Spettri di luce e fantasmi di carta.

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Spettri di luce e fantasmi di carta.
Spettri di luce e fantasmi di carta.
Tornatore, cinema e fotografia
Giovanni Fiorentino
“Noodles, sono inciampato”.
Sergio Leone, C’era una volta in America
“…come un incresparsi d‟acqua dentro un bicchiere,
una fugacità in una permanenza”.
Julio Cortazar, Alcuni aspetti del racconto
Nel saggio del 1962 „Algunos aspectos del cuento‟, lo scrittore argentino Julio Cortazar paragona il
racconto breve alla fotografia da una parte e, per contrapposizione, il cinema al romanzo.
Un film è un “ordine aperto”, romanzesco. La fotografia, come il racconto appunto, implica “una
rigorosa limitazione previa”. Cortazar, ragionando intorno al concetto di “limite”, evoca un
procedimento che funziona per sottrazione: la cornice fotografica opera una selezione che esclude,
comporta un nascondimento. L‟immagine, costruita dall‟occhio che interagisce con la macchina, è
un frammento che rimanda oltre.
Eccolo, Julio Cortazar: “Mentre nel cinema, come nel romanzo, la percezione di tale realtà più
ampia e multiforme si ottiene mediante lo sviluppo di elementi parziali, accumulativi, che non
escludono, naturalmente, una sintesi che dia il «climax» dell‟opera, in una fotografia o in un
racconto di grande qualità si procede in modo inverso, ovvero il fotografo o lo scrittore di racconti
si vedono obbligati a scegliere e a circoscrivere un‟immagine o un avvenimento che siano
«significativi», che non valgano solamente per se stessi, ma che siano capaci di agire sullo
spettatore o sul lettore come una specie di «apertura», di fermento che proietti l‟intelligenza e la
sensibilità verso qualcosa che va molto oltre l‟aneddoto visivo o letterario contenuti nella foto o nel
racconto”.
La fotografia incornicia una parte del reale e la espone. Il dettaglio, il frammento visivo di realtà
entra storicamente in scena nella metropoli ottocentesca. È allora che l‟immagine diventa presenza
quotidiana. Il particolare anonimo emerge: l‟occhio si spinge a inquadrare i dettagli della realtà,
fissa piccole cose e le fa esplodere. Ancora, Cortazar: “Un racconto è significativo quando spezza i
propri confini con quell‟esplosione di energia spirituale che illumina bruscamente qualcosa che va
molto oltre il piccolo e talvolta miserabile aneddoto che racconta”.
Il racconto, più che perdersi nel flusso della narrazione, fa vedere intensamente. L‟occhio diventa
azione. Anche lo sguardo dello spettatore esercita e libera la pupilla sul dettaglio: l‟estasi del
particolare, del frammento, del transitorio che offre senso al generale. È il contingente di Baudelaire
che è anche eterno e immutabile della modernità. È l‟osservazione micrologica di Walter Benjamin
che riscontra “nell‟analisi del piccolo momento particolare il cristallo dell‟accadere totale”. È il
racconto breve che nel migliore dei casi contiene “quella favolosa apertura dal piccolo verso il
grande, dall‟individuale e circoscritto all‟essenza stessa della condizione umana”.
Cortazar descrive una prospettiva fotografica del mondo.
Tra gli ectoplasmi mobilissimi dello schermo e la grana impercettibile, e statica, della carta si
agitano i fantasmi visibili di Giuseppe Tornatore, tessendo quarant‟anni di viaggio nello spazio e
nel tempo, tra sogno e memento, rianimando lo sguardo, e la vita, dello spettatore. Se i fantasmi
sono presenze di luce, spettri visivi e fantastici che nutrono l‟immaginario collettivo, quelli
materializzati da Tornatore attingono a una sfera che non solo fonde il materiale con l‟immateriale,
il reale con l‟artificiale, la sostanza con il desiderio, ma anche, e pare inevitabilmente, il fotografico
con il cinematografico, il presente con la memoria. Il vedere e il rivedere di Peppino, da fotografo e
cineasta, anche da regista pubblicitario, naturalmente nel suo impegno per il recupero e il restauro
del grande cinema italiano, è teso ad innestare il passato, e la sua personale geografia emotiva, nei
destini del presente globale. La genealogia del cinema, tra Otto e Novecento, conduce la mano e il
suo sguardo: la matrice genera la vita, l‟istante genera il flusso, la fotografia genera il cinema. E il
regista siciliano fa la spola tra l‟uno e l‟altro, innesta uno sguardo sull‟altro consapevolmente, per
tornare, ciclicamente, alla matrice, anche nel suo personale percorso creativo. Generando e nutrendo
una dialettica aperta, feconda, tra vita e morte, flusso e tempo tagliato, cinema e fotografia.
Il suo sguardo comincia ad esercitarsi nella sintesi. Ha superato da poco i dieci anni quando con una
Rolleicord al collo e la fiducia di Mimmo Pintacuda organizza forme e figure siciliane nel bianco e
nero del formato sei per sei. Il suo occhio limita, insegue e sceglie, sensibilità e istinto precoci,
materializza una realtà visiva che è parzialità: una sintesi e un‟apertura. La Sicilia vitale delle feste
di piazza, degli anziani, delle donne e dei bambini per strada, quella di Bagheria, Palermo, Portella
della Ginestra, i lavoratori del primo maggio con l‟«Unità» nella tasca della giacca, i venditori
ambulanti, per molti versi la stessa Sicilia dei siciliani frequentata intensamente da Sellerio e
Scianna. Una vita per strada che non c‟è più, il contesto dei media di massa che si affacciano
nell‟evoluzione dell‟Italia di provincia, con i fotoromanzi esposti in edicola, i manifesti sui muri, il
cinema di Bruce Lee che arriva nelle piccole sale cinematografiche di paese. Tornatore già allora
insegue l‟intensità e la mobilità inafferrabile degli sguardi infantili: pantaloni corti e magliette a
righe, alla guida di auto senza ruote e api sfasciate, in gioco e per gioco con gli scarti degli altri,
copertoni, ruote di legno e carretti di fortuna. Quella dei bambini è una vita che batte “più forte del
normale” nello spazio dilatato del gioco, in un tempo privo di storia e dove la morte è solo un
inciampo. D‟altra parte nella fotografia la morte si cancella e l‟infanzia, più facilmente, si ferma. A
differenza che nel cinema, la foto di un bambino si conficca nella memoria e ci resta. Una
“percezione sincopata” che si reintroduce nel flusso della vita, dilatandola. Il punctum dell‟occhio
che coincide con il dettaglio offerto all‟infinito. Tornatore, come il Baricco di Castelli di rabbia,
insegue l‟ordinario di una vita che vive “più forte del normale”.
Da un medium all‟altro, da una cornice all‟altra, da un contesto all‟altro. Tornatore recupera
l‟apparecchio fotografico dopo aver lavorato a lungo nel cinema e dopo aver dilatato un
immaginario che sta tra l‟infanzia di Nuovo cinema Paradiso e la maturità di La leggenda del
pianista sull’oceano: tra l‟isola e il mare, le radici e l‟oceano, il locale e il globale. Il contrappunto
fotografico è parte. Oltre lo spazio contingente, il tempo determinato, lo sguardo fotografico di
Tornatore si proietta sempre altrove. I suoi fantasmi sono il riflesso dell‟ossessione dello sguardo,
non a caso i soggetti ripresi in giro per il mondo talvolta hanno l‟apparecchio fotografico tra le
mani, il volto nascosto, mirano, inquadrano, scattano. Instancabile navigatore di nuovi scenari,
potenziali set, il fotografo siciliano gioca con la macchina, con i limiti dell‟inquadratura, la cornice
quadrata della Rolleicord, il formato classico reflex, la forzatura dei bordi dello sguardo
panoramico. L‟oscillazione e i gradi del colore si alternano alle sfumature del bianco e nero,
evolvendo in una raffinata sensibilità per la luce.
Tokyo e New York, Mosca e Città del Capo, la Cina e il Sud Africa, fino al viaggio deliberatamente
fotografico, commissionatogli in Siberia al principio del nuovo millennio. I soggetti fotografati
hanno quasi sempre lo sguardo in macchina, Tornatore non ruba gli istanti, il suo è un reportage
dove l‟attore di strada è sempre consapevole e parte della messa in scena: per l‟intensità calligrafica
dei ritratti cinesi come per la saturazione dei colori negli ambulanti per strada di New York, per la
gestualità e i toni caldi delle scene di mercato arabe o per i ritratti intensi di Città del Capo. Le
gradazioni si raffreddano nei paesaggi lunari siberiani e si surriscaldano nelle forme del sonno
inquadrato a Tunisi. Lo sguardo compie il suo eterno ritorno nell‟incedere sulle universali
possibilità della tribù dei bambini. Complicità di sguardi, i bambini marocchini che fanno il bagno
dentro la fontana, le smorfie dei bambini siberiani o dei bambini cinesi, il fantasma della luce anima
decisamente lo sguardo obliquo del bambino russo immerso tra i cappotti e le giacche di pelle,
sembra la stessa luce fredda che si posa inquietante sui profili delle bambine incorniciati dai foulard
floreali.
I fantasmi sono presenze di luce e tanto basta, nel cinema come nella fotografia. Non puoi chiederti
se le comparse fotografate sulla scena di Baarìa siano vere o false, è una domanda priva di senso.
Inutile interrogarsi se gli attori di La leggenda del pianista sull’oceano siano creature immaginarie,
interpreti e personaggi di storie narrate o uomini che hanno attraversato la prima metà del
Novecento. L‟ambiguità e la ricchezza del set è il portato dell‟esperienza complessa del reale nello
sguardo di Tornatore e si risolve nella percezione immaginifica dello spettatore. Non è fotografia di
scena e neanche staged photography, siamo di fronte a uno sguardo empatico, partecipato. Gli
attori sono immobili, predisposti al fermo immagine, lo sguardo puntato in macchina e il corpo in
posa, sfidando il tempo e qualsiasi ipotesi di finzione. Il ponte del piroscafo oscilla tra le pieghe
collettive della memoria e dell‟immaginario, oltre qualsiasi singolo romanzo o film, echeggiando le
fotografie dei primi decenni del Novecento, non solo quella istantaneamente riconoscibile nella
fama del Ponte di terza classe di Stieglitz, forse ancora di più quelle di anonimi fotografi ambulanti
finite negli album degli emigranti italiani. C‟è un accumulo di dettagli in cui l‟occhio si compiace e
si perde, ognuno di questi è in grado di andare oltre il piccolo aneddoto che racconta: esterno e
interno, natura e artificio, luce di giorno e lampade a gas, paradiso e inferno. Inquadratura in pieno
giorno, ritratti collettivi sul ponte: i corpi navigano dentro i cappotti, l‟occhio si perde tra i dettagli, i
baveri dei cappotti, i nodi delle cravatte, i colletti delle camicie, il borsalino o la coppola, fino ai
sorrisi sottili e sospesi nell‟inquadratura panoramica, con il mare sullo sfondo a spegnere, o
accendere, sogni e illusioni. Notte, l‟intestino della nave, la sala macchine: la geometria dello
sguardo organizza uno spazio sulfureo, catene e carbone, ferro e bulloni, la luce scolpisce corpo e
volto del macchinista. Sarà un caso, ma il fotografo sembra prediligere l‟anonimato delle comparse,
Tim Roth è l‟unico attore noto riconoscibile in queste fotografie, e si perde tra le geometrie
metalliche della nave.
L‟ultimo passo, o l‟ultimo scatto, si iscrive tra Baarìa e il mondo, si muove ancora tra artificio e
memoria e si proietta fuori di se. La percezione sincopata e fotografica di una Bagheria immaginaria
e cinematografica, ancora da vedere sul grande schermo, rende conto dei confini ampi del mondo.
L‟occhio fotografico di Tornatore cita l‟epica dello sguardo in cinemascope di Sergio Leone, il
formato panoramico iscrive dettagli di un paesaggio interiore e fermenta una realtà più grande.
Di fronte alle foto di Baarìa lo spettatore non può che immaginare una o più storie a partire da
un‟ombra, dalle coppole e dagli occhi inquadrati dalla cura dello sguardo: le espressioni, gli abiti, le
movenze nella sala da ballo, i finimenti e la tensione del cavallo, l‟immobilità degli operai
comparse, la scena della cava. Lo sguardo si perde nel ritratto collettivo, trentatre lavoratori in posa,
l‟uno accanto all‟altro, rappresentano un paesaggio sterminato da esplorare. Il presagio dell‟ultimo
ciak è nel profilo scuro della gru, con l‟operatore appollaiato in cima e la sagoma della cinepresa
scolpiti nella nebbia. In un solo frammento fotografico, “una fugacità e una permanenza”, il cinema:
il profilo di un fantasma che è battito vitale in Tornatore, controllo dello sguardo e liberazione
dell‟immaginario nel Novecento, magnifica ossessione, del vedere e rivedere, un dettaglio che non
finisce più e deborda dalla sua cornice.
L‟occhio pendolare di Tornatore effettua sempre un doppio movimento. Da una parte effettua un
sopralluogo eterno sulla scena reale, dall‟altra elabora e ricostruisce automaticamente un set
artificiale. Le funzioni interagiscono e si sovrappongono e l‟una è funzionale all‟altra. Racconto e
fotografia presentano un frammento e ne richiamano altri, manifestano una intensità e una tensione
che appartengono al consumatore di sguardi, la permanenza dell‟istante fotografico fa delle
immagini il reale. La fotografia, come il racconto breve, lavora in profondità. Le due ore del film
scorrono rapidamente e il nostro tempo con loro. Sono i titoli di coda con pochi fermo immagine a
ricordare e fermare. Il dolore, e il piacere, della memoria si fa immagine sintetica e taglio,
discontinuità rispetto al passato e al futuro, a spazi e tempi più complessi e articolati della storia. Lo
scarto di un lampo costruisce una ferita visibile e indelebile nell‟immaginario personale come in
quello collettivo. In fondo, lo spettatore può continuare a perdersi tra i fantasmi delle immagini,
sostenendo l‟ipotesi di Novecento, il protagonista di La leggenda del pianista sull‟oceano: non
voglio scendere da quel piroscafo.