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Capitolo quinto
IL RITORNO DEGLI EROI
“Tutto bene, Misaki?”
La voce di Jun Misugi lo riscosse dai suoi pensieri.
“Sono ore che fissi fuori dal finestrino. Stai ancora pensando a quel che ha detto
Tsubasa?”
In realtà, Misaki stava pensando a tutt'altro.
La vittoria della medaglia d'oro e, soprattutto, il premio come miglior giocatore,
avevano ulteriormente accresciuto quella nuova forza, emersa per la prima volta
contro la Nigeria, che aveva trasformato il suo modo di giocare.
Il mondo gli confermava che non era solo una spalla, un giocatore a metà.
Non lo era stato in campo e non riusciva più a esserlo nemmeno nella vita.
“Gli passerà. Era teso e preoccupato per sua moglie. Credo che questo abbia inciso
parecchio”, proseguì Misugi.
Il pensiero di Sanae attraversò la mente di Misaki.
Aveva cercato di tenerlo lontano fino a quel momento, riuscendoci poco e male.
Adesso diventò impossibile.
“Prova a dormire un po'”, suggerì Misugi.
Dormire! Era una parola!
Il sonno lo aveva abbandonato ormai da troppo tempo.
Da quell'ultimo incontro con Azumi, per la precisione.
Lei gli aveva letto dentro con una chiarezza che lui non aveva mai avuto il coraggio
di avere.
Era vero. Per molto tempo era rimasto nell'ombra, a consolare le lacrime di Sanae,
facendo di tutto perché lei fosse felice.
Davanti al liceo, uno studente e una studentessa dell'ultimo anno stavano in piedi,
uno di fronte all'altro. Tra loro una lettera, che il ragazzo stava leggendo.
“Cosa dice?”
Gli occhi di Sanae correvano avidi sulle righe scritte con la nota calligrafia.
“Parla dell'ultima partita, naturalmente”, disse Misaki, “Tutte cose che immagino
saprai meglio di me”.
Aveva in mano l'ultima lettera che Tsubasa gli aveva mandato da Sao Paulo.
La ragazza abbassò lo sguardo.
“No”, disse, “Io non so nulla. A me non scrive”.
“Mi stai prendendo in giro?”, disse Misaki stupito.
Raccolsero le cartelle e si avviarono verso casa.
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“Sai”, disse Sanae, dopo un momento di esitazione, “Quando è partito due anni fa, mi
ha detto che non poteva chiedermi di aspettarlo...”
Misaki la guardò incredulo.
“Immagino che non mi scriva per non farmi sentire legata a lui”.
Camminarono in silenzio per un lungo tratto.
Non poteva vedere Sanae che mendicava da lui qualche notizia su Tsubasa, era una
cosa che lo faceva stare male.
“E poi sai che non è che lui ami molto le lettere”, si sforzò di ridere Sanae, senza
riuscirci.
Misaki non disse più nulla.
Appena arrivato a casa, prese carta e penna per rispondere alla lettera di Tsubasa.
Dopo una settimana, Sanae gli corse incontro con gli occhi luminosi.
“Apri l'ombrello, Misaki! Stanno per piovere rane!”
In mano aveva una lettera proveniente dal Brasile.
Dormire...
Figuriamoci.
Adesso poi, con quel nuovo coraggio che si sentiva nel petto, dormire era
decisamente fuori discussione.
Aveva voglia all'improvviso di buttare tutto all'aria.
Era la cosa più assurda e stupida del mondo. Dire a una donna, felicemente sposata,
che aveva appena partorito, che lui era perdutamente innamorato di lei.
Ma quando l'aereo atterrò a Tokyo, dopo 11 ore passate a fissare fuori dal finestrino,
Taro Misaki era ancora più fermo nella sua decisione.
Il prima possibile avrebbe parlato con Sanae Nakazawa.
Sanae era oltre il limite della sopportazione.
Smaltita l'euforia per la nascita dei gemelli, Tsubasa, da quando era tornato, aveva dei
comportamenti per lei del tutto inspiegabili.
La cosa più incomprensibile era la sua insistenza, quasi ossessiva, perché lei tagliasse
i ponti con Misaki.
“Non devi vederlo mai più, hai capito?”
“Sei impazzito? Io vedo chi mi pare! Non trattarmi come fossi la tua ombra!”
Sentendo pronunciare da sua moglie proprio l'espressione usata dal numero 11,
Tsubasa sentì il sangue salirgli alla testa.
“Cazzo! Sei mia moglie! Ho detto che non lo devi più vedere!”
Sanae guardò suo marito con gli occhi sbarrati. In tanti anni non lo aveva mai sentito
urlare a quel modo.
Cercò di ritrovare un tono più calmo.
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“Non capisco, Tsubasa. Che cosa ti succede?”
Anche lui era rimasto scosso dal proprio tono di voce.
“Non volevo gridare...”, mormorò.
Poi, si avvicinò, cercando di abbracciarla.
Ma Sanae si irrigidì.
“Da quando sei tornato, sei irriconoscibile”, disse calma, ma ferma, “E io non posso
gestire tre bambini urlanti... Se vuoi essere al centro dell'attenzione, vai dalla tua di
mamma!”
“Che cosa?!?”
Tsubasa non riusciva a credere alle sue orecchie.
“Mi... Mi mandi via? Sono tuo marito! Non ne hai il diritto!”
Aveva ricominciato a gridare e ad agitarsi.
Il pianto di un neonato riempì la casa.
“Complimenti!”, fece Sanae sarcastica, “Ci avevo messo un'ora per farli dormire!”
Stizzita, salì dai bambini, mentre un nuovo vagito segnalava che una seconda voce
stava per unirsi al coro.
Tsubasa afferrò furiosamente la giacca e infilò la porta, diretto da sua madre.
“Sto scrivendo un reportage sulla nazionale olimpica, sulle storie personali dei suoi
giocatori. Mi farebbe molto piacere parlare con te di Jun Misugi e del suo cuore di
cristallo”.
Azumi Hayakawa camminava in fretta tra i grattacieli di Tokyo.
“Non so”, esitò Yayoi Aoba al telefono, “Jun è una persona così riservata...”
Azumi scoppiò a ridere.
“A quanto pare è la squadra di calcio più timida della storia! Per favore, raccontami
qualcosa tu, o non metterò mai insieme un pezzo!”
“Non ho bisogno di cose troppo personali”, aggiunse subito, “Mi basta un minimo di
racconto della vicenda, per dare umanità ai nostri campioni”.
“D'accordo”, sorrise Yayoi, “Ma allora credo che dovresti sentire anche Yoshiko
Fujisawa. La sua sì che è una storia romantica. Sempre che Matsuyama le permetta di
raccontartela!”
“Ho a che fare davvero con degli ossi duri!”, rise di nuovo la giornalista.
“Come hai detto?”
Yukari sgranò gli occhi e scosse la testa come per svegliarsi bene.
Ishizaki si guardò intorno, pensando di aver sbagliato qualcosa.
Con un tono un po' più timoroso della prima volta, ripeté la sua domanda:
“Yukari Nishimoto, vorresti diventare mia moglie?”
Poi chiuse un occhio, come in attesa di un colpo sulla testa.
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“Manco morta!”, rispose Yukari.
Ishizaki rimase malissimo. Si alzò in piedi.
“Beh, allora io vado...”, mormorò imbarazzato.
Ma quando alzò lo sguardo sul volto di lei, vide che stava piangendo in silenzio.
Yukari sbottò:
“Cosa aspetti? Baciami, idiota!”
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