il labirinto: metafora dell`uomo alla ricerca di se stesso

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il labirinto: metafora dell`uomo alla ricerca di se stesso
IL LABIRINTO: METAFORA DELL’UOMO ALLA RICERCA DI SE
STESSO
Nel labirinto non ci si perde
Nel labirinto ci si trova
Nel labirinto non si incontra il Minotauro
Nel labirinto si incontra se stessi
H. Kern
Ciascuno di noi costruisce il proprio labirinto. Incontrando numerosi ostacoli nel corso della vita e
tentando di superarli, non facciamo altro che iniziare un percorso di crescita entrando e uscendo di
continuo da labirinti quotidiani. Il messaggio iniziatico del labirinto è presente in ogni istante del
nostro vivere: l’iniziazione con il suo carico simbolico è la chiave per comprendere questo tema, e
vuol dire rinascere una volta raggiunta l’uscita, dopo aver superato una sorta di simbolica morte
temporanea. Ma, tra i molti interrogativi che possiamo porci, uno merita particolare attenzione:
qual è l’uscita del labirinto?
Il labirinto
Il labyrinthos era una costruzione con corridoi e stanze così intricati da non potersi trovare la via
d’uscita. Famosi erano il labirinto egiziano costruito da Amenemhet III a est del lago di Meride: era
un dedalo inestricabile di stretti passaggi sotterranei e all’aperto che collegavano tremila stanze
quadrate; il labirinto cretese, costruito secondo il mito da Dedalo a Cnosso, che fu dimora del
Minotauro; il labirinto di Samo; il labirinto italico, ossia il monumento sepolcrale di Porsenna, re
etrusco di Chiusi. A Creta fu Minosse a far costruire il palazzo-labirinto. Arianna, sua figlia, perché
Teseo, di cui si era innamorata, potesse sfuggire a sicura morte nel Labirinto, gli diede un filo per
mezzo del quale egli poté orientarsi e arrivare a uccidere il Minotauro.
La Torre di Babele
A parte l’esegesi ufficiale della chiesa cattolica, l’interpretazione storico-antropologica che oggi
solitamente diamo del passo veterotestamentario è quella del tentativo della civiltà umana di
omologare ognuno secondo un unico modello, per il quale tutti sono insidiati dal rischio dell’
alienazione e della perdita della propria identità. Dio ostacola questo progetto confondendo le
lingue di ogni etnia, sicché non c’è possibilità di comunicare e capire. La nostra società è ancor più
esposta a questo pericolo, che va scongiurato nel futuro, per evitare che l’umanità sia massificata,
ognuno disperda la sua peculiarità umana e vanamente la cerchi sempre. Ecco il brano:
1 Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. 2 Emigrando dall'oriente gli uomini
capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. 3 Si dissero l'un l'altro: «Venite,
facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento.
4 Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un
nome, per non disperderci su tutta la terra». 5 Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli
uomini stavano costruendo. 6 Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una
lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro
impossibile. 7 Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno
la lingua dell'altro». 8 Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la
città. 9 Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là
il Signore li disperse su tutta la terra. (Genesi 11,1-9)
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Ariosto
Nel canto XII il poeta ritorna al Castello di Atlante. Qui come in tre ottave del canto successivo ci
accorgiamo che la favola del castello assume, senza derivarne alcuna pesantezza, il valore di
un’allegoria totale, in cui tutti inseguono vanamente se stessi e i loro beni, ma ogni volta, come in
un labirinto appunto, vengono dirottati altrove. E’ un gioco abilissimo quello costruito dall’Ariosto,
anche perché i soggetti, uomini e cose, sono immagini ingannevoli e vane. E oggi quanto è attuale
tale allegoria del mondo?
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Di vari marmi con suttil lavoro
edificato era il palazzo altiero.
Corse dentro alla porta messa d'oro
con la donzella in braccio il cavalliero.
Dopo non molto giunse Brigliadoro,
che porta Orlando disdegnoso e fiero.
Orlando, come è dentro, gli occhi gira;
né più il guerrier, né la donzella mira.
9
Subito smonta, e fulminando passa
dove più dentro il bel tetto s'alloggia:
corre di qua, corre di là, né lassa
che non vegga ogni camera, ogni loggia.
Poi che i segreti d'ogni stanza bassa
ha cerco invan, su per le scale poggia;
e non men perde anco a cercar di sopra,
che perdessi di sotto, il tempo e l'opra.
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D'oro e di seta i letti ornati vede:
nulla de muri appar né de pareti;
che quelle, e il suolo ove si mette il piede,
son da cortine ascose e da tapeti.
Di su di giù va il conte Orlando e riede;
né per questo può far gli occhi mai lieti
che riveggiano Angelica, o quel ladro
che n'ha portato il bel viso leggiadro.
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E mentre or quinci or quindi invano il passo
movea, pien di travaglio e di pensieri,
Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso,
re Sacripante ed altri cavallieri
vi ritrovò, ch'andavano alto e basso,
né men facean di lui vani sentieri;
e si ramaricavan del malvagio
invisibil signor di quel palagio.
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Tutti cercando il van, tutti gli dànno
2
colpa di furto alcun che lor fatt'abbia:
del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno;
ch'abbia perduta altri la donna, arrabbia;
altri d'altro l'accusa: e così stanno,
che non si san partir di quella gabbia;
e vi son molti, a questo inganno presi,
stati le settimane intiere e i mesi.
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Orlando, poi che quattro volte e sei
tutto cercato ebbe il palazzo strano,
disse fra sé: - Qui dimorar potrei,
gittare il tempo e la fatica invano:
e potria il ladro aver tratta costei
da un'altra uscita, e molto esser lontano. Con tal pensiero uscì nel verde prato,
dal qual tutto il palazzo era aggirato.
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Mentre circonda la casa silvestra,
tenendo pur a terra il viso chino,
per veder s'orma appare, o da man destra
o da sinistra, di nuovo camino;
si sente richiamar da una finestra:
e leva gli occhi; e quel parlar divino
gli pare udire, e par che miri il viso,
che l'ha da quel che fu, tanto diviso.
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Pargli Angelica udir, che supplicando
e piangendo gli dica: - Aita, aita!
la mia virginità ti raccomando
più che l'anima mia, più che la vita.
Dunque in presenza del mio caro Orlando
da questo ladro mi sarà rapita?
più tosto di tua man dammi la morte,
che venir lasci a sì infelice sorte. 16
Queste parole una ed un'altra volta
fanno Orlando tornar per ogni stanza,
con passione e con fatica molta,
ma temperata pur d'alta speranza.
Talor si ferma, ed una voce ascolta,
che di quella d'Angelica ha sembianza
(e s'egli è da una parte, suona altronde),
che chieggia aiuto; e non sa trovar donde.
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Ma tornando a Ruggier, ch'io lasciai quando
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dissi che per sentiero ombroso e fosco
il gigante e la donna seguitando,
in un gran prato uscito era del bosco;
io dico ch'arrivò qui dove Orlando
dianzi arrivò, se 'l loco riconosco.
Dentro la porta il gran gigante passa:
Ruggier gli è appresso, e di seguir non lassa.
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Tosto che pon dentro alla soglia il piede,
per la gran corte e per le logge mira;
né più il gigante né la donna vede,
e gli occhi indarno or quinci or quindi aggira.
Di su di giù va molte volte e riede;
né gli succede mai quel che desira:
né si sa imaginar dove sì tosto
con la donna il fellon si sia nascosto.
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Poi che revisto ha quattro volte e cinque
di su di giù camere e logge e sale,
pur di nuovo ritorna, e non relinque
che non ne cerchi fin sotto le scale.
Con speme al fin che sian ne le propinque
selve, si parte: ma una voce, quale
richiamò Orlando, lui chiamò non manco;
e nel palazzo il fe' ritornar anco.
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Una voce medesma, una persona
che paruta era Angelica ad Orlando,
parve a Ruggier la donna di Dordona,
che lo tenea di sé medesmo in bando.
Se con Gradasso o con alcun ragiona
di quei ch'andavan nel palazzo errando,
a tutti par che quella cosa sia,
che più ciascun per sé brama e desia.
James Joyce
Vita. James Joyce nacque a Dublino nel 1882 e compì gli studi classici in una scuola di gesuiti
(esperienza biografica, questa, che verrà trascritta dall'autore nel Dedalus). Dopo la laurea
conseguita nel 1902, si recò a Parigi attratto dal prestigioso ruolo di guida culturale europea che
questa città assolveva già da parecchi decenni. Ritornato qualche anno dopo a Dublino ma in
conflitto sempre maggiore con l'angustia culturale (un estremo nazionalismo letterario e politico) di
questa città, nel 1904 la abbandonò definitivamente. Dal 1904 al 1915 visse a Trieste, facendo l'insegnante di inglese e venne in contatto con Italo Svevo. Si trasferì poi a Zurigo dove trascorse
qualche anno e poi, nel 1920, a Parigi. Morì a Zurigo nel 1941.
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La pubblicazione delle opere di Joyce fu piuttosto travagliata: i Dublinesi dovettero attendere
parecchi anni e poterono uscire nel 1914 dopo lunghi contrasti causati dalla suscettibilità dei concittadini di Joyce; l'Ulisse, uscito nell'originale inglese a Parigi nel 1922, solo nel 1933 poté essere
pubblicato nei paesi anglosassoni.
In bilico sulla tradizione. Le due prime opere narrative di Joyce — i Dublinesi (1914) e Dedalus
(1916) — si può dire che rientrino nei canoni tradizionali della narrativa. I quindici racconti dei
Dublinesi presentano un ampio affresco di quella città alla quale Joyce fu legato per tutta la vita da
un ambiguo legame di odio-amore: una galleria di tipi umani, di abitudini, di ambienti emerge da
queste pagine nelle quali i moduli di rappresentazione adottati dall'autore (che potremmo anche
chiamare realistici: la critica ha fatto riferimento tra l'altro a Maupassant) mirano a mettere in luce
caratteristiche e situazioni della gente di Dublino all'inizio del secolo nelle quali sia possibile
riscontrare esemplari e tratti generali della natura umana. Ma l'attenzione — ed è un elemento
fondamentale per capire la futura produzione — è soprattutto rivolta alla psicologia dei personaggi:
la realtà esterna è minutamente descritta, ma strumentalmente: solo in quanto fornisce agganci per
capire il meccanismo che scatta nell'animo del personaggio. Per fare un solo esempio: Joyce indugia
sull'atmosfera opprimente della vita d'ufficio, sulla giornata del misero impiegato (che passa da
un'umiliazione che gli infligge il suo capoufficio ad un bicchiere di birra in uno squallido pub) solo
per individuare le premesse che spieghino la rivalsa (e il titolo del racconto) che il protagonista
trova alle proprie frustrazioni nel picchiare a sangue, tornato a casa, il figlio bambino.
La vocazione all'indagine psicologica si accentua nel Dedalus: del quale la critica ha messo in luce
gli elementi realistici, ma le cui caratteristiche fondamentali che via via si affermano sono l'analisi
delle reazioni del protagonista di fronte all'opprimente conformismo del collegio gesuitico in cui
vive, il suo faticoso processo di liberazione che lo porta a rifiutare i valori borghesi vittoriani e a
prendere coscienza della sua mission d'artista. Questa crisi di un adolescente è narrata in una prosa
di impianto lirico, elaborata e musicale, fitta di rispondenze e di suggestioni ritmiche, mediante la
quale Joyce cerca di cogliere quello che di indefinibile ed oscuro c'è nella psicologia
dell'adolescente che tumultuosamente cerca la sua strada.
E, d'altra parte, nella descrizione di questo itinerario, Joyce trascriveva larga parte della propria
esperienza autobiografica e adottando nelle ultime pagine dell'opera la forma diaristica inclinava
manifestamente verso una interiorizzazione del rapporto col mondo esterno, si spostava verso quelle
soluzioni formali che avrebbero costituito la novità dell'Ulisse.
Ulisse. — L'azione del romanzo si svolge a Dublino nella giornata del 16 giugno 1904. Dei due protagonisti
l'uno, Leopold Bloom, è un ebreo irlandese, agente di pubblicità, uomo assolutamente qualunque, l'uomo
massa del mondo moderno, l’altro, Stephen Dedalus, è un giovane e inquieto intellettuale. Un ruolo non del
tutto secondario ha inoltre la moglie di Bloom, una mediocre cantante continuamente infedele al marito. «
Seguendo fedelmente la traccia dell'omerica Odissea, considerata un grande viaggio sperimentale nel mondo
antico, l'autore fa percorrere in lungo e in largo ai suoi due personaggi una grande città moderna, Dublino,
che può dare una sintesi materiale e spirituale del mondo di oggi. I due personaggi sono complementari e lo
riconoscono incontrandosi. Bloom, in cui tutto si riduce a emotività sensuale, a pratica esperienza e a frivola
curiosità, finisce col prendersi in casa Dedalus, l'inquieto intellettuale, cupido di tutte le astratte curiosità
della mente. L'uno cercava chi potesse sostituirgli un figliolo che gli è morto fanciullo; l'altro cercava un
padre in cui potessero equilibrarsi i suoi scompensi mentali.
Le avventure che conducono alla fusione di cotesti due uomini si svolgono nel giro di una giornata, dall’alba
alla notte: ogni ora ha il suo episodio e corrisponde ad un canto dell'Odissea: ogni episodio ha il suo centro
di sensazioni in una parte del corpo umano ed è anche contraddistinto da un simbolo...: in ciascuno di tali
momenti è considerata una singola attività dello spirito dei sensi con mutamenti di linguaggio e di stile
conformi all'argomento, ai personaggi introdotti e alla situazione » (S. Benco).
La novità dell'« Ulisse ». Joyce prosegue — nello stesso anno 1914 conclude il Dedalus e
comincia a lavorare all'Ulisse — quella strada già imboccata nel Dedalus e la porta alle ultime
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conseguenze. L'interesse per la vicenda interiore del personaggio, per la sua realtà psichica —
poliedro dalle innumerevoli facce che rifrange il reale accogliendone sollecitazioni che contamina e
complica con l'intersecarsi di presente, di passato e di futuro, di ricordi e di speranze — spinge
Joyce a superare le normali coordinate di tempo e di spazio entro le quali era stata fino ad allora
rappresentata l'esperienza psichica del personaggio. Lo porta cioè a tentare di descrivere il
cosìddetto flusso di coscienza, quella ininterrotta colata di sensazioni, sentimenti, ricordi che
costituisce la realtà interiore di ognuno di noi.
Rappresentare questa realtà con questo nuovo metodo comportava due conseguenze:
1. Bisognava superare le normali strutture sintattiche che finora avevano razionalisticamente
situato in una prospettiva e in una gerarchia quanto l'autore narrava. Ritenute insufficienti al suo
intento le suddette strutture, Joyce sperimenta il famoso monologo interiore cioè registra - con
una gamma di soluzioni abbastanza varie di cui le ultime pagine sono il caso estremo - l'alogico
fluire di richiami e di associazioni di idee, l'apparentemente gratuito intersecarsi di differenti
piani temporali. È appena il caso di ricordare che siamo sulla strada imboccata suppergiù negli
stessi anni da Proust, né si può trascurare la suggestione che gli studi di Freud già esercitavano.
2. Era necessario arrivare a toccare e a rappresentare il fondo oscuro e finora inconfessato
dell'animo umano, il groviglio degli istinti, delle tortuosità, il complesso mascherarsi dell'uomo
a se stesso. Joyce non arretra di fronte a questo impegno, ma ciò comportava nei riguardi delle
pudibonderie della mentalità vittoriana (ma non solo di quella...) un attacco ben più massiccio di
quello che aveva tentato Oscar Wilde. Si spiegano così le opposizioni iniziali di tanta critica
dovute non solo alle novità formali dell'opera.
La sperimentazione linguistica. Assieme al crollo delle strutture narrative tradizionali un altro
elemento fondamentale è lo sperimentalismo linguistico. Il quale però si configura in vari modi che
per esigenza di chiarezza potremmo così schematizzare:
1. Ogni personaggio, secondo la tecnica del monologo interiore, rifrange in un particolare modo
nella sua psiche il mondo esterno: il flusso di coscienza è un dato costituzionale di ognuno, ma
approda in ognuno ad esiti differenti in relazione alla sensibilità, alla cultura, al patrimonio
sentimentale. Come ha notato uno dei più autorevoli critici inglesi, E. Wilson, nel flusso di
coscienza di Stephen Dedalus c'e una complessa tessitura di immagini poetiche e di memoria di
cose lette che manca in quello di Bloom che è un uomo qualsiasi, incolore e prosaico. Di
conseguenza Joyce adotta un particolare registro linguistico a seconda del personaggio e « per
distinguere i pensieri di un certo dublinese da quelli di ogni altro » dispiega le sue straordinarie
capacità di mimesi linguistica. In questo caso la sperimentazione linguistica finisce col diventare
in certo qual modo uno strumento di rappresentazione naturalistica (volto cioè a dare credibilità,
verosimiglianza ai personaggi). La cosa a prima vista può sembrare paradossale ma non lo è poi
tanto se si pensa che le esigenze di realistica precisione furono assai sentite da Joyce che si
preoccupa di farci « sapere con esattezza quali abiti indossano i personaggi, quanto pagano le
cose che comprano, dove si trovano nei diversi momenti della giornata, quali canzoni popolari
cantano, di quali avvenimenti leggono il resoconto nei giornali del 16 giugno 1906 » (E.
Wilson).
2. Può capitare inoltre che nella descrizione, a seconda dell'argomento, della situazione, Joyce
adotti ora uno stile aulico che si rifà ai moduli dell'inglese medioevale, ora uno gergale, ora uno
da disquisizione accademica: l'episodio della biblioteca, ad esempio, e quello del bordello hanno
registri linguistici ben diversi.
3. Ma la sperimentazione linguistica assume in Joyce ancora un'altra e ben diversa funzione che,
tanto per intenderci, potremmo chiamare simbolista e consiste nello sfruttare la componente
fonica della parola, la sua dimensione allusiva, evocativa, nel creare un gioco di rapporti e
rispondenze con la fusione di parole note o di parole di lingue diverse, o con la creazione magari
di termini privi di valore semantico ma carichi di suggestione onomatopeica e fonica. È chiaro
che qui Joyce sviluppa fino al limite della estrema complicazione i canoni e le realizzazioni che
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abbiamo già visto in Rimbaud e Mallarmé e li utilizza per mettere in luce i meandri della
coscienza, le associazioni che il suono di una parola può evocare, insomma per dar voce
all'ineffabile, obiettivo anch'esso dei poeti francesi di fine Ottocento.
Negatività del quotidiano.
Due osservazioni come iniziale avvio alla intelligenza del romanzo:
1. L'importanza storica dell'Ulisse consiste anzitutto nel recupero del quotidiano che Joyce ha
compiuto, nell'avere accolto cioè ogni aspetto della vita quotidiana, qualsiasi funzione fisica,
qualsiasi pensiero dei protagonisti, al di là di qualsiasi remora moralistica o estetica. Per la
prima volta veramente, con l'Ulisse, la totalità del reale viene accolta nella letteratura.
2. Ma questa realtà è quanto mai desolante ed opaca, ed il bilancio che dalla minuta ricognizione
fattane dall'autore sembra legittimo dedurre è assolutamente fallimentare. « La giornata (descritta nell'Ulisse) è stata un fallimento per tutti dal principio alla fine... Tutti i rapporti umani
nel romanzo sono o superficiali o sfortunati. Noi viviamo in una società in cui la ripulsa è norma
e in cui gli uomini hanno smarrito la base fondamentale dell'amicizia... Nel mondo di Dublino
così com'è... l'amicizia è soltanto simulata e gli uomini deperiscono per la sua mancanza...
Soltanto nell'alcool o nelle fantasticherie (Mr. Bloom al bar) si può trovare l'illusione
dell'amicizia e l'ubriachezza generale non è soltanto colore locale, ma un patetico tentativo di
creare il colore di un ideale comune, capace di unire gli uomini e di soddisfare la loro profonda
esigenza di cameratismo che il mondo reale con il suo culto per la lotta e l'individualismo, ha da
tempo negato... Anche Molly Bloom, che sembrava così soddisfatta di sé, col suo ozio, la sua
musica e il suo amante segreto, si rivela non più felice degli altri, è intristita e irrequieta per
mancanza d'amore, che può trovare solo nell'irrealtà dell'illusione » (E. B. Burgum).
L'opera più complessa e « totale » della narrativa del Novecento è quindi una diagnosi inesorabile
della civiltà contemporanea.
Italo Calvino
Uno scrittore per il nuovo millennio
Un neoilluminista inquieto, un razionalista tenace e battagliero, scettico e ironico, un
narratore e un intellettuale ancorato ai valori di un moderno umanesimo laico e aperto come pochi
altri alle novità culturali del proprio tempo, per quarant’anni «una presenza indispensabile della
nostra cultura... un punto di riferimento sollecitante e rassicurante al tempo stesso» (Pampaloni).
Questo (ed altro) fu Italo Calvino. Di lui qui, in limine, importa soprattutto ricordare che, se maturò
progressivamente una profonda e disillusa consapevolezza di quanto di negativo, di "labirintico" c'è
nel mondo contemporaneo, si mantenne fedele a quella che egli stesso definì la «sfida al labirinto»,
cioè la ricerca di soluzioni razionali ai problemi dell'uomo o almeno di «un ordine mentale
abbastanza solido per contenere il disordine», nella speranza di «saper riconoscere chi e che cosa. in
mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio», come scrive nelle Città invisibili.
Quindi, secondo Calvino, il ruolo dell'intellettuale, nei limiti delle sue competenze e forze, è quello
- semplifichiamo - di individuare dei modelli teorici, etici e conoscitivi, con i quali sia possibile
fondare l'agire pratico o almeno comprendere la realtà nel suo disordine e quindi dare un senso
all’esistere.
Ma qual è il senso complessivo dell’avventura letteraria di questo grande scrittore secondo il
giudizio critico di un suo recente studioso (Giorgio Baroni)? Eccolo in sintesi: “Calvino ha
raggiunto libertà ed evocazioni, ordinariamente riservate alla poesia, rinunciando magari a
raccontare, nel senso tradizionale di riferire fatti, perché quelli presentati come tali sono irreali,
mere allegorie d’immagini pensate da menti che esistono solo per convenzione letteraria,
assomigliando quindi tutto a un ricamo elegante e allusivo, dalla polisemia esasperata, ovvero dal
senso evasivo. Si giunge così all’aspetto più arduo nell’interpretazione di Calvino: il rinvio
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all’infinito, nel tempo o nello spazio; nella metafora ripetuta, nella circolarità dei rimandi non
appare solamente uno schema espressivo, ma la scelta corrisponde ad una concezione esistenziale,
che parte dall’inafferrabilità del senso della vita, da cui deriva l’impossibilità di avere un sicuro
parametro per intervenire sull’esistenza; lo stesso agire appare a un certo punto svuotato d’ogni
prospettiva e l’architettura verbale, nei suoi suggestivi ma inconcludenti sillogismi, corrisponde
all’intenso vano vivere di oggi e, forse, al continuo divenire della natura. Il fascino della sua
eleganza, i labirinti attraverso cui Calvino accompagna la mente di chi accetta di seguirlo, l’arguzia
dei suoi ragionamenti pronunciati con ironico sorriso sono i segni d’un’evasività che ora cela e ora
svela la disperazione di chi in fondo a tutto il gioco riconosce una definitiva dissolvenza”
Marcovaldo
E’ un testo che ha avuto un'immensa fortuna perché racconta in modo semplice e piano, le
disavventure di un personaggio di animo semplice, padre di famiglia numerosa, che lavora come
uomo di fatica o manovale in una ditta. Una specie di ”ragionier Fantozzi” senza gli aspetti
grotteschi di quello, ma mentre il personaggio cinematografico si confronta con la vita aziendale e
i luoghi tipici della vita impiegatizia, Marcovaldo ha come luogo privilegiato della sua esperienza
il rapporto tra la città e la natura. Egli si ostina a cercare la natura in una grande città industriale:
è attento a ogni variazione atmosferica e coglie minimi segni di vita animale e vegetale, ma ogni
volta va incontro ad uno scacco, ad una delusione. La città stravolge la natura, la trasforma in
occasione di male per coloro che continuano a sognarla, come una possibile via di scampo alla
fatica del vivere.
Nello spazio di venti novelle, in cui il ciclo delle stagioni si ripete per cinque volte, in una città
industriale (Torino?), dove tutti sono impegnati a lavorare, guadagnare e spendere, Marcovaldo
sembra essere l’unico ad accorgersi della natura, quella vera. Cartelli, semafori, vetrine, insegne
luminose, manifesti, anche se studiati per cogliere l’attenzione, non riescono a colpire il suo
sguardo, però una foglia che ingiallisce su un ramo, una piuma che si impiglia ad una tegola non
gli sfuggono mai. Ma la natura, in città, sembra essere contraffatta, alterata, compromessa con la
vita artificiale, non è la natura che ha forse conosciuto da bambino e che vorrebbe far amare anche
ai suoi figli. In un ambiente a lui così ostile, mantiene una sua coerenza senza lasciarsi
corrompere. Marcovaldo è una creatura “spaesata”, che sembra provenire da un altro pianeta.
Attraverso le avventure di Marcovaldo, Calvino ci mostra, da un particolare punto di vista, l’Italia
del boom economico. Se contiene una critica alla ‘civiltà industriale’ è anche una critica all’idea di
un possibile ”ritorno all’indietro” nella storia, e rivela pur nella semplicità della struttura
narrativa, tutta la ricchezza del rapporto di Calvino con il mondo. Esemplare è il seguente
capitolo.
Marcovaldo al supermarket
Alle sei di sera la città cadeva in mano dei consumatori. Per tutta la giornata il gran daffare della
popolazione produttiva era il produrre: producevano beni di consumo. A una cert'ora, come per lo
scatto d'un interruttore, smettevano la produzione e via! Si buttavano tutti a consumare. Ogni
giorno una fioritura impetuosa faceva appena in tempo a sbocciare dietro le vetrine illuminate, i
rossi salami a penzolare, le torri di piatti di porcellana a innalzarsi fino al soffitto, i rotoli di
tessuto a dispiegare drappeggi come code di pavone, ed ecco già irrompeva la folla consumatrice
a smantellare a rodere a palpare a far man bassa. Una fila ininterrotta serpeggiava per tutti i
marciapiedi e i portici, s'allungava attraverso le porte a vetri nei magazzini intorno a tutti i banchi,
mossa dalle gomitate di ognuno nelle costole di ognuno come da continui colpi di stantuffo.
Consumate! e toccavano le merci e le rimettevano giù e le riprendevano e se le strappavano di
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mano; consumate e obbligavano le pallide commesse a sciorinare sul bancone biancheria e
biancheria; consumate! e i gomitoli di spago colorato giravano come trottole, i fogli di carta a fiori
levavano ali starnazzanti, avvolgendo gli acquisti in pacchettini e i pacchettini in pacchetti e i
pacchetti in pacchi, legati ognuno col suo nodo a fiocco. E via pacchi pacchetti pacchettini borse
borsette vorticavano attorno alla cassa in un ingorgo, mani che frugavano nelle borsette cercando i
borsellini e dita che frugavano nei borsellini cercando gli spiccioli, e giù in fondo in mezzo a una
foresta di gambe sconosciute e falde di soprabiti i bambini non più tenuti per mano si smarrivano
e piangevano.
Una di queste sere Marcovaldo stava portando a spasso la famiglia. Essendo senza soldi, il loro
spasso era guardare gli altri fare spese; inquantoché il denaro, più ne circola, più chi ne è senza
spera: "Prima o poi finirà per passarne anche un po' per le mie tasche". Invece, a Marcovaldo, il
suo stipendio, tra che era poco e che di famiglia erano in molti, e che c'erano da pagare rate e
debiti, scorreva via appena percepito. Comunque, era pur sempre un bel guardare, specie facendo
un giro al supermarket.
Il supermarket funzionava col self-service. C'erano quei carrelli, come dei cestini di ferro con le
ruote e ogni cliente spingeva il suo carrello e lo riempiva di ogni bendidio. Anche Marcovaldo
nell'entrare prese un carrello lui, uno sua moglie e uno ciascuno i suoi quattro bambini. E così
andavano in processione coi carrelli davanti a sé, tra banchi stipati da montagne di cose
mangerecce, indicandosi i salami e i formaggi e nominandoli, come riconoscessero nella folla visi
di amici, o almeno conoscenti.
-Papà, lo possiamo prendere questo? chiedevano i bambini ogni minuto.
-No, non si tocca, è proibito, diceva Marcovaldo, ricordandosi che alla fine di quel giro li
attendeva la cassiera per la somma.
-E perché quella signora lì li prende? - insistevano, vedendo tutte queste buone donne che, entrate
per comprare solo due carote e un sedano, non sapevano resistere di fronte a una piramide di
barattoli e tum! tum! tum! con un gesto tra distratto e rassegnato lasciavano cadere lattine di
pomodori pelati, pesche sciroppate, alici sott'olio a tambureggiare nel carrello. Insomma, se il tuo
carrello è vuoto e gli altri pieni, si può reggere fino a un certo punto: poi ti prende un'invidia, un
crepacuore, e non resisti più. Allora Marcovaldo, dopo aver raccomandato alla moglie e ai figlioli
di non toccare niente, girò veloce a una traversa tra i banchi, si sottrasse alla vista della famiglia e,
presa da un ripiano una scatola di datteri, la depose nel carrello. Voleva soltanto provare il piacere
di portarla in giro per dieci minuti, sfoggiare anche lui i suoi acquisti come gli altri, e poi
rimetterla dove l'aveva presa. Questa scatola, e anche una rossa bottiglia di salsa piccante, e un
sacchetto di caffè, e un azzurro pacco di spaghetti. Marcovaldo era sicuro che, facendo con
delicatezza, poteva per almeno un quarto d'ora gustare la gioia di chi sa scegliere il prodotto,
senza dover pagare neanche un soldo. Ma guai se i bambini lo vedevano! Subito si sarebbero
messi a imitarlo e chissà che confusione ne sarebbe nata!
Marcovaldo cercava di far perdere le. sue tracce, percorrendo un cammino a zig zag per i reparti,
seguendo ora indaffarate servette ora signore impellicciate. E come l'una o l'altra avanzava la
mano per prendere una zucca gialla e odorosa o una scatola di triangolari formaggini, lui l'imitava.
Gli alto parlanti diffondevano musichette allegre: i consumatori si muovevano o sostavano
seguendone il ritmo, e al momento giusto protendevano il braccio e prendevano un oggetto e lo
posavano nel loro cestino, tutto a suon di musica.
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Il carrello di Marcovaldo adesso era gremito di mercanzia; i suoi passi lo portavano ad addentrarsi
in reparti meno frequentati; i prodotti dai nomi sempre meno decifrabili esano chiusi in scatole
con figure da cui non risultava chiaro se si trattava di concime per la lattuga o di seme di lattuga o
di lattuga vera e propria o di veleno per i bruchi della lattuga o di becchime per attirare gli uccelli
che mangiano quei bruchi oppure condimento per l'insalata o per gli uccelli arrosto. Comunque
Marcovaldo ne prendeva due o tre scatole.
Così andava tra due siepi alte di banchi. Tutt'a un tratto la corsia finiva e c'era un lungo spazio
vuoto e deserto con le luci al neon che facevano brillare le piastrelle. Marcovaldo era lì, solo col
suo ,carro di roba, e in fondo a quello spazio vuoto c'era l'uscita con la cassa.
Il primo istinto fu di buttarsi a correre a testa bassa spingendo il carrello davanti a sé come un
carro armato e scappare via dal supermarket col bottino prima che la cassiera potesse dare
l'allarme. Ma in quel momento da un'altra corsia lì vicino s'affacciò un carrello carico ancor più
del suo, e chi lo spingeva era sua moglie Domitilla. E da un'altra parte se n'affacciò un altro e
Filippetto lo stava spingendo con tutte le sue forze. Era quello un punto in cui le corsie di molti
reparti convergevano, e da ogni sbocco veniva fuori un bambino di Marcovaldo, tutti spingendo
trespoli carichi come bastimenti mercantili. Ognuno aveva avuto la stessa idea, e adesso
ritrovandosi s'accorgevano d'aver messo insieme un campionario di tutte le disponibilità dei
supermarket. - Papà, allora siamo ricchi? - chiese Michelino. - Ce ne avremo da mangiare per un
anno?
-Indietro! Presto! Lontani dalla cassa! - esclamò Marcovaldo facendo dietrofront e nascondendosi,
lui e le sue derrate, dietro ai banchi; e spiccò la corsa piegato in due come sotto il tiro nemico,
tornando a perdersi nei reparti. Un rombo risuonava alle sue spalle; si voltò e vide tutta la famiglia
che, spingendo i suoi vagoni come un treno, gli galoppava alle calcagna.
- Qui ci chiedono un conto da un milione!
Il supermarket era grande e intricato come un labirinto: ci si poteva girare ore ed ore. Con tante
provviste a disposizione, Marcovaldo e familiari avrebbero potuto passarci l'intero inverno senza
uscire. Ma gli altoparlanti già avevano interrotto la loro musichetta, e dicevano: - Attenzione! Tra
un quarto d'ora il supermarket chiude! Siete pregati d'affrettarvi alla cassa!
Era tempo di disfarsi del carico: ora o mai più. Al richiamo dell'altoparlante la folla dei clienti era
presa da una furia frenetica, come se si trattasse degli ultimi minuti dell'ultimo supermarket in
tutto il mondo, una furia non si capiva se di prendere tutto quel che c'era o di lasciarlo lì, insomma
uno spingi spingi attorno ai banchi, e Marcovaldo con Domitilla e i figli ne approfittavano per
rimettere la mercanzia sui banchi o per farla scivolare nei carrelli d'altre persone. Le restituzioni
avvenivano un po' a casaccio: la carta moschicida sul banco del prosciutto, un cavolo cappuccio
tra le torte. Una signora, non s'accorsero che invece del carrello spingeva una carrozzella con un
neonato: ci rincalzarono un fiasco di barbera.
Questa di privarsi delle cose senz'averle nemmeno assaporate era una sofferenza che strappava le
lacrime. E così, nello stesso momento che lasciavano un tubetto di maionese, capitava loro
sottomano un grappolo di banane, e lo prendevano; o un pollo arrosto invece d'uno spazzolone di
nylon; con questo sistema i loro carrelli più si svuotavano più tornavano a riempirsi.
La famiglia con le sue provviste saliva e scendeva per le scale rotanti e ad ogni piano da ogni
parte si trovava di fronte a passaggi obbligati dove una cassiera di sentinella puntava una
macchina calcolatrice crepitante come una mitragliatrice contro tutti quelli che accennavano a
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uscire. Il girare di Marcovaldo e famiglia somigliava sempre più a quello di bestie in gabbia o di
carcerati in una luminosa prigione dai muri a pannelli colorati.
In un punto, i pannelli d'una parete erano smontati, c'era una scala a pioli posata lì, martelli,
attrezzi da carpentiere e muratore. Un'impresa stava costruendo un ampliamento dei supermarket.
Finito orario i lavoro, gli operai se n'erano andati lasciando tutto com'era. Marcovaldo, provviste
innanzi, passò per il buco del muro. Di là c'era buio; lui avanzò. E la famiglia, coi carrelli, gli
andò dietro.
Le ruote gommate dei carrelli sobbalzavano su un suolo come disselciato, a tratti sabbioso, poi su
un piancito d'assi sconnesse. Marcovaldo procedeva in equilibrio su di un asse; gli altri lo
seguivano. A un tratto videro davanti e dietro e sopra e sotto tante luci seminate lontano, e intorno
il vuoto.
Erano sul castello d'assi d'un' impalcatura, all'altezza delle case di sette piani. La città s'apriva
sotto di loro in uno sfavillare luminoso di finestre e insegne e sprazzi elettrici dalle antenne dei
tram; più in su era il cielo stellato d'astri e lampadine rosse d'antenne di stazioni radio.
L'impalcatura tremava sotto il peso di tutta quella merce lassù in bilico. Michelino disse: - Ho
paura!
Dal buio avanzò un'ombra. Era una bocca enorme, senza denti, che s'apriva protendendosi su un
lungo collo metallico: una gru. Calava su di loro, si fermava alla loro altezza, la ganascia inferiore
contro il bordo dell'impalcatura. Marcovaldo inclinò il carrello, rovesciò la merce nelle fauci di
ferro, passò avanti. Domitilla fece lo stesso. I bambini imitarono i genitori. La gru richiuse le fauci
con dentro tutto il bottino del supermarket e con un gracchiante carrucolare tirò indietro il collo,
allontanandosi. Sotto s'accendevano e ruotavano le scritte luminose multicolori che invitavano a
comprare i prodotti in vendita nel grande supermarket.
Altre significative ricezioni e riprese contemporanee del labirinto
1) Minotaurus (1981): gli specchi del labirinto di F. Durremanmatt
Durrenmatt riporta il dedalo alla sua dimensione letteraria. È un labirinto di specchi nel quale il
feroce Minotauro diviene una vittima, innocente, inconsapevole della sua essenza malefica e
terribile. Durrenmatt immagina il labirinto come un’immane foresta di specchi, in cui la creatura
misteriosa vede moltiplicata all’infinito la propria immagine riflessa. Una folla d’immagini, di
doppi speculari, circonda il Minotauro: ma egli è solo. E il suo problema è quello di uscire fuori da
questa presa del doppio, per incontrare l’altro, “non soltanto un Io, ma anche un Tu”.
Minotauro è l’assassino buono, omicida solamente perché ignora il mondo, rinchiuso nel suo
universo di specchi. La sua immagine è riflessa infinite volte. Visioni diverse si affacciano
inaspettate e lo guardano: moltiplicazioni del suo volto. Viene ucciso dalla sua stessa immagine, il
Minotauro. Teseo (con il volto coperto da una maschera, la finzione) sconfigge il negativo, il
Minotauro, indossando una testa di toro. Finge e vince la sua battaglia contro il labirinto. Il toro è
un dannato, suo malgrado. Simbolo perenne del male, il Minotauro è in realtà innocente, ma
carcerato. Figlio del peccato contro gli dèi è l’affronto supremo. Non ha colpa per la sua esistenza:
vive e basta nel labirinto. L’essere vede il suo volto, decine e decine di volte, danza e comprende
che gli altri esseri danzano come lui. L’estetica del frammento di vetro appare svelata. Un intrigo di
riflessi uguali, moltiplicazione di spazio identico nel labirinto. Sembra di assistere a una lotta tra
l’essere e se stesso, come se ciascuno di noi fosse al centro di un ambiente fatto di immagini diverse
e uguali al tempo stesso. Solo una tra queste icone è vera, le altre sono riflesse fin dove l’occhio può
vedere. Gli specchi sono, nel racconto di Durrenmatt, frammenti labirintici inseriti a loro volta nel
grande intrigo di Cnosso. Si tratta di una lotta: una battaglia di Teseo per riconquistare l’uscita. Ma
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l’uomo lotta contro le sue chimere e le chimere combattono contro se stesse. Il Minotauro è
sconfitto da se stesso, un eroe cattivo, nella mitologia. Una creatura buona, in Durrenmatt. Questo
rende il suo racconto eterno e necessario per descrivere qualsiasi labirinto.
Dunque l’uomo trova, in qualche stanza della sua vita, un Minotauro da sconfiggere. Le chimere
ingannano come il labirinto di specchi: l’immagine riflessa confonde. Ma l’uomo è dotato
dell’”astuzia di Ulisse” e distingue la propria immagine da quella riflessa. L’uomo deve riconoscere
le proprie chimere, prima o poi, per ucciderle nella mente.
Cnosso e il Minotauro sono metafore per comprendere la psiche archetipica di ciascuno di noi, una
sorta di conoscenza inconscia che genera immagini oniriche e successivamente reali, rendendoci
schiavi della visione labirintica del mondo.
2) Il viaggio moderno nel dedalo: La sfida al labirinto (saggio del 1962) di I. Calvino
Italo Calvino individua nel labirinto la figura-principe della contemporaneità che si presenta come
magma informe e privo di significato. Ebbene, per Calvino si tratta di entrare nel labirinto, cioè di
essere all’altezza della problematicità e della complessità dell’oggi, ma nello stesso tempo di non
restare prigionieri del suo fascino, di sforzarsi di conoscerlo e di uscirne. È questa la Sfida al
labirinto dei nostri giorni. La centralità del tema del labirinto deriva dalla complessità del mondo
contemporaneo e dall’impossibilità dell’uomo di acquisire tutte le conoscenze per comprenderlo e
per padroneggiarlo; e anche dalla percezione crescente della insignificanza della vita e della
incapacità di orientarne il corso secondo principi e valori. Di qui la tendenza che Calvino chiama di
“resa al labirinto”: il fascino del labirinto può trionfare in noi e indurci a compiacerci (non senza
esisti irrazionalistici o mistici) della stessa insignificanza e dell’ oscurità in cui viviamo e a
rappresentarle come orizzonte unico e necessario dell’esistenza umana. Se è sbagliato sia far finta
che il labirinto non esista, sia fornire a esso risposte riduttive e semplificanti, è sbagliata anche la
“resa al labirinto”. Insomma bisogna vivere sino in fondo la condizione di problematicità e
contraddittorietà del presente senza chiudersi in facili formule che si limitano a esorcizzare il
labirinto senza farci davvero i conti; e nondimeno, nello stesso tempo, pur consapevoli dei limiti
dell’uomo in generale e delle nostre conoscenze in particolare, non ci si può sottrarre alla
responsabilità della ragione giudicante e di una valutazione del mondo in termini storici e morali.
Per Calvino resta fuori chi crede di poter vincere i labirinti sfuggendo alle loro difficoltà ed è vero
inoltre che la letteratura non può fornire la chiave per uscire dal labirinto. La letteratura, prosegue
Calvino, può solamente definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se
questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. Ecco quindi il senso
della Sfida al labirinto, la sfida al sistema, condotta con le regole della partecipazione,
dell’accettazione di una simile condizione esistenziale. La letteratura e la passione indescrivibile
che talvolta suscita è il mezzo, la mappa per affrontare quel labirinto che è la realtà che ci circonda.
3) La maledizione del labirinto, ovvero l’universo come La biblioteca di Babele (1941), e il
tempo ne Il giardino dei sentieri che si biforcano (1944) di J. L. Borges
Il mondo di Borges è dominato da biblioteche infinite, le interminabili scaffalature di Babele, in cui
sono custoditi tutti i libri scritti e non scritti, i libri del passato e quelli del futuro: borgesiano
significa «mondo di carta». Ma borgesiani sono anche gli specchi che moltiplicano la realtà. E
borgesiani sono i labirinti accentrati, spazi in cui ci si sperde senza possibilità di uscita. Antico e
nuovo sussistono in Borges, divengono la forma e il contenuto della sua opera, si fondono in
questa, si trasformano nella sua arte. In un’arte singolare perché capace di perdersi nel “labirinto”
delle irrealtà e ritrovarsi vera, reale. Non solo ciò che esiste ma anche ciò che non esiste, non si
vede, non si tocca acquista, con Borges, diritto di essere ed agire. E’ questo il “labirinto” nel quale
si muove il moderno uomo di Borges: è il vortice dei suoi pensieri, il dramma che gli è derivato
dalla constatazione della precarietà di ogni azione, della vanità di ogni decisione, della fragilità di
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ogni vita, dell’impossibilità di ogni sostegno o riferimento e, quindi, di ogni liberazione da tale
stato.
Non solo il presente e il passato ma anche il futuro risulta privato, nella scrittura di Borges, di
speranze o aspirazioni poiché anche queste vengono sacrificate all’interminabile e inarrestabile
espansione di quel “labirinto” nel quale l’uomo e lo scrittore si sono avventurati e ne hanno
constatato l’infinità.
La semplicità della finzione di Borges riporta a un mondo immaginario del passato, un universobiblioteca, un labirinto infinito: è un macrocosmo inventato in cui l’uomo (“questo imperfetto
bibliotecario”) vive nelle gallerie esagonali del labirinto. La biblioteca presenta così una struttura
essenzialmente labirintica, metafora globale di un mondo come libro e come labirinto di cui è
impregnata la cultura moderna. La metafora della Biblioteca è utilizzata non soltanto per
rappresentare l’Universo, ma anche per delineare i rapporti tra finitezza e immortalità, contingenza
e necessarietà; tra uomo e Dio.
La biblioteca si presenta in un ordine geometrico, perfetto e disumano, che in realtà nasconde il
caos e l’insensatezza (e infatti rinvia, già nel nome, alla confusione delle lingue della biblica torre di
Babele). Il mondo è un insieme di segni apparentemente ordinati e in realtà indecifrabili. La
biblioteca, perfettamente ordinata e razionale, è destinata a oggetti insensati. Così l’ordine del
cosmo, con le sue leggi fisiche maschera l’assurdo. L’uomo che abita questo universo è solo un
“imperfetto bibliotecario” che cerca invano di dare un’organizzazione e un significato a ciò che
vede e cataloga. Si chiarisce così il motivo di fondo della ricerca di Borges: quella del senso della
vita e della sua scommessa, sempre tentata e mai vinta.
Così tra i corridoi de La Biblioteca di Babele si sviluppa un labirinto che in Borges assume
un’illusorietà più marcata. L’obiettivo è quello di affrontare un labirinto tangibile, presente alla luce
di categorie o possibilità di lettura e di critica di cui la letteratura è abile ed originale portatrice. Una
capacità critica che dovrebbe accompagnare chiunque da un labirinto ad un altro, da un esagono
all’altro di quell’immensa biblioteca che è il vivibile.
Ma la struttura simbolica che regge il sistema mitico è sicuramente il Tempo: esso ha un percorso
denso di strade di cui difficilmente si può carpirne il centro o il principio o la fine, la sua uscita. È
un universo immaginifico fatto di simboli e di archetipi che lascia la libertà di immaginare
l’inesistente (perché non visibile adesso) monumento-labirinto della Biblioteca borgesiana come
vogliamo. Il tempo è bloccato: il passato e il futuro si confondono, le vie temporali si moltiplicano
con i sentieri che si biforcano. Il tempo e lo spazio sono labirintici, e le loro strade si ramificano,
intricate.
Nel racconto “Il giardino dei sentieri che si biforcano” Borges sostiene che la nostra esistenza
individuale è solo una delle innumerevoli esistenze che potrebbero venirsi a determinare se, in
alcune circostanze, gli eventi si svolgessero in un modo anziché in un altro. La realtà effettiva è solo
un filo nella sconfinata ragnatela delle infinite possibili realtà. Il concetto di tempo è reso con una
metafora, quella di un giardino in cui ogni sentiero (evento) si dirama in un altro e questo in un altro
ancora, senza che lo spettatore del primo evento riesca a trovarne lo sbocco definitivo e, soprattutto,
a tornare indietro sino al momento in cui esso ebbe luogo. Dunque un labirinto senza via d’uscita.
L’idea centrale del racconto è dunque un tempo plurimo e ramificato in cui ogni presente si biforca
in due futuri, in modo da formare una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e
paralleli. Una tale concezione del tempo è cara a Borges perché è quella che regna nella letteratura,
anzi è la condizione che rende la letteratura possibile.
4) Nel labirinto del sapere: Il nome della rosa di U. Eco
Le biblioteche fanno parte del nostro immaginario collettivo, che per secoli si è nutrito, forse più
che della frequentazione di questo luogo, spesso poco accessibile, delle descrizioni che di esse si
trovano nei libri.
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Nel Nome della rosa l’azione si svolge prevalentemente nella grande biblioteca del monastero: un
labirinto di scienze universali, descritto come La biblioteca di Babele di J.L. Borges. Dunque nel
romanzo il labirinto è la biblioteca del monastero, luogo centrale e disorientante, che custodisce il
sapere e insieme i segreti e i misteri, riservato solo agli addetti e agli esperti, che solo la sagacia e
l’acutezza riuscirà a percorrere e comprendere.
La biblioteca non interessa tanto come luogo fisico, quanto come proiezione ideale di un’idea
estetica o di uno spunto filosofico. Da Borges a Eco, su tutti aleggia il minaccioso archetipo della
“Biblioteca Universale” e l’angoscia antropologica di un confronto perso in partenza.
L’opera ha chiaramente un valore simbolico ed allegorico, ambiti cari ad Eco: la biblioteca è
simbolo da un lato del fascino della cultura, dall’altro dell’enorme pericolosità in essa insita a causa
del “peccato d’intelletto”, tratto tipico della mentalità medioevale.
L’archetipo del labirinto nell’arte contemporanea
La storia del labirinto è testimone di una notorietà che non è certamente dovuta al caso. In effetti, la
forza primigenia profondamente radicata in sé ha permesso a questo segno iconografico di
significare un’idea archetipica universale e assoluta. Il labirinto evidenzia cioè, nella sua stessa
forma figurale, quell’itinerario mentale che ha accompagnato l’uomo nella storia e nel suo tortuoso
cammino di conoscenza.
Il labirinto contemporaneo altro non è che l’idea del labirinto come opera d’arte. L’artista abita di
diritto la realtà del linguaggio; egli è il solo a possedere l’astuzia e la tecnica necessarie per
attraversare e sfidare tutti i suoi percorsi. Questo impegno è assunto dall’artista e viene praticato
continuamente nel corso dell’opera al fine di giungere al centro, di accedere all’ambiguità
dell’inconscio. Così come Teseo , munito della spada, del gomitolo, del filo, nonché del proprio
coraggio, percorre i meandri del labirinto, uccide la bestia, portatrice di una doppia natura e infine
riemerge alla luce.
Nel labirinto l’artista non ha bisogno dello sguardo del mondo, l’oscurità non è più assenza di luce
bensì qualcosa di più tangibile, quasi palpabile, è una continua sperimentazione, è consapevolezza,
disvelamento, è insomma la “verità irresistibile” dell’arte. In questa condizione, l’opera che l’artista
contemporaneo crea è essa stessa un labirinto e, per analogia, costituisce l’irrazionale della ragione,
lo scarto che mette a nudo la verità delle cose.
L’arte contemporanea vive dunque tutta sotto il segno del labirinto: essa, più che dare delle risposte
propone delle domande, opera sulla verità, non si abbandona al tempo ma lo precede. L’arte pratica
il labirinto, sentito come governato da un’erranza assoluta, un nomadismo che l’artista assume
come modalità. . L’arte destruttura la sua mentalità tradizionale per accedere al mito, fonda un
territorio magico, il luogo della totalità, diventa lo strumento che consente di aprire il reale verso
relazioni inedite ed imprevedibili. I grandi cambiamenti culturali avvenuti all’inizio del ‘900 hanno
prodotto un totale capovolgimento del punto di vista da cui osservare il mondo e le esperienze che
lo abitano. Cadute le ultime certezze si rivela sempre più insufficiente una visione della realtà
limitata agli aspetti fenomenici, ma si aprono nuovi labirinti ben più confusi e intricati. Il che
implicherà, per questa ragione, una ristrutturazione del linguaggio pittorico, che passa attraverso lo
sconvolgimento della visione naturalistica della realtà. All’ordine che aveva caratterizzato fino a
quel momento la ragione occidentale, si sostituisce un disordine labirintico che si rivelerà
estremamente stimolante e fecondo dal punto di vista artistico: Balla, Mondrian, Klee, Magritte, De
Chirico, Picasso sono gli artisti che hanno calcato le scene in quel periodo. In particolare Picasso, si
è concentrato sulla simbologia del Minotauro rappresentandone la duplicità, attraverso elementi
pittorici riferiti sia all’aggressività, sia alla tenerezza.
Romualdo Marandino
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