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Rapporto tra violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) e Induzione indebita a dare o
promettere utilità (art. 319 quater c.p.). Brevi osservazioni a margine della
sentenza Cass. III Sez., 17 maggio 2016, n. 33049, depositata il 28 luglio 2016.
Di Pasquale Mandolfino
Sommario
1 PREMESSA ........................................................................................................................................... 1
a) QUAESTIO IURIS .............................................................................................................................. 1
b) QUAESTIO FACTI ............................................................................................................................. 1
c) ITER PROCESSUALE.......................................................................................................................... 2
2 I DELITTI DI VIOLENZA SESSUALE (art. 609 bis c.p.) E INDUZIONE INDEBITA A DARE O PROMETTERE
UTILITA’ (art. 609 bis c.p.) ....................................................................................................................... 2
a) DUE DIVERSE FATTISPECIE INCRIMINATRICI ...................................................................................... 2
b) VIOLENZA SESSUALE (art. 609 bis c.p.).............................................................................................. 3
c) INDUZIONE INDEBITA A DARE O PROMETTERE UTILITA’ (art. 609 bis c.p.) ........................................... 6
3 LA DECISIONE ...................................................................................................................................... 8
a) INTRODUZIONE............................................................................................................................... 8
b) QUAESTIONES IURIS AFFRONTATE ................................................................................................... 8
c) OSSERVAZIONI FINALI .................................................................................................................... 13
1 PREMESSA
a) QUAESTIO IURIS
Con la sentenza n. 33049 del 17/05/2016, depositata lo scorso la Corte Suprema di Cassazione, III
Sezione Penale (Presidente Rosi, Estensore Gai) ha indagato il rapporto intercorrente tra i delitti
di violenza sessuale ex art. 609 bis c.p. e di induzione indebita a dare o promettere utilità ex
art. 319 quater c.p. Ciò ha dato occasione alla Corte di tracciare un’actio finium regundorum tra
i due illeciti de quibus, dei quali ha evidenziato i punti di contatto e le divergenze, prendendo infine
una posizione netta in ordine alla possibilità o meno di un loro concorso.
b) QUAESTIO FACTI
Esattamente la problematica che ha impegnato gli Ermellini è stata l’esatta qualificazione giuridica
della vicenda concreta consistente nel contegno del ministro di culto, esercente le funzioni di
1
cappellano all’interno di una Casa Circondariale, che compulsava i detenuti a subire atti
sessuali in cambio di favori, quali piccole donazioni di denaro e di prodotti vari, offerte di contatti
telefonici con parenti e consigli sull’assistenza legale.
c) ITER PROCESSUALE
Il caso concreto giungeva all’esame del Supremo Collegio dopo essere stato valutato in modo
differente nel corso del giudizio dei due gradi di merito.
Il giudice di prime cure, infatti, in sede di giudizio abbreviato celebrato in udienza preliminare,
perveniva ad una pronuncia di condanna relativamente ad alcune delle condotte contestate e di
assoluzione
relativamente
ad
altri episodi,
essenzialmente
escludendo
in modo
netto
la
configurabilità di un concorso tra i due delitti in esame.
A seguito di impugnazione della sentenza di primo grado ad opera sia del Pubblico Ministero, sia
dell’imputato, si svolgeva il giudizio di secondo grado, all’esito del quale la Corte d’Appello, in
accoglimento
dell’appello
promosso
dal rappresentante
dell’Ufficio
Requirente,
riconosceva
l’imputato colpevole dei fatti contestatigli e riteneva gli stessi sussumibili all’un tempo nelle due
diverse fattispecie incriminatrici di violenza sessuale e di induzione indebita a dare o promettere
utilità. Il giudice di secondo grado dunque ammetteva il concorso tra i due illeciti, in tal modo
ribaltando la decisione del precedente grado.
L’imputato dunque presentava ricorso per Cassazione, deducendo numerosi motivi di doglianza, tra
i quali pregnante appariva la valutazione giuridica, asseritamente errata, del rapporto tra i due titoli
di reato, sostenendo l’impossibilità di un loro inquadramento a titolo di concorso.
2 I DELITTI DI VIOLENZA SESSUALE (art. 609 bis c.p.) E INDUZIONE
INDEBITA A DARE O PROMETTERE UTILITA’ (art. 609 bis c.p.)
a) DUE DIVERSE FATTISPECIE INCRIMINATRICI
L’analisi approfondita della possibile relazione intercorrente tra i due delitti non può prescindere
dall’identificazione dei singoli punti sia di contatto, sia di divergenza tra le stesse fattispecie. Tale
indagine impone una preliminare disamina della struttura di ciascuno di essi e quindi dello stato
dell’arte sia in dottrina, sia in giurisprudenza in ordine ai loro elementi costitutivi.
2
b) VIOLENZA SESSUALE (art. 609 bis c.p.)
La violenza sessuale ha da sempre rappresentato uno fra gli illeciti più odiosi e allarmanti nel nostro
ordinamento penale. Cionondimeno tale figura criminis ha ricevuto nel tempo ad opera del
legislatore risposte sanzionatorie molto eterogenee e purtroppo mai del tutto soddisfacenti.
Il codice penale del 1889 lo annoverava tra i Delitti contro il buon costume e l’ordine delle
famiglie e lo prevedeva all’art. 331, che puniva chi costringesse una persona, con violenza o
minaccia, alla congiunzione carnale. Successivamente il codice penale del 1930 includeva tale
illecito tra i Delitti contro la moralità pubblica e il buon costume e lo sanzionava all’art. 519, oggi
abrogato, rubricato Della violenza carnale, che puniva chi, con violenza o minaccia, costringesse
taluno alla congiunzione carnale. Sottesa a tali fattispecie incriminatrici vi era l’idea di fondo che
esse offendessero la morale sessuale, intesa come quella forma di sessualità in linea con le
regole convenzionali del vivere sociale. Si trattava dunque di un bene giuridico dal sapore
pubblicistico, ben coerente con la visione pan-pubblicistica e paternalistica che imperava in quel
tempo.
Il delitto di violenza sessuale che oggi noi conosciamo (art. 609 bis c.p.) è il frutto di un radicale
mutamento di prospettiva di politica criminale registratosi in occasione della novella legislativa di
cui alla l. 15 febbraio 1996 n. 66 recante “Norme contro la violenza sessuale”. Essa ha determinato
un restyling della collocazione topografica del reato all’interno del codice penale, espungendolo dal
novero dei reati contro la moralità pubblica ed inserendolo nella Sezione rubricata Dei delitti contro
la libertà personale. Lungi dal configurarsi come un mero mutamento di etichetta, la scelta del
legislatore del 1996 risponde ad un giudizio di valore, in base al quale il delitto in esame viene
rimosso da una categoria valoriale ormai anacronistica per far emergere un nuovo bene giuridico,
la libertà sessuale, che finalmente acquista autonomia e dignità. In tal modo viene definitivamente
reciso il legame tra i reati a sfondo sessuale ed una concezione vetero-moraleggiante della
sessualità,
la
quale
viene
invece riscoperta quale dimensione attuativa della
libertà
di
autodeterminazione dell’uomo, in piena sintonia con l’art. 2 Cost.
Trattasi di un reato comune, il responsabile non dovendo rivestire qualifiche particolari, ma
potendo essere chiunque.
Sotto il profilo dell’elemento oggettivo, il legislatore circoscrive la condotta penalmente rilevante
ad un duplice ordine di ipotesi.
Il co. 1 dell’ art. 609 bis c.p. incrimina la violenza sessuale cd. per costrizione, che si concretizza
attraverso l’uso di un triplice ordine di strumenti tra loro alternativi, rappresentati da violenza,
minaccia o abuso di autorità.
3
E’ ormai pacifico che la costrizione sia concetto connotato da una carica intimidatoria notevole a
danno del destinatario, il quale infatti quoad effectum si
ritrova nell’impossibilità di operare la
benché minima scelta in ordine all’adesione o meno ai desiderata del reo, non potendo opporgli
alcun diniego e quindi non avendo altra scelta che assecondare le richieste di prestazioni sessuali
prospettategli. La costrizione, in altre parole, determina “un senso di sopraffazione sulla vittima
tale da coartarne la libera scelta”1 .
Varie sono poi le opzioni metodologiche di realizzazione della violenza sessuale che il legislatore
ha scelto di incriminare.
Viene in rilievo in primis la violenza, che - estendendo le coordinate ermeneutiche già consolidate
in tema di violenza privata (art. 610 c.p.) - deve essere identificata non soltanto nell’impiego di
energia fisica, cd. violenza propria, ma altresì nell’uso di qualunque mezzo idoneo a coartare la
volontà della vittima, cd. violenza impropria. Inoltre “La condotta violenta può manifestarsi in
diverse graduazioni che vanno dalla cd. vis atrox, ovvero un’azione talmente violenta da lasciare
segni visibili sulla vittima, fino a ricomprendere forme di coartazione fisica minima, che,
comunque, producono un effetto paralizzante sul soggetto passivo”2 . In secondo luogo viene
stigmatizzata la violenza sessuale realizzata mediante la minaccia, che - muovendo sempre dalle
acquisizioni relative al delitto ex art. 610 c.p. - va intesa quale prospettazione di un male ingiusto, il
cui verificarsi deve dipendere dalla volontà del soggetto agente. La minaccia deve presentare
l’idoneità “a piegare la volontà altrui e tale idoneità va valutata in concreto secondo le circostanze
di tempo, di luogo e, soprattutto, la condizione personale della persona offesa”3 . E’ da notare come
dottrina
e
giurisprudenza
interpretino
tali
due
strumenti
in
maniera
abbastanza
estesa,
ricomprendendovi non unicamente i casi di annullamento totale della libertà di autodeterminazione
della vittima, bensì anche le ipotesi di una sua sensibile compromissione.
Infine il legislatore enuclea, quale ulteriore veicolo di realizzazione della violenza sessuale, l’abuso
di autorità, ovvero qualsiasi forma di abnorme approfittamento di una posizione di supremazia che
abbia natura pubblicistica o anche solo privatistica. Tale contegno presuppone che l’agente “generi
nella vittima uno stato di soggezione e si avvalga poi dello stesso per ottenere il consenso,
evidentemente viziato dal metus reverenziale ingenerato 4 ”. In proposito la giurisprudenza di
legittimità ha chiarito che tale approfittamento non può essere presunto per il solo fatto della
1
M. Santise-F.
M. Santise-F.
3 M. Santise-F.
4 M. Santise-F.
2
Zunica,
Zunica,
Zunica,
Zunica,
Coordinate ermeneutiche
Coordinate ermeneutiche
Coordinate ermeneutiche
Coordinate ermeneutiche
di diritto
di diritto
di diritto
di diritto
penale, Torino, 2014, pag. 407.
penale, cit., pag. 407.
penale, cit., pag. 408.
penale, cit., pag. 409.
4
sussistenza di una posizione autoritativa, ma occorre la “… prova di una strumentalizzazione del …
potere … attraverso una subornazione psicologica …”5 .
Il co. 2 della norma incriminatrice in esame sanziona invece la violenza sessuale cd. per induzione,
entità distinguibile dalla già esaminata costrizione per la minore carica intimidatoria, che si
sostanzia in una forma di suggestione o di persuasione, che genera una più blanda pressione
morale e che quindi lascia alla vittima un certo qual margine di autodeterminazione. Tale modalità
di estrinsecazione della violenza sessuale viene dal legislatore ricondotta a due ipotesi specifiche e,
segnatamente, all’abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima e all’inganno,
nel quale l’agente trae la vittima, consistente nel sostituirsi ad altra persona.
Le due modalità tipologiche incriminate sono tese a far si che la vittima del delitto compia o subisca
atti sessuali. Il legislatore del 1996, dunque, abbandona la prospettiva precedente, che
stigmatizzava la congiunzione carnale violenta e gli atti di libidine violenti, a beneficio della
categoria onnicomprensiva degli atti sessuali. L’individuazione della esatta latitudine semantica di
tale concetto ha dato vita a tre diversi approcci ermeneutici. Una prima prospettiva ravvisa una
sostanziale continuità tra gli atti di libidine di cui alla formulazione originaria della norma e gli atti
sessuali di cui alla disposizione restaurata nel 1996; un secondo approccio interpretativo avverte gli
atti sessuali come concetto dotato di più ampia latitudine rispetto alla categoria degli atti di libidine;
infine una terza impostazione restringe la nozione de qua ai soli atti che presentino natura sessuale
sul piano oggettivo, occorrendo “il contatto fisico tra una parte qualsiasi del corpo di una persona
con una zona genitale (compresa la mammella della donna), anale o orale del partner”6 . In
generale la scelta legislativa ha avuto l’effetto di ridurre il novero degli atteggiamenti punibili, dai
quali vengono oggi espunti tutti quei contegni classificabili come manifestazioni di una sessualità
particolare o comunque eccedenti il comune sentire in materia.
L’elemento soggettivo del delitto va identificato nel dolo generico, ovvero nella coscienza e
volontà dell’agente di condizionare e pregiudicare la libertà sessuale della persona offesa.
Al fine di rendere possibile una mitigazione del severo trattamento sanzionatorio previsto per la
fattispecie generale, il co. 3 della disposizione in esame prevede poi una riduzione della pena nei
casi di minor gravità. Tale inciso dà luogo, secondo la dottrina prevalente, ad una circostanza
attenuante ad effetto speciale ed indefinita e non già ad un’autonoma fattispecie incriminatrice. Non
poco problematica è l’identificazione dell’ubi consistam della natura meno grave dei fatti di
violenza sessuale, che sembra però oggi attestarsi nella minima compressione della libertà sessuale
della vittima, accertata sulla base delle “modalità esecutive e le circostanze dell’azione attraverso
5
6
Cass. Pen., Sez. III, 21 settembre 2012, n. 36595.
A. Cadoppi, Commentario delle “norme contro la violenza sessuale”, 2006.
5
una valutazione globale che comprenda il grado di coartazione esercitato sulla persona offesa, le
condizioni fisiche e psichiche della stessa, le caratteristiche psicologiche valutate in relazione
all’età, l’entità della lesione alla libertà sessuale ed il danno arrecato anche sotto il profilo
psichico”7 .
c) INDUZIONE INDEBITA A DARE O PROMETTERE UTILITA’ (art. 609 bis c.p.)
L’illecito di induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.) è figura
incriminatrice introdotta con la l. 6 novembre 2012 n. 190, recante “Disposizioni per la
prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, che
è intervenuta a ridisegnare la strategia di contrasto al dilagare del malcostume da sempre
caratterizzante i rapporti tra cittadino e P.A. In particolare il delitto de quo nasce dalle ceneri della
concussione, quale originariamente regolamentata ex art. 317 c.p., che puniva l’agente pubblico che,
con abuso di qualità o poteri, compulsasse taluno, sia attraverso la costrizione, sia attraverso la
induzione, a dare o promettere indebitamente denaro o utilità.
La novella del 2012 ha realizzato quindi un cd. spacchettamento della concussione classica,
riservando all’art. 317 c.p. la punizione del contegno concussivo realizzato mediante cd. costrizione
e facendo transitare invece nell’art. 319 quater c.p., di nuova introduzione, la concussione operata
attraverso la cd. induzione. Tale fattispecie differisce sensibilmente dalla figura di cui all’art. 317
c.p., nella misura in cui il soggetto attivo non è soltanto il pubblico ufficiale, ma anche l’incaricato
di pubblico servizio, ma soprattutto la punizione non è riservata unicamente all’agente pubblico,
parte del pactum sceleris, ma è estesa anche al soggetto che cede alla dazione e/o alla promessa di
denaro o altra utilità. Ciò ha ridefinito il volto della concussione per induzione, che, da reato
unisoggettivo, cioè commesso dal singolo soggetto attivo in danno della persona offesa, è diventato
reato a concorso necessario, nel quale quella che un tempo era la vittima si riscopre correo e il
contegno del concusso viene avvertito come non meno turpe di quello del concussore. A tanto il
legislatore del 2012 è giunto al fine di allinearsi alle raccomandazioni di respiro internazionale
provenienti dalla Convenzione Anticorruzione Ocse, che si incentravano sulla necessità di evitare il
permanere di una facile via verso l’impunità per tutti quei privati che, animati da un autentico
intento illecito, assumessero le sembianze del quivis de populo indifeso dinanzi alle condotte
prevaricatrici di pubblici funzionari senza scrupoli.
La novella in parola, oltre ad aver scisso le due ipotesi classiche di concussione, ha anche realizzato
un cd. slittamento della concussione per induzione verso il reato di corruzione, se si considera che
il delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità è stato collocato, nella topografia del
7
Cass. Pen., Sez. III, 2 maggio 2013, n. 19033.
6
codice penale, in chiusura delle fattispecie corruttive (artt. 318-319 ter) e che inoltre l’illecito in
esame condivide con tali figure incriminatrici la punibilità del privato cittadino, che - come già visto
- da vittima è diventato, per così dire, carnefice. Si è giunti così a delineare una vera e propria figura
incriminatrice intermedia, al confine tra la concussione per costrizione e la corruzione.
Il delitto di cui all’art. 319 quater rientra tra i reati contro la pubblica amministrazione e, secondo la
prospettiva maggioritaria, si configura come reato plurioffensivo, ledendo, oltre al bene giuridico
della imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione, anche la sfera privatistica
del cittadino, l’integrità del suo patrimonio e la libertà del suo consenso.
L’illecito in esame si configura come reato proprio, prevedendo la norma incriminatrice - come
già anticipato - che il soggetto attivo rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di
pubblico servizio.
L’elemento oggettivo del reato è enucleato dal legislatore attraverso due momenti distinti.
In primis viene descritto lo strumento utilizzato dall’agente pubblico per realizzare la condotta
concussiva e che si sostanzia nell’abuso della qualità o dei poteri. L’abuso della qualità
corrisponde ad una strumentalizzazione della qualifica soggettiva del pubblico funzionario, che
agisce pur non avendo competenza all’esercizio del relativo potere. L’abuso dei poteri invece
consiste nell’esercizio di un potere secondo criteri intenzionalmente differenti da quelli imposti
dalla legge, ciò che corrisponde ad una gestione anti-funzionale delle attribuzioni dell’ufficio.
Tale seconda forma di condotta concussiva può emergere nell’attività amministrativa di tipo
vincolato, nel qual caso si sostanzierà nella mancata adozione di un atto ovvero nell’adozione di un
atto avente contenuto diverso da quello imposto dalla legge; essa può emergere altresì nell’agere
amministrativo di segno discrezionale, laddove però la mancata emanazione di un certo atto o la sua
mancata elaborazione attraverso determinate modalità possono non essere univocamente rivelatrici
della presenza dell’abuso. Cionondimeno la fattispecie dell’abuso dei poteri può concretizzarsi
anche attraverso una condotta omissiva, integrata, per esempio, da comportamenti ostruzionistici o
rallentamenti dello svolgimento dell’attività dell’ufficio.
In secondo luogo il legislatore all’art. 319 quater c.p. enuclea l’effetto a cui l’abuso è preordinato,
identificabile nella induzione del concusso a dare o promettere denaro o utilità. Il concetto di
induzione viene quindi qui preferito dal legislatore a quello di costrizione, rispetto al quale
mantiene un’essenziale diversità contenutistica. La costrizione, che sopravvive ex art. 317 c.p.,
infatti, consiste in un contegno di tipo violento in senso psichico, capace di elidere totalmente la
capacità di autodeterminazione del concusso, il quale, quindi, non avendo possibilità di scegliere vie
alternative alla dazione e/o alla promessa illecite, si atteggia quale vera vittima del reato. Ex
adverso l’ubi consistam dell’induzione di cui all’art. 319 quater c.p. coincide con una sorta di
7
suggestione o persuasione del concusso, il quale, mantenendo un certo margine di
autodeterminazione, preferisce dare e/o promettere denaro o utilità anzicchè percorrere le vie
legittime, ciò che lo rende concorrente necessario nel reato e quindi meritevole di punizione.
Si perviene oggi a tale assetto disciplinare solo a seguito dell’evoluzione normativa che ha
interessato la generale figura incriminatrice della concussione, originariamente unitaria, che il
legislatore immaginava configurabile indistintamente aut vi aut fraude. Già il codice penale del
1889 prevedeva le due diverse fattispecie, mentre il codice penale del 1930 mantenne la duplicità di
ipotesi delittuose, ma le unificò quoad poenam. Come già visto, l’ultimo tratto evolutivo ha
interessato lo sdoppiamento della concussione classica nelle fattispecie da un lato di tipo costrittivo
ex art. 317 c.p. e dall’altro di tipo induttivo ex art. 319 quater c.p.
L’evento del reato è rappresentato dalla indebita dazione o promessa di denaro o altra utilità ad
opera del concusso. Mentre la dazione consiste tecnicamente nel transito materiale di ricchezza
dalla disponibilità di un soggetto a quella di un altro soggetto, invece la promessa si sostanzia nella
assunzione dell’impegno ad effettuare la prestazione in futuro. Oggetto delle due possibili forme di
iniziativa sono il denaro o altre utilità, tali dovendosi intendere tutto ciò che possa soddisfare un
bisogno umano e che sia in grado di apportare un vantaggio oggettivamente apprezzabile. Lo
scambio deve poi avere carattere indebito, cioè non deve essere previsto come dovuto da alcuna
norma scritta o consuetudinaria.
In ordine all’elemento soggettivo del reato, appare chiara la sua riconducibilità al dolo generico,
consistente
nella
consapevolezza
e
volontà
nell’agente
della sussistenza delle componenti
dell’elemento oggettivo dell’illecito.
3 LA DECISIONE
a) INTRODUZIONE
Dopo aver valutato analiticamente gli elementi costitutivi dei delitti di violenza sessuale e di
induzione indebita a dare o promettere utilità, è ora necessario esaminare la pronuncia della
Suprema Corte di Cassazione, per approfondirne gli snodi fondamentali e successivamente trarne
delle conclusioni.
b) QUAESTIONES IURIS AFFRONTATE
La decisione in questa sede esaminata si è concentrata essenzialmente sull’esatta qualificazione
giuridica del contegno del ministro di culto, esercente le funzioni di cappellano all’interno di
8
una casa circondariale, che compulsava i detenuti a subire atti sessuali in cambio di favori,
quali piccole donazioni di denaro e di prodotti vari, offerte di contatti telefonici con parenti e
consigli sull’assistenza legale. Trattasi infatti di fattispecie concreta che prima facie ben si presta
ad essere sussunta entro le maglie sia dell’art. 609 bis, sia dell’art. 319 quater, illeciti il cui rapporto
la Corte prima ha esaminato e poi ha definito con precisione.
In apertura delle argomentazioni in punto di diritto, gli Ermellini hanno sgombrato il campo dal
dubbio preliminare relativo alla qualificabilità o meno del ministro di culto, che operi quale
cappellano all’interno di un penitenziario, in termini di incaricato di pubblico servizio. La
quaestio iuris - lungi dal rispondere a mere esigenze definitorie - ha delle ripercussioni pratiche di
non poco momento ove si ponga mente al fatto che la mancata riconduzione alla qualifica di
incaricato di pubblico servizio comporterebbe l’inoperatività sia dell’art. 319 quater c.p., sia
dell’art. 609 septies co. 4 nn. 3 e 4 c.p., che infatti circoscrivono la responsabilità penale ai soli
agenti pubblici. La Corte ha riconosciuto quindi la configurabilità del cappellano penitenziario
quale incaricato di pubblico servizio, basandosi sull’essenziale argomentazione per cui la
funzione in discussione è non già di natura meramente religiosa, bensì è rispondente al preminente
interesse pubblico dello Stato al trattamento delle persone condannate o internate , come già
statuito dalla Cass. Sez. VI n. 12 del 24/09/2008, Stroppiana, Rv. 242226. Hanno notato infatti i
componenti del Collegio come l’art. 15 della l. 354/1975 di riforma dell’ordinamento penitenziario
faccia della religione una delle componenti dell’opera di trattamento rieducativo e dunque faccia del
ministro di culto uno dei protagonisti dell’attività di recupero e risocializzazione attraverso la
gestione delle pratiche di culto e l’assistenza morale ai ristretti.
La Corte è passata poi ad affrontare il vero punctum dolens posto dal caso in esame: la
configurabilità o meno del concorso tra il reato di violenza sessuale mediante costrizione ex
art. 609 bis co. 1 e il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità ex art. 319 quater,
che nella vicenda in esame era stato prima escluso dal giudice di prime cure e dopo positivamente
affermato dal giudice di seconda istanza.
Esattamente la decisione di appello condannava l’imputato in quanto responsabile di costrizione dei
detenuti al compimento di atti sessuali mediante “…violenza consistita in condotte repentine di
toccamento dei genitali e sfregamento del pene sul corpo dei detenuti, e nell’abuso di autorità
derivante dalla posizione di [cappellano] del carcere…”; tali condotte sono state ritenute da tale
giudice sussumibili all’un tempo sia entro la figura della violenza sessuale per costrizione, sia entro
le maglie dell’induzione indebita a dare o promettere utilità. Ebbene la Corte di Cassazione ha
preso una posizione netta riguardo alla possibilità che i due reati in esame concorrano, escludendo
radicalmente una logica compatibilità tra le due fattispecie e quindi sbarrando qualunque varco alla
9
benchè minima probabilità di coesistenza dei due delitti de quibus, i quali dunque, ad avviso della
Corte, meritano più corretto inquadramento in un rapporto di reciproca esclusione.
L’argomento giuridico fondamentale sul quale i giudici fondano il proprio convincimento riposa
sulla essenziale diversità metodologica di realizzazione dei due reati in discorso. Mentre la
violenza sessuale di cui al co. 1 della relativa norma incriminatrice viene operata attraverso il
metodo della cd. costrizione, ex adverso il delitto di induzione indebita si contraddistingue
essenzialmente per lo strumento operativo della cd. induzione. Quest’ultima si atteggia a fulcro
della norma incriminatrice, nonché quale componente fondamentale che ha indotto il novellatore
del 2012 alla genesi stessa dell’art. 319 quater. La stessa ratio legis oggettiva della novella del 2012
appare, quindi, secondo la Corte, argomento dirimente e chiarificatore ai fini della decisione: non è
giuridicamente proponibile la convivenza tra due reati che si contraddistinguono l’uno per un
modus operandi di segno costrittivo e l’altro per uno di tipo induttivo, laddove proprio la
tendenza legislativa più recente si assesta sullo spacchettamento della induzione e della
costrizione dal medesimo contesto incriminatore, addirittura giungendosi allo sdoppiamento
di una figura incriminatrice originariamente unitaria, quale la concussione.
Nel caso de quo il Collegio ha dovuto dunque giudicare se ricondurre le repentine condotte a sfondo
sessuale tenute dal prete ai danni dei detenuti entro il paradigma della cd. costrizione, di cui al reato
ex art. 609 bis c.p., ovvero al meccanismo della cd. induzione, di cui all’art. 319 quater c.p.;
quest’ultimo in particolare contempla anche la dazione di utilità, concetto che ben si presterebbe a
ricomprendere l’elargizione di prestazioni sessuali. Insomma la traduzione in termini giuridici del
contegno dell’imputato ha posto all’attenzione della Corte l’esame di due problemi, l’uno
intimamente collegato all’altro: in primis è venuta in rilievo l’esatta identificazione del modus
operandi dell’imputato (se costrittivo oppure induttivo), quindi in secondo luogo si è dovuta
identificare la figura incriminatrice più adeguata al caso concreto tra le due in discorso,
apparendo chiaro che dalla opzione preferita in prima battuta dipendesse essenzialmente anche la
soluzione in ordine al secondo dubbio.
Gli Ermellini in proposito hanno fatto applicazione delle ormai consolidate coordinate ermeneutiche
volte a distinguere la costrizione dalla induzione, secondo le quali - e come già più su esaminato la prima
consiste in una
violenza
psichica
che
annulla
totalmente
la
capacità
di
autodeterminazione della vittima, mentre la seconda corrisponde ad una forma di pressione
morale più blanda, quasi una suggestione, che lascia sopravvivere nel deceptus un certo qual
margine di manovra valutativa. Orbene la Corte si è espressa senza mezzi termini nel senso della
riconducibilità del contegno del sacerdote alla fattispecie della costrizione realizzata mediante
violenza ed abuso di autorità piuttosto che alla mera induzione. Dalla valutazione del compendio
10
probatorio è emerso indiscutibilmente, infatti, che i detenuti sottoposti a questo genere di
vessazioni venissero a ciò propriamente obbligati, senza che residuasse alcuno spazio per una
loro possibile, seppur minima, scelta di aderire o meno alle iniziative a sfondo sessuale loro
prospettate. Da tanto è dunque derivata la logica e necessaria conclusione del Collegio nel senso
della ravvisabilità del solo reato di violenza sessuale ex art. 609 bis co. 1, piuttosto che della
concussione per induzione di cui alla norma introdotta nel 2012. Tale scelta operata dalla Corte
appare di certo pienamente condivisibile ove si consideri che la condotta esaminata presenta una
preponderante componente di stampo costrittivo, che polarizza il nucleo di disvalore penale
dell’intera vicenda e che quindi opportunamente orienta la scelta dell’interprete verso la figura
incriminatrice più aderente alle sfumature del caso concreto.
Una volta identificato nella sola violenza sessuale il reato che meglio si presta a tradurre
giuridicamente il contegno tenuto dall’imputato, la Corte esamina un’ulteriore quaestio iuris che
sorge con riferimento a tale specifico delitto. In particolare viene in rilievo la riferibilità o meno
del concetto di abuso di autorità di cui all’art. 609 quater c.p. alla figura del sacerdotecappellano penitenziario; tale dubbio emerge dalla intuitiva considerazione che l’attività del
ministro di culto appare essenzialmente di natura religiosa ed assistenziale e con non poche
difficoltà potrebbe essere ricondotta ad uno schema di stampo autoritativo.
La Corte ha preliminarmente ricostruito lo stato dell’arte sul punto, dando atto dell’esistenza di due
opposti orientamenti. Una prima impostazione vuole che “…in tema di violenza sessuale, l’abuso
di autorità rilevante ai sensi dell’art. 609 bis, comma primo, cod. pen. presuppone nell’agente una
posizione autoritativa
di tipo
formale e pubblicistico,
che determina, attraverso la
strumentalizzazione del potere esercitato, una costrizione della vittima a subire il compimento degli
atti sessuali…”. Tanto viene sostenuto in quanto l’art. 609 bis, come modificato dalla l. 66/1996,
risulterebbe integrato solo da una effettiva strumentalizzazione del potere autoritativo, il cui
esercizio si estrinsechi in una subornazione psicologica tale da costringere la vittima al rapporto
sessuale. Questo orientamento è stato seguito da numerose sentenze 8 , che hanno sottolineato che, ai
fini dell’integrazione della fattispecie, sia necessario che l’agente ricopra una posizione
autoritativa di tipo formale e pubblicistico, di talchè la coercizione al compimento degli atti
sessuali dipende essenzialmente “dall’affidamento del soggetto passivo in ragione del pubblico
ufficio ricoperto dall’agente”. L’opposta tesi invece propone una lettura ben più ampia della
nozione di abuso di autorità, che si spingerebbe fino a ricomprendere “non solo le posizioni
autoritative di tipo pubblicistico, ma anche ogni potere di supremazia di natura privata, di cui
8
Sez. IV, 19 gennaio 2012, n. 6982, dep. 22 febbraio 2012, Rv. 251955 e Sez. III, 19 giugno 2002, n. 32513, dep. 30
settembre 2002, Padova, Rv. 223101.
11
l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali ”9 . Facendo
applicazione di tale paradigma ermeneutico, la giurisprudenza è giunta a ritenere integrata la
fattispecie in esame in numerosi contesti di tipo privatistico, come ad esempio nel caso del datore di
lavoro che abusi della lavoratrice dipendente 10 , dell’imputato convivente che abusi del minore figlio
della propria partner11 , dell’istruttore di arti marziali che compia abusi nei confronti dei propri
allievi minorenni12 , del marito che eserciti un potere di soggezione sulla cognata minore destinataria
degli atti sessuali13 . Tale impostazione ha di certo il pregio di preferire una valutazione di tipo
sostanziale del dato normativo piuttosto che una lettura solo fredda e formale, laddove arriva a
svelare casi di abuso, andando al di là delle etichette che formalizzano ed ufficializzano situazioni
autoritative di fonte pubblicistica e ravvisando le innumerevoli ipotesi aventi i medesimi connotati
in concreto, seppur derivanti da fonti di stampo privatistico.
La Corte ha operato una scelta tra i due orientamenti, propendendo expressis verbis per la seconda
opzione ricostruttiva, ritenuta maggiormente idonea a ricomprendere il variegato panorama di casi
concreti che affiorano nella realtà giudiziaria.
L’argomento giuridico che in primis giustifica la scelta del Supremo Collegio è di tipo letterale e
riposa sulla considerazione che il legislatore ubi voluit dixit, cioè, ove abbia voluto riferirsi ad
una situazione autoritativa di carattere solo pubblicistico, lo ha fatto espressamente. E’ quanto
è avvenuto nell’art. 608 c.p., rubricato Abuso di autorità contro arrestati o detenuti, che stigmatizza
infatti abusi emergenti all’interno di una dimensione autoritativa necessariamente fondata su norme
di diritto pubblico. Sempre sotto il profilo letterale viene segnalato l’art. 61 n. 11 c.p., che sancisce
una circostanza aggravante riconducibile a numerose ipotesi sia di stampo pubblicistico (“abuso di
autorità”), sia di stampo squisitamente privatistico (“di relazioni domestiche, ovvero … di relazioni
d’ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità”), analiticamente evidenziate.
In secondo luogo ha contribuito a condurre alla soluzione ermeneutica scelta un argomento di
natura sistematica, da ravvisare nella avvenuta abrogazione ad opera della l. 66/1996 dell’art.
520 c.p., rubricato Congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico
ufficiale, che puniva esclusivamente l’agente pubblico che realizzasse una congiunzione carnale ai
danni di persone sottoposte alla sua autorità in ragione del suo ufficio. Che la medesima novella
del 1996 all’un tempo determini il venir meno di un illecito a sfondo sessuale proprio del
pubblico ufficiale e introduca, nel reato di nuovo conio ex art. 609 bis c.p., la nozione generica,
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Sez. III, 30 aprile 2014, n. 49990, dep. 1 dicembre 2014, Rv. 261594.
Sez. III, 30 aprile 2014, n. 49990, dep. 1 dicembre 2014, Rv. 261594.
11 Sez. III, 3 dicembre 2008, n. 2119, dep. 20 gennaio 2009, Rv. 242306.
12 Sez. III, 10 aprile 2013, n. 37135, dep. 10 settembre 2013, Rv. 256849.
13 Sez. III, 19 aprile 2012, n. 19419, dep. 22 maggio 2012, Rv. 252768.
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onnicomprensiva e non ulteriormente circostanziata, di abuso di autorità, è dato interpretabile
come una svolta legislativa improntata all’estensione del concetto di autorità, una scelta dal
sapore liberalizzante. Emerge dunque che tale nozione, nella mens del legislatore, non risulta più
essere ristretta entro le rigide e formali maglie del tessuto pubblicistico, ma deve poter
ricomprendere anche le più disparate ipotesi di genesi privatistica che realizzino di fatto quella che
la Corte ha definito la cd. supremazia asimmetrica dell’agente sulla vittima.
c) OSSERVAZIONI FINALI
La pronuncia affronta, in definitiva, tre problemi giuridici, ai quali vengono fornite soluzioni
pienamente condivisibili, che fanno corretta applicazione dei criteri ermeneutici esistenti nel nostro
ordinamento.
Il primo nodo giuridico, come visto, concerne la riconducibilità o meno della figura del
cappellano penitenziario al novero degli incaricati di pubblico servizio. Nel fornire una risposta
positiva, la Corte non si limita ad effettuare una interpretazione di tipo letterale, che si fermerebbe
semplicemente a rilevare l’essenza lato sensu religiosa delle funzioni svolte dal ministro di culto,
ma, attraverso un’ermeneusi di carattere sistematico, che svela il trait d’union tra funzioni
religiose e trattamento penitenziario, giunge a far emergere il tratto pubblicistico della attività
svolta dal sacerdote in carcere.
La quaestio iuris centrale della decisione attiene all’esame del rapporto tra i reati ex art. 609 bis
co. 1 e 319 quater c.p., che il Collegio effettua applicando in modo coerente le già consolidate
acquisizioni giurisprudenziali relative ai due poli di cui si compone il reato di concussione, la cd.
costrizione e la cd. induzione. Le conclusioni a cui i giudici pervengono non sono altro che la
naturale
conseguenza
del
riconoscimento
della
essenziale
diversità
e
della
ontologica
incompatibilità tra l’una e l’altra metodologia operativa. E’ da tale presupposto che la Corte parte
per riconoscere la impossibilità di convivenza tra le due figure e quindi la necessità di dar
prevalenza nel caso de quo all’emersione della costrizione anzicchè dell’induzione e quindi dell’art.
609 bis co. 1 c.p. anzicchè dell’art. 319 quater c.p.
Ultimo dubbio giuridico affrontato è relativo all’identificazione della latitudine semantica del
concetto di abuso di autorità di cui all’ art. 609 bis co. 1 c.p. In tal caso la Corte si lascia guidare
da un criterio ermeneutico di segno sostanziale, giungendo a riconoscere l’ubi consistam del
concetto di autorità prescindendo dalla natura delle fonti normative genetiche di situazioni
autoritative e, quindi, scardinando la limitazione alle sole ipotesi di carattere pubblicistico ed, al
contrario, affermando la rilevanza anche di tutti i possibili casi di genesi privatistica.
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In conclusione la pronuncia della Suprema Corte di Cassazione merita piena condivisione alla luce
del percorso interpretativo seguito, che ha selezionato e fatto applicazione dei più consolidati
orientamenti pretori. Cionondimeno l’importanza della sentenza esaminata va riconosciuta anche
nella misura in cui essa segna una traccia importante nella futura esegesi della fattispecie di cui
all’art.
319
quater
c.p.
Essa
infatti rappresenta
un
notevole
contributo
allo
sviluppo
dell’elaborazione pretoria in ordine all’illecito di concussione per induzione, configurandosi come
un nuovo tassello nel mosaico ermeneutico, ancora in fieri, costruito intorno alla nuova figura di
reato.
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