponsabile il donante inadempiente, salvo che
ne sia provato il dolo o la colpa grave, e invece responsabile il donatario, sul
quale gravi una prestazione modale, per il solo fatto dell’inadempimento, se non
riesce a dimostrare che la causa dell’inadempimento non è a sé imputabile.
Il Nostro reputa, in sintonia con i lavori preparatori, che alla base dell’art. 437
c.c. vi sia la volontà del legislatore di impedire che il donatario continui a beneficiare degli effetti della donazione, pur potendo aiutare il disponente che versi in
stato di bisogno. L’obbligo alimentare del donatario eviterebbe alla famiglia del
donante di addizionare alla perdita subita in conseguenza della donazione il peso
del mantenimento del donante. Tale giustificazione risulterebbe coerente con la
limitazione contemplata dall’art. 438, comma 3, c.c., e anche con l’esclusione dall’anzidetto obbligo previsto per i beneficiari di donazioni obnuziali, in quanto
queste ultime vengono effettuate per agevolare la costituzione di nuove famiglie,
e di quelle remuneratorie, alla luce del profilo di doverosità o del «fondamento
etico» (p. 665) che le connota.
7. All’inizio del capitolo settimo spicca quello che potrebbe essere definito
come un «corollario» della concezione dell’A. circa gli elementi giudicati quasi
sempre dalla dottrina come imprescindibili per la configurabilità di una donazione. La dimostrazione dell’inidoneità della tecnica della sussunzione ad indivi-
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duare le regole applicabili alle specifiche fattispecie di volta in volta vagliate dall’interprete agevola il Nostro nella confutazione di concezioni tanto radicate nella
letteratura giuridica da essere qualificate «dogmi». Non sorprende, quindi, che
l’A. non escluda affatto che in un contratto di donazione possa essere previsto
un patto di recesso, la cui eventuale invalidità dovrebbe essere rilevata in concreto. La presenza di un patto siffatto non urterebbe sia con i «discussi elementi»
(p. 676) dell’animus donandi e dell’arricchimento, sia con l’irrevocabilità, ossia con
quelle caratteristiche che buona parte degli studiosi considera esclusive del contratto di cui all’art. 769 c.c.
Delle norme concernenti l’invalidità delle donazioni viene segnalata la somiglianza con quelle che regolano nullità e annullabilità del testamento. A.A. Carrabba considera l’art. 1419, comma 1, c.c., applicabile ad una serie di fattispecie
colpite dalla sanzione della nullità, ad esempio alla donazione di beni futuri ex
art. 771 c.c. e alla sostituzione eccedente i limiti previsti dall’art. 795 c.c. Tra le
norme riguardanti l’annullabilità del contratto di donazione ampio spazio viene
riservato all’errore sul motivo.
Quanto alla ratio sottostante l’istituto contemplato dall’art. 799 c.c., l’osservazione secondo la quale il donante tramite testamento «può disporre in favore del
beneficiario direttamente, senza rimettere la decisione a terzi» (p. 697), sembra
bastevole a confermare «la funzione e la rilevanza successorie della donazione»
(ibidem) e l’influenza che queste ultime hanno esercitato sul legislatore ai fini dell’introduzione della regola de qua: l’articolo in questione è teso al rispetto della
volontà del donante, ma contestualmente permette ai suoi eredi e aventi causa di
decidere se fare valere la nullità, prevenendo cosí eventuali liti, dopo la morte del
medesimo.
La conferma viene ricostruita come «atto negoziale autonomo supportato da
interessi patrimoniali o anche non patrimoniali del soggetto autore del negozio
stesso» (p. 700). La considerazione della conferma negli accennati termini favorisce la risposta affermativa al quesito avente ad oggetto la possibilità, in caso di
pluralità di legittimati alla conferma stessa, di un recupero della donazione da
parte soltanto di alcuni di essi.
L’art. 799 c.c. non opera distinzioni relativamente alle cause di nullità. A.A.
Carrabba rileva puntualmente l’assenza di criteri in astratto idonei a stabilire
quando la donazione nulla sarebbe suscettibile di conferma, lasciando intendere
di condividere l’orientamento secondo il quale essa non sarebbe possibile quando
l’illiceità è stabilita a tutela di interessi non privati, ma «superiori» (p. 704).
In armonia con l’innanzi ricordata ricostruzione della natura della conferma
in chiave di negozio autonomo appare la conclusione raggiunta dall’A. in merito
all’assoggettabilità a trascrizione dell’atto di conferma ai sensi dell’art. 2645 c.c.
Dopo avere sostenuto l’applicabilità dell’istituto della conversione alla donazione nulla e della convalida nell’ipotesi di contratto annullabile, il Nostro riserva
ampio spazio all’analisi delle previsioni normative che stabiliscono la disciplina
della revocazione delle liberalità. Di quest’ultima coglie puntualmente somiglianze
e diversità rispetto alla risoluzione del contratto, alla revocatoria ex art. 2901 c.c.
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e alla revoca. Accosta alla revocazione il recesso, considerato idoneo ad «assorbire, date le sue caratteristiche e la sua capacità polifunzionale, le vicende di cui
all’art. 800 c.c. e di spiegare l’incidenza di queste sul “rapporto” liberale» (p. 720).
Pur avendo ricompreso «in linea di principio» (ibidem) nell’area di operatività della revocazione tutte le donazioni, ad eccezione di quelle elencate nell’art.
805 c.c., precisa che la revocabilità delle donazioni modali deve costituire «oggetto di riflessione quando il modus assume in concreto un valore essenziale nella
negoziazione ed introduce elementi non solo di onerosità ma anche di corrispettività» (p. 722).
A proposito dei rimedi a disposizione dell’avente causa dal donatario per fare
salvo il suo acquisto rispetto all’eventuale esercizio vittorioso dell’azione di riduzione ad opera dei legittimari, viene osservato che di alcune delle risposte fornite
dagli interpreti sull’anzidetto argomento è stato rilevato l’obiettivo di raggirare
norme inderogabili. A.A. Carrabba sottolinea, quindi, la convenienza di «procedere, quando possibile, allo scioglimento del contratto di donazione attraverso il
c.d. mutuo dissenso, e alla successiva alienazione da parte del donante al terzo»
(p. 760), sempre che si consideri il mutuo dissenso non «come un negozio uguale
e contrario sul piano effettuale a quello già posto in essere ma come una vicenda
vólta a ripristinare lo status quo ante» (ibidem).
8. Nell’ottavo e ultimo capitolo il Nostro reputa preferibile evitare di inquadrare unitariamente le liberalità di cui all’art. 809 c.c., né ritiene necessario, per
determinarne il corretto inquadramento sistematico, il ricorso alla categoria del
negozio indiretto, la cui configurabilità peraltro – come è noto – è criticata da
una parte della letteratura giuridica. La confutazione dell’identificazione nel negozio tra causa e tipo e l’adesione alla concezione secondo la quale la causa è la
funzione economico-individuale del contratto, o la sintesi degli effetti giuridici essenziali di quest’ultimo alla luce degli interessi concreti che le parti intendono
soddisfare, consentono all’A. di giudicare del tutto “normale” l’utilizzazione ai
fini di liberalità di uno degli innumerevoli atti annoverati dalla dottrina fra le c.dd.
«donazioni indirette»: «lo scopo delle parti informa la funzione del contratto, non
vi è spazio per una finalità indiretta» (p. 776). Il Nostro conclude al riguardo sottolineando che è opportuna una valutazione della specifica vicenda di volta in
volta presa in esame, «per verificare le particolarità che possono esprimere le fattispecie non donative se utilizzate per scopi liberali» (p. 777); una valutazione che
tenga conto comunque della «tendenziale» (ibidem) applicabilità delle norme in
materia di donazioni agli atti di liberalità ex art. 809 c.c. e del ruolo di quest’ultimo «quale indice di una regolamentazione […] che trova spazio in ogni caso,
anche in situazioni con profili normativi conflittuali» (ibidem), per verificare se
la stessa disciplina «proprio perché di applicazione necessaria […] richieda […]
degli adattamenti» (ibidem).
L’A. prende poi in considerazione le differenti donazioni indirette e i quesiti
che suscita all’interprete ciascuna di esse. Interessante in particolare è la risposta,
condivisa dalla Corte di Cassazione nel 2010, data al problema relativo alla pos-
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sibilità per il legittimario leso di chiedere la restituzione del bene all’avente causa
dal donatario. Con riferimento all’ipotesi di intestazione di un bene a nome altrui, A.A. Carrabba ritiene inapplicabile l’art. 563 c.c. ed esclude parimenti l’operatività dell’art. 561 c.c. Ad uguali conclusioni perviene con riguardo ai casi di
contratto a favore di terzi e di liberalità realizzata attraverso un onere, opinando
che l’esperimento vittorioso dell’azione di riduzione produca una mera retrocessione del bene al legittimario leso, il quale non potrebbe agire in restituzione ex
art. 563 c.c., né potrebbe invocare l’applicazione dell’art. 561 c.c., in mancanza di
una caducazione del titolo di acquisto del beneficiario.
Infine, in sede di esame delle varie figure (patrimoni separati, rinunzie, atti
non negoziali ecc.) che permettono al privato di conseguire risultati identici a
quelli raggiungibili con il contratto di donazione, l’A. ancóra una volta riesce a
centrare i punti che lo interessano in un numero contenuto di pagine, limitandosi a richiamare i soli studi reputati essenziali e senza cadere nella tentazione di
arricchire di citazioni “dotte” l’esposizione delle risposte fornite dalla letteratura
giuridica ai quesiti interpretativi suscitati da ciascuna delle anzidette figure.
La verità è che soltanto negli anni a venire si potrà verificare la misura delle
adesioni che gli orientamenti del Nostro avranno raccolto dalla giurisprudenza.
Per ora le prime pronunzie dei giudici in materia di liberalità, tra le quali quella
poc’anzi segnalata relativa all’impossibilità, per il legittimario leso, di esperire l’azione di restituzione nelle donazioni indirette, lasciano presagire che tutt’altro che
trascurabile risulterà il grado di incidenza delle novità delle soluzioni indicate dall’A. sulle applicazioni giurisprudenziali. [Francesco Rossi]