Chiesa cremonese in campo contro la povertà sanitaria,Mons. Perego

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Chiesa cremonese in campo contro la povertà sanitaria,Mons. Perego
Al via il pellegrinaggio
diocesano in Terra Santa
Oltre 220 cremonesi guidati dal vescovo Napolioni sono partiti
all’alba di lunedì 6 marzo per la Terra Santa: una parte
dall’aeroporto di Malpensa, un’altra da quello di Linate.
Diverse le rotte aeree ma unica la meta: lo scalo di Tel Aviv,
principale centro economico dello stato di Israele. La
numerosa comitiva, divisa in cinque sottogruppi, giungerà in
serata a Nazareth dove sarà accolta nel Rimonim Hamaayan
Hotel, non lontano dalla Basilica dell’Annunciazione. Don
Roberto Rota, incaricato dell’ufficio di pastorale del turismo
e del tempo libero, coadiuvato da Gianluigi Gremizzi,
direttore dell’agenzia viaggi diocesana Profilotours, si
occuperà di tutti gli aspetti organizzativi. Mons. Alberto
Franzini, don Luigi Mantia, don Marco D’Agostino, don Paolo
Carraro e lo stesso don Rota saranno le guide bibliche dei
cinque gruppi che si riuniranno in occasione delle
celebrazioni liturgiche presiedute dal vescovo Antonio e per
gli altri momenti comuni previsti, come l’incontro con
l’amministratore apostolico di Gerusalemme, mons. Pizzaballa.
Nella foto uno scorcio di Nazareth, prima tappa del
pellegrinaggio
Tante le tappe significative di questo ritorno alle origini:
«Innanzitutto – spiega don Rota – Nazaret, dove, nella
basilica dell’Annunciazione, celebreremo la Messa di apertura
del pellegrinaggio, poi il Tabor, luogo della trasfigurazione,
Cana di Galilea, il lago di Genezaret con Cafarnao, le
Beatitudini e la località di Tabga, luoghi di tanti ricordi
evangelici; dalla Galilea, lungo la valle del Giordano, ci si
sposterà a Gerico, a Betlemme per raggiungere infine
Gerusalemme, dove rimarremo alcuni giorni per le celebrazioni
e le visite ai tanti luoghi santi. Non mancherà una visita
anche allo Yad Vashem, il museo dell’olocausto del popolo
ebraico».
Tra gli appuntamenti più attesi anche l’incontro con la locale
comunità cristiana che sempre di più si sta assottigliando: «I
numeri alti di questo pellegrinaggio – precisa don Rota – non
permettono un rapporto “feriale” con qualche comunità
parrocchiale, come è avvenuto in passato, in qualche
occasione. Tuttavia abbiamo voluto un incontro con
l’Amministratore apostolico di Gerusalemme che è mons.
Pierbattista Pizzaballa, bergamasco, ex custode di Terra
Santa, legato alla nostra diocesi a motivo dei genitori,
originari di Brignano. Sarà l’occasione per capire un po’ più
a fondo, dalla sua esperienza pluriennale, le caratteristiche
e le problematicità di questa terra ed esprimere la nostra
vicinanza e solidarietà».
Su eventuali rischi per i pellegrini don Rota è molto
tranquillo: «Il percorso ufficiale del pellegrinaggio non
tocca “zone calde” per cui escludo che ci possano essere
problemi di sicurezza. I controlli in Israele sono, da sempre,
molto approfonditi, sia negli aeroporti, sia nei luoghi di
massima affluenza. L’invito che mi sento di fare è quello di
attenersi scrupolosamente alle indicazioni che di volta in
volta verranno date, al fine di evitare inconvenienti. Ma sono
certo che, come sempre, tutto andrà per il meglio».
Su questo primo grande pellegrinaggio diocesano guidato dal
vescovo Antonio don Rota si aspetta molto: «Andare alla
sorgente, là dove tutto è iniziato, ha valore se c’è un
ritorno nella vita cristiana ordinaria, ritornando ad
ascoltare con assiduità la Parola di Dio, a meditarla e a
celebrarla nella liturgia. Mi aspetto che lo stile di
fraternità tra Vescovo, sacerdoti e fedeli possa continuare
anche una volta ritornati a casa, soprattutto là dove le
comunità sembrano vivere la rigidità formale dei rapporti. E
non nascondo nemmeno la speranza che questo pellegrinaggio
possa far assaporare a sacerdoti e fedeli la bellezza e
l’importanza di questo strumento ordinario di pastorale».
Il pellegrinaggio potrà essere seguito passo dopo passo sul
nostro portale: ogni giorno saranno pubblicati articoli di
cronaca, ampie photogallery, audio degli interventi del
Vescovo e alcuni video.
Costanti aggiornamenti anche sulla pagina facebook di Diocesi
di Cremona.
PROGRAMMA COMPLETO
Lunedì 6 marzo:
ITALIA/TEL AVIV/NAZARETH
Al mattino partenza dall’Italia con voli di linea e arrivo a
Tel Aviv nel pomeriggio. Proseguimento in pullman GT riservato
per Nazareth; all’arrivo sistemazione in albergo: cena e
pernottamento.
Martedì 7 marzo:
NAZARETH/Escursione Monte Tabor
Trattamento di pensione completa in hotel. Al mattino alle ore
9 celebrazione della S. Messa di inizio pellegrinaggio nella
Basilica dell’Annunciazione; a seguire visita della Basilica,
della Chiesa di S. Giuseppe, del museo francescano, della
Sinagoga e della Chiesa di S. Gabriele. Nel pomeriggio salita
in taxi al Monte
Trasfigurazione.
Tabor
e
visita
del
Santuario
della
Mercoledì 8 marzo:
NAZARETH/Escursione Monte delle
Beatitudini – Lago di Tiberiade
Mezza pensione in hotel. Al mattino partenza per il Lago di
Tiberiade. Sosta al Monte delle Beatitudini
per la
celebrazione della S. Messa alle ore 9. Al termine
proseguimento per Cafarnao ricordata come la città di Gesù e
visita degli scavi dell’antica città con la Sinagoga e la Casa
di Pietro. Proseguimento con la visita ai santuari che
ricordano il Primato di Pietro e la Moltiplicazione dei pani e
dei pesci. Attraversata del Lago in battello e pranzo nel
Kibbutz di En Gev. Nel pomeriggio sosta a Cana di Galilea per
la visita alla chiesa del Miracolo.
Giovedì 9 marzo:
NAZARETH/GERICO/BETLEMME
Dopo la prima colazione partenza per la Valle del Giordano e
sosta a Qasr el Yahud, memoriale del Battesimo di Gesù. Arrivo
a Gerico, visita e pranzo. Continuazione per Betlemme e visita
alla Basilica della Natività e al Campo dei pastori.
Celebrazione della S. Messa alle ore 16 nella Basilica di
Santa Caterina. In serata trasferimento in hotel per la cena
ed il pernottamento.
Venerdì 10 marzo:
BETLEMME/Escursione a Gerusalemme
Mezza pensione in hotel. Partenza per Gerusalemme. Alle ore 9
celebrazione della S. Messa nella Basilica dell’Agonia; a
seguire salita al Monte degli Ulivi e visita dell’edicola
dell’Ascensione, della Chiesa del Pater Noster, della Chiesa
del Dominus Flevit, terminando con la Tomba delle Vergine.
Pranzo in ristorante. Nel pomeriggio alle ore 15 incontro con
Mons. Pizzaballa;
a seguire
percorso della Via Dolorosa
nella città vecchia partendo dal Convento della Flagellazione
ed arrivando alla Basilica del Santo Sepolcro. Visita e tempo
a disposizione.
Sabato 11 marzo:
BETLEMME/Escursione nel Deserto di Giuda
e a Gerusalemme
Mezza pensione in hotel. In mattinata escursione nel Deserto
di Giuda: visita di Qumran, dove in alcune grotte vennero
rinvenuti i più antichi manoscritti della Bibbia. Rientrando a
Gerusalemme sosta al Wadi Qelt. Pranzo in ristorante. Nel
pomeriggio celebrazione della Santa Messa alle ore 15 nella
Chiesa di San Pietro in Gallicantu; a seguire visita del Sion
Cristiano con il Cenacolo, la Chiesa della Dormitio Mariae e
la Valle del Cedron.
Domenica 12 marzo:
BETLEMME/Escursione a Gerusalemme
Mezza pensione in hotel. Partenza per Gerusalemme e visita
della Spianata del Tempio e al Muro occidentale della
preghiera. Visita del nuovo museo francescano e della chiesa
di S. Anna dove alle ore 12 sarà celebrata la S. Messa. Nel
pomeriggio visita dello Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto e
continuazione per Ein Karem con la visita ai santuari che
ricordano la Nascita di S. Giovanni e la Visitazione di Maria
ad Elisabetta.
Lunedì 13 marzo:
BETLEMME/GERUSALEMME/TEL AVIV/ITALIA
Dopo la prima colazione eventuale tempo a disposizione sino
al trasferimento in aeroporto a Tel Aviv per il rientro in
Italia.
Il Vescovo ad Arzago: «Fede
non muro, ma ponte»
Mattinata arzaghese quella di domenica 5 marzo per il vescovo
Antonio che alle 10.30, nella chiesa parrocchiale di San
Lorenzo Martire, ha celebrato la Messa nella prima domenica di
Quaresima. Prima dell’Eucaristia però mons. Napolioni,
raccogliendo l’invito del parroco don Enrico Strinasacchi, ha
incontrato gli operatori pastorali. Nel salone “San Lorenzo”
del complesso oratoriale Don Bosco c’erano, fra gli altri,
catechisti, baristi, gruppo Caritas, gruppo missionario,
consorelle, animatori e ministranti: tutto quanto, insomma, è
espressione della vita di questa parrocchia della Bassa
Bergamasca.
Con i volontari il Vescovo ha toccato diverse tematiche, a
cominciare dalla sua introduzione sul senso dell’essere
operatore pastorale oggi, per proseguire con le domande
rivoltegli dai presenti che hanno offerto lo spunto per
diverse riflessioni, prima fra tutte quella sulla chiamata
alla vita cristiana. Per mons. Napolioni “Non sono i numeri
che contano. Conta l’entusiasmo della fede, il medesimo che io
– citando se stesso – ho trovato all’età di 18-19 anni negli
occhi di alcuni laici e che mi hanno fatto riscoprire Gesù
come amico e capire, qualche anno dopo, che lo avrei servito
come sacerdote”.
Cambiano i tempi, cambia anche la Chiess: un’operatrice
presente fra il pubblico è intervenuta per ringraziare “Vostra
Eccellenza” di questa sua presenza ad Arzago. “Le forme della
vita cristiana – ha detto il vescovo collegandosi a quel
Vostra Eccellenza pronunciato qualche secondo prima – cambiano
nel tempo e non tutto quello che viene dal passato va
assolutamente conservato. Alcune cose però sono intoccabili,
come il Vangelo vissuto, la testimonianza, il mistero
pasquale, il culto e l’eucaristia”.
Non poteva mancare una domanda sul fenomeno-immigrazione ed il
possibile pericolo da esso derivante di una rinuncia forzata
alla nostra fede e alle nostre tradizioni. Il Vescovo ha dato
una risposta articolata, premettendo che nessuno nega
l’importanza della problematica-migranti in un mondo che sta
osservando cambiamenti epocali. «Non dobbiamo – ha spiegato –
vivere la fede come un muro, ma come un ponte. Certo, guai a
chi mi tocca il crocifisso, ma non ho paura e non dobbiamo
averla. Al tempo stesso, non dobbiamo dividerci ma unirci,
annunciando, testimoniando e dialogando. Il cristiano deve
essere capace di testimoniare e di dialogare. Il problema è
che a volte è un po’ fiacco, paralizzato dalla paura”.
Infine, si è parlato dei terremotati del Centro Italia. Il
sisma ha colpito duramente anche Camerino, la città di cui è
originario mons. Napolioni che ha voluto dare un ultimo
messaggio di speranza. «Il terremoto – ha affermato – è un
fenomeno che tocca la nostra fede e la nostra vita in un modo
così repentino. È una di quelle esperienze che danno una botta
in negativo oppure in positivo ma quando c’è il miracolo dello
scambio reciproco, allora anche da lì possiamo vedere delle
piccole resurrezioni, così come piccole resurrezioni avvengono
nella vita di tutti i giorni”.
f.c.
cof
Il
nuovo
libro
di
don
Bignami:«Un'arca
società liquida»
per
la
In una società liquida che sembra rinunciare ai tradizionali
punti di riferimento l’etica può essere considerata un’arca di
Noè costruita attorno alla fraternità, al bene comune e alla
cura. La bussola per la navigazione è offerta da papa
Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, dove
si ricorda che l’unità «prevale sul conflitto», che il tutto
«è superiore alla parte», che «il tempo è superiore allo
spazio» e che la realtà «è più importante dell’idea». È questa
la strada che don Bruno Bignami, sacerdote cremonese, teologo
morale e presidente della Fondazione Mazzolari, percorre nel
suo ultimo libro «Un’arca per la società liquida» edito dai
Dehoniani. Bignami offre due piste di riflessione: una fa
riferimento ai fondamenti etici della vita sociale e l’altra
analizza alcuni temi su cui si misura il cambiamento d’epoca
in atto. La convivenza, sostiene l’autore, va rifondata a
partire da alcuni snodi concreti: un nuovo rapporto tra la
coscienza morale e le leggi, una fraternità vissuta a partire
dai beni comuni e dalla condivisione, una pace «giusta» e, da
ultimo, stili di vita capaci di incarnarsi concretamente nella
realtà.
Il volume sarà presentato a Cremona venerdì 21 aprile, alle
ore 18, presso la sala della Consulta del Comune di Cremona.
Tra gli ospiti il sindaco Galimberti, l’onorevole Enrico
Letta, decano della Scuola di Affari internazionali presso
Science Po Paris e Franco Vaccari presidente di Rondine
Cittadella della Pace (AR). Moderatore sarà Michele Bellini
studente di Affari internazionali presso Science Po Paris.
Di «Un’arca per la società liquida» proponiamo la recensione
di Stefano Zamboni apparsa sul sito www.settimananews.it.
Fin nel titolo e nel sottotitolo del nuovo testo di Bruno
Bignami, sacerdote della diocesi di Cremona e docente di
teologia morale, già autore di pregevoli testi su don
Mazzolari e sull’etica ecologica, troviamo le tre coordinate
fondamentali entro cui si snoda questa sua riflessione
teologica.
La prima, e la più nota, è la metafora della società liquida
introdotta da Zygmunt Bauman. Con essa ci si intende riferire
all’estenuazione dei legami sociali, al venir meno delle
tradizionali sorgenti di valori, alla privatizzazione delle
scelte etiche… Ma proprio un tale contesto richiede un’ottica
interpretativa adeguata: ecco allora la seconda coordinata, il
cambiamento di epoca. Come ha affermato papa Francesco nel
discorso in occasione del convegno ecclesiale di Firenze del
2015, oggi non viviamo un’epoca di cambiamento, ma un
cambiamento d’epoca. Il tempo attuale è affascinante come ogni
cambiamento d’epoca, perché in esso si aprono possibilità
inesplorate: così è stato, per esempio, dopo la caduta
dell’impero romano o dopo la scoperta del continente
americano. La teologia morale, in particolare, ha da essere
attenta ai segni dei tempi, per scrutare quanto lo Spirito di
Dio chiede all’oggi ecclesiale e civile. La terza immagine è
quella dell’«arca»: come l’arca di Noè è stata data per la
salvezza nel mezzo del diluvio, così oggi ci è chiesto di
costruire una nuova arca che possa permettere una navigazione
sicura in mezzo alla liquidità dell’epoca presente.
Bignami offre con questo testo un contributo in ordine alla
costruzione di quest’arca e lo fa rileggendo in modo
intelligente alcuni capitoli dell’etica sociale: dalla
fraternità al bene comune, dall’etica della cura al giudizio
sulle leggi civili, dalla pace allo scandalo della fame e alla
cultura della sobrietà. Il tutto avendo come fonte ispirativa
l’Evangelii gaudium, in modo particolare i celebri quattro
principi che si trovano in essa: l’unità prevale sul
conflitto, il tutto è superiore alla parte, il tempo è
superiore allo spazio, la realtà è più importante dell’idea.
Il diluvio etico non è la parola definitiva, l’ottimismo deve
pur sempre prevalere: «l’etica è la bussola, capace di
prendere per mano e accompagnare gli uomini di buona volontà
al servizio della casa comune. Siamo capaci di bene, di
rialzarci: la corruzione, la violenza e la morte non sono
l’ultima parola sulla storia» (p. 184).
Successo
a
Bozzolo
«Nostro Fratello Giuda»
per
Chiesa arcipretale di San Pietro a Bozzolo gremita nella
serata di venerdì 3 marzo con la presentazione di don Gianni
Macalli dell’applaudita anteprima della nuova produzione
teatrale del maestro Giuseppe Pasotti. L’uomo di teatro di
Concesio, il centro bresciano che ha dato i natali a Paolo VI,
accompagnato dall’interprete Maddalena Ettori e da Morris e il
suo corpo di ballo con scenografie e audio di Mario Bresciana,
ha messo in scena “Nostro fratello Giuda”. Opera tratta
dall’omelia di don Primo Mazzolari del Giovedì Santo, 3 aprile
1958, registrata personalmente dal segretario della Fondazione
Mazzolari Giancarlo Ghidorsi, allora quindicenne, su
magnetofono Geloso.
«I quattro ballerini vestiti di nero rappresentano i guerrieri
plagiati da Satana che vagano nel buio alla ricerca della luce
di Cristo – ha spiegato Pasotti -. Poi c’è una lunga fune
distesa per terra che funge sia da rete sia da cappio, alla
quale sono legati dodici chiodi che rappresentano gli apostoli
traditori del Cristo. Il chiodo più grosso è Giuda,
impossessato da Satana».
«Voi vedrete che ci sono due patiboli, c’è la croce di Cristo;
c’è un albero, dove il traditore si è impiccato – ha
drammatizzato Pasotti -. Povero Giuda. Povero fratello nostro.
Il più grande dei peccati, non è quello di vendere il Cristo;
è quello di disperare».
Il lavoro segue l’opera prima “Confiteor”, tratta dal libro di
don Mazzolari “La più bella avventura” (1934) riferita alla
parabola del “Figliol Prodigo” in scena alla Cattedrale di
Cremona nella serata di sabato 1 aprile, e segna un itinerario
di maturazione artistica del gruppo bresciano che porterà
l’opera in tutta Italia.
L’accoglienza
del
numeroso
pubblico
bozzolese,
che
ha
assistito all’evento in luogo della consueta Via Crucis del
venerdì, é stata molto calorosa. Tra i circa 200 presenti
molto interessati alla suggestiva estrapolazione tanto da
chiedere un bis dell’ultima coreografia, le suore di Maria
Bambina, il sindaco facente funzioni Cinzia Nolli e l’on.
Giuseppe Torchio.
Giulia Orlandi
Eutanasia e vero senso del
vivere e del morire
In queste ore mentre riprende il dibattito sulla legge circa
le Dichiarazioni anticipate sul fine vita si riaccende anche
la richiesta pressante di una legge sull’eutanasia. La morte
in Svizzera di Dj Fabo ha rimesso in moto la polemica
politica. Ma su questo terreno non vorrei addentrarmi. Vorrei
che si parlasse con rispetto di Fabiano (preferisco il suo
vero nome, non quello d’arte). Lui era pieno di sogni, di
successi, di affetti. Un tragico incidente lo fa piombare
nell’oscurità, fisica e spirituale: “La mia vita non ha più
senso”.
Il rispetto si fa preghiera per il mistero della vita e della
morte. Per tutti coloro che si trovano nella periferia
esistenziale del non-senso. Ma si fa anche sollecitudine a
trovare nuove strade di prossimità per condividere quei
brandelli di senso che abbiamo intravisto e che vanno
umilmente condivisi.
Non parlo di Fabiano (che non ho conosciuto personalmente), ma
di Franco che pochi minuti fa è spirato all’hospice circondato
dalla sua famiglia: stavamo dicendo un’Ave Maria mentre ha
riaperto gli occhi e ha varcato la soglia verso quella meta
per la quale solo balbettiamo nella fede.
Anche se anziano e malato la sua vita era ancora piena di
senso, lo è stata fino all’ultimo. La sua fede semplice e
retta, coltivata fin da quando era bambino, mi aveva
rassicurato in questi mesi in cui ci siamo frequentati e nei
quali mi ha narrato la sua storia: come operaio in una
vetreria, e poi studente privatista, fino a diventare maestro…
e poi marito, padre, nonno. Nella gratuità di quei racconti ho
colto la percezione del senso della vita che trabocca anche
quando l’efficienza e la produttività si sono spente.
Ho colto questo: la capacità di vivere le varie stagioni,
modulando la ricerca di senso.
Io mi domando se sarò capace, quando arriverà il mio turno di
inefficienza, di disabilità… e resto pensieroso. Anch’io
rischio di ammalarmi di affanni che mi portano ad identificare
il senso di me con i miei successi, le mie prestazioni, le
gratificazioni che vengono dal lavoro, dagli affetti,
dall’esperienza che porta a godere della musica e dell’arte,
della compagnia e della propria libertà.
In Fabiano mi vedo nella mia incapacità di cogliere la mia
identità che va oltre le prestazioni e le attività (pur così
importanti per ciascuno di noi). In Franco mi rivedo capace di
risignificare gli incontri, i giorni, le novità inaspettate,
sia quelle che allietano come quelle che poco alla volta
portano alla morte. Colgo un’eccedenza di senso del vivere e
del morire che non si restringe alla logica dei consumi, del
piacere, delle pur nobili attività.
Sono pensieri che mi spingono a restare umile. A non voler
impormi con la forza, ma che inducono tutti ad abbassare i
toni, a stringerci e ad osare anche discorsi seri sul
significato del vivere, dell’amare, della vita e della morte.
E di ciò che c’è oltre la morte.
Nessuno di noi sa come si ritroverà nel momento del fare i
conti con lo scadere dei suoi giorni, con la malattia che
infierisce, con la tragedia della disabilità che blocca ciò
che ha colorato i propri sogni. Penso che dobbiamo guardarci
(per riprendere un’immagine di papa Francesco usata per altri
ambiti) da una fredda morale da scrivania che regola senza
accompagnare, che giudica senza amare, che prescrive senza
portare i pesi. Ma penso anche che dobbiamo vigilare sulle
scorciatoie che portano ad abbandonare chi fatica a trovare
senso ai suoi giorni di dolore. Quanto è rischioso pretendere
di regolamentare l’accesso alla morte: quante persone
vulnerabili – e potremmo essere anche noi – si troverebbero
esposte, in qualche momento triste di solitudine, ad esigere
in un’illusione di libertà di volere la propria morte. Di
anticipare la propria morte.
La pretesa di fare dei medici dei semplici esecutori di
volontà (del paziente, dei parenti, dei giudici…?) a cui
devono adeguarsi, spegnendo la loro scienza e coscienza, mi
indispone: si rischia di trattarli come fossero dei meccanici
che ricevono ordini senza cogliere la specificità che vede in
essi persone che si dedicano a curare persone, in una
relazione che non può scadere nel solo dare fredde
prestazioni.
Più che di una legge sull’eutanasia abbiamo bisogno di
riabilitare percorsi che ci aiutano a confrontarci sul senso
della vita. Ci sono discorsi importanti che non si fanno più
ai figli; ci sono domande di senso che le si vuole restringere
al privato e dunque alla solitudine. Come se la questione
della gioia vera e del senso della vita anche dentro la realtà
della vecchiaia (o della disabilità o della malattia) non
fossero possibilità per tutti di cogliere cosa conta davvero
anche nella propria vita. Non rinchiudiamoci in un mondo di
illusioni e di apparenze. La questione vera è quella del
Paradiso.
La vecchiaia, la disabilità, la malattia non sono solo materie
per i medici. Le aspettative che oggi la scienza pone non
dilatano solo nuove speranze di guarigione ma anche processi
difficili una volta impensabili, come gli stati vegetativi
persistenti o gravissime disabilità. Rimane la questione
dell’accettare la morte che viene, dell’evitare accanimenti
terapeutici, delle terapie contro il dolore… Ma tutto questo
non si risolve soltanto con nuove leggi e nuove normative:
abbiamo estremo bisogno di autentiche relazioni personali in
cui inventare nuove forme di prossimità, in cui ci facciamo
carico gli uni degli altri. Comprese le rabbie. Le paure. Con
rispetto. Con la compassione che intravvediamo nel Samaritano.
Don Enrico Trevisi
Chiesa cremonese in campo
contro la povertà sanitaria
La crisi economica continua a mordere in maniera così
impietosa che aumentano le persone che non solo non sono più
in grado di pagare affitti e bollette, ma neanche le spese
sanitarie. I dati sono allarmanti, per certi versi
incredibili: nel 2016 gli italiani che hanno dovuto limitare
le cure o gli esami per ragioni di tipo economico sono stati
12 milioni.
Che quella sanitaria sia diventata una vera e propria
emergenza lo si intuisce dai dati del Banco Farmaceutico – la
fondazione che si occupa di reperire i medicinali da aziende o
tramite raccolte pubbliche e li dona a 1.600 enti
convenzionati tra i quali la Caritas diocesana –: sempre
l’anno scorso gli indigenti assistiti da questa realtà ben
presente anche sul territorio cremonese sono schizzati su del
37,4%.
Tra le zone d’Italia più colpite da questa emergenza c’è il
Nord Ovest dove l’aumento dei poveri sanitari ha segnato uno
sconfortante +90%. Un dato che non riguarda solo gli stranieri
(+46,7%), ma anche le persone sopra i 65 anni di età (+43,6%).
A Cremona la situazione non è certo migliore, lo dicono anche
i dati degli ambulatori «solidali» sempre in prima linea nel
servizio a chi è indigente: quello della Caritas di via
Stenico e quello del gruppo «Articolo 32» che si trova nella
palazzina della solidarietà nel parco del Vecchio Passeggio.
Di fronte a questa situazione la Caritas ha deciso di
devolvere quanto parrocchie, ordini religiosi, associazione e
movimenti raccoglieranno nella tradizionale iniziativa della
Quaresima di Carità proprio a favore dell’emergenza sanitaria.
Si potrà esprimere la propria solidarietà direttamente nella
propria parrocchia o presso la sede della Caritas in via
Stenico.
L’ultima settimana di Quaresima sarà proposto un gesto
comunitario: una raccolta di medicine da banco in ogni
comunità parrocchiale. A tal proposito la Caritas invita alla
solidarietà e all’impegno concreto i gruppi dell’iniziazione
cristiana, ma anche quelli oratoriani di adolescenti e
giovani. Quanto raccolto potrà essere distribuite già in
parrocchia alle persone con problemi economici o consegnato
alla Caritas.
Il frutto della generosità dei cremonesi servirà dunque a
sostenere quanti si occupano di fornire un’assistenza
sanitaria di base gratuita a chi non ha diritto all’iscrizione
al Servizio Sanitario Nazionale, a persone senza fissa dimora,
a chi è completamente privo di reddito e fatica ad accedere ad
alcuni servizi (una situazione ricorrente è quella derivante
dal bisogno di cure odontoiatriche), a famiglie in cui sono
presenti persone con gravi problemi di salute che richiedono
costosissime cure.
Tra le realtà che si impegnano a contrastare l’emergenza
sanitaria, come già accennato, c’è l’ambulatorio
infermieristico della Caritas – con una decina di volontari e
1500 visite all’anno – e quello del gruppo «Articolo 32».
Questa associazione è nata nel febbraio 2010 e coinvolge tra
medici, paramedici e volontari una ventina di persone. Si
occupa principalmente di persone che non godono del servizio
sanitario, principalmente migranti. L’ambulatorio è aperto due
volte la settimana e fino al 31 dicembre 2016 ha erogato 2283
visite a 853 pazienti.
Una convenzione con il Comune e l’Azienda ospedaliera consente
ai medici dell’associazione di rilasciare il cosiddetto «STP»
un documento che permette a chi è privo di permesso di
soggiorno di godere dei servizi della sanità pubblica, ma
anche di fare ricette al pari di un medico di base. «Articolo
32» ha messo in campo anche un altro importante sportello il
servizio psicologico con operatori professionali volontari.
All’ambulatorio Caritas di via Stenico – aperto il lunedì,
mercoledì e venerdi mattina – non ci sono solo i migranti
ospiti della vicina Casa dell’Accoglienza, ma anche tanti
italiani che non possono far fronte a certe spese, soprattutto
anziani pensionati, e che grazie ai medici volontari possono
avere un consulto o una dritta per poter risolvere al meglio i
propri problemi di salute.
Con i soldi raccolti durante la Quaresima si potranno anche
aiutare quelle persone bisognose di visite o cure
specialistiche particolarmente onerose.
Mons. Perego: «Il mio motto
episcopale?
"Gaudium
et
spes"»
A pochi giorni dall’annuncio della nomina di mons. Gian Carlo
Perego ad arcivescovo di Ferrara-Comacchio e abate di Pomposa,
il settimanale diocesano “La Vita Cattolica” ha raggiunto il
sacerdote di origine cremonese, per ora ancora direttore
generale della Fondazione Migrantes, per alcune domande. Il
novello presule ha rivelato il suo motto da vescovo: «Gaudium
et spes», titolo della costituzione del Concilio Vaticano II
dedicata alla Chiesa nel mondo contemporaneo.
Don Gian Carlo la Chiesa le sta affidando un nuovo servizio
pastorale: come sta vivendo questo passaggio della sua
esistenza?
«Sono diversi i sentimenti che affollano il mio cuore e i
pensieri che si intrecciano nella mia mente in questo momento
di “grazia”, di amore di Dio e della Chiesa per me. C’è il
ringraziamento al Santo Padre per questo gesto di fiducia e di
stima nei miei confronti, per la scelta di volermi affidare la
cura di una porzione della Chiesa una, santa, cattolica e
apostolica; c’è il ringraziamento alla mia Chiesa di Cremona,
che mi ha generato alla fede, accompagnato al presbiterato e
ora all’episcopato; c’è il pensiero ai poveri, ai migranti e –
al tempo stesso – alla solidarietà che nei miei incontri in
giro per Italia, in questi 15 anni in Caritas Italiana e alla
Migrantes, ho imparato a conoscere e ad amare con
un’ammirazione crescente; c’è la preoccupazione di essere “il
pastore di tutti”, in cui tutti possano riconoscere una guida
per crescere nella fede, nella speranza e nella carità, tra le
contraddizioni e le speranze di oggi».
Come immagina il suo futuro ministero episcopale? Di “quale”
Vescovo pensa abbia bisogno la Chiesa del nostro tempo?
«Il Concilio Vaticano II ci ha regalato, nel decreto Christus
Dominus il profilo del Vescovo oggi. A cinquant’anni da quel
profilo uscito nell’assise conciliare, con il voto favorevole
di oltre 2000 vescovi di tutto il mondo, credo che oggi un
Vescovo debba sentirsi membro del collegio episcopale e unito
al successore di Pietro e con loro custode di una Parola e di
una Tradizione che, oggi come ieri e sempre, possono
accompagnare la vita degli uomini e trasformarla. Questa
custodia il Vescovo la esercita in diocesi dentro un cammino
liturgico, catechistico e di carità insieme con i presbiteri,
i diaconi, i consacrati, i fedeli laici, valorizzando gli
organismi di partecipazione. In questo cammino il Vescovo non
può che dare priorità all’ascolto, alle relazioni, ai luoghi.
E con la sua Chiesa il Vescovo entra in città, vive in città,
dialoga con la città e con persone, realtà nuove, esperienze
religiose diverse, anche con persone lontane da un’esperienza
di fede. In questo incontro le gioie e le speranze, le
tristezze e le angosce dell’uomo di oggi, soprattutto dei più
poveri diventano le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce della Chiesa di oggi, come ci ha insegnato il Concilio
Vaticano II, nel meraviglioso documento sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo. Ed è per questo che in questi giorni ho
maturato l’idea che il mio motto episcopale sarà “Gaudium et
spes”».
Papa Francesco sta disegnando nuovi connotati alla Chiesa e ai
suoi Pastori, per certi versi con inedito coraggio. Che ne
pensa?
«Papa Francesco oggi invita la Chiesa e, in essa, i suoi
Pastori a ritornare ad essere “dentro” la città, a non
ritirarsi sopra il monte per una rinnovata e gioiosa
testimonianza di fede. Una “Chiesa estroversa”, non nel senso
di una nuova originalità, ma di una nuova fedeltà ad essere
“sacramento”, segno concreto della Grazia. Questo chiede ad
ogni presbitero e Vescovo l’amore alla terra dove si vive,
l’impegno – già chiaro al Concilio di Trento con i cardinali
santi Bellarmino e Borromeo – alla “residenza”, che non
contraddice l’andare evangelico, continuamente ripetuto da
papa Francesco, ma lo interpreta in maniera nuova: dentro una
Chiesa per camminare insieme. Questa passione per la Chiesa
che ti è affidata, continuamente affermata da papa Francesco,
è la premessa indispensabile per una riforma della Chiesa».
Cosa è cambiato in lei in questi anni di lavoro a contatto con
la realtà dei migranti, dei rifugiati, dei profughi?
«Gli ultimi 20 anni del mio ministero presbiterale sono stati
dedicati particolarmente a due organismi ecclesiali: Caritas e
Migrantes. Le storie, i disagi, i conflitti, i muri dentro e
fuori che queste relazioni con i poveri e i migranti, i
rifugiati e i rom e sinti, gli artisti di strada e la gente
dello spettacolo viaggiante mi hanno fatto incontrare, mi
hanno indicato in maniera chiara come la strada della
fraternità sia l’esperienza più realistica che possiamo
costruire nella Chiesa e nella città. Questo chiede di
ridisegnare le nostre strutture, i percorsi di formazione
cristiana, l’impegno sociale e politico, la storia familiare
ed educativa. Non è facile questa strada della fraternità, ma
è l’unica che può dare speranza e futuro».
Il giorno della nomina ufficiale ha comunicato di voler essere
ordinato Vescovo a Cremona. Perché?
«Un Vescovo è il frutto di una Chiesa Madre che lo ha generato
e accompagnato, della fraternità di un presbiterio. Come prete
diocesano Cremona è la mia Chiesa Madre: alla mia famiglia,
alla mia parrocchia di Agnadello, al Santuario di Caravaggio,
al seminario, con gli educatori, professori, alla cara
parrocchia del Cambonino, ai giovani della FUCI e ai membri
del MEIC, ai poveri che ho incontrato in questa città di
Cremona, con la sua storia, arte e cultura, impegno sociale
che ho studiato e amato, debbo il mio episcopato. Come ho
detto il giorno dell’annuncio, non potevo partire da questa
Chiesa e da questa città senza prima dargli un bacio
riconoscente: l’ordinazione a Cremona, presieduta dal Vescovo
Antonio, sarà questo bacio, arricchito dalla grazia
dell’episcopato».
Ferrara e Comacchio: da conoscere, da servire e da guidare. Da
Cremona e dagli anni di lavoro alla CEI cosa portare “in
valigia” per il nuovo viaggio che inizia?
«Ricordi, affetti, testimonianze di
fede,
sofferenze
condivise, tanti incontri e un desiderio: la semplicità».
Speciale nomina di mons. Perego ad arcivescovo di FerraraComacchio
Oltre 8000 oratori in Italia
svolgono
una
funzione
educativa
Gioco libero, sport, grest, gite e doposcuola: sono queste le
attività principali che vengono svolte negli oltre 8000
oratori italiani, sparsi da Nord a Sud. Lo rivela la ricerca
Ipsos sugli oratori italiani presentata al convegno nazionale
di Pastorale giovanile che si è concluso il 23 febbraio a
Bologna, L‘indagine, che mette insieme le risposte di 110
diocesi (sulle 221 interpellate), mostra che le attività più
presenti negli oratori sono il gioco libero (100% degli
intervistati), l’animazione di gruppo (100%) e l’oratorio
estivo/Grest (93%).
Tengono le attività espressive, pellegrinaggi, feste speciali,
campi scuola (tutti con 88%), le pratiche sportive si
attestano all’83%, insieme al doposcuola. Le attività
caritative e volontariato sono presenti nel 66% delle diocesi
intervistate, mentre racimolano un 33% le attività missionarie
e le settimane di vita comunitaria. Chiudono le attività
ecologiche e ambientali praticate solo nel 25% delle diocesi.
Il numero medio di attività svolte in ciascuna diocesi è di
13, con punte di 14 al Nord (17 nelle diocesi lombarde).
Dai dati raccolti si evidenzia poi che il 96,7% degli oratori
del Nord sono legati alle parrocchie, la percentuale cala al
91% al Centro e all’87% al Sud. Al Centro e al Sud sono
presenti anche realtà come i Salesiani di don Bosco e le
Figlie di Maria Ausiliatrice, i Giuseppini del Murialdo e
altri organismi. Quasi la metà delle diocesi intervistate –
52% – ha un coordinamento diocesano per gli oratori e dove
quest’ultimo non è presente la maggior parte ritiene molto
utile averlo (74%). Circa le proposte di formazione
indirizzate agli oratori queste sono presenti nel 73% delle
diocesi. Il 49% di queste organizzano incontri con i
responsabili “più volte l’anno”, il 24% “una volta l’anno” e
il 27% “mai”.
Le figure professionali sono ancora poco radicate all’interno
degli oratori delle diocesi intervistate. Il 63% ha
dichiarato, infatti, di non averne. Del 37% restante il Nord
con il 66% doppia il Centro (31%). Il Sud indietro con il 3%
di diocesi che hanno nei propri oratori figure di educatori
retribuite. La ricerca, infine, offre anche una stima del
numero degli oratori presenti in Italia, 8245 a fronte di 5637
dichiarati.
“L’oratorio non è un lusso, non è uno svago ma un luogo
specifico dell’educazione della Chiesa nel tempo contemporaneo
e uno strumento pastorale strategico per preadolescenti e
adolescenti che vivono la fase più delicata come recenti
episodi di cronaca ci hanno dimostrato”. Lo afferma Marco
Moschini, direttore del corso di perfezionamento,
progettazione, gestione e coordinamento dell’Oratorio attivo,
dal 2011, presso l’Università di Perugia, commentando la
ricerca Ipsos. In questa indagine, sottolinea il docente,
“l’oratorio viene percepito così come pensato dalla Chiesa,
con una certa profezia, anche alla luce della Nota pastorale
(2013) sul valore e la missione degli oratori, intitolata ‘Il
laboratorio dei talenti’. L’oratorio è uno strumento pastorale
strategico poiché consente alla Chiesa di svolgere la sua
vocazione educativa”. Uno degli aspetti che emerge dalla
ricerca è quello della “territorialità: gli oratori – rimarca
Moschini – sono legati alle parrocchie e presenti soprattutto
al Centro-Nord. Non esiste un modello unico di oratorio, ma
questo si configura alle necessità del territorio, si adegua
con originalità a tutti i luoghi. Abbiamo oratori di strada e
quelli molto più strutturati. Tutti esprimono la
vocazione educativa nella prossimità come esorta
loro
Papa
Francesco”.
Lutero,
l'uomo
rivoluzione
della
Si terrà sabato 25 febbraio, alle ore 16, presso il Centro
pastorale diocesano di Cremona la presentazione del libro di
Mario Dal Bello dal titolo: «Lutero. Uomo della rivoluzione»
edito da Città Nuova per la collana Misteri Svelati.
All’incontro, promosso dall’ufficio di pastorale ecumenica e
dialogo interreligioso e dal Movimento dei Focolari,
parteciperà l’autore che sarà introdotto dal prof. Mario
Gnocchi, presidente del Segretariato Attività Ecumeniche di
Cremona. Un evento che idealmente chiude le celebrazioni
ecumeniche che hanno avuto il loro momento centrale nella
veglia di preghiera interconfessionale nella chiesa di S.
Ilario a Cremona del 24 gennaio scorso.
Locandina
IL LIBRO
A 500 anni dall’inizio della Riforma che prende le mosse da
Martin Lutero (1517), il testo racconta, con taglio narrativo
ma documentato, le varie fasi degli anni fecondi di questa
autentica rivoluzione che ha cambiato il volto dell’Europa.
Dall’esperienza in convento, ai dibattiti sulle indulgenze,
dallo scontro con Roma e l’Impero sino alla scomunica e poi al
matrimonio, fra traumi sociali e politici, si dipana
l’avventura umana e spirituale del Riformatore con eventi
sovente drammatici. Il testo chiude con l’ammissione da parte
di papa Adriano VI delle “colpe” della Chiesa romana e con il
matrimonio di Lutero che lo porta alla stabilità di pastore a
Wittemberg e di padre del protestantesimo, intorno al 1524.
L’AUTORE
Mario Dal Bello, docente di letteratura italiana e storia, è
giornalista, critico d’arte, di cinema e di musica. Collabora
con diverse riviste culturali. Membro della Commissione
Nazionale Valutazione Film della CEI dal 1997, partecipa alla
commissione del David di Donatello ed è autore di numerose
pubblicazioni di arte e di cinema. Autore di quattro libri
della stessa collana: I Borgia (2012); Gli ultimi giorni dei
Templari (2013); La congiura di Hitler (2014); Anna Bolena e
il suo re (2015).
LA COLLANA
Misteri svelati propone una serie di saggi storici di taglio
divulgativo su eventi e personaggi del passato facendo luce
sulla verità dei fatti, scritti con uno stile narrativo vivace
ed avvincente.
Migranti, don Pezzetti: «E se
non ci fosse la Chiesa?»
L’arresto di un migrante accusato di spacciare hashish, in
un’atmosfera carica di tensione come quella di questi anni, è
la scintilla “migliore” per accendere gli animi. Reazioni «di
pancia» si moltiplicano, e spesso le risposte a domande –
anche in parte legittime – spariscono nel vociare che tutto
semplifica e confonde. A don Antonio Pezzetti, responsabile
della Caritas diocesana e della Casa dell’Accoglienza, abbiamo
rivolto alcune delle domande che i cittadini si fanno
quotidianamente, cercando di evitare ipocrisie e ambiguità.
Predicare l’accoglienza va bene, ma la consapevolezza che il
flusso migratorio continuerà senza alcun impegno alla
redistribuzione dei nuovi arrivati può alimentare panico in
tanti cittadini. È una paura immotivata?
«Una premessa: avrei voluto che facesse notizia il fatto che
due ragazzi (uno del Gambia e uno del Mali) che, dopo aver
preso il permesso di soggiorno, stanno facendo l’Anno di
volontariato sociale in Caritas. Oppure quella dei ragazzi del
Gambia che stanno facendo i volontari da diversi mesi con
l’Associazione “Ccsvi nella sm”; o del ragazzo senegalese che
ha trovato e portato alla Casa dell’accoglienza un portafoglio
con 350 euro dentro e consegnato alla legittima proprietaria,
o i due giovani che hanno aiutato una signora (che ci ha
scritto una lettera per ringraziare) che stava per essere
derubata vicino al centro.. e potrei continuare con numeri
certamente più grandi rispetto a quelli che vedono alcuni di
questi ragazzi protagonisti invece in negativo, come è stato
per il gambiano arrestato mentre “vendeva” uno spinello a un
giovane maggiorenne qui vicino. Comunque sia, a fronte di
milioni di siriani ammassati nei paesi confinanti a causa
della guerra, non è stato possibile programmare in Europa il
reinsediamento di qualche migliaio di persone… Di questo
stiamo parlando. “Invasione”? Molti arrivano, ma molti se ne
vanno anche, tanto più che negli ultimi anni la la loro
presenza è sempre stata attorno ai 180mila accolti. Certo, la
crisi c’è, e la gente è spaventata anche dalle notizie che
arrivano dai media e dagli interventi di chi, in politica,
soffia sulla paura. Non possiamo accoglierli tutti? Sono
d’accordo, ma se riuscissimo a realizzare un programma di
distribuzione migliore molti problemi, molte incomprensioni,
svanirebbero. Se solo si riuscisse a far passare in Italia una
normativa, promossa dalla Caritas e fatta propria dalla Cei,
che garantisse a tutti i migranti un permesso umanitario per
sei mesi, molti nodi si scioglierebbero. Purtroppo però la
politica ha paura di provvedimenti come questi che qualcuno
interpreterebbe subito come una “regolarizzazione di massa”.
Non sarebbe così, ma molti stranieri potrebbero tornare
protagonisti della propria vita e decidere dove trasferirsi,
dove lavorare ed, eventualmente, ricongiungersi con i loro
cari già presenti nell’Ue».
Per voi che vi occupate di accoglienza, ogni migrante è un
business, oppure no? È possibile sapere quanto guadagnate per
ogni persona accolta? Visto da fuori, inevitabilmente ciò crea
diffidenza nei vostri confronti… Possiamo fare chiarezza?
«Oggi abbiamo in totale 350 ospiti accolti in dieci strutture:
per 250 di loro riceviamo 35 euro al giorno. Gli altri sono
invece a nostro totale carico. Prima erano 370 quelli inseriti
nel Piano della Prefettura e, se il motivo della nostra azione
fosse il guadagno, avremmo continuato a mantenere quei numeri.
Nessuna realtà legata al mondo ecclesiale si arricchisce.
Abbiamo assunto nuove figure professionali per gestire i
servizi, questo sì. Inoltre spendiamo più di mille euro al
mese per acquistare biciclette usate (non rubate…), per
rifornirci di pezzi di ricambio che alcuni dei nostri ragazzi
hanno imparato ad aggiustare e rimontare; 1500 euro se ne
vanno ogni mese solo di farmacia. Poi servono vestiti, scarpe,
biancheria, pasti, igiene personale, scuola e biglietti per il
treno… Tenete conto che noi fungiamo da “casa-madre” per altre
realtà che si occupano di accoglienza che, spesso, possono
avere bisogno di aiuto. Non lavoriamo in perdita, ma le
risorse economiche servono anche a far funzionare i servizi e
ad istituire, per esempio, “borse lavoro” in grado di
sostenere i ragazzi che decidono di lasciare Cremona. Inoltre,
a fine percorso, diamo 250 euro, per non lasciarli partire
completamente sguarniti. Ogni settimana ogni immigrato riceve
20 € per le spese minute personali. Chi vuole inviare denaro
alla famiglia o acquistare un cellulare lo può fare: facciamo
un prestito di 100 euro che poi vengono scalati per dieci
settimane dal contributo diretto a loro».
Il sospetto, alimentato da certi partiti, è che per voi e per
le cooperative coinvolte nell’accoglienza, sia più lucroso
accogliere i migranti piuttosto che assistere i nostri
connazionali che non se la passano benissimo… È solo
malignità?
«Che senso ha un ragionamento come questo? La Casa
dell’Accoglienza è nata nel 1988 e si è sempre occupata di
tutti. Ci sono diverse fragilità e ci sono diversi percorsi
per il loro sostegno: le situazioni di disagio dei residenti
coinvolgono come primo approccio i servizi sociali dei Comuni.
Con loro abbiamo sempre collaborato per intervenire aiutando,
accompagnando, sostenendo. Per legge; da sempre, e ancora
oggi, ospitiamo gratuitamente coloro che non hanno un posto
dove andare a dormire la notte, d’inverno. Da noi, anche gli
italiani possono sempre trovare (e lo trovano) il sostegno di
cui hanno bisogno: la nostra regola è semplice e dice che
dobbiamo aiutare chiunque senza chiederci chi egli sia».
C’è chi giudica il lavoro della Caritas come un’opera di
ingenuo buonismo. È così? E come la mettiamo col rispetto
della legalità?
«Chi è contrario alla presenza dei migranti qui da noi deve
chiedersi cosa succederebbe se noi non ci fossimo. Gli
stranieri sarebbero per le strade, ma le faccio un esempio: da
noi c’è un ragazzo del Gambia. Ha ottenuto il “sì” dalla
Commissione di Brescia per motivi umanitari ed è seriamenta
ammalato. È stato ricoverato nel reparto Infettivi
dell’Ospedale di Cremona. Da lì, però, prima o poi questo
ragazzo dovrà uscire e i dottori ci hanno chiesto
esplicitamente di accoglierlo affinchè possa continuare ad
essere seguito dal punto di vista sanitario. Se non lo
accogliamo noi, nessuno se ne farebbe carico in quanto è
ritenuto, per legge, ormai autonomo. La Chiesa, ricordiamolo,
ha voluto la Caritas proprio affinchè qui si vivesse la carità
partendo dai più poveri, dagli ultimi».
L’integrazione è la via maestra per l’accoglienza, ma quando i
numeri diventano troppo elevati, tutto sembra diventare
impossibile…
«Se vogliamo superare l’emergenza dovremmo ampliare il
Progetto Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e
Rifugiati): quello, prima di tutto, rimborsa a chi gestisce i
migranti solamente ciò che viene ufficialmente rendicontato e
speso (non un fisso di 35 euro come avviene per i centri di
accoglienza straordinaria); in più, consente di accogliere
queste persone in piccoli nuclei da distribuire sul territorio
affinchè l’integrazione vera e propria possa iniziare. In
provincia, solamente 80 ragazzi sono nel progetto nazionale
Sprar. Pochi? Sì, perchè molti sindaci, per paura delle
proteste, evitano di segnalare spazi disponibili nel loro
territorio, sebbene tutti i servizi forniti a queste persone
(spesso offerti da grandi cooperative nazionali) sono pagati
dallo Stato e, quindi, a costo zero per la comunità che
accoglie. Inoltre conoscere direttamente i nuovi arrivati
spesso aiuta a cambiare radicalmente idea su di loro. Inserito
così in un progetto nazionale serio qual è quello Sprar, lo
stesso migrante avrà di fronte a sè una prospettiva in grado
di rendere meno appetibile l’eventuale proposta della malavita
di “integrare” la paga mensile con attività illecite. Il
ragazzo arrestato da noi? Mi dispiace moltissimo, ma come
spesso accade, in qualsiasi comunità c’è sempre un anello più
debole degli altri. Ben vengano, in
interventi delle forze dell’ordine».
questo
caso,
gli
I migranti vengono descritti come in fuga da terre martoriate
da guerre, perseguitati, ma non pare siano tutti in queste
condizioni. Si vedono girare in città giovani in piena forma….
«Vorrei che i cittadini sentissero le storie che alcuni di
loro ci raccontano (e che cerchiamo di far conoscere facendoli
andare nelle scuole o nelle parrocchie) affinchè ci si renda
conto da che cosa scappano. Non vengono qui con… l’Erasmus.
Sono fisicamente in forma? Solo quelli in perfetta salute sono
in grado di reggere un viaggio che dura mesi e che comporta
abusi e privazioni inenarrabili. E poi non si creda che
arrivino qui in piena forma… Quante volte dobbiamo sottoporli
a cure o flebo per reidratarli o per supplire a carenze
alimentari prolungate… Da cosa scappano? Da realtà dinanzi
alle quali la nostra quotidianità, sebbene segnata dalla
crisi, rappresenta per loro quasi un miraggio…».
Cosa rispondete a chi, come cristiano, non si sente di
appoggiare la vostra opera?
«Le mamme sono… mamme, qui da noi come in Africa. Magari là
hanno sei o sette figli, qua al massimo un paio. Ma la
preoccupazione per ognuno di loro è esattamente la stessa.
Immedesimarsi in che cosa può provare una donna sapendo che il
proprio figlio è in giro per il mondo senza alcuna rete di
supporto, potrebbe essere un bel passo avanti per capire. Se
non creiamo sviluppo nelle terre d’origine (diffondendo la
pace) sarà difficile invertire la marcia. È chiaro che la
situazione non è facile, ma ci sono valori universali in
ballo. Mi dà fastidio sentire tanti, anche nelle nostre
comunità, lamentare il fatto che con l’arrivo dei migranti la
qualità della vita è peggiorata. Le statistiche fornite dalle
Forze dell’ordine, ogni anno, dicono che i reati sono in calo
e, salvo rarissimi casi, non si può dire che la presenza di
stranieri abbia inciso in modo significativo. Nemmeno sul
fenomeno della diffusione della droga, credo, si possa dire
che l’incidenza sia mutata negli ultimi anni. La nostra Chiesa
con la proposta dell’accoglienza diffusa ha cercato di
coinvolgere più comunità e più persone perchè il problema non
rimanga confinato fra gli addetti a lavori. Vorremmo che le
relazioni e le opportunità che l’incontro favorisce
diventassero un supporto in più alla soluzione dei problemi
legati all’accoglienza»».