Emily Dickinson, Poesie

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Emily Dickinson, Poesie
Emily Dickinson
Poesie
La mia ruota è nel buio!
Non vedo neppur uno dei suoi raggi,
Eppure so che il suo passo stillante
Si volge sempre in giro.
Il mio piede è sull'onda!
Strada non frequentata Pure tutte le strade
Portano a una radura.
Alcuni hanno lasciato ormai la spola Nella tomba operosa
Altri fanno un lavoro inconsueto.
Altri con nuova, solenne andatura,
Regalmente oltrepassano il cancello,
Respingendo il problema a voi ed a me!
(c. 1858)
Sono più miti le mattine
E più scure diventano le noci
E le bacche hanno un viso più rotondo,
La rosa non è più nella città.
L'acero indossa una sciarpa più gaia,
E la campagna una gonna scarlatta.
Ed anch'io, per non essere antiquata,
Mi metterò un gioiello.
(c. 1858)
Un sepalo ed un petalo e una spina
In un comune mattino d'estate,
Un fiasco di rugiada, un'ape o due,
Una brezza,
Un frullo in mezzo agli alberi Ed io sono una rosa!
(c. 1858)
Fa' ch'io per te sia l'estate
Quando saran fuggiti i giorni estivi!
La tua musica quando il fanello
Tacerà e il pettirosso!
A fiorire per te saprò sfuggire alla tomba
Riseminando il mio splendore!
E tu coglimi, anemone,
Tuo fiore per l'eterno!
(c. 1858)
Quando conto i semi
Sparsi sottoterra
Che poi fioriranno Quando penso a tanti
Che giacciono là sotto
E che saranno accolti in alto E quando credo nel giardino
Che i mortali non vedono,
Quando colgo i suoi fiori con la fede
E ne scanso le api,
So allora rinunziare a quest'estate
Senza rimpianto.
(c. 1858)
Io non l'ho detto ancora al mio giardino
Per non perdermi d'animo.
E non mi sento ancora tanto forte
Da rivelarlo all'ape.
Non ne farò parola nella strada,
Perfino le botteghe stupirebbero ch'io
Timida ed ignorante come sono,
Abbia l'audacia di morire.
Non devono saperlo le colline
Dove tanto ho vagato,
Né posso dire ai miei boschi diletti
Il giorno dell'addio.
Né mormorarlo a tavola,
Né sventata accennare per la via
Che oggi stesso entrerò
Nel cuore dell'enigma!
(c. 1858)
Se la mia barca sprofondò nel mare,
Se incontrò le tempeste,
Se ad isole incantate
Drizzò docili vele,
Quale mistico ormeggio
Quest'oggi la trattiene,
Ora cerca il mio sguardo
Vagando sulla baia.
(c. 1858)
Più dolce appare il successo
A chi mai lo conobbe.
Apprezza meglio un nèttare
La più crudele arsura.
Nella schiera vermiglia
Che oggi ha conquistato la bandiera
Nessuno così bene
Saprebbe definire la vittoria
Come il soldato sconfitto, morente,
Sul cui orecchio deluso
Lontani inni trionfali
Vanno a infrangersi, chiari e torturanti.
(c. 1859)
Alla parola "fuga"
Mi si accelera il sangue,
Un'improvvisa attesa
Quasi in volo mi tende!
Se apprendo d'ampie carceri
Infrante dai soldati,
Mi aggrappo alle mie sbarre
Come un fanciullo - sempre
Per ricadere vinta!
(c. 1859)
Il vento meridionale li investe,
Giungono calabroni,
Indugiano esitanti,
Bevono e se ne vanno.
Vi sostano farfalle
Nel serico viaggio.
Dolcemente cogliendoli,
Ora qui ve li offro!
(c. 1859)
Vi son cose che volano Uccelli, ore, calabroni:
Non è per queste l'elegia.
Vi son cose che restano Il dolore ed i monti e l'eterno.
Nemmeno queste a me si addicono.
Altre sostano e sorgono.
Posso spiegare i cieli?
Com'è immoto l'enigma!
(c. 1859)
I miei fiori son per i prigionieri,
Occhi velati dalla lunga attesa,
Dita cui fu negato cogliere,
Pazienti fino al Paradiso.
Per questi, se potranno sussurrare
Dell'alba e di brughiere,
Non hanno altro messaggio,
E non ho altra preghiera.
(c. 1859)
Per un istante d'estasi
Noi paghiamo in angoscia
Una misura esatta e trepidante,
Proporzionata all'estasi.
Per un'ora diletta
Compensi amari d'anni,
Centesimi strappati con dolore,
Scrigni pieni di lacrime.
(c. 1859)
L'acqua è insegnata dalla sete.
La terra, dagli oceani traversati.
La gioia, dal dolore.
La pace, dai racconti di battaglia.
L'amore, da un'impronta di memoria.
Gli uccelli, dalla neve.
(c. 1859)
Qualcosa di cambiato nell'aspetto dei monti Una luce splendente che riempie il villaggio Un'aurora più vasta Più profondo il crepuscolo sul prato L'orma di un piede vermiglio Un dito porporino sul pendio Una mosca insolente contro i vetri Un ragno che ritorna al suo lavoro Più maestoso l'incedere del gallo Un'attesa di fiori dappertutto L'ascia che canta stridula nei boschi Odor di felci su vie non battute Queste e altre cose che non posso dire L'aria furtiva che anche voi sapete Ed il mistero di Nicodemo
Ha la sua replica annuale!
(c. 1859)
Perduta quando già ero in salvo!
E già sentivo il mondo ritirarsi!
Mi accingevo all'assalto dell'eterno,
Quando tornò il respiro,
E verso l'altra sponda
Udii ritrarsi la marea delusa!
E sono come un reduce che narri
Strani segreti equatoriali Un marinaio che costeggiò rive lontane
Od un pallido araldo dalle tremende porte
Prima che siano suggellate!
Ma un'altra volta, rimanere!
Un'altra volta, vedere le cose
Che orecchio non udì,
Occhio non vide.
Un'altra volta, sostare
Mentre il tempo furtivo trascorre Lenti e pesanti procedono i secoli
Ed i cicli si compiono.
(c. 1860)
Se più non fossi viva
Quando verranno i pettirossi,
Date a quello con la cravatta rossa
Per ricordo una briciola.
Se non potessi ringraziarvi
Perché immersa nel sonno,
Sappiate che mi sforzo
Con le mie labbra di granito!
(c. 1860)
È poca cosa il pianto,
Sono brevi i sospiri:
Pure, per fatti di questa misura
Uomini e donne muoiono!
(c. 1860)
Un'orrenda tempesta annientò l'aria Erano poche e livide le nubi Un'ombra, come il manto d'uno spettro,
Nascose terra e cielo.
Delle forme ghignavano sui tetti
E sibilavano nell'aria
E scuotevano i pugni, digrignavano i denti,
Agitavano chiome convulse.
Schiarì il mattino, sorsero gli uccelli,
Gli occhi opachi del mostro
Lentamente si volsero alla costa d'origine,
E fu la pace un Paradiso!
(c. 1860)
Lento discendi, o Paradiso!
Labbra a te non avvezze
Timide i tuoi gelsomini delibano,
Come vinta d'ebbrezza
L'ape che tardi il proprio fiore raggiunse
Sussurra intorno al suo talamo,
Conta il nèttare, entra,
Ed è perduta nei balsami.
(c. 1860)
Sicuri nelle stanze d'alabastro,
Dove l'alba e il meriggio non li sfiorano,
Dormono i miti membri della Risurrezione,
Sotto travi di raso, con un tetto di pietra.
Solenni vanno gli anni, di sopra, in curva
schiera,
Mondi compiono ellissi, remano firmamenti,
Cadono le corone e si arrendono i Dogi,
Taciti come bruscoli sopra un disco di neve.
(1861)
Ella spazza con scope iridescenti
E lascia indietro i cirri.
Massaia dell'occidente serale,
Torna a spazzar lo stagno!
Tu vi hai perduto un ordito di porpora,
Tu vi hai perduto un filo d'ambra
Ed hai cosparso poi tutto l'oriente
Di stracci di smeraldo!
E quella adopra le scope screziate
Ed ancora svolazzano grembiuli
Finché le scope piano si dileguino in stelle,
E allora mi allontano.
(c. 1861)
Non può esser l'estate: è già passata È troppo presto per la primavera Bisogna traversare la lunga città bianca
Prima che i merli cantino.
Non può esser la morte - è troppo rossa E i morti vestono di bianco.
E il tramonto mi tronca le domande
In una stretta di crisolito.
(c. 1861)
Mi piace un volto d'agonia
Perché so ch'è sincero.
L'uomo non può contraffare lo spasimo
Né simulare il rantolo.
Gli occhi si fanno vitrei ed è la morte.
Impossibile fingere
Le perle di sudore sulla fronte
Infilate dalla sommessa angoscia.
(c. 1861)
Ho visto un Paradiso come una tenda
Avvolgere i teli lucenti,
Togliere i pali e sparire
Senza rumore d'assi
O martellar di chiodi o falegname,
Ma solo miglia d'attonito sguardo
A indicare la visione che dilegua
Nel Nord America.
Nessuna traccia o segno della cosa
Che ci abbagliava ieri Né anello né prodigio Uomini e fatti inesorabilmente
Spariti, come la lontana
Navigazione degli uccelli
Dà un guizzo di colore,
Uno spruzzo di remi, un'allegria,
Ed è per sempre inghiottita allo sguardo.
(c. 1861)
Fra le mie dita tenevo un gioiello
Quando mi addormentai.
La giornata era calda, era tedioso il vento
E dissi: "Durerà".
Sgridai al risveglio le dita incolpevoli,
La gemma era sparita.
Ora solo un ricordo di ametista
A me rimane.
(c. 1861)
O frenetiche notti!
Se fossi accanto a te,
Queste notti frenetiche sarebbero
La nostra estasi!
Futili i venti
A un cuore in porto:
Ha riposto la bussola,
Ha riposto la carta.
Vogare nell'Eden!
Ah, il mare!
Se potessi ancorarmi
Stanotte in te!
(c. 1861)
Ora sono perduta, ma un tempo fui trovata
E questa sarà ancora la mia estasi:
Davanti a me le porte di diaspro
Si spalancarono un tempo, improvvise,
Sul mio volto stupito e imbarazzato
Gli angeli dolcemente posarono lo sguardo
Mi sfiorarono con le loro ali
Quasi come mi amassero.
Ora sono scacciata - e tu lo sai!
Quanto mi senta in esilio
Anche tu lo saprai quando il volto di Dio
Si volgerà così, da te.
(c. 1861)
V'è un angolo di luce
Nei meriggi invernali
Che opprime come musica
D'austere cattedrali.
Una celeste piaga
Ci dà, senz'altro segno
Che il tramutarsi intimo
D'ogni significato.
Insegnarla è impossibile Il suggello è l'angoscia,
Imperiale afflizione
Discesa a noi dall'aria.
Quando viene, il paesaggio
Ascolta, fino l'ombre
Trattengono il respiro.
E quando va, somiglia alla distanza
Sul volto della morte.
(c. 1861)
Dove navi di porpora oscillan dolcemente
Su mari di giunchiglia,
Dei marinai fantastici si aggirano,
Poi sul molo è silenzio!
(c. 1861)
Sentivo un funerale nella mente,
E andava gente in lutto,
Avanti e indietro, sempre, finché parve
Venir meno ogni senso.
Poi quando tutti furono seduti,
Vi fu un rito che, simile a un tamburo,
Risuonava insistente, ed io credetti
Mi annebbiasse la mente.
Li sentii poi sollevare una bara
E traversarmi, scricchiolando, l'anima
Con quegli stessi stivali ferrati,
Ed allora lo spazio suonò a morto,
Come se il cielo una sola campana
Fosse, ed un solo orecchio la Creazione,
Io e il silenzio una razza forestiera
Quaggiù, come in esilio, naufragata.
Poi un'asse si spezzò nella ragione,
Ed io precipitai sempre più in fondo,
Ad ogni tratto urtando contro un mondo.
Poi non seppi più nulla.
(c. 1861)
Come la luce,
Delizia senza forma E come l'ape,
Melodia senza tempo Come i boschi,
Segreto come brezza
Che, senza frasi, agita
Gli alberi più superbi Come il mattino,
Perfetto sul finire,
Quando orologi immortali
Suonano mezzogiorno!
(c. 1861)
L'anima sceglie i suoi compagni
E poi chiude la porta:
La sua divina maggioranza
Estranei non sopporta.
Impassibile, sente il cocchio che si ferma
Presso il suo umile cancello.
Impassibile, guarda un re prostrarsi
Sul suo tappeto.
So che da tutto il mondo
Può scegliere uno solo:
Chiuder le valve, poi, dell'attenzione
Come fossero pietra.
(c. 1862)
Chi più sofferse la tribolazione
Sarà distinto dalle vesti bianche.
Indicano le vesti colorate
I vincitori di minore grado.
Vinsero tutti - ma chi per più volte
Riportò la vittoria
Ha per vestito la semplice neve,
Per ornamento, solo palme.
Arrendersi è un'azione sconosciuta
In quest'alta regione La sconfitta, un'angoscia superata
Che si ricorda appena, come il miglio
Che il nostro piede affaticato, a stento
Percorse quando il buio divorava la strada,
Ma in un sussurro giungemmo alla casa,
Dicendo solo una parola: "Salvi"!
(c. 1861)
Un uccello discese sul sentiero,
Senza sapere che io l'osservavo.
Spezzò col becco un lombrico
E se lo mangiò crudo.
Bevve un po' di rugiada
Da un opportuno filo d'erba,
Poi saltellò di lato verso il muro,
Cedendo il passo ad uno scarabeo.
Poi volse gli occhi rapido
In frettoloso giro,
E parvero due chicchi spaventati,
Poi mosse il capo di velluto
Come fosse in pericolo. Prudente
Io gli offersi una briciola:
Quello spiegò le penne
E volò verso il nido,
Più labile dei remi che dividono il mare
Troppo argenteo perché vi resti impronta,
O come dalle rive meridiane
Si gettano farfalle, senza suono, nel volo.
(c. 1862)
L'erba ha poco da fare Sfera d'umile verde
Per allevare farfalle
E trastullare api.
Muoversi tutto il giorno
A melodie di brezza,
Tenere in grembo il sole
Ed inchinarsi a tutto.
Infilare rugiada
La notte come perle,
E farsi così bella
Da offuscare duchesse.
Quando muore, svanire
In odori divini
Come dormienti spezie
E amuleti di pino.
Ed abitando nei granai sovrani
I suoi giorni trascorrere nel sogno.
L'erba ha poco da fare
Ed io vorrei esser fieno!
(c. 1862)
Dopo un grande dolore viene un senso solenne,
Stanno composti i nervi, come tombe,
Il cuore irrigidito chiede se proprio lui
Soffrì tanto? Fu ieri o qualche secolo fa?
I piedi vanno attorno come automi
Per un'arida via
Di terra o d'aria o di qualsiasi cosa,
Indifferenti ormai:
Una pace di quarzo, come un sasso.
Questa è l'ora di piombo, e chi le sopravvive
La ricorda come gli assiderati
Rammentano la neve:
Prima il freddo, poi lo stupore, infine
L'inerzia.
(c. 1862)
Verrà infine l'estate:
Dame con l'ombrellino
E signori a passeggio col bastone,
Fanciulle con le bambole,
Coloriranno il pallido paesaggio
Come un festoso mazzolino,
Anche se sprofondato in mezzo al marmo
Appare ora il villaggio.
I lillà che s'intrecciano da anni
Si piegheranno sotto un peso viola.
Non sdegneranno le api la musica
Su cui ronzarono i loro antenati.
E le rose di macchia arrossiranno
Nella palude, l'aster sopra il colle
Riprenderà il suo stile eterno
E le genziane avranno i loro merletti,
Finché l'estate ripieghi il miracolo
Come una donna ripiega la veste
O i sacerdoti ripongono i simboli,
Compiuto il Sacramento.
(c. 1862)
Così l'ottenni,
Lentamente salendo,
Afferrandomi ai rami che sporgevano
Fra me e la beatitudine.
Come pendeva in alto!
Tanto sarebbe valso
Scalare ad arte il cielo.
Ho detto che l'ottenni E fu tutto.
Guarda come la stringo
Perché non cada,
Ed io resti per sempre miserabile,
Resa incapace da un istante di grazia
Di riprender quel volto di quieta mendicante
Che avevo un'ora fa!
(c. 1862)
Mi colpiva ogni giorno Sempre era nuovo il lampo
Come se in quell'istante si spaccasse la nuvola
E sprigionasse il fuoco.
Mi bruciava, la notte,
Mi torturava in sogno,
E di nuovo doleva nel mio sguardo
Ad ogni raggio mattutino.
Credevo passeggeri gli uragani Tanto più brevi quanto più violenti.
Di questo la Natura perse il conto
E lo lasciò nel cielo.
(c. 1862)
Il giorno dopo un lutto
Accade di frequente
Che ogni altro giorno superi
Per assoluta festa Come se la Natura indifferente
Accumulasse fiori
Per ostentare sempre più la gioia
Agli occhi sbigottiti della vittima.
Declamano gli uccelli i loro versi
Staccando ogni parola
Come una martellata. Se sapessero
Che sono litanie di piombo
Che cadono, qua e là, su una creatura,
Cambierebbero questo tripudio
In qualche tono da Crocifissione,
In qualche nota da Calvario!
(c. 1862)
Sempre, come una musica,
Insiste la memoria.
Tamburi dagli spalti immateriali,
Flauti del Paradiso!
Echi di schiere battezzate,
Cadenze troppo grandi,
Che soltanto si addicono agli eletti
Alla destra di Dio.
(c. 1862)
Per la Morte - o piuttosto per le cose
Che la Morte procura Questa persona ha rinunziato
Alle occasioni della Vita.
Le cose che la Morte comprerà
Sono: lo spazio, una liberazione
Dalle circostanze
E un nome.
In quale modo ai doni della Vita
Si confrontino i doni della Morte
Non lo sappiamo Ogni valutazione
Si ferma qui.
(c. 1862)
La morte è stata nella casa di fronte
Nella giornata d'oggi.
Lo capisco dall'aria sbalordita
Che han sempre certe case.
Andirivieni di vicini.
Riparte la carrozza del dottore.
Una finestra s'apre come un seme,
Improvvisa, meccanica,
Qualcuno mette fuori un materasso
E accorrono i bambini,
Chiedendosi curiosi se è morto proprio lì:
Così facevo nella fanciullezza!
Il prete entra solenne
Come se fosse il padrone di casa
E padrone della famiglia in lutto
E anche di tutti i ragazzini.
Poi viene la modista, e vien quell'uomo
Dall'orrendo mestiere
A prender le misure della casa.
Ed a momenti la nera parata
Di nappe e di carrozze sfilerà:
Facile come ad un segnale
È l'intuizione dell'avvenimento
In un paese di campagna.
(c. 1862)
Viene, l'irrevocabile creatura Raggiunge il caseggiato, poi raggiunge la porta,
Sceglie fra tutti un chiavistello,
Entra: "Mi conoscete?"
È semplice il saluto, com'è certo
Il riconoscimento: audace, se nemico,
Laconico, se amico.
E riveste ogni casa di crespo e di ghiaccioli
E un suo abitante reca a Dio.
(c. 1862)
Quanti fiori decadono nel bosco
O periscono dalla collina,
Che non ebbero in sorte di conoscere
Il loro splendore!
E quanti affidano un seme senza nome
A una brezza vicina,
Ignari del dono scarlatto
Che recherà ad altri occhi!
(c. 1862)
Caddero come neve,
Caddero come stelle
O petali di rosa,
Quando improvviso in giugno
Li tocca il vento.
Perirono nell'erba che non ne serba segno L'occhio non trova il luogo Ma Dio con il suo libro irrevocabile
Richiamerà ogni volto.
(c. 1862)
Ora è morto. Ritrovalo: sottratto
Al suono ed alla vista.
"Contento?" Chi è più saggio,
Tu o il vento?
"Consapevole?" Lo domanderesti
A questa terra orizzontale?
"Ebbe rimpianti?" Molti lo incontrarono,
Ma neanche loro possono
Testimoniare:
Anch'essi ormai son muti.
(c. 1862)
È la mia lettera al mondo
Che mai non scrisse a me Semplici annunzi che dà la Natura
Con tenera maestà.
Il suo messaggio è consegnato a mani
Per me invisibili.
Per amor suo, miei dolci compaesani,
Benignamente giudicatemi!
(c. 1862)
Fu questo un poeta - colui che distilla
Un senso sorprendente da ordinari
Significati, essenze così immense
Da specie familiari
Morte alla nostra porta
Che stupore ci assale
Perché non fummo noi
A fermarle per primi.
Rivelatore d'immagini,
È lui, il Poeta,
A condannarci per contrasto
Ad una illimitata povertà.
Della sua parte ignaro,
Tanto che il furto non lo turberebbe,
È per se stesso un tesoro
Inviolabile al tempo.
(c. 1862)
Come occhi che videro deserti
E più non credono a nulla
Che non sia il vuoto e l'ampia solitudine
Variata solo dalla notte,
Un infinito nulla
Fin là dove può spingersi lo sguardo Tale era l'espressione della faccia
Che guardavo, ed io tale le apparivo.
Io non offersi aiuto:
La causa era una sola,
L'angoscia un'alleanza
Disperata e divina.
E nessuna voleva essere assolta
E nessuna regnare
Senza l'altra: per questo noi periamo,
Anche se da regine.
(c. 1862)
Sposa mi troverà il nascente giorno.
Hai tu, aurora, un vessillo per me?
A mezzanotte sono ancora una fanciulla,
Ma come rapide si compiono le nozze!
Allora, o notte, passerò da te
Nell'Est, nella vittoria.
Mezzanotte. "Buonanotte",
Li sento dire.
Un brusìo d'angeli nel vestibolo,
Ed il Futuro dolcemente sale
Alla mia stanza. Io mormoro preghiere
Della mia infanzia tra breve remota.
Eternità, ti raggiungo, Signore:
Maestro, io già conobbi quel volto.
(c. 1862)
Morendo, udivo ronzare una mosca.
Il silenzio d'intorno
Assomigliava al silenzio dell'aria
Fra successive ondate di tempesta.
Gli astanti non avevano più lacrime
E trattenevano il respiro
Per quell'ultimo assalto, quando il Re
Appare nella stanza.
Assegnai i miei ricordi, detti via
Ogni mia cosa che potessi dare E proprio in quel momento
S'interpose una mosca.
Con un azzurro, incerto, tremolante ronzìo,
Fra me e la luce:
E allora le finestre s'empirono di nebbia
Ed io non vidi più.
(c. 1862)
Nessuno sa quanto si estenda
La sua disperazione.
Come per una strada senza mèta
Il viaggiatore avanza
Un solo miglio alla volta,
Senza saper la distanza,
E non si accorge che il sole
Scende sul suo cammino,
Così non sa valutare il dolore
Chi ne è appena all'inizio.
La sua ignoranza è l'angelo
Che gli fa da pilota.
(c. 1862)
È solenne, nell'anima
Sentirsi maturare
E pendere dorati, mentre in alto
Si appoggiano le scale del Creatore,
E sotto, nel frutteto,
Senti cadere un essere.
Meraviglioso sentire che il sole
Lavora ancora sulla guancia
Che credevi finita: ora con uno sguardo
Critico ed imparziale
Sposta un poco lo stelo, per vederti
Meglio nell'intimo.
Ma più solenne di tutto è sapere
Che si avvicina l'ora del raccolto
Anche per te: ogni sole
Per certe vite è l'unico.
(c. 1862)
Se tu venissi in autunno,
Io scaccerei l'estate,
Un po' con un sorriso ed un po' con dispetto,
Come scaccia una mosca la massaia.
Se fra un anno potessi rivederti,
Farei dei mesi altrettanti gomitoli,
Da riporre in cassetti separati,
Per timore che i numeri si fondano.
Fosse l'attesa soltanto di secoli,
Li conterei sulla mano,
Sottraendo fin quando le dita mi cadessero
Nella Terra di Van Diemen.
Fossi certa che dopo questa vita
La tua e la mia venissero,
Io questa getterei come una buccia
E prenderei l'eternità.
Ora ignoro l'ampiezza
Del tempo che intercorre a separarci,
E mi tortura come un'ape fantasma
Che non vuole mostrare il pungiglione.
(c. 1862)
La Bellezza non ha causa:
Esiste.
Inseguila e sparisce.
Non inseguirla e rimane.
Sai afferrare le crespe
Del prato, quando il vento
Vi avvolge le sue dita?
Iddio provvederà
Perché non ti riesca.
(c. 1862)
Dona ai vivi le lacrime
Che spandi sopra i morti:
Uomini e donne si riscalderebbero
Ora al tuo focolare,
Invece d'essere passive creature
Cui l'amore è negato,
Finché esse stesse neghino l'amore
Con l'etereo disprezzo della morte.
(c. 1862)
Partiti per Giudizio
Nel meriggio possente,
Grandi nubi s'inchinano come cerimonieri,
È intenta la Creazione,
Assoggettata la carne, annullata,
Ha inizio l'incorporeo.
Due mondi, come folla, si disperdono
Lasciando sola l'anima.
(c. 1862)
Mio per la legge della candida scelta!
Mio per sigillo regale!
Mio per il segno nella rossa prigione
Che le sbarre non celano!
Mio qui, nella visione e nel divieto!
Mio per l'abrogazione della tomba.
Confermato, intestato,
Delirante contratto!
Mio mentre sfuggono le epoche!
(c. 1862)
Oggi mi sento triste per i morti.
Hanno ore così liete
I vecchi dietro agli steccati.
È la stagione del fieno,
Ed i grossi, abbronzati conoscenti
Si scambiano parole in mezzo alla fatica
E ridono - un razza casalinga
Che rallegra perfino gli steccati.
E sembra duro giacere lontano
Dal rumore dei campi,
Dai carri affaccendati, dai fragranti
Covoni - e il canto di chi falcia
Insinua un'ansia, quasi nostalgia,
Pei contadini con le loro spose,
Allontanati dal lavoro dei campi,
Da tutta l'esistenza dei vicini.
Mi chiedo se la tomba
Non abbia troppa solitudine
Quando uomini e ragazzi con i carri ed il giugno
Vanno nei campi a fare il fieno!
(c. 1862)
Il cuore prima chiede gioia,
Poi assenza di dolore,
Poi gli scialbi anodini
Che attenuano il soffrire,
Poi chiede il sonno, e infine
Se a tanto consentisse
Il suo tremendo Giudice,
Libertà di morire.
(c. 1862)
Tutto imparammo dell'amore Alfabeto, parole,
Un capitolo, il libro possente Poi la rivelazione terminò.
Ma negli occhi dell'altro
Ciascuno contemplava un'ignoranza
Divina, ancora più che nell'infanzia:
L'uno all'altro, fanciulli,
Tentammo di spiegare
Quanto era per entrambi incomprensibile.
Ahi, com'è vasta la saggezza
E molteplice il vero!
(c. 1862)
A me piace vederlo quando lecca le miglia
E inghiottisce le valli
E si ferma a nutrirsi alle cisterne,
Poi, prodigioso, gira
Attorno ad un massiccio di montagne,
Getta occhiate sprezzanti
Nelle capanne ai lati delle strade,
E si scava una tana
Della misura dei suoi fianchi, e striscia
Dentro, sempre lagnandosi
In orrida cadenza sibilante,
E si butta in discesa
Nitrendo come fosse Boanerges,
E puntuale poi come una stella
Si ferma, docile ed onnipotente,
Proprio alla porta della scuderia.
(c. 1862)
Tiene il ragno un gomitolo d'argento
Con due mani invisibili
E in una danza dolce e solitaria
Sdipana il filo di perla.
Di nulla in nulla avanza
Col suo lavoro immateriale.
Ricopre i nostri arazzi con i suoi
Nella metà del tempo.
Gli basta un'ora ad innalzare estreme
Teorie di luce.
Pende poi dalla cima di una scopa,
Dimenticando ogni sua sottigliezza.
(c. 1862)
Di vicinanza ai suoi perduti beni
L'anima sa speciali istanti
Quando l'oscurità sembra uno strappo,
La chiarezza la regola.
Forme che seppellimmo ora si aggirano
In casa, familiari.
Non offuscato dal sepolcro
Il compagno di giochi (adesso polvere)
Torna con la giacchetta che indossava
E lo ha coperto a lungo sottoterra
Dacché, un antico mattino, giocammo,
Fanciulli, separati ora da un mondo.
La tomba rende il suo furto,
Il tempo la sua preda.
Lucenti apparizioni
Con l'ala ci salutano
Come se noi fossimo i morti,
Ed essi rimanessero ad attenderci
Portando essi per noi
Il lutto.
(c. 1862)
Ti vedo meglio al buio,
Non mi occorre altra luce:
L'amore è per me un prisma
Che supera il violetto.
Ti vedo meglio per gli anni
Che s'inarcano in mezzo.
Al minatore basta la sua lampada
Per annullare la miniera.
E ti vedo ancor meglio nella tomba:
Le sue brevi pareti
Si rischiarano, rosse, per la luce
Che così in alto sollevai per te.
A cosa serve il giorno
Per chi nella sua tenebra
Ha un sole così eccelso
Che mai sembra scostarsi
Dal meridiano?
(c. 1862)
Molto inoltrato era il nostro viaggio:
I nostri piedi erano quasi giunti
A quella strana svolta sul cammino dell'essere
Che ha nome Eternità.
Il nostro passo si fece a un tratto timido
Ed i piedi avanzarono esitanti.
Davanti a noi eran città, ma nel mezzo
La foresta dei morti.
Senza speranza di tornare indietro Avevamo alle spalle una via sigillata,
Davanti il bianco vessillo dell'eterno
E Dio ad ogni porta.
(c. 1862)
Rimane oziosa l'anima
Che ha ricevuto un colpo micidiale:
Lo spazio della vita le si stende davanti
Senza nulla da fare.
E vi chiede lavoro Fosse soltanto di appuntare spilli
O di fare il più misero rammendo da bambini Per aiutare le sue mani vuote.
(c. 1862)
Era tardi per l'uomo,
Ma ancora presto per Dio,
Il creato impotente ad aiutarci,
Ma la preghiera ci restava al fianco.
Com'è perfetto il cielo
Quando non si può avere questa terra:
Come appare ospitale allora il volto
Del nostro antico vicino, di Dio!
(c. 1862)
Fu molto lunga la separazione,
Ma venne l'ora dell'incontro:
Davanti al trono di Dio giudicante,
Per la seconda e per l'ultima volta
Questi amanti incorporei s'incontrarono,
Un cielo nello sguardo,
Cielo dei cieli a ognuno il privilegio
Di contemplar gli occhi dell'altro.
Spazio di vita non era fissato
Per loro, erano adorni come i nuovi
Bimbi non ancor nati, ma avevano esperienza
Ed ora rinascevano all'eterno.
Vi furono mai nozze come queste?
Un paradiso li ospitava
E cherubini e serafini furono
I rispettosi invitati.
(c. 1862)
Tu mi lasciasti, mio Re, due retaggi:
Un retaggio d'amore
Che appagherebbe anche il Padre Celeste
Se a Lui venisse offerto,
E mi lasciasti regni di dolore,
Capaci come il mare,
Fra l'eterno ed il tempo,
La tua presenza e me.
(c.1862)
C'è un vuoto nel dolore:
Non si può ricordare
Quando iniziò, se giorno
Ne fu mai libero.
Esso è il proprio futuro
E i suoi infiniti regni
Contengono il passato,
Illuminato a scorgere
Nuove età di dolore.
(c. 1862)
Un uccello è di tutti gli esseri
Il più somigliante all'aurora
Che a un fil di brezza su vasti
Paradisi fluttua.
Si slancia e trepida e vola
Emulando le nubi alla dolce
Andatura lucente. Non sono
Diversi gli uccelli,
Ma in più tutta un'onda di musica
Il loro cammino accompagna
Quasi diffonda melodia l'aurora
Nella sua estasi.
(c. 1862)
Io vivo nella Possibilità,
Una casa più bella della prosa,
Di finestre più adorna
E più superba nelle sue porte.
Ha stanze simili a cedri
Impenetrabili allo sguardo
E per tetto la volta
Perenne del cielo.
L'allietano visite dolcissime.
E la mia vita è questa:
Allargare le mie esili mani
Per accogliervi il Paradiso.
(c. 1862)
Sento nella mia stanza
Un compagno invisibile.
La sua presenza non è confermata
Da gesto o da parola,
Né occorre fargli posto:
È miglior cortesia
L'ospitale intuizione
Della sua compagnia.
La presenza è la sola
Libertà che si prende.
Né io né lui tradiamo
Il patto di silenzio.
Annoiarmi di lui
Sarebbe strano, come
Se la monotonia
Conoscessero gli atomi del vasto
Mondo spaziale.
Non so se in altre case
Entri, se si trattenga
O no, ma per istinto
Io conosco il suo nome,
ed è "Immortalità".
(c. 1863)
Ogni vita converge a qualche centro,
Dichiarato o taciuto.
Esiste in ogni cuore umano
Una mèta
Ch'esso forse osa appena riconoscere,
Troppo bella
Per rischiare l'audacia
Di credervi.
Cautamente adorata come un fragile cielo,
Raggiungerla
Sarebbe impresa disperata come
Toccar la veste dell'arcobaleno.
Ma più sicura quanto più distante
Per chi persevera:
E come alto alla lenta pazienza
Dei santi è il cielo!
Non l'otterrà forse la breve prova
Della vita, ma poi
L'eternità rende ancora possibile
L'ardente slancio.
(c. 1863)
Come se il mare separandosi
Svelasse un altro mare,
Questo un altro, ed i tre
Solo il presagio fossero
D'un infinito di mari
Non visitati da riva Il mare stesso al mare fosse riva Questo è l'eternità.
(c. 1863)
L'incertezza è più ostile della morte.
La morte, anche se vasta,
È soltanto la morte e non può crescere.
All'incertezza invece non v'è limite,
Perisce per risorgere
E morire di nuovo,
È l'unione del Nulla
Con l'Immortalità.
(c. 1863)
Non potevo fermarmi per la Morte.
Essa, benigna, si fermò per me.
Il cocchio conteneva noi due sole
E l'Immortalità.
Era lento (la Morte non ha fretta)
E dovetti riporre
Il mio lavoro ed anche i miei trastulli
Per quella visita.
Passammo oltre la scuola, dove bimbi facevano
La ricreazione, in cerchio,
Ed oltre i campi d'attonito grano
E oltre il sole al tramonto,
O piuttosto fu il sole che passò oltre di noi,
Venne la guazza, tremolante e fredda,
Ché la mia gonna era garza sottile
E la mia mantellina solo tulle.
Sostammo ad una casa che sembrava
Un rigonfio del suolo:
Il suo tetto si distingueva appena,
Per cornicione aveva poche zolle.
Sono passati secoli, ma ognuno
È più breve del giorno
In cui capii che vòlte eran le teste
Dei cavalli verso l'eternità.
(c. 1863)
Se meritassi, in me stessa, la fama,
Ogni altro applauso sarebbe
Superfluo, come incenso
Senza necessità.
Se non la meritassi, anche se fosse
Altissimo per gli altri il nome mio,
Sarebbe un pregio spregevole,
Un futile diadema.
(c. 1863)
Due abissi: dietro a me l'Eternità,
Sotto il mio sguardo l'Immortalità,
Ed io al loro confine La Morte l'ultimo grigiore orientale
Consumato dall'alba
Innanzi che cominci l'Occidente.
Dopo v'è un regno, dicono,
Eterno ed immutabile,
Il cui Re da nessuno trasse origine,
È egli stesso la propria dinastia
Senza data, e se stesso diversifica
In duplicato divino.
Davanti a me il miracolo si estende,
Miracolo alle spalle e mi circonda,
Ed il mare s'inarca,
Con mezzanotte a nord
E mezzanotte a sud,
Mentre in cielo trascorre l'uragano.
(c. 1863)
Abbiamo prima sete - è l'atto di natura E dopo, quando stiamo per morire,
Chiediamo supplichevoli un po' d'acqua
A dita che ci passano vicine.
Ed è figura d'un bisogno più alto
La cui risposta adeguata
Sono le grandi acque occidentali
Chiamate Eternità.
(c. 1863)
Molte volte pensai giunta la pace
Quando la pace era tanto lontana:
Così i naufraghi credono di vedere la terra
Nel centro del mare,
E indeboliti lottano, soltanto per scoprire,
Come me disperati,
Quante rive fittizie
Vengano prima del porto.
(c. 1863)
Da un vuoto all'altro,
In un cammino senza senso,
Muovevo passi meccanici,
Per fermarmi, perire,
O andare avanti,
A tutto indifferente Se giungessi alla fine,
Se di là da ogni fine
L'indefinito si aprisse Chiusi gli occhi e a tentoni
Procedetti ugualmente:
Era meno penoso essere cieca.
(c. 1863)
Il presagio è quell'ombra che si allunga sul
prato,
Indice di tramonti,
Ad avvertire l'erba sbigottita
Che su lei presto scenderà la notte.
(c. 1863)
È gioia solitaria,
Eppure eleva l'anima
Con stupendi richiami,
Remoto sopra il vento
Il canto d'un uccello,
Delizia senza causa,
Incessante e invisibile,
Un'essenza dei cieli.
(c. 1863)
Chi conosce giganti, con uomini minori
È timido, incompleto.
La grandezza è sorgente di disagio
Tra inadeguata compagnia.
Un essere più piccolo non sarebbe turbato.
Il moscerino estivo
Salpa e non sa che la sua sola vela
Non empie tutto il cielo.
(c. 1863)
Quest'è la vista dalla mia finestra:
Un mare su uno stelo.
Se uccelli e contadini lo giudicano un pino,
Per loro può bastare.
Non ha "porto" né "linea", ma ghiandaie
Vi sostano nella celeste rotta
E di là giunge meglio lo scoiattolo
Alla penisola vertiginosa.
Il suo bacino: la terra è al disotto,
Dall'altro lato il sole.
Il suo commercio, se commercio esiste,
È di spezie, lo sento dai profumi.
Della sua voce, se lo invade il vento,
Cosa dirò? Come potrebbe un muto
Definire il divino?
Definizione della melodia
È che non ha definizione.
Suggerisce alla fede, suggerisce alla vista,
E quando questa ormai non sarà più,
Io penserò di avere già incontrato
Quell'Immortalità.
Era il pino alla mia finestra un membro
Del regale Infinito?
L'intuizione è una visita di Dio
E per tale dev'essere venerata.
(c. 1863)
Il tempo sembra così vasto
Che, non vi fosse l'eterno,
Temo che questa sfera
Illuderebbe il mio finito essere,
Escludendo Colui che i rudimenti
Dello spazio ci dà per prepararci
All'ampiezza stupenda
Dei suoi diametri.
(c. 1863)
Questo nonnulla fu amato dall'ape,
Desiderato da farfalle,
Da una celeste, disperata distanza
Ebbe l'approvazione degli uccelli,
Ed abbellì di se stesso il meriggio
E fu l'estate per un gruppo d'esseri
Per cui la sua esistenza era la sola
Prova che avessero di un Universo.
(c. 1863)
Questa polvere quieta fu signori e fu dame
E giovani e fanciulle,
Fu riso, arte e sospiro
E bei vestiti e riccioli.
E questo inerte luogo fu la dimora estiva
Dove api e fiori
Il loro ciclo orientale compirono,
Poi anch'essi ebbero fine.
(c. 1864)
Il vento cominciò a cullare l'erba
Con voce sorda e minacciosa.
Lanciò una sfida alla terra
Ed una sfida al cielo.
Le foglie si staccarono dagli alberi
E tutte si dispersero.
La polvere, curvata come mani,
Buttò via la strada.
I carri si affrettarono per via,
E sopravvenne lento il tuono.
Il lampo ora mostrava un becco giallo,
Ora un artiglio livido.
Tutti gli uccelli sprangarono il nido
E gli armenti fuggirono alle stalle.
Cadde una goccia di pioggia gigante,
Poi, come si fossero disgiunte
Le mani che reggevano le dighe,
Le acque straziarono il cielo,
E tuttavia scansarono la casa di mio padre,
Svellendo solo un albero.
(c. 1864)
Tutto quello ch'io so
È un messaggio ogni giorno
Dall'Immortalità.
Tutto quello ch'io vedo
È il presente e il domani,
Forse l'Eternità.
Ed il solo che incontro
È Dio, la sola strada
L'esistenza. Di là
Da questa, se altre cose
Vi saranno o visioni più mirabili,
Ve lo dirò.
(c. 1864)
Sempre mio!
Non più assenza!
Èra di luce sorta in questo giorno!
Infallibile come la vicenda
Delle stagioni e del sole!
La grazia è antica, ma nuovi gli eletti.
Molto antico è l'oriente, e tuttavia
Nel suo programma purpureo
Ogni aurora è la prima.
(c. 1864)
Io canto per riempire l'attesa:
Annodarmi la cuffia,
Richiudere la porta di casa
E non altro ho da fare,
Finché risuoni vicino il suo passo,
E insieme camminiamo verso il giorno,
L'uno all'altro narrando di come cantammo
Per scacciare la tenebra.
(c. 1864)
Da un'asse all'altra avanzavo
Così lenta, prudente.
Sentivo le stelle sul capo,
E sotto i piedi il mare.
Questo solo sapevo: che un altro
Passo sarebbe stato irrevocabile.
Ed avevo quell'andatura incerta
Che chiamano esperienza.
(c. 1864)
Immensità d'argento
Con funi di sabbia
A trattenerla perché non cancelli
Una pista che chiamano la terra.
(c. 1864)
Quando ho veduto il sole emergere
Dalla meravigliosa sua dimora,
Lasciando il giorno ad ogni soglia
E ad ogni luogo il suo lavoro,
Senza uno strascico di fama
O un'aggiunta di suono,
A me la terra è sembrata un tamburo
Seguito da ragazzi.
(c. 1864)
Fortunato il sepolcro,
Che conquista ogni preda,
Sicuro del successo, anche se in ultimo:
Unico pretendente non deluso.
(c. 1864)
E questa d'ogni mia speranza
È la silenziosa fine.
Sorse tra bei colori il mio mattino Precoce ed arida la fine.
Mai fiore su uno stelo
Si schiuse più gioioso,
Né verme più accanito
Una radice tanto coraggiosa
Ha mai consunto.
(c. 1864)
È un nobile pensiero,
Da levarsi il cappello
Come all'incontro con un gran signore
Sul nostro itinerario quotidiano,
Che per noi esista una dimora immortale,
Anche se le piramidi si sgretolano
E i regni, a somiglianza del frutteto,
Dileguano in un rosso turbinìo.
(c. 1864)
Sempre d'un bene perduto
Mi oppresse il desiderio.
Nel più antico ricordo
Mi fu tolto qualcosa che ignoravo,
Troppo bimba perché altri sospettassero
In me celato il lutto. Tuttavia
Io mi aggiravo come chi lamenta
Nell'esilio un dominio ove regnò.
Oggi più vecchia, più saggia per gli anni E più debole per la mia saggezza Sono ancora sommessamente in cerca
Delle mie regge evanescenti,
Ed ogni tanto il dito del sospetto
Mi passa sulla fronte:
Ch'io stia cercando dalla parte opposta
Solo il regno dei cieli.
(c. 1864)
Morirono a metà dell'estate,
Un tempo pieno e perfetto:
Era l'estate chiusa su se stessa
Nel suo colmo splendore.
Quando l'ultime spighe maturavano
Per essere falciate,
Essi, attraverso la nebbia del sepolcro,
Approdarono nella perfezione.
(c. 1864)
Tutto ho dimenticato perché un solo
Nella memoria trionfi.
E tutto ho abbandonato per un nuovo
Compagno, uno straniero.
Ogni pregio di casta e di fortuna
Trascurai a possedere
Un'ignota dolcezza E chi può la misuri!
Svanì la casa, s'annebbiarono i volti,
Poco divario ebbe per me la natura:
Splendesse il sole o la tempesta infuriasse,
Di nulla mi curavo.
Lasciai cadere il mio destino, timida
Pietruzza nel tuo mare più audace.
E tu chiedimi, amore, se ho rimpianti Mettimi alla prova!
(c. 1864)
È un'angoscia più intensa della gioia,
È il dolore della Risurrezione,
Quando le schiere dal rapito volto
Di là dal nostro dubbio nuovamente
s'incontrino.
È l'estasi violenta che scuoterà la tomba,
Quando il sudario allenterà la stretta
E creature vestite di miracolo
Saliranno a due a due.
(c. 1865)
Una sottile creatura tra l'erba
Talvolta striscia.
Forse la conoscete - ad ogni modo
La comparsa è improvvisa.
L'erba si scosta come sotto un pettine Un guizzo variegato Poi si richiude ai vostri piedi
E s'apre più lontano.
Ama terre palustri,
Un suolo troppo fresco per il grano Ma nell'infanzia, a piedi nudi,
Io spesso nel meriggio
Ho oltrepassato, credevo, una frusta
Che si snodava al sole.
Se mi chinavo a prenderla,
Si torceva e spariva.
Molti conosco nel mondo
Della Natura: conoscono me
E per loro ho uno slancio
Di simpatia,
Ma se incontro quell'essere,
Da sola o in compagnia,
Mi vien sempre l'affanno,
E un gelo nella schiena.
(c. 1865)
Come stanno silenti le campane
Nelle torri, finché, gonfie di cielo,
Balzino con i piedi argentei
In melodia frenetica!
(c. 1865)
Salgo col mio fardello il colle della vita.
Se lo trovo scosceso,
Se lo scoraggiamento mi trattiene
E se l'ultimo passo è già più vecchio
Della speranza che lo suggerì Pure non cada biasimo sul cuore
Che propose e sul cuore che accettò
L'esilio come patria.
(c. 1865)
Esseri come loro sono morti: per questo
Moriamo con maggior rassegnazione.
Ma vissero: per noi questo è certezza
Dell'Immortalità.
(c. 1865)
La primavera ritorna sul mondo.
Guardo l'aprile, che non ha colori
Per me, finché tu venga,
Come prima del giungere dell'ape
Restano inerti i fiori,
Destati all'esistenza da un ronzio.
(c. 1865)
Apri il cancello, Morte!
Entra lo stanco gregge
Di cui più non risuona il belato
E ha termine l'errante cammino.
Tua la notte più quieta,
Tuo il più sicuro ovile.
Troppo vicina ormai per la ricerca,
Troppo dolce tu sei per la parola.
(c. 1865)
Nessuna vita è sferica
Tranne le più ristrette.
Queste son presto colme,
Si svelano e hanno termine.
Le grandi crescono lente,
Dal ramo tardi pendono:
Sono lunghe le estati
Delle Esperidi.
(c. 1866)
Il Paradiso dipende da noi.
Chiunque voglia
Vive nell'Eden, nonostante Adamo
E la cacciata.
(c. 1866)
È basso il cielo, misere le nubi,
Ed un fiocco di neve vagabondo
È incerto se passare
Dal fienile o dal solco delle ruote.
L'esile vento tutto il giorno geme
Per la maniera in cui l'hanno trattato.
Come noi la Natura si fa a volte sorprendere
Senza diadema.
(c. 1866)
Il movimento in una casa
All'indomani di una morte
È solenne fra tutte le faccende
Che si compiono al mondo.
Ora si spazza il cuore,
Si ripone l'affetto
Che non ci serve ormai
Fino all'eternità.
(c. 1866)
Cantava il grillo,
Il sole tramontò
E gli operai finirono, uno ad uno,
La fatica del giorno.
L'erba corta s'intrise di rugiada
E il crepuscolo, come uno straniero
Con il cappello in mano, cortese ed inesperto,
Sostò indeciso se restare o andare.
Venne una vastità, come un amico,
Una saggezza senza volto o nome,
Una pace di sfere in armonia:
Così fu notte.
(c. 1866)
Mi preparo per loro
E cerco il buio finché non sia pronta.
Il lavoro è solenne,
Con una sola e sufficiente dolcezza:
Che una rinunzia come questa mia
Procuri loro un cibo
Più puro, se riesco Se non riesco, avrò avuto lo slancio
Del desiderio.
(c. 1867)
Dopo cento anni
Nessuno più conosce il luogo.
Immota l'agonia che vi si svolse
Come la pace.
Trionfarono le ortiche, e gli stranieri
Vennero a decifrare
L'ortografia remota
Di questi antichi morti
Il vento dell'estate
Riconosce la via:
Poiché l'istinto raccoglie la chiave
Sfuggita alla memoria.
(c. 1869)
Alcuni giorni restano isolati
Dagli altri, in un sommesso spicco:
Il giorno in cui per noi giunse un compagno
O fu costretto a morire.
(c. 1870)
Grandi vie di silenzio conducevano
A paesi di calma.
Non vi erano notizie né discordie
Né universo né leggi.
Gli orologi dicevano il mattino
E campane lontane chiamavano la notte,
Ma il tempo qui non aveva più base,
Era svanita ogni misura.
(c. 1870)
Non conosciamo mai la nostra altezza
Finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito
Arriva al cielo la nostra statura.
L'eroismo che allora recitiamo
Sarebbe quotidiano, se noi stessi
Non c'incurvassimo di cubiti
Per la paura di essere dei re.
(c. 1870)
Sopravvissi, non so come, alla notte,
Entrai nel giorno.
Per esser salvi, basta essere salvi,
Senz'altra formula.
Da allora prendo il mio posto tra i vivi
Come chi, commutata la sua pena,
È candidato alla grazia dell'alba Ma la sua vera dimora è tra i morti.
(c. 1871)
È una curiosa creatura il passato
Ed a guardarlo in viso
Si può approdare all'estasi
O alla disperazione.
Se qualcuno l'incontra disarmato,
Presto, gli grido, fuggi!
Quelle sue munizioni arrugginite
Possono ancora uccidere!
(c. 1871)
Il mare disse "Vieni" al ruscello.
Disse il ruscello: "Lasciami crescere!"
E il mare: "Allora tu saresti un mare
Ed io voglio un ruscello. Vieni ora!"
(c. 1872)
La sua intima ora
Lo spirito non svela.
Che pànico avverrebbe nella via
Se qualche volto tradisse
Il peso sotterraneo,
Le cantine dell'anima.
Lode a Dio, che la cosa più esplosiva che fece
Ha il permesso di starsene in silenzio!
(c. 1872)
Sembrava pioggia finché non svoltava,
Ed allora capivo che era vento:
Umido nel passaggio come un'onda,
Ma s'impennava secco come sabbia.
E quando poi si fu spinto lontano,
Verso qualche pianura più remota,
Venne un galoppo come schiere armate,
E questa era la pioggia.
Riempiva i pozzi, allietava gli stagni,
Trillava per la via,
Tolse lo zipolo ai monti
Liberando i torrenti,
Allagò i campi, rigonfiò le acque
Spostando tutti i centri Poi si alzò come Elia
Nel vortice di nubi.
(c. 1872)
Ciò che temevo venne,
Ma meno spaventoso,
Perché il lungo timore
L'aveva quasi abbellito.
Ci si abitua all'angoscia,
Alla disperazione.
Peggio saper che viene
Che saperla presente.
Chi indossa la sua pena
Il mattino che è nuova
Soffre più che a portarla
Un'intera esistenza.
(c. 1873)
Nessuno resta defraudato dal Cielo.
Anche se il Cielo sembra un ladro, rende
In qualche dolce modo, occultamente,
Secondo che decide il suo volere.
(c. 1874)
Quella breve, potente sensazione
Che ognuno crea una sola volta,
L'attenzione solenne
Che quasi conferisce un'importanza,
È il lustro della morte.
O ignota risonanza
Che nessun mendicante accetterebbe
Se potesse evitarla!
(c. 1874)
La sua dimora nello stagno
Il ranocchio abbandona.
Sopra un pezzo di legno
Sale a fare un discorso.
Lo ascoltano due mondi
Senza contare me.
L'oratore di aprile
Quest'oggi è rauco.
Ha mezzi guanti ai piedi,
Visto che non ha mani.
La sua eloquenza è tutta bolle d'aria
Come la gloria umana.
Se applaudisci ti accorgi
Con dispiacere
Che Demostene già si è dileguato
Nelle acque verdi.
(c. 1876)
Il vuoto di lunghi anni di distanza
Può un attimo colmare,
Poiché l'assenza del mago non rompe
L'incantesimo.
Ceneri di mill'anni,
Scoperte dalla mano
Che le nutriva quand'erano fuoco,
Arderanno di nuovo, e intenderanno.
(c. 1876)
Marzo: mese di attesa.
Le cose che ignoriamo
E le persone del nostro presagio
Sono in cammino.
Ci sforziamo di fingere fermezza
Come si deve, ma la gioia solenne
Ci tradisce, così come tradisce
Il giovinetto appena fidanzato.
(c. 1877)
L'acqua fa molti letti
Per chi non vuol dormire.
La terribile camera sta aperta
E le sue tende oscillano,
Ed è orrendo il riposo
Nelle stanze ondeggianti,
Il cui spazio non violano orologi
Né mai vi giunge il sussurro dell'alba.
(c. 1877)
Non accostarti troppo alla dimora di una rosa:
Se una brezza le preda
O rugiada le inonda
Cadono con timore le sue mura.
E non voler legare la farfalla
O scalare le sbarre dell'estasi.
Garanzia della gioia
È il suo rischio perenne.
(c. 1878)
Questi giorni febbrili condurli alla foresta
Dove le fresche acque strisciano intorno al
muschio
E l'ombra sola devasta il silenzio:
Pare talvolta che questo sia tutto.
(c. 1878)
Non sappiamo di andare quando andiamo.
Noi scherziamo nel chiudere la porta.
Dietro, il Destino mette il catenaccio
E non entriamo più.
(c. 1881)
Quella vita che fu tenuta a freno
Troppo stretta e si libera,
Correrà poi per sempre, con un cauto
Sguardo indietro e paura delle briglie.
Il cavallo che fiuta l'erba viva
E a cui sorride il pascolo
Sarà ripreso solo a fucilate,
Se si potrà riprenderlo.
(c. 1881)
Il vento venne come un suono di bùccina:
Vibrò nell'erba
Ed un brivido verde nell'arsura
Passò così sinistro
Che noi sprangammo ogni finestra e porta
Fuggendo quello spettro di smeraldo.
L'elettrico serpente del Giudizio
Guizzò allo stesso istante.
Strana folla di alberi affannati
E di steccati in fuga
E fiumi in cui correvano le case
Videro allora i vivi.
Dalla torre, impazzita la campana
Turbinava per un veloce annunzio.
Quante mai cose possono venire
E quante andare
Senza che il mondo finisca!
(c. 1883)
Tutti coloro che perdiamo qualcosa ci tolgono.
Resta ancora uno spicchio sottile
Che come luna, qualche torbida notte,
Obbedirà al richiamo delle maree.
(c. 1883)
È un errore di calcolo:
"Vien poi l'Eternità"
Diciamo, come fosse una stazione.
Mentre è tanto vicina
Che mi accompagna nella passeggiata
E condivide la mia casa
Ed amico non ho più pertinace
Di questa Eternità.
(non databile)
L'irraggiungibilità
Di chi ha compiuto la morte
È per me più maestosa
D'ogni maestà della terra.
L'anima scrive "Non in casa"
Sopra la carne
E si avvia col suo dolce passo etereo
Dove non è speranza di toccarla.
(non databile)
Ha una sua solitudine lo spazio,
Solitudine il mare
E solitudine la morte - eppure
Tutte queste son folla
In confronto a quel punto più profondo,
Segretezza polare,
Che è un'anima al cospetto di se stessa:
Infinità finita.
(non databile)
Stamani ed anche nel meriggio
Era così vicina
Che quasi la toccavo.
Stanotte giace
Di là da ogni vicinanza
Di là dagli alberi, dal campanile
E di là da ogni nostra congettura.
(non databile)
Annegare non è così penoso
Come quel tentativo di riemergere.
Dicono che tre volte chi sprofonda
Torna a vedere il cielo,
Poi discende per sempre
All'odiata dimora
Dove da lui dilegua la speranza
Perché Dio se lo prende.
Ed il volto cordiale del Creatore,
Per quanto bello a vedersi,
È schivato, bisogna riconoscerlo,
Come un'avversità.
(non databile)
Bevvi una sola sorsata di vita.
Vi dirò quanto la pagai:
Precisamente un'esistenza.
È questo il prezzo sul mercato, dicono.
Mi pesaron, granello per granello
E bilanciarono fibra con fibra.
Poi mi porsero il prezzo del mio essere:
Un solo sorso di cielo.
(non databile)
È l'immortalità forse un veleno
Che gli uomini ne sono così oppressi?
(non databile)
Finì due volte prima della fine
La mia vita; rimane da vedere
Se a me riveli l'Immortalità
Ancora un terzo evento
Immenso e disperato a concepire
Come i due che in passato mi toccarono.
Separazione è quanto noi sappiamo del cielo
Ed è quanto ci occorre dell'inferno.
(non databile)
Quanto lontano sono andati i morti
Dapprima non vediamo,
E ci sembra possibile un ritorno
Durante lunghi anni appassionati.
E poi abbiamo il sospetto, o la certezza,
Di averli già seguiti,
Da tale intimità siamo legati
All'amato ricordo.
(non databile)
La folla dentro il cuore
Nessuna polizia potrà disperdere.
La sommossa vi è lecita
Come la pace.
Non l'accerta la vista
Né l'attesta alcun suono:
Cresce, però, come un ciclone
Nel suo clima natìo.
(non databile)
Per fare un prato occorrono un trifoglio ed
un'ape Un trifoglio ed un'ape
E il sogno.
Il sogno può bastare
Se le api sono poche.
(non databile)
Dove ogni uccello osa andare
E api giocano senza timore,
Ogni straniero, prima di varcare la soglia,
Deve da sé allontanare le lacrime.
(non databile)
Non è più lontano l'Elisio
Della contigua stanza
Se in quella attende l'amato
Felicità o condanna.
Quale fortezza l'anima possiede
Perché così sopporti
Un passo che vicino risuona,
L'aprirsi di una porta!
(c. 1882)