Teatro_teoria
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Teatro_teoria
Cap. I - Autori e testi del teatro greco - La tragedia: introduzione L'origine Nel mondo della Grecia classica si possono ritrovare le radici dei modi con cui noi occidentali pensiamo al teatro (inteso nella duplice accezione del vocabolo, sia come esperienza letteraria sia come concreto luogo dove avviene la rappresentazione. Nel corso dei secoli V e IV a.C., soprattutto ad Atene, la più grande e ricca città del vasto mondo ellenico, si sviluppò e perfezionò questo genere, distinto in tragedia e commedia, fra loro simili nella struttura ma assai diversi per nascita, temi e finalità culturali. La testimonianza più preziosa che noi possediamo sul modo con cui i greci concepivano il teatro è l'elaborazione svolta dal filosofo Aristotele (praticamente contemporaneo dei più significativi drammaturghi della classicità ellenica) che, nel suo libro dedicato alla Poetica , tratta con molta attenzione origini, forme e significati dei due generi scenici. Sebbene le sue affermazioni siano state spesso male interpretate e abbiano costituito un fardello per lo sviluppo dei generi (soprattutto nel periodo compreso fra il 1500 e il 1800), quel testo è per noi assai utile e, letto con rigore filologico, offre interessanti elementi per un'efficace analisi sulla poesia scenica greca. Per comprendere la vera natura della tragedia occorre chiarire l'importante elemento che la distingue da quasi ogni altra forma rappresentativa nel mondo occidentale: la sua origine sacra e religiosa. Non possediamo sufficienti documenti per stabilire con assoluta sicurezza come essa sia nata e, in merito, gli storici formulano più ipotesi: secondo la più diffusa essa deriverebbe dal culto di Dioniso, dio della sfrenatezza e dell'ebbrezza (il termine “tragedia” potrebbe quindi discendere dai vocaboli “tragos” e “ode”, cioè «canto del caprone» poiché i fedeli di Dioniso usavano mascherarsi con pelli di capra); altre la collegano a riti magici oppure a culti in onore di divinità terresti e eroi. In sostanza però, tutti concordano nel ritenere la tragedia una sorta di variazione laica di cerimonie sacre in cui un gruppo di fedeli (embrione del coro) invoca la divinità o l'eroe danzando e cantando intorno ad un altare: ad essi risponde un personaggio che forse impersona il dio o l'eroe invocati. La sua origine dunque si colloca nell'ambito del sacro: come bene sintetizza Raffaele Cantarella «le origini formali della tragedia sono da rintracciare in manifestazioni di carattere genericamente magico-religiose, nelle quali sono confluiti elementi vari ed eterogenei, durante un lungo processo del quale le fasi rimangono, in realtà, incere e oscure» (in La letteratura greca classica , ed. Sansoni-Accademia). Inoltre ancora in età storica le rappresentazioni erano collocate nell'ambito di feste religiose, quali ad esempio le Grandi Dionisie che si svolgevano ad Atene alla fine di marzo, quando era terminata la brutta stagione ed era possibile allestire recite all'aperto. Un altro elemento importante è l'allestimento della rappresentazione e la sua fruizione (su queste circostanze abbiamo molte notizie, soprattutto di ambito ateniese). Una fra le più alte autorità dello stato, ovvero l'Arconte Eponimo, sceglieva tre tragediografi che dovevano presentare ciascuno una trilogia e un dramma satiresco, poi attribuiva ad un cittadino abbiente l'incombenza della messa in scena e del pagamento delle spese: proprio in virtù del carattere pubblico e sacrale dell'atto scenico, tale onere era considerato un privilegio e un onore. Il pubblico era formato dalla quasi totalità dei cittadini (sia nobili sia popolani) poiché, come già detto, le rappresentazioni si svolgevano durante giorni festivi ed erano pressoché gratuite: in tal modo la presenza a teatro costituiva un momento fondamentale di aggregazione in cui era possibile riconoscersi come appartenenti alla stessa comunità (la “polis”) e meditare assieme sui problemi morali, esistenziali, religiosi e politici che il testo sollevava. Al termine una giuria scelta in parte per sorteggio (e quindi ritenuta imparziale) proclamava il vincitore. Il luogo scenico La rappresentazione avveniva in teatri (il termine ha la radice del verbo “theaomai”, “io guardo”): dapprima essi erano costruiti provvisoriamente in legno nell'agorà (a sottolineare il carattere collettivo e cittadino della fruizione), successivamente ne vennero approntati in muratura, appoggiati a naturali declivi, come a Epidauro. Erano composti di una gradinata semicircolare, su cui sedevano gli spettatori, che racchiudeva (e quasi abbracciava) una pedana sopraelevata su cui recitavano gli attori; sotto ad essa vi erano attrezzi che consentivano movimenti scenici particolari, quali improvvise apparizioni sul palco di attori attraverso botole. Un edificio di fronte al semicerchio delle gradinate chiudeva il luogo e costituiva il fondale (di solito, nelle tragedie, rappresentava la facciata di un palazzo nobiliare), conteneva i camerini e le attrezzature, talvolta anche macchine utili al racconto ( ad esempio, ve ne erano alcune necessarie per calare dall'alto gli attori che interpretano i ruoli di divinità). Non esisteva alcun riparo e quindi le rappresentazioni si svolgevano durante la bella stagione. La struttura La tragedia ha una struttura fissata dalla tradizione che, quindi, risulta molto simile in tutti gli autori: è spesso preceduta da un prologo (che ha la funzione di spiegare l'antefatto) seguito dalla pàrodos (canto di ingresso del coro); è divisa in quattro episodi separati da tre stàsimi in cui si assiste al canto del coro; termina con l'èsodo, cioè l'uscita del coro o la scena finale. La tragedia era scritta in poesia e i versi impiegati erano differenti a seconda delle varie zone del testo. Il numero di attori (soltanto maschi anche per le parti femminili, secondo un costume che si conserverà per moltissimi secoli anche nel mondo moderno) variò nel corso della storia. Secondo la tradizione, quando in origine la rappresentazione aveva prevalentemente un valore religioso , vi era un solo personaggio che aveva la funzione di dialogare con il coro: per questo primitivo attore si forgiò in greco il nome “ypocritès” (“colui che risponde” oppure “colui che interpreta”). Sempre secondo la tradizione, Tespi inventò questo attore protagonista (quest'ultimo termine significa “colui che agisce per primo”); poi Eschilo aggiunse il deuteragonista (“colui che agisce per secondo”); infine Sofocle introdusse il tritagonista (“colui che agisce per terzo”). Tuttavia gli attori in scena sono generalmente due (e uno stesso attore impersona più parti, aiutato anche da maschere adatte a nascondere i connotati e ad amplificare la voce). Anche il coro ha funzione di personaggio e partecipa all'azione, ora agendo ora limitandosi a narrare l'antefatto e commentare l'accaduto: composto prima di 12 poi di 15 attori (chiamati coreuti), eseguiva anche canti e movimenti di danza ed aveva a capo il corifèo, che interpretava il pensiero dell'intero gruppo e interloquiva con gli attori. Il ruolo che svolge il coro è vario e quindi risulta assai difficile determinarne un'unica specifica mansione. In sostanza, dunque, la tragedia era una sorta di commistione di recitazione, canto e danza eseguita da un esiguo numero di attori muniti di maschere espressive. I temi Il mondo greco elaborò una grande quantità di testi che, tuttavia, sono andati perduti nel corso dei secoli; di questa produzione si conoscono solo titoli, trame e frammenti; solo poche fra le opere di Eschilo, Sofocle ed Euripide, gli autori che i contemporanei giudicarono più significativi, sono state trasmesse dai manoscritti. In particolare, ci è stata tramandata una sola trilogia completa (ricordiamo che tutte le tragedie erano inserite in una trilogia) da cui poter capire come una stessa rappresentazione si articolasse in tre distinte opere: questa importante testimonianza è l'Orestea di Eschilo, che si sviluppa attraverso Agamennone, Coefore ed Eumenidi . Comunque, i testi sopravvissuti consentono di stabilire che i temi prevalenti sono attinti dalla storia mitica della Grecia: il ciclo legato agli Atridi (il re di Micene Agamennone, la moglie omicida Clitennestra, i figli Ifigenia, Oreste ed Elettra); quello legato a Laio, re di Tebe, e ai suoi discendenti (Edipo, Eteocle, Polinice, Antigone, Ismene); le vicende di eroi quali Ercole, Filottete, Teseo. Soltanto I Persiani di Eschilo presenta un argomento attinto dalla storia contemporanea: la sconfitta patita per opera dei greci dall'esercito del re persiano Serse a Salamina (480 a.C.). La presenza di storie già note fortifica l'ipotesi dell'origine religiosa di questa forma letteraria. Infatti il pubblico conosceva perfettamente le vicende, riproposte con pochissime variazioni: la fruizione non doveva divertire o stupire per la varietà e particolarità delle avventure e degli intrecci quanto, piuttosto, intendeva celebrare la singolarità culturale ed etnica della stirpe greca e costituire un momento di meditazione sul destino e sulla condizione dell'uomo. «Il fenomeno della tragedia può venir manipolato e distorto per adattarsi a diversi sistemi di valori. Eppure rimane una struttura fondamentale, che parla agli esseri umani di ogni epoca [i suoi temi sono] la hamartía , la fragilità o l'errore umano, la metabolé , il rivolgimento, la anagnòrisis , il riconoscimento, che costituiscono la successione degli eventi tragici… [ovvero la consapevolezza che] l'uomo è l'unico animale che sa di essere condannato. L'esistenza umana è il travaglio di questa scoperta. Ma la tragedia non è, come alcuni vorrebbero, pessimistica, né cupa, perché l'attenzione non è concentrata sulla metabolé , bensì sulla gloriosa anagnòrisis , difficile da conquistare, difficile da conservare. E questo atto di limpida chiroveggenza che giustificava, e sempre giustificherà, l'uomo ai propri occhi in un mondo di dei meschini e di un fato privo di senso» (C.R. Beye, Letteratura e pubblico nella Grecia antica , Laterza). La “catarsi” La specificità contenutistica della tragedia è la drammaticità del sentimento che la pervade: è questo l'elemento che maggiormente la distingue dal genere affine della commedia. Gli eroi che popolano le opere degli autori greci sono destinati a subire un passaggio «dalla felicità alla infelicità» (Aristotele, Poetica , trad. M. Valgimigli, Laterza); essi patiscono una sorte inevitabile e doloroso cui il fato li ha destinati, spesso senza un ragionevole motivo, senza cioè che si siano comportati crudelmente. Lo stesso filosofo afferma che «un buon personaggio da tragedia [è] colui il quale, senza essersi particolarmente distinto per la sua virtù o sentimento di giustizia, neanche sia tale da cadere in disavventura a cagione di sua malvagità o scelleraggine, bensì a cagione soltanto di qualche errore [ndr. effettuato per ignoranza o per qualche circostanza materiale]». L'ineluttabilità e l'inespicabilità del destino dell'uomo costituiscono il senso del tragico e dunque lo spettatore, durante la rappresentazione, è chiamato a meditare su ogni aspetto dell'esistenza: sui rapporti fra l'uomo e i suoi simili, fra l'uomo e la divinità. Sempre Aristotele afferma che la tragedia «mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare (il vocabolo greco è “càtarsis”) l'animo da siffatte passioni». La funzione del tragico consiste nel liberare l'animo dalle passioni, tuttavia differenti sono le interpretazioni di questo passo: la catarsi è del personaggio che subisce le vicende oppure dello spettatore che assiste? In sostanza è impossibile dare una risposta univoca e forse non è neppure fondamentale: capire il mondo e il destino dell'uomo è l'alto valore educativo e morale di ogni opera. Le cosiddette “unità di tempo, luogo e azione”; nobili e re quali soli protagonisti Come detto, Aristotele ci ha lasciato la testimonianza più preziosa sul teatro classico: oltre a indicarne le possibili origini, ha illustrato come si svolgevano gli spettacoli. Il suo intento era semplicemente descrittivo: egli voleva sottolineare la bellezza e la perfezione raggiunte dall'arte di Eschilo, Sofocle ed Euripide. I commentatori successivi, invece, interpretarono in senso vincolante e precettistico le considerazioni contenute nella Poetica e le imposero come fossero delle norme che si dovevano seguire “alla lettera” nella composizione di opere tragiche. Aristotele, in particolare, notò che le tragedie più belle: si svolgevano in una sola giornata di tempo («la tragedia cerca… di tenersi entro un sol giro di sole»); si svolgevano in un medesimo luogo («nella tragedia non è possibile rappresentare insieme, contemporaneamente, più parti di un'azione e bisogna limitarsi di volta in volta a sola quella parte che si svolge sulla scena e che è rappresentata dagli attori»); rappresentavano una sola linea narrativa («[la tragedia] deve comprendere un'unica azione, la quale sia un tutto coerente e compiuto in se stesso, e abbia principio mezzo e fine»). Da questi passi i commentatori successivi ricavarono e imposero quali norme le cosiddette “unità di tempo, luogo e azione”, destinate a esistere fino al 1800. Anche l'affermazione secondo cui la tragedia rappresentava «azioni nobili… di nobili personaggi» subì un'analoga sorte: Aristotele impiega l'aggettivo “àristos” che significa sia “nobile per stirpe” sia “nobile d'animo”; il passo si può dunque intendere in due modi: in un caso si pone l'accento sulla elevatezza sociale del personaggi, nell'altro sulla loro grandezza morale. Tuttavia si accettò soltanto la prima interpretazione e, per centinaia di anni, borghesi e popolani furono esclusi dalle scene tragiche, calcate unicamente da re e potenti. Cap. Il teatro a Roma I caratteri del teatro romano La nascita della letteratura scenica latina: le forme preletterarie La letteratura latina trova la sua specifica identità e quindi la sua data di nascita “ufficiale” quando, durante il III sec. A.C., gli eserciti romani nelle loro guerre di espansione vennero in contatto con l'evoluta cultura greca presente nelle città ellenizzate della Magna Grecia. Dopo la rapida conquista del sud Italia, le armate romane iniziarono la loro espansione verso oriente: già nel 133 a.C. gran parte dei regni ellenistici erano divenuti province dell'Urbe. Occorre ricostruire questo contesto storico per dar ragione del fatto che le prime opere di un certo rilievo della tradizione latina sono traduzioni o adattamenti di originali ellenici scritti da intellettuali di lingua greca che, fatti schiavi durante la conquista, vennero portati nella capitale e impiegati come precettori e insegnanti. Soprattutto a questi uomini si deve l'introduzione della letteratura drammatica greca in Roma, tuttavia delle loro opere non ci restano che pochi frammenti, importanti per gli studiosi della lingua latina ma per noi ininfluenti. Abbiamo poi testimonianze di forme preletterarie di cultura scenica autoctone, nate cioé in ambiente etrusco e italico: fescennini, sàture, atellane e mimi. Sebbene vi sia una certa difficoltà nel definire con chiarezza i confini che individuano i vari tipi di rappresentazioni, si può ipotizzare che il fescennino (di origine etrusca) e la sàtura avessero un carattere spiccatamente popolaresco e fossero costituita da allegri e mordaci canti, lazzi volgari e danze. L'atellana, invece, (il nome richiama la città di Atella presso Napoli) doveva essere una rappresentazione realistica che gli attori improvvisavano su di un canovaccio già stabilito, dove quattro erano i ruoli principali che davano vita a tipi fissi simili alle maschere: il balordo (Maccus), il mangione (Bucco), il vecchio sciocco (Pappus), il gobbo saccente (Dossenus). Il mimo, probabilmente di origine ellenica, come greco è il verbo “mimeomai” (“io imito”) da cui deriva il nome, era costituito da scene in cui gli attori eseguivano gesti buffi e improvvisazioni, spesso di natura licenziosa. Sempre secondo le testimonianze che noi possediamo, tutte queste forme erano viste con un certo sospetto (sia dagli intellettuali sia dalle autorità) poiché ritenute eccessivamente libere e rozze; molto presto, però, un efficace e costruttivo rapporto con la cultura greca portò la letteratura romana ad elaborare forme teatrali dove alcuni aspetti provenienti dalla cultura popolareggiante di atellane e fescennini vengono rivissuti attraverso la suggestione dei modelli greci e, grazie alla personalità e dall'intelligenza scenica di grandi autori quali Ennio, Plauto e Terenzio, il teatro latino si sviluppò assai precocemente rispetto agli altri generi. I primordi del genere Così come avviene anche nella tradizione ellenica, i latini distinguono le rappresentazioni sceniche in tragedie e commedie, diverse per argomenti, ambientazione, status sociale dei personaggi, mezzi linguistici e stilistici; gli archetipi di gran parte delle opere latine dei primi secoli erano prevalentemente greci. Nel caso della tragedia, non possediamo che frammenti delle opere di Ennio (239-169 a.C., nato presso Brindisi, in una zona dove si incontrarono fruttuosamente le civiltà greca, latina e osca): seppure tali brandelli siano bellissimi e di eccelsa qualità artistica non permettono allo studioso di svolgere attraverso di essi una disamina completa del genere; siamo invece in grado di delineare l'evoluzione della commedia poiché possediamo opere complete di Plauto e Terenzio. Anzitutto occorre rilevare che la commedia era di ambiente e argomento latini (detta togata; gli attori indossavano la toga, indumento tipico latino) sia greci (detta palliata; gli attori indossavano il pallio indumento, tipico greco). Era costituita da un prologo, da una serie di episodi ora cantati con accompagnamento musicale (cantica) ora dialogati (deverbia), da una conclusione; i cantica avevano una funzione assai importante perché risultavano parte costitutiva dell'azione e non fungevano da semplici intermezzi lirici e davano la possibilità all'attore di esibirsi in “pezzi di bravura” che necessitavano doti di canto, mimo e recitazione. Ovviamente, come accadeva per le opere greche, si trattava di testi in poesia e il metro impiegato variava a seconda delle diverse zone della rappresentazione. I testi non erano destinati ad essere scritti e tramandati ma vivevano solo per la recitazione (magari con margini di improvvisazione da parte degli attori); le trascrizioni che noi possediamo risultano quindi talvolta imprecise, soprattutto per ciò che riguarda la suddivisione delle battute fra i vari personaggi. Gli attori, i teatri, le forme Gli attori (tutti maschi, come in Grecia, tranne che nel mimo) indossavano una maschera detta “persona” (da cui il termine italiano “personaggio”), adatta a rappresentare i vari tipi e utile perché l'attore poteva così interpretare più ruoli (la maschera già identificava il personaggio: i capelli bianchi indicavano il vecchio, quelli neri il giovane, ecc.). Durante l'età repubblicana gli spettacoli venivano regolati dallo stato che li organizzava durante festività (in onore di Giove, di Apollo, di Cibele); in tempi assai remoti probabilmente alcuni ludi scenici avevano avuto una funzione religiosa (erano impiegati, ad esempio, nei funerali) ma di ciò ben presto non restò traccia e quindi si perse quel contenuto sacrale e politico, quella dimensione rituale ed educativa che invece aveva sempre caratterizzato il teatro nel mondo greco. Nel mondo latino le rappresentazioni sono puro divertimento; poiché l'organizzazione gravava interamente sull'erario, esse erano gratuite e quindi seguitissime dal popolo, anche dai plebei. Il teatro era inizialmente costituito da una struttura di legno rettangolare o semicircolare innalzata in luoghi pubblici quali il Foro, soltanto molto tardi (nel 55 a.C.) venne costruito un teatro in muratura simile a quelli della Magra Grecia. E' interessante notare che, secondo gli storici romani, la ritrosia a costruire teatri stabili deriverebbe dal timore che gli spettatori avrebbero potuto impigrirsi e quindi perdere quella sana vitalità che era principale virtù del buon romano. Per il carattere approssimativo e precario dell'ambiente scenico primitivo, il teatro latino non può sfruttare tutti quegli accorgimenti tecnici che erano stati elaborati in Grecia: la scena si riduce a un pannello con tre porte che consentono agli attori di entrare e uscire dal palcoscenico; tutto il resto è affidato alla bravura dell'attore e… all'immaginazione dello spettatore. Gli edifici in muratura romani assunsero poi alcune particolarità che li distinguevano da quelli greci: la più importante era una collocazione rigidamente frontale della gradinata rispetto alla scena. In tal modo viene a mancare quel carattere “avvolgente” che invece caratterizzava la platea ellenica dove la rappresentazione, pregna di valori antropologici, sacrali e culturali, doveva essere vissuta dagli astanti con partecipazione e coinvolgimento emotivo e intellettuale. In Roma era nettamente separata la zona destinata a chi agisce da quella destinata a chi guarda: in tal modo si enfatizzava soprattutto la qualità “spettacolare” del fatto teatrale. Poiché il teatro latino non aveva alcuna connotazione religiosa, anche lo status sociale di attori e autori era assai diversa: in Grecia essi godevano di grandissimo prestigio, mentre in Roma la loro professione godeva di pochissima considerazione sociale e quindi svolgevano tali funzioni persone di bassa condizione e schiavi. Poiché il teatro latino aveva pure poca valenza culturale, vi era una grande varietà di histriones maschi e femmine (attori, musici, mimi ma anche gladiatori, giocolieri, acrobati) che affidavano esclusivamente alla corporeità (talvolta anche oscena) l'attrattiva dell'evento scenico. Tito Maccio Plauto Poco sappiamo sulla vita di questo grande autore: di stirpe italica; tradizionalmente viene indicata quale sua città d'origine Sàrsina (località nell'appennino emiliano-romagnolo), dove sarebbe nato verso il 250 a.C. Molte leggende fiorirono sulla sua esistenza e neppure il nome è certo: Maccus (Macco) è una maschera dell'atellana e per questo si ipotizzò che la sua carriera sia iniziata come attore di atellane. La sua condizione sociale deve essere stata inizialmente assai modesta, com'era normale per gli attori nel mondo latino; è certo, invece, che le sue opere ebbero una grandissima fortuna, è di ciò il fatto che gli vennero attribuite130 commedie (vi era, evidentemente, chi sfruttava la sua popolarità). Morì, ricco e onorato, nel 184 a.C. Già in età antica, i filologi giudicarono autentiche soltanto 21 commedie che, sotto la denominazione di Corpus Varronianum , sono sopravvissute sino a noi. Tra queste, le più significative sono: Anfitrione, Aulularia , Càsina, Menaechmi , Miles gloriosus , Pseudolus ; tutte le commedie sono palliate, cioè di ambiente greco. Il teatro plautino ha la sua fonte nella commedia nuova e da essa sono tratti gli schemi narrativi, tipici e convenzionali, che ne costituiscono l'ossatura: ritroviamo il tema della beffa perpetrata ai danni di vecchi e di sciocchi; il tema del riconoscimento in extremis della vera identità dei personaggi (la cosiddetta “agnizione”); il tema del “doppio”. Questi motivi sono ricavati soprattutto da Menandro imitato con la tecnica della “contaminatio” che consiste nell'utilizzare scene di più opere quali modelli per la medesima commedia. In Plauto non troviamo alcun riferimento alla vita sociale e politica del tempo e molti studiosi si chiesero le ragioni di questa mancanza. Alcuni sottolinearono che i modelli menandrei già avevano espunto l'attualità; altri che il teatro romano era sottoposto alla regolamentazione dello stato che organizzava i ludi scaenici e operava un controllo censorio; altri, infine, che gli attori appartenevano agli stati più bassi della popolazione e quindi erano meno liberi del cittadino Aristofane. Nelle commedie i caratteri e la psicologia dei personaggi sono generici, tipi fissi privi di ogni caratterizzazione individuale: il vecchio sciocco e libidinoso, il vecchio comprensivo e generoso, lo schiavo astuto, lo schiavo sciocco, la prostituta, il giovane amante, il lenone, il soldato. Anche l'ideologia che traspare è piuttosto generica, risolvendosi in una scontata polemica contro i vizi, nell'elogio della vita semplice e parca della campagna, nel rispetto delle convenzioni sociali. La bellezza e originalità delle commedie sono da ricercarsi piuttosto nel linguaggio che, senza indulgere eccessivamente al lazzo e alla volgarità, è vivo ed efficace: basti pensare che gli storici della lingua latina da sempre hanno considerato le commedie plautine come la testimonianza più sicura per comprendere come “realmente” si parlasse nella Roma del II sec. Miles gloriosus (Il soldato fanfarone) La commedia, che ha un modello Menadro, intreccia vari motivi tipici del teatro plautino (soprattutto l'agnizione e la beffa) in modi complessi e neppure sempre coerenti. Pleusicle, giovane ateniese, è innamorato della prostituta Filocomasio, che lo ama ma viene “ceduta” al “miles gloriosus” del titolo, Pirgopolinice (“il conquistatore delle città”). Palestrione, servo fedele del giovane cerca di avvisare il padrone ma viene catturato dai pirati e venduto anch'egli al soldato. Pleusicle, Filocomasio e Palestrione, con la complicità di un vicino di Pirgopolinice, iniziano a tramare un imbroglio ai danni del “miles” per permettere che la ragazza torni al suo innamorato e lo schiavo al suo primo padrone. L'astuto Palestrione solletica la sciocca vanità e la presunzione di Pirgopolinice (che si ritiene anche un grande amatore) e così la trappola va a buon fine. La trama non è lineare e originale, tuttavia la delineazione della figura del soldato ottuso, spaccone e vanaglorioso, che viene sistematicamente ingannato e però si giudica un irresistibile amante e un guerriero invincibile, diviene nel corso dei secoli una maschera fortunatissima. Vengono proposti due passi: l'atto primo e la prima scena dell'atto secondo. Dapprima sentiamo la boria guerresca ed erotica di Pirgopolinice, istigato da Artotrogo, fannullone e parassita che vive alle spalle del “miles” e quindi lo lusinga in modi grotteschi ed eccessivi; nell'altra scena Palestrione ci racconta l'antefatto della storia e le sue mene per raggirare il soldato fanfarone. Aulularia (La commedia della pentola) Una pentola piena d'oro e una figlia sono le ricchezze di Euclione, l'avaro protagonista di questa commedia, prototipo di tutti gli avari del teatro mondiale. La commedia è aperta da un prologo in cui il Lare (ovvero la divinità tutelare della famiglia nell'antichità romana) racconta che ha fatto scovare al padrone di casa una pentola zeppa d'oro perché egli ne faccia buon uso, cioè dia una consistente dote a Fedria, la sua figliola, buona e religiosa. Purtroppo, la ragazza è stata violentata da un giovane sconosciuto durante una notte festiva e ora è sul punto di partorire mentre l'avaro, ignaro del fatto, non intende privarsi delle sue ricchezze per dotare la figlia e, anzi, è attentissimo affinché nessuno venga a conoscenza del tesoro. E' ossessionato dal timore di un furto e per questo la sua unica occupazione è custodire la pentola con estrema attenzione. Megadoro, un vecchio ricco, vuole sposare Fedria ed Euclione acconsente, dopo essersi bene accertato che lo scapolone non sia a conoscenza del tesoro e quindi accetti la ragazza anche senza dote. Licoride, nipote di Megadoro, è il giovane che ha violentato, durante una notte di ebbrezza, Fedria; però egli ama la ragazza, desidera rimediare al misfatto dichiarandosi padre del nascituro e quindi chiede in sposa la giovane. Nel frattempo la pentola è scomparsa… la commedia è mutila nel finale, ma sappiamo che la vicenda avrà un lieto fine: i giovani si sposeranno, Euclione darà la ricchezza della pentola alla ragazza e potrà tornare, senza più preoccupazioni, felice. Si presentano qui due momenti di una commedia molto gradevole anche per il nostro gusto di moderni, ricca di trovate sceniche buffe e felice nella definizione dei personaggi: la delineazione della figura dell'avaro che vede in ognuno (nella serva di casa, in un innocente cuoco, e persino negli spettatori) dei possibili ladri; infine lo strepitoso dialogo fra Licoride e Euclione: l'uno è pentito della sua avventura galante e umilmente chiede perdono per il danno arrecato alla ragazza e il vecchio padre, ossessionato dall'oro, crede che il giovane voglia scusarsi per il furto della pentola. Gli equivoci che ne conseguono sono ovviamente comicissimi.