Cenni storici sulla Campagna di Russia

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Cenni storici sulla Campagna di Russia
Cenni storici sulla Campagna di Russia
Quello che segue è il racconto sintetico dei principali fatti accaduti durante la Campagna di Russia, per meglio
inquadrare le vicende storiche che videro protagonisti i nostri alpini. Non ha nessuna pretesa di completezza: per
approfondire l’argomento si possono leggere i libri consultati per scrivere questo pezzo, che si trovano nella
bibliografia a fondo pagina e per comprendere i fatti drammatici e le sofferenze patite dagli alpini in Russia si
rimanda alla lettura della ricca memorialistica sull’argomento, che in parte si trova sempre nelle note
bibliografiche a fondo pagina.
Dal C.S.I.R. all’ARM.I.R.
Quando la Germania dichiarò guerra all’Unione Sovietica, Mussolini, nonostante il parere contrario di Hitler, decise
che l’Italia non poteva essere estranea all’operazione “Barbarossa” ed ordinò quindi l’allestimento di un Corpo di
Spedizione Italiano in Russia (C.S.I.R.) costituito dalle Divisioni di fanteria autotrasportabile Pasubio e Torino, la 3a
Divisione Principe Amedeo d’Aosta detta “Celere” (formata da Bersaglieri e dalla Cavalleria) e dalla Legione Camicie
Nere Tagliamento, al comando del generale Giovanni Messe, forte di 62.000 uomini e di cui inizialmente non
facevano parte unità alpine. Il C.S.I.R., che era posto alle dipendenze della 11a Armata Tedesca, iniziò la partenza
dall’Italia il 10 luglio 1941 via ferrovia verso l’Ungheria, giunse nella Moldavia romena il 5 agosto e da lì venne fatto
proseguire con i propri mezzi verso le zone di radunata. Ai primi di ottobre, avanzò combattendo sino al bacino
minerario del Donez, zona dell’Ucraina tra i fiumi Dniestr e Don a sud di Kiev. A metà novembre 1941
conquistarono gli importanti centri di Stalino, Nikitovka, Gorlovka e Rikovo. Il 21 febbraio 1942 giunse in Russia il
primo reparto alpino: il battaglione alpini sciatori Monte Cervino. Visto il buon comportamento del C.S.I.R., su
richiesta dell’alto comando tedesco, Mussolini decise il potenziamento della presenza italiana in Russia. Il 1°
maggio 1942 venne costituita l’8a Armata italiana, l’ossatura dell’Armata Italiana in Russia (ARM.I.R.) ed il comando
venne assunto dal Generale Gariboldi, con una forza di 230.000 uomini. Sotto la denominazione ARM.I.R. furono
comprese tutte le unità italiane operanti sul fronte russo, comprese unità aeronautiche e marittime, invece l’8a
Armata italiana fu una ben definita ed organica unità operativa dislocata sul fronte del Don. L’organico prevedeva,
oltre alle Divisioni già inquadrate nel C.S.I.R., che assunse il nome di XXXV Corpo d’Armata, le Divisioni Sforzesca,
Ravenna, Cosseria e il Raggruppamento CC.NN. "23 Marzo" con i Gruppi Leonessa e Valle Scrivia, inquadrati nel II
Corpo d’Armata e le Divisioni Julia, Cuneense e Tridentina, costituenti il Corpo d’Armata Alpino, inizialmente
destinato ad operare sulle montagne del Caucaso. A queste forze si sarebbe poi aggiunta la Divisione Vicenza,
formata da due soli reggimenti di fanteria, con compiti di presidio nei territori occupati.
Il Corpo d’Armata Alpino
La partenza del Corpo d’Armata Alpino per il fronte russo incominciò alla metà di luglio del 1942. Il 17 luglio
lasciavano Trento il generale Gabriele Nasci, comandante del Corpo d’Armata Alpino e lo stato maggiore della
grande unità, per un totale di 57.000 uomini, 15.000 quadrupedi (per lo più muli) e un migliaio di automezzi. A
fine luglio giunsero a Nowo Gorlowka e il 15 agosto cominciò il trasferimento verso il loro obiettivo, la zona
montagnosa il Caucaso, alle dipendenze della 17a Armata tedesca. Mentre la grande unità alpina effettuava il
trasferimento verso il Caucaso, a sorpresa il 19 agosto giunse l’ordine di invertire la marcia e di passare alle
dipendenze dell’8a Armata italiana e di raggiungere il fronte del Don, ove il nemico nel settore del XXXV C. d’A. (ex
C.S.I.R.), nel tratto presidiato dalla Sforzesca aveva rotto la linea di difesa penetrando in profondità nella direzione
di Kotovskij-Bolshoj. A tamponare la falla fu mandata la Tridentina con il 5° e 6° alpini e il 1° settembre i Battaglioni
Vestone e Val Chiese ricevettero il battesimo del fuoco. Tamponata la falla si compiono opere di rafforzamento
della linea. Sempre a settembre la Cuneense e la Julia furono dislocate lungo il Don a nord di Kalitwa, prendendo il
posto di alcuni reparti tedeschi. Il 9 ottobre la Tridentina lasciò il suo settore alla 9a Divisione Romena per spostarsi
di 400 km, dall’estrema ala destra all’estrema ala sinistra fino a Porgonoje, che raggiunse il giorno 30 ottobre.
Il fronte del Don
Nell’inverno del 1942, l’8a Armata italiana era schierata lungo il corso del fiume Don da Babka, limite nord del
settore, a Vescenskaja a sud, dove si trovava la 3a Armata Romena. A nord, l’Armata Italiana era collegata con la 2a
Armata ungherese. Il suo fronte si snodava lungo il fiume Don per 270 chilometri.
Gli alpini, con il tradizionale ingegno, nei mesi autunnali
avevano lavorato duramente per rafforzare le loro
posizioni sulla riva destra del Don, in modo da renderle
adatte ad affrontare il durissimo inverno ed il potente
nemico. Fino a metà dicembre, sui 70 chilometri di fronte
tenuto dagli alpini (la zona più a nord dell’8a Armata
italiana), non si ebbero combattimenti di rilievo. Il 15
dicembre, con un potenziale d’urto sei volte superiore a
quello delle nostre Divisioni (basti pensare che
impiegarono 750 carri armati e noi non avevamo né carri,
né efficienti armi controcarro), i Russi dilagarono nelle
retrovie accerchiando le Divisioni Pasubio, Torino, Celere e
Sforzesca schierate più ad Est. Esse dovettero sganciarsi
dalle posizioni sul Don, iniziando quella terribile ritirata
che, su un terreno ormai completamente in mano al
nemico, le avrebbe in gran parte annientate con una
Sentinella del Vestone sul Don
perdita di circa 55.000 uomini tra Caduti e prigionieri.
L’accerchiamento
Mentre le Divisioni della Fanteria si stavano ritirando, il Corpo d’Armata Alpino ricevette l’ordine di rimanere sulle
posizioni a difesa del Don per non essere a sua volta circondato. A difesa del suo fianco destro, in corrispondenza
del settore della Cosseria ormai completamente scoperto, venne spostata la Divisione Julia, il cui posto tra la
Tridentina e la Cuneense venne preso dalla Divisione di fanteria Vicenza. Da metà dicembre le Penne Nere della
Julia per un mese (fino al 7 gennaio 1943) combatterono disperatamente in campo aperto e senza ripari adeguati,
superando di gran lunga ogni credibile limite di resistenza umana, sacrificando i loro reparti per fermare e
contenere la spinta poderosa e violentissima dei Russi sostenuti dall’alleato inverno.
Il bollettino di guerra del comando tedesco del 29 dicembre 1942 diede ampio ed espresso elogio alla Julia
riconoscendo il valore degli alpini: “Sul fronte del medio Don si è particolarmente distinta la Divisione Alpina
Julia”.
Il 13 gennaio i Russi partirono per la terza fase della loro grande offensiva invernale e, senza spezzare il fronte
tenuto dagli alpini, ma infrangendo contemporaneamente quello degli Ungheresi a Nord e quello dei Tedeschi a
Sud, con una manovra a tenaglia, riuscirono a racchiudere il Corpo d’Armata Alpino in una vasta e profonda sacca.
Il ripiegamento
avanti alla possibile catastrofe rimaneva un’unica
alternativa: il ripiegamento immediato. La sera del 17
gennaio 1943, su ordine del generale Gabriele Nasci, ebbe
inizio il ripiegamento dell’intero Corpo d’Armata Alpino di
cui la sola Divisione Tridentina era ancora efficiente, quasi
intatta in uomini, armi e materiali. Ad essa fu affidato il
duro compito di rompere l’accerchiamento e ritrovare la
via per l’Italia, mentre la Cuneense, la Julia e la Vicenza
furono praticamente distrutte e dopo 100 chilometri di
ritirata i comandanti e gli altri alpini superstiti furono
catturati nei pressi di Waluiki il 27 gennaio.
Ad assumere il comando dell’avanguardia della colonna in
Alpini in ripiegamento a Sebekino
ritirata fu chiamato il comandante della Tridentina,
Generale Reverberi. L’avanguardia era costituita dal 6° Rgt. Alpini, con il Battaglione Val Chiese come reparto di
testa, il Vestone e il Gruppo Bergamo e quattro semoventi
tedeschi.
La marcia del Corpo d’Armata Alpino verso la salvezza fu
un evento drammatico, doloroso ed allucinante, costellato
da innumerevoli episodi di valore, di grande solidarietà, in
cui circa 40.000 uomini si batterono disperatamente,
senza sosta, per 15 interminabili giorni e per 200
chilometri.
Frattanto la colonna si ingrossava via via, allungandosi
fino a 40 chilometri, inglobando reparti sbandati di ogni
specie: Ungheresi, Tedeschi, fanti della Divisione Vicenza,
tutti reduci dai tratti di fronte.
Postojalyi, Opyt, Skororyb, Nowo Carkowka, Lymarewka,
Sceliyakino,
Nikitowka,
Malakjewa,
Warwarowka,
Arnautowo non costituiscono soltanto le tappe di un duro
Alpini in ripiegamento
calvario,
ma
contrassegnano altrettanti
durissimi
combattimenti, ognuno dei quali ebbe un valore decisivo, poiché ogni volta infranse successivi sbarramenti
organizzati dal nemico per fermare la ritirata delle nostre unità.
La battaglia di Nikolajewka
Fu così che dopo 200 chilometri di ripiegamento a piedi e con pochi muli e slitte, sempre aspramente contrastati
dai reparti nemici e dai partigiani sovietici, il mattino del 26 gennaio 1943 gli alpini della Tridentina, alla testa di
una colonna di 40.000 uomini quasi tutti disarmati e in parte congelati, giunsero davanti a Nikolajewka. Forti del
tradizionale spirito di corpo gli alpini del generale Reverberi, dopo una giornata di lotta, espugnarono a colpi di
fucile e bombe a mano il paese annientando gli agguerriti difensori annidati nelle case.
Per dare il colpo mortale al nemico in ritirata, i Russi si erano trincerati fra le case del paese che sorge su una
modesta collinetta, protetti da un terrapieno della ferrovia che correva pressoché attorno all’abitato e che costituiva
un’ottima protezione per il nemico. Le forze sovietiche che sbarravano il passo agli alpini ammontavano a circa una
divisione.
Verso le ore 9.30 venne ordinato di attaccare.
In un primo tempo si lanciarono all’assalto gli alpini superstiti del Verona, del Val Chiese, del Vestone e del II
Battaglione misto genio della Tridentina, appoggiati dal fuoco del gruppo artiglieria Bergamo e da tre semoventi
tedeschi.
La ferrovia, dopo sanguinosi scontri, fu raggiunta; in più punti gli
alpini riuscirono a salire la contro scarpata ed a raggiungere le
prime isbe dell’abitato dove sistemarono immediatamente le
mitragliatrici, ma le perdite furono gravissime per il violento fuoco
dei Russi.
Nonostante le sanguinose perdite, gli alpini continuarono a
combattere con accanimento: fu un susseguirsi di assalti e
contrassalti portati di casa in casa; venne conquistata la stazione
ferroviaria e un plotone del Val Chiese riuscì ad arrivare alla chiesa.
La reazione russa fu violentissima: gli alpini furono costretti ad
arretrare e ad abbarbicarsi al terreno in attesa di rinforzi.
Verso mezzogiorno giunsero in rinforzo i resti del battaglione Edolo,
del Morbegno e del Tirano, i gruppi di artiglieria Vicenza e Val
Camonica ed altre modeste aliquote di reparti della Julia col
Battaglione L’Aquila: anch’essi vennero inviati nel cuore della battaglia.
Il nemico, appoggiato anche dagli aerei che mitragliavano a bassa quota,
opponeva una strenua resistenza. Sul campanile della chiesa c’era una
mitragliatrice che faceva strage di alpini. La neve era tinta di rosso: su di
essa giacevano senza vita migliaia di alpini e moltissimi feriti.
Nonostante gli innumerevoli atti di valore personale di ufficiali, sottufficiali e soldati, spinti sino al cosciente
sacrificio della propria vita, la resistenza era ancora attivissima e l’esito della battaglia era non del tutto scontato.La
situazione si faceva sempre più tragica perché il sole incominciava a scendere sull’orizzonte ed era evidente che
una permanenza all’addiaccio nelle ore notturne, con temperature di 30-35 gradi sotto lo zero, avrebbe significato
per tutti l’assideramento e la morte.
Quando ormai stavano calando le prime ombre della sera e sembrava che non ci fosse più niente da fare per
rompere l’accerchiamento, il generale Reverberi, comandante della Tridentina, saliva su un semovente tedesco e,
incurante della violenta reazione nemica, al
grido di “Tridentina avanti!” trascinava i suoi
alpini all’assalto.
Il grido rimbalzò di schiera in schiera, passò
sulle labbra da un alpino all’altro, scosse la
massa enorme degli sbandati che, come una
valanga, assieme ai combattenti ancora validi,
si
lanciarono urlando verso il sottopassaggio e
la scarpata della ferrovia, la superarono
travolgendo la linea di resistenza sovietica.
I Russi sorpresi dalla rapidità dell’azione
dovettero ripiegare abbandonando sul terreno
i loro caduti, le armi ed i materiali.
Il prezzo pagato dagli alpini fu enorme: dopo
la battaglia rimasero sul terreno migliaia di
caduti. Tutti gli alpini, senza distinzione di
grado e di origine, diedero un esempio di
coraggio, di spirito di sacrificio e di alto senso
del dovere.
Il cammello del Val Chiese
con l’alpino Giovan Battista Bignotti di Sopraponte
In salvo
Dopo Nikolajewka la marcia degli alpini proseguì fino a Bolscke Troskoye e a Awilowka, dove giunsero al 30
gennaio e furono finalmente in salvo, poterono alloggiare e ricevere i primi aiuti. Il 31 con il passaggio delle
consegne ai Tedeschi termina ogni attività operativa sul fronte russo.
Fino al 2 febbraio continuarono ad arrivare i resti dei reparti in ritirata. I feriti gravi vennero avviati ai vari ospedali,
poi a Schebekino alcuni furono caricati su un treno ospedale per il rimpatrio.
La colonna della Tridentina riprese la marcia il 2 febbraio per giungere a Gomel il 1° marzo. Gli alpini percorsero a
piedi 700 km e solamente alcuni nell’ultimo tratto poterono usufruire del trasporto in ferrovia.
Il rimpatrio
Il 6 marzo 1943 cominciarono a partire da Gomel le tradotte che riportavano in Italia i superstiti del Corpo
d’Armata Alpino; il giorno 15 partì l’ultimo convoglio e il 24 tutti furono in Patria.
Mentre per il trasporto in Russia del Corpo d’Armata alpino erano stati necessari 200 treni, per il ritorno ne
bastarono 17. Sono cifre eloquenti, ma ancor più lo sono quelle dei superstiti: considerando che ciascuna divisione
era costituita da circa 16.000 uomini, i superstiti risultarono 6.400 della Tridentina, 3.300 della Julia e 1.300 della
Cuneense.
Hanno detto...
Il Gen. Luigi Reverberi, nel discorso pronunciato all’Adunata della Tridentina, svolta a Gavardo il 26-27 ottobre
1946, pubblicato sul giornale “Monte Suello” n. 5 dell’agosto 1996:
“[...] Dal 17 gennaio 1943, ebbe inizio, o Alpini, l’Impresa che vi ha imposto alla ammirazione del Mondo, perché
compiuta in circostanze così spaventosamente avverse che nessuna mente, per quanto ottimista, avrebbe potuto
presagirne la felice soluzione. [...] Si videro in questa tragica odissea, che durò per oltre 15 giorni, i più generosi
esempi di cameratismo: alpini che si caricavano del carico dei compagni più stanchi; alpini che portavano barelle
con feriti ed ammalati; alpini che sostituivano i quadrupedi nel traino delle slitte. [...]
11 accerchiamenti spezzati, 14 battaglie combattute e vinte in una steppa desolata che non offriva alcun
conforto, con una temperatura assiderante che alle volte ha raggiunto i 40 gradi sotto zero, sono le poste che il
destino aveva messo al nostro riscatto. [...] Ma la sorte avversa vuole ancora chiudere questi soldati in un cerchio di
ferro e fuoco per farla finita, per stendere un nero sudario sulla grande vicenda. Eccoci alla memorabile giornata di
Nikolajewka: martirio e gloria della “Tridentina”. É questa la giornata degli eroismi più fulgidi: è questa la giornata
che pur pagandolo a carissimo prezzo i reparti della “Tridentina” acquistano il maggior titolo di gloria. [...]
E qui consentite a questo vecchio soldato, giunto ormai al fine della sua vita militare, di dirvi come mai egli abbia
tanto amato come in quel giorno; come mai egli abbia tanto ringraziato il destino, come in quel giorno, nel quale ha
potuto darvi prova della sua grande passione alpina.[...]
Allora il vostro generale, divenuto solo e semplicemente il Padre dei Suoi Alpini, vi ha guardato negli occhi; ha visto
il vostro scoramento davanti all’impossibile ed ha offerto a Dio la sua vita, perché voi foste salvi; e nel preciso
intendimento di compiere il suo ultimo dovere verso di voi, che già tante prove di affetto gli avevate dato, partì solo,
avanti a tutti, fidente che Iddio avrebbe accolto il suo sacrificio per la vostra salvezza: e la lotta fu ripresa con
rinnovata energia e la vittoria fu nostra e davanti a noi fu aperta finalmente la via del ritorno. Non ho mai parlato
con alcuno di questo episodio che pure è noto; perché certi ricordi si conservano gelosamente custoditi nel cuore;
ma oggi qui, a solo a solo con voi, che potete comprendermi, alla vigilia di lasciare volontariamente l’Esercito dopo
tanti anni di servizio, ho voluto dirvi quale è il più grande orgoglio, che porto con me e che servirà a rendere meno
doloroso il distacco da quella divisa che ho vestito per 35 anni e, ritengo, senza mai venir meno alle leggi dell’onore
militare e civile”.
Giulio Bedeschi nel libro “Il natale degli Alpini”:
“La battaglia di Nikolajewka fu una limpida vittoria dello spirito, sorta fra gli orrori della più spietata lotta fra gli
uomini. Molti alpini caddero sull’altare del sacrificio per dare la possibilità ad altri di vivere e di trovare aperta la
via verso la Patria e la casa”.
Don Carlo Gnocchi (1902-1956) è stato il Cappellano della Tridentina in Russia. Alla fine della guerra fondò l’opera
“Pro infanzia mutilata”, che nel 1952 prese il nome di “Pro Juventute”. L’ultimo suo gesto profetico fu la donazione
delle cornee a due ragazzi non vedenti, quando in Italia il trapianto di organi non era ancora disciplinato da
apposite leggi; questo gesto diede un’accelerazione al dibattito sui trapianti e dopo poche settimana fu varata una
legge ad hoc. È stato dichiarato Venerabile da Papa Giovanni Paolo II nel 2002 ed è in corso la Causa di
beatificazione.
Così si espresse nel suo libro “Cristo con gli alpini”:
“Nella storia di questa valanga di uomini che cozza undici volte contro la ferrea parete della sua prigionia e la
sfonda, è difficile raccogliere episodi individuali. Tutti hanno dato fino all’estenuazione, fino all’eroismo.
L’Artiglieria che più volte ha difeso i pezzi a corpo a corpo, gli alpini che hanno scalato i carri armati, forzandone
col moschetto la torretta per gettarvi dentro le ultime bombe a mano, i congelati, i feriti che si sono strascinati per
giorni lungo le piste, qualche volta a carponi, per non cadere nelle mani del nemico, i genieri che sono andati
all’attacco snidando il nemico casa per casa, gli addetti ai servizi e gli scritturali che hanno gareggiato in dedizione
coi combattenti, tutti, dall’ultimo alpino fino al Generale Comandante, che dopo aver sempre marciato con
l’avanguardia, in una giornata decisiva, si è messo in testa alla Divisione portandola alla vittoria ed alla libertà,
mentre interno a lui cadevano quaranta ufficiali ed un Generale, tutti hanno compiuto opera veramente
sovrumana.
Dio fu con loro, ma gli uomini furono degni di Dio. Sì perché avevano quella fede che li ha fatti diventare eroi;
l’amore per la Patria e per la famiglia, fede che diventa sempre più grande quanto più il gelo di una natura ostile,
l’aggressione ossessionante di una terra nemica senza orizzonti e senza mète si accanivano contro di loro e quando
le forze stavano per crollare, la visione dell’Italia, della famiglia lontana, era per loro una luce che li rendeva
disperatamente decisi a raggiungerla.
Solo uomini che possiedono così forte questa fede possono aver fatto quello che hanno fatto per cercare di uscire
dal cancello dell’eternità”.
Il tenente Luciano Zani, Medaglia d’oro al Valore Militare, comandante della 255a compagnia del Battaglione Val
Chiese, dopo la durissima battaglia così si espresse:
“Si è combattuto a denti stretti, con assalti e contrassalti, con case e isbe conquistate, perdute, riconquistate, in
furiosi corpo a corpo mentre mortai, pezzi anticarro, mitragliatrici e parabellum nemici battevano il terreno metro
per metro. …
La giornata di Nikolajewka, così ricca di gloria e di fulgidi eroismi, ha insegnato che la potenza delle armi può
essere superata e vinta dalla potenza dello spirito quando esistono uomini che sappiano gettare la loro anima al di
là dell’ostacolo come gli antichi Cavalieri, come i Dragoni del “Savoia” e gli Alpini nella steppa russa”.