Leggi - Istituto Affari Internazionali

Transcript

Leggi - Istituto Affari Internazionali
ANNO XX NUMERO 67 - PAG III
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 20 MARZO 2015
P%&'() * +*(,-*./* 010 /122%&,01 2, -%31'&,4*, ,&,5, *0 670*.*, 8% *0 9,&1''1:
R;<=>?=@;AA;BCDEGHG= H;E;IJG DEGAGKDBL=BHG
arabi in cui la lotta, durissima, contro il terrorismo
jihadista è condotta da governi e parlamenti democratici. Il governo marocchino si è consolidato in una
democrazia nascente, ma robusta, mentre il governo
tunisino fa i primi passi sulla strada della democrazia rappresentativa, dopo che la forte presenza di
forze laiche ha neutralizzato la spinta eversiva islamista dei Fratelli musulmani di Ennahda. Come si
sa, la Tunisia è l’unico paese in cui una primavera
araba – che là è nata – non ha avuto sbocchi drammatici (Siria, Libia, Yemen) o autoritari (Egitto), ma si
è incanalata in una dinamica democratica. Il Marocco, invece, e non a caso, è l’unico paese arabo immune alle “primavere”, un record assoluto, che ha una
ragione interessante: la rappresentanza politica e
sociale ha funzionato e ha incanalato le spinte ribelli e riformatrici nei canali di istituzioni operative.
Indagare oggi su questa positiva anomalia dei due
paesi arabi è non solo utile, ma indispensabile. Innanzitutto per appoggiare i due unici sistemi-paese
arabi in grado di contrastare il terrorismo jihadista
con la determinazione e l’efficacia strategica che solo le democrazie garantiscono. Ma anche per uscire
dalle sterili secche del dibattito su “islam e democrazia”, evitando la Scilla dei negazionisti alla Magdi Allam e l’ancor più pericolosa Cariddi del politically correct che ne attesta la compatibilità a prescindere, per volontarismo astratto.
Sul piano politico, i due paesi hanno oggi un assetto democratico perché dagli anni Cinquanta sono
stati gli unici che – invisi alla sinistra comunista e
terzomondista europea, che li considerava “lacchè
dell’imperialismo” – hanno combattuto il contagio
nasseriano e panarabista. Rifiuto militante, sì che
Habib Bourguiba e il re del Marocco Muhammed V,
d’intesa, tentarono in tutti i modi di contrastare l’ascesa sanguinaria del nasseriano Fnl algerino, favorendo l’opposizione anticoloniale moderata del Movimento nazionale algerino di Ahmed Messali e di
Ferat Abbas, purtroppo eliminati manu militari dal
Fnl con non meno di 12 mila morti. Il rifiuto del nasserismo era a tutto campo, a partire dallo strategico
riconoscimento arabo dell’esistenza dello stato di
Israele che con straordinario coraggio Bourguiba
propose il 30 marzo 1965, confliggendo così con l’essenza del nasserismo: il jihad per l’eliminazione di
Israele (il Marocco riconosce Israele dal 1994).
Ma sia Bourguiba sia i re (sultani) marocchini hanno consolidato le fondamenta della democrazia su
un più profondo terreno: sono andati controcorrente rispetto alla riforma shariatica tradizionalista delle Costituzioni arabe iniziata negli anni 70 (con abbandono dei codici ereditati dai protettorati europei) e hanno riformato in senso paritario i Codici di
Famiglia. Precursore fu Bourguiba che nel 1956 affidò al grande e popolare giureconsulto musulmano
Tahir al Haddad l’incarico di riformare il diritto di
famiglia, abolendo le prescrizioni shariatiche tradizionali, ma sempre nel rispetto, modernizzante, del
Fiqh, il diritto islamico. Nel 2004 il re del Marocco
compì la stessa riforma, interna al contesto islamico,
imponendo – quale discendente diretto del Profeta
– a un Parlamento riottoso, la Moudawana, il nuovo
diritto di famiglia. Eliminato così dal nucleo famigliare (in principio, la prassi si consolida con lentezza) il criterio di sopraffazione violenta (jihadista) del
maschio sulla donna, parificati i diritti di uomo e
donna, abolita la poligamia e il ripudio, in Tunisia
e Marocco si sono consolidate società plasmate sul
loro nucleo basilare – la famiglia – in grado di costruire rapporti di democrazia sostanziale, che non
si esaurisce nel principio del voto universale e del
check and balance istituzionale. Sommate a una alfabetizzazione di massa (carente negli altri paesi
arabi, Egitto in testa), quelle riforme hanno plasmato gli unici paesi arabi con dinamiche riformatrici.
Questa è la base reale delle due sole democrazie
arabe che combattono il terrorismo jihadista.
Carlo Panella
U rom the Halls of Montezuma, to the shores of Tripoli, we fight our country’s
battles, in the air, on land, and sea”. Così
inizia l’inno dei marine, con l’evocazione
della battaglia di Derna del 1805 dove le
truppe americane sconfissero le truppe del
pascià di Tripoli Yusuf ibn Ali Karamanli
nella prima vittoria americana su suolo
straniero. Oggi le “rive di Tripoli” sono sinonimo di pericolo, destabilizzazione e potenziale aggressione contro l’occidente, ma
le navi da guerra americane non ci sono. La
destabilizzazione della Libia non è una situazione nuova, e oggi ne vediamo anche le
ripercussioni su tutta la zona, come dimostra l’attacco a Tunisi di due giorni fa. Nel
2011, in seguito alle primavere arabe, il regime di Muammar Gheddafi si stava sgretolando, in un miscuglio di guerra civile e
di antiche lotte tribali. Ci fu un intervento
militare occidentale che segnò un passaggio doloroso per l’Italia. L’intervento fu voluto dalla presidenza francese di allora,
quella di Nicolas Sarkozy, con il sostegno
del Regno Unito di David Cameron e del-
lare strategie di interesse nazionale, un disegno politico che si riallaccia anche a un
altro momento alto della visione italiana
nel Mediterraneo, quella sviluppata dai socialisti negli anni Ottanta. Risale a quel periodo l’uso della forza militare italiana in
un contesto di missioni internazionali sotto il cappello delle Nazioni Unite, come la
missione in Libano. E’ certamente molto
presto per parlare di “neo craxismo” per il
governo Renzi però si intravedono alcuni
parallelismi. La riflessione sullo strumento militare promossa dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti, con la presentazione
del libro bianco sulla sicurezza si riallaccia a un’operazione che fu lanciata per la
prima volta nel 1985 da Giovanni Spadolini,
ministro della Difesa del governo Craxi.
Esiste però una differenza importante
nei confronti delle epoche precedenti: gli
Stati Uniti rimangono l’alleato fondamentale, ma riducono la loro leadership. Nel
caso libico sono pronti a dare una mano,
come nel 2011, ma non a essere il punto di
lancio di una soluzione che richiederebbe
l’impiego della forza militare. Per l’Italia si
tratta di una rivoluzione copernicana, tanta era grande l’abitudine di seguire gli
Nel 2011, la campagna contro
Gheddafi
fu
decisa
nell’insofferenza e fu causa di
molti rancori tra Parigi e Roma
e Italia hanno condiviso molte
missioni militari impegnative,
come la cooperazione in Kosovo
l’America di Barack Obama. La coalizione
di stati con un mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu e dispiegata sotto l’ombrello della Nato si mise a bombardare i
seguaci di Gheddafi. L’Italia, riluttante e
critica nei confronti dell’intervento, partecipò infine alle operazioni aeree. Fra i ministri della Difesa (Ignazio La Russa), degli
Esteri (Franco Frattini) e la presidenza del
Consiglio di Silvio Berlusconi, l’esecutivo
italiano era impantanato sul dossier libico
– va ricordato il pudore del Cav. che, dopo
gli ammiccamenti amichevoli con Gheddafi, non si capacitava del fatto di dover cambiar di spalla il fucile dalla mattina alla sera e seppellire sotto un tappeto di bombe
l’amico che fino a poco fa piantava la sua
tenda nelle capitali europee. Molti leader
avevano sopportato le stravaganze del dittatore libico nella speranza di concludere
qualche buon affare. Dalla garde répubblicaine parigina al carosello dei carabinieri,
era tutto uno sfilare di truppe a cavallo per
omaggiare e contendersi il rais libico.
I tappetti srotolati in nome della ragion
di stato avevano lasciato l’amaro in bocca.
Così, quando la primavera araba si propagò dalla vicina Tunisia, molti si fregarono le mani, ben felici di sbarazzarsi di un’amicizia ingombrante. In Italia il rovesciamento non era così netto, anche per la consapevolezza del fatto che le dinamiche sul
territorio erano difficilmente riassumibili
in una lotta fra buoni (gli oppositori al regime di Gheddafi) e cattivi (i sostenitori del
vecchio regime). Dopo molte insofferenze,
prevalse il senso dell’alleanza con gli Stati Uniti, gli americani condividevano l’o-
americani. Va ricordata anche la storica
diffidenza nei confronti delle potenze europee dall’Unità in poi: l’Italia intende essere trattata alla pari di Regno Unito e Francia, ma accetta poi di giocare un ruolo subalterno di fronte alla super potenza americana. Se quest’ultima si ritira parzialmente, allora lascia l’Italia di fronte all’alleato numero uno degli americani nella zona, la Francia.
Sarebbe però auspicabile lasciar perdere una volta per tutte le scorie del passato
e capire le ragioni e i limiti delle follie
francesi, per cercare modi comuni di contrastare il pericolo jihadista nel Mediterraneo. L’Italia e la Francia hanno condiviso
negli ultimi trent’anni una serie di missioni militari internazionali impegnative.
Hanno anche segnato alcune innovazioni
interessanti, come la cooperazione fra gendarmerie e carabinieri in Kosovo, un’esperienza operazionale che ha poi giustificato
la creazione della forza di gendarmeria europea, l’Eurogendfor, a Vicenza. Una capacità che, tra l’altro, è stata utilizzata pochissimo sul terreno. Oggi entrambe le forze
militari devono anche fronteggiare missioni di presidio del territorio interno nell’ambito di piani di lotta alle minacce terroristiche, esigenze che creano tensioni
sull’organico.
L’interesse nazionale italiano potrebbe
essere anche quello di alzare il livello di
cooperazione con la Francia in tutti questi
scenari. I francesi si sentono lasciati soli
dagli europei mentre hanno ripreso a pattugliare le sabbie del deserto. La zona che
va dal Maghreb all’Africa subsahariana è
di Jean-Pierre Darnis
F
Sarkozy aveva gestito male la
primavera tunisina e dopo tanta
goffaggine cercava il riscatto nella
campagna di Libia
biettivo di un cambio di regime a Tripoli,
e quindi l’Italia andò con la Nato.
L’azione francese fu oggetto di numerose critiche. Tuttora esiste in Italia un filone di pensiero che fa dell’intervento in Libia della Francia di Sarkozy la madre di
tutte le nefandezze odierne. Molti sono i paradossi intorno a questa storia. Il primo è
che l’azione francese può risultare estremamente criticabile. Per i francesi, l’intervento in Libia avviene nel contesto della
primavera araba, dopo che Parigi era rimasta spiazzata dall’evoluzione della Tunisia,
un paese che con troppa faciloneria si con-
N !" #" $"
Dei miliziani di Alba libica, organizzazione militare vicina al governo a tendenza islamista di Tripoli, Libia, in un’operazione contro lo Stato islamico lo scorso martedì
siderava come vicino. La diplomazia francese aveva fatto una serie di gaffe nei confronti della Tunisia – si ricorda ad esempio
una Michèle Alliot-Marie, allora ministro
dell’Interno, che offriva expertise al vacillante Ben Ali in materia di mantenimento
dell’ordine. Questa goffaggine appariva colpevole in un paese che non ha mai rinunciato del tutto a esportare il suo modello
repubblicano e democratico, e che ogni
tanto si ricorda di essere l’amico delle democrazie emergenti nel mondo, con una
dialettica fra potere e idealismo vicina a
quella statunitense.
Dopo la cantonata tunisina, la Libia appariva come una partita nella quale la diplomazia francese si sarebbe rifatta, non
facendo mancare questa volta l’appoggio ai
valorosi resistenti alla dittatura. Poi c’e stato anche del rocambolesco, per non dire
del folcloristico. Un ormai anziano “nouveau philosophe”, Bernard Henri-Lévy, di
nuovo alla ribalta nel combattimento per il
trionfo del bene nel mondo, decise di andare in Libia passando per l’Egitto e attraversando il confine con un autista. Giunse a
Bengasi e stabilì un contatto con i nuovi
“capi” della resistenza. Tirò fuori il suo telefono satellitare, chiamò il centralino del
palazzo dell’Eliseo, sede della presidenza
della Repubblica in Francia, e chiese di
Nicolas Sarkozy. L’allora presidente non
conosceva BHL di persona, ma sua moglie
Carla, dopo lunghe frequentazioni dell’intellighenzia parigina, sì. E quindi ecco il
presidente che alza la cornetta e chiacchera della situazione in Libia, facendosi passare il locale capo della resistenza, invitato subito a Parigi, di fatto un riconoscimento immediato della legittimità del potere
del “governo di Bengasi” del quale nessuno sapeva ancora nulla. Quest’episodio
mandò su tutte le furie l’allora ministro degli Esteri, Alain Juppé, informato a posteriori mentre stava lavorando a una risoluzione dell’Onu per inquadrare un intervento in Libia. Ci volle tutta l’abilità di Sarkozy
M
per trattenerlo al governo.
Ed ecco quindi la Francia grande supporter della “resistenza libica”. E’ ovvio
che l’affare BHL ha intercettato un clima
politico favorevole, quello di un Sarkozy
convinto della necessità di un intervento in
Libia. Si tratta di una storia che può in modo legittimo apparire assurda. Ma è talmente assurda che purtroppo spesso non
viene né creduta né analizzata. Sullo scenario libico in Italia dilagano molte teorie del
tipo “la Francia è andata in Libia perché
Total voleva (o vuole) rubare i contratti petroliferi all’Eni”. Quest’elemento non fa
parte dell’equazione francese, ed è paradossale constatare come gli italiani siano
ultramachiavellici quando ragionano in
materia di politica estera, pensando che
tutto sia riducibile a una gigantesca partita di risiko con razionalità impeccabili,
mentre la realtà è fatta anche di idealismi,
di casualità e di stupidità umane.
Questo sospetto nei confronti dei francesi non è mai sparito, creando però una serie di visioni fuorvianti per l’Italia. Il regime di Gheddafi era agli sgoccioli e il sostegno al dittatore libico era stato anche un
modo per nascondere le problematiche di
quel paese. L’intervento del 2011 ha accelerato la caduta del regime, ma i fattori di
instabilità erano già presenti perché il sistema Gheddafi non riusciva più a tenere
insieme i vari clan del paese. Poi però la
comunità internazionale, francesi in testa
ma non soltanto, ha dimenticato di stabilizzare la Libia post Gheddafi, contribuendo a
creare l’attuale caos.
Oggi stiamo facendo i conti con l’aumento del livello di pericolo, anche a causa della coagulazione di gruppi terroristici di matrice musulmana intorno allo Stato islamico. La Francia è in prima linea nella stabilizzazione della zona. Dall’Africa subsahariana fino al Sahel, ha moltiplicato gli interventi per evitare l’involuzione di alcune
situazioni come nel Mali nel 2013, con Hollande che prosegue l’azione di Sarkozy. Con
il dispositivo militare Barkhane ha dispiegato 3.500 uomini per presidiare la zona
subsahariana con i militari francesi intenti a riaprire fortini in posti da tempo dimenticati, come se fossimo tornati ai tempi della Légion e delle pattuglie a dorso di
cammello. Più prosaicamente la Francia
ha una forte percezione della minaccia di
matrice terroristica e intende contrastarla
sia con una presenza diretta di truppe sia
utilizzando alleati in grado di dare militarmente una mano, come il Ciad di Idriss
Déby, un regime per molti versi imbarazzante. Lì sì che troviamo una realpolitik alla francese. Di fatto però la Francia è l’unico paese europeo a voler contrastare militarmente il pericolo terrorista nella regione subsahariana, convinta com’è del fatto
che bisogna mettere in atto un containment
attivo della minaccia per evitare la creazione di sacche di pericolo alle porte dell’Europa. L’analisi del rischio è condivisa da altri, Italia in testa, ma poi pochissimi sono
quelli con la volontà o le capacità di trarre le conseguenze operative della comune
percezione dei rischi. Sempre su questa linea la Francia appare come l’alleato militare, e quindi anche politico, privilegiato
degli Stati Uniti nella zona del Mediterraneo allargato. E’ ovvio che poi gli attentati
di gennaio scorso a Parigi, anche se di matrice completamente diversa da quelli fatti da al Qaida alle Torri gemelle, hanno suscitato un’ulteriore percezione comune di
“paese sotto attacco terroristico”.
Tutto questo ci riporta alla Libia. Da un
punto di vista strategico, la Francia sta cercando di presidiare, con l’aiuto del Ciad, la
frontiera a sud della Libia. Si tratta di una
vecchia storia che rimanda al conflitto nel
Ciad degli anni Ottanta, fra Goukouni
Oueddei sostenuto dalla Libia e Hissène
Habré campione dei francesi, con i caccia
francesi che facevano all’epoca qualche incursione per calmare le velleità espansionistiche libiche. Per la Francia la Libia
rappresenta un problema che va gestito.
Per questo motivo i francesi hanno accolto
con grande interesse le dichiarazioni di alcuni membri del governo italiano che sembravano annunciare un intervento militare
in Libia, per poi constatare pochi giorni dopo una frenata degli italiani sull’argomento, il che tra l’altro contribuisce ad abbassare la credibilità di Roma agli occhi di Parigi. Gli italiani hanno una buona conoscenza della situazione in Libia, dati i numerosi canali ancora aperti con le varie fazioni e territori. L’Italia appoggia la soluzione ricercata da Bernardino León, l’inviato speciale delle Nazione Unite in Libia,
con l’appoggio di Federica Mogherini, l’Alto rappresentante della politica estera europea. Certamente l’idea di una forma di
soluzione nazionale che agevola un processo politico comune fra Tripolitania e Cirenaica con una ricostruzione istituzionale e
poi l’appoggio a un governo legittimo rappresenta l’ipotesi migliore. Ma non si può
nemmeno scartare l’ipotesi di un fallimento di questi negoziati e quindi di un procrastinarsi della divisione del paese, con conseguenti sacche di opportunità per i gruppi
che si rifanno allo Stato islamico. Questa situazione crea ulteriori pericoli per l’Italia,
il più immediato è il flusso di immigrati
che attraversano il Canale di Sicilia.
Possiamo osservare alcune evoluzioni
fra le componenti che determinano la politica estera italiana. La posizione del Vaticano è diventata molto più esplicita nel
richiamo a contrastare oggi il terrorismo
islamico, inteso anche come minaccia per
i cristiani. La crescente instabilità può minacciare la continuità dell’attività dell’Eni
in Libia, e anche se le forniture provenienti dalla Libia non rappresentano un elemento critico dell’approvvigionamento italiano, si tratta di un tasto sensibile. L’attentato al museo del Bardo a Tunisi di due
giorni fa costituisce un ulteriore segnale
preoccupante che spinge a ricercare la stabilizzazione della zona. Il governo di Matteo Renzi infine sembra propenso a formu-
OQSQ QTVSWQXQW TVYYZV[\T\ ]Q^_TQ[W_ W`SQ[QS\ aV [V QSQbQ_ QY c\SWd\V[\T\ef
l risveglio dopo l’attentato di Tunisi è
amaro, ricorda il sapore dello sconcerto dopo la strage di Parigi, Charlie Hebdo
decimata e gli ebrei ammazzati, perché è
stato messo sotto attacco un museo, perché
dentro c’erano cittadini europei, certo, ma
soprattutto perché Tunisi ci assomiglia.
Combatte, o ci prova come noi tutti, il terrorismo sulla base di un sistema democratico, frutto di un’integrazione con l’islam
lunga decenni e ora dell’unica stabilizzazione realizzatasi dopo le primavere arabe. Ma il terrorismo c’è eccome, arriva dall’esterno – se confini con la Libia oggi non
sei al riparo dalle infiltrazioni jihadiste –
e cresce internamente, se è vero come dice un report delle Nazioni Unite che quattromila combattenti nella regione, tra al
Qaida e Stato islamico, arrivano dalla Tu-
nisia (ne sarebbero morti anche duemila,
un altro numero enorme, forse troppo). Il
giornale online al Monitor ha pubblicato
un articolo in cui cerca di spiegare questo
fenomeno, noto come “l’esodo jihadista”,
in cui racconta che tutti, a Tunisi, dal professore universitario al dottore, conoscono
qualcuno che è andato a combattere in Siria, e che magari ci è morto. Una ricerca
fatta da alcune organizzazioni tunisine dice che questi jihadisti non sono necessariamente poveri, ma provengono dalla
middle class: il 60 per cento dei reclutati
parte per combattere appena prima di laurearsi. Spesso sono diventati molto religiosi poco prima di arruolarsi, fino a quel momento vivevano le loro vite di studenti normali, feste, alcol, magari qualche droga
leggera (abbiamo detto che Tunisi ci asso-
miglia, sì?). Molti padri che hanno raccontato le storie dei loro figli partiti, alcuni ritornati e poi di nuovo arruolati, dicono che
un computer – usato in modo ossessivo,
però questo accade anche nel nostro placido occidente – e una moschea sono sempre stati sufficienti per il reclutamento,
con i chierici pronti a usare le confessioni,
il sesso con una ragazza o feste un po’ lascive, come strumento per instillare un
senso di colpa espiabile soltanto con una
mossa eroica, come combattere la guerra
santa (le madri dicono quasi sempre che
nei mesi prima della partenza il loro rapporto con i figli si allentava, non c’erano
più confidenze né attenzioni, pochi incontri fugaci, a cena sempre fuori, solo un
gran freddo). Negli ultimi sei mesi l’esodo
jihadista si è intensificato, e le misure
adottate dal governo per contenerlo non
sono state efficaci (per esempio è stato introdotto l’obbligo del permesso dei genitori per viaggiare in Turchia, accesso per
la Siria, ma i ragazzi hanno imparato a
passare il confine con la Libia e poi organizzarsi da lì. Quando anche il passaggio
in Libia è stato messo sotto controllo, è iniziato il viaggio a ovest). Per molti esperti si
tratta di un fenomeno post rivoluzionario
che è andato consolidandosi in questi anni turbolenti, di assestamento, di tentativi
democratici non sempre brillanti, che riguarda sia le zone costiere storicamente
legate al regime sia quelle interne dove è
florido il partito islamico Ennahda. Ma
origini del fenomeno a parte, ora la domanda è: è iniziato il controesodo?
Twitter @paolapeduzzi
Parigi si sente abbandonata
nella lotta al terrorismo nella
regione subsahariana, ma gli
interessi con l’Italia convergono
molto vasta, ed è ricca di promesse di sviluppo economico e umano, con una forte
presenza civile italiana fra organizzazioni
religiose, ong e imprenditori, ovvero una
serie di interessi italiani per i quali ci vuole stabilità e sicurezza, anche come l’intendono i francesi. La Libia e, come abbiamo
scoperto drammaticamente in questi giorni
anche la Tunisia, rappresentano tasselli
fondamentali.
Jean-Pierre Darnis è vicedirettore del
Programma sicurezza e difesa dell’Istituto
Affari Internazionali, a Roma