Dal mito platonico della biga alata alla colomba

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Dal mito platonico della biga alata alla colomba
G. Limone, Dal mito platonico della biga alata alla colomba di Kant: per una rivoluzione nel
rapporto tra corpo e conoscenza, in F. Ricci (a cura di), Il corpo nell’immaginario. Simboliche
politiche e del sacro, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2012, pp. 187-204, ISBN 978-88-6134883-7
Dal mito platonico della biga alata alla colomba di Kant:
per una rivoluzione nel rapporto tra corpo e conoscenza
di Giuseppe Limone
(32)
Vorremmo qui tentare di scavare in un classico per trovarvi uno strato specifico, che
chiameremmo di perenne inattualità. Il testo a cui ci riferiremo è il Fedro di Platone.
Potremo forse scoprire in Platone uno straordinario pensatore che, attraverso i miti, ci
parla non dal passato ma dal futuro.
Terremo conto, per le necessità di citazione, della traduzione di Piero Pucci1 . Nel
Fedro si racconta il mito dell’anima. L’anima, per Platone, è tripartita e nasce da una
potenza d’insieme costituita da una biga con due cavalli alati e un auriga (symphytōi
dynamei hypopterou zeugous te kai ēniochou2 : «potenza d’insieme di una pariglia alata
e di un auriga»). Citiamo qui a partire dal cap. 25 e seguenti. Il Fedro si colloca, nella
cronologia delle opere di Platone, secondo la generalità degli autori, dopo la
Repubblica, dopo il Simposio e prima del Timeo, il quale ultimo costituisce, per così
dire, la dilatazione cosmico-ontologica del Fedro. In quest’ultimo troviamo esposti
contemporaneamente il mito dell’anima, il discorso sulla retorica e la critica della
scrittura. Alcuni studiosi hanno tratto da questo tipo di composizione l’idea che il testo
platonico sia eterogeneo, ma in realtà l’accostamento compiuto da Platone non è
casuale. Vorremmo qui sostenere che proprio questa apparente eterogeneità mostra
come Platone sia, per così dire, un “pensatore a spirale”, perché, mentre pensa, riflette
sul suo pensare e riflette su questa riflessione che ha per oggetto il suo pensare. I tre
discorsi, pur diversi, che si trovano nel Fedro di Platone sono un esempio forte di questa
metodologia. Se nel mito dell’anima Platone si interroga sull’anima, nel discorso sulla
retorica si sta interrogando sul discorso mitico che la racconta e nel discorso sulla
1
2
Platone, Fedro, traduzione di Piero Pucci, introduzione di Bruno Centrone, Laterza, Roma -Bari 2005.
Platone, Fedro, 245a (XXV).
1
scrittura si sta interrogando sul problema del mettere in scrittura un qualsiasi discorso
retorico, fra cui il mito e lo stesso mito dell’anima.
Esaminiamo alcuni tratti del mito dell’anima. Il mito è una struttura narrativa che ha
da fare col fondamento, ossia con l’ultimo strato dell’ontologia, ma senza la pretesa di
dirne in maniera ultimativa. Si tratta di una struttura che ha, per così dire, una
composizione meticcia e che arriva nel mondo del discorso, del Logos, come un
meteorite. Questo meteorite è un luogo nel quale bisogna scavare. In questo senso, quel
mito si dà certamente in una forma storica, ma ha, al tempo stesso, una sua astoricità.
Si tratta di una astoricità che, pur esprimendosi necessariamente in forma storica, in
maschera storica, dà per sempre a pensare. Il mito quindi, da un lato, ha una forma
storica perché ha da fare con un materiale storico (e non potrebbe non farlo) e, dall’altro
lato, ha una sua astoricità, perché allude a qualcosa che sta al suo fondo, non dicibile
con Logos definitivo. Un materiale mitico è terreno delicatissimo: esso non si indaga
solo con i criteri della prospettiva storica, né solo con i criteri che dalla prospettiva
storica prendono distanza. Un materiale mitico si maschera di storicità, mentre interroga
una coscienza desiderante che si maschera di criticità. Così un materiale mitico
sollecitante incontra una coscienza indagante.
Quando Platone, dopo il discorso sull’anima, parlerà della retorica e della scrittura,
bisogna capire che egli sta parlando ancora del suo stesso mito sull’anima. Egli cioè sta
esponendo e criticando le difficoltà insite nello stesso mito che sta raccontando,
mostrandone le deficienze e i varchi per il possibile oltrepassamento. Il mito dell’anima
è raccontato pur sempre in modo retorico, per persuadere qualcuno, ed è raccontato pur
sempre in modo scritto, con tutte le deficienze che Platone nella scrittura individua.
Come si sa, Platone muove alla scrittura tre obiezioni di fondo: la prima è nel fatto che
la scrittura, interrogata e criticata, non può difendersi da sola perché ha bisogno di un
padre che la difenda e che in quel momento manca; la seconda obiezione è nel fatto che
la scrittura, nel momento in cui è divulgata fra molti, viene banalizzata e pertanto sarà
guardata solo in superficie, soprattutto se questa superficie è brillante e suggestiva; la
terza obiezione consiste nel fatto che la scrittura ha una sua fissità, che non riesce a
esprimere il movimento inesauribile che la sottende, di cui può essere soltanto pallida
espressione3 . Quando Platone si occupa della retorica e della scrittura, sta in realtà
criticando se stesso, sapendo delle inevitabili deficienze strutturali che il racconto del
mito nasconde. Siamo pertanto davanti a un racconto mitico, espresso in modo retorico
e in forma scritta, sapendo che quel racconto ha irrimediabili limiti derivanti dalla
retorica e dalla scrittura e sapendo contemporaneamente che non si può fare a meno né
del mito, né della retorica, né della scrittura. Nel Fedro, infatti, Platone sembra ridurre il
peso della sua critica radicale alla retorica e della sua critica radicale alla scrittura. Egli
cioè sta relativizzando la sua stessa critica.
Il mito dell’anima, meteorite precipitato nel pianeta del Logos, si palesa nella materia
della sua storicità, rinviando ai movimenti possibili che la sottendono, nei quali
dobbiamo scavare. Noi stessi, posteri di Platone, apparteniamo alla necessità e alla
storia di questo scavo, di cui ci sono state tramandate attraverso quel testo le postille. In
questa prospettiva, il nostro scavo ermeneutico è lavoro di interpretazione dei significati
3
Vedi Platone, Fedro, 274c-276a (LIX-LX).
2
che Platone in quella figura ha mostrato e celato e, contemporaneamente, scoperta di
significati ulteriori che Platone stesso poteva non aver pensato e che, sapendo di questa
sua lacuna strutturale, aveva ai posteri tramandato4 . Dicendo mito dell’anima, in realtà
noi rileviamo tre cose: diciamo “mito dell’anima” nel senso del genitivo oggettivo con
cui si esprime il mito che parla dell’anima; diciamo “mito dell’anima” nel senso del
genitivo soggettivo in quanto è la stessa anima a parlare attraverso un mito, perché è
l’anima a dire il suo mito rivelando in esso la sua verità (in forma storica, in forma
retorica, in forma scritta); ma diciamo “mito dell’anima” anche in un terzo senso, quello
del genitivo di denominazione, in quanto è la stessa anima a essere un mito, che dà a
pensare.
A ben guardare, questa struttura narrativa consistente in un mito esprime la struttura
di una domanda. Domandiamoci: che cos’è la domanda? In che cosa la domanda si
differenzia dalla risposta, con cui fa coppia essenziale? Diremmo che la domanda è quel
movimento di pensiero che muove da una struttura di comparazione. Nella domanda si
sta comparando qualcosa con qualcos’altro. In questa struttura la comparazione si dà
come qualcosa che dà a pensare, perché il pensiero come Logos non l’ha ancora
elaborato. In questa struttura di comparazione si mostra non un risultato, ma una
direzione. Se in una comparazione io ho già pronta la classificazione entro la quale i
termini comparati sono collocati, io sono uscito dalla domanda perché mi sono collocato
già nell’orizzonte circoscritto e classificatorio delle risposte. Se il mito è e resta
domanda, esso sta indicando una comparazione da elaborare e una direzione da
percorrere, sapendo che esse sono importanti ma non sapendo ancora quali saranno i
risultati conseguibili. In questa prospettiva, l’unico risultato di cui siamo in possesso è
la direzione. Data la risposta alla domanda, viene realizzata in realtà una classificazione.
Qui si definiscono un’appartenenza e una contenenza, là dove accadono l’appartenere di
un termine a una classe e il contenere che questa classe realizza del termine che le
appartiene. Si verifica qui, cioè, l’evento di un giudizio compiuto. Nella struttura
narrativa del mito, invece, il mito si rivela un lavoro per definizione incompiuto. Nella
comparazione compiuta io concettualizzo, nella comparazione incompiuta io traccio una
direzione, il percorso di un’idea. Nella concettualizzazione l’itinerario è chiuso,
nell’idea l’itinerario è aperto. Il mito è una domanda che istituisce un cammino. Il mito
platonico, come l’anima e come l’idea, è un ago magnetico che segna una direzione.
Il mito dell’anima nei tre sensi delineati (genitivo oggettivo, genitivo soggettivo,
genitivo denominativo) è raccontato da Platone, è raccontato dall’anima di Platone che
in Platone parla, ma, dovremmo anche aggiungere, è raccontato da uno strato
antecedente allo stesso Platone, che nell’anima di Platone parla: lo strato delle pratiche
misteriche antiche a cui Platone si è profondamente abbeverato. Nel mito dell’anima
parla qualcosa che attraverso l’anima di Platone precede Platone.
Noi dobbiamo quindi scavare in questa struttura narrativa – attraverso strumenti
storici, filologici e teoretici – per cogliervi qualcosa che dal nostro luogo di
contemporanei possiamo inventare e trovare, là dove lo stesso inventare è un momento
del trovare e lo stesso trovare nasconde un inventare. Platone dice espressamente che, se
4
Per un panorama sulla critica platonica, articolata in interpretazioni esoteriche e anti-esoteriche, da un
lato, e in interpretazioni sistematiche e aporetiche dall’altro lato, si veda l’introduzione di Bruno Centrone
a Platone, Fedro, cit., pp. VII-XLVIII, con bibliografia essenziale nell’apparato di note.
3
noi dovessimo definire la natura dell’anima, dovremmo essere un dio, ma non lo
siamo5 .
Dobbiamo quindi accontentarci di lavorare con materiali penultimi per approssimarci
a discorsi ultimi. Questi materiali sono immagini6 . Se ci confrontiamo col modo con cui
Platone esprime miticamente l’anima, ci accorgiamo che non siamo davanti a un
semplice racconto, perché in quel racconto si tocca qualcosa di profondo, di
insondabile, di sacro. Guardando questo mito nel suo doppio strato di storicità e di
astoricità, possiamo accorgerci che da esso può ricavarsi un modello specifico nel
rapporto fra corpo e conoscenza, anzi, per meglio dire, possono ricavarsi più modelli
possibili. Noi ci concentreremo su un particolare possibile modello.
Platone parla dell’anima come di una potenza d’insieme, costituita da due cavalli e da
un auriga. Si tratta di due cavalli puntualmente descritti, così come è descritto l’auriga.
Siamo davanti a tre forze che, pur imprigionate nel corpo, dicono qualcosa del corpo e
oltre il corpo. Quali sono le caratteristiche che del mito dice quel quid che parla
attraverso il mito? Si presentano qui i connotati del cavallo nero, del cavallo bianco e
dell’auriga. I due cavalli sono guardati entrambi come forme di energia accoppiate
(biazomenon hippōn)7 . Leggendo il testo platonico, vediamo che il cavallo nero è
guardato come bia (energia) sregolata. Si tratta di un cavallo che ha una sua energia
forte e multidirezionale. Se guardiamo al cavallo bianco, leggiamo che è kalos te kai
agathos kai ek toioutōn, cioè appartiene alla razza dei cavalli che sono belli e buoni8 .
Egli è caratterizzato dalla timia meta sōphrosunes te kai aidous: vi si legge cioè «una
gloria temperata e pudica»9 , là dove la timē è la forza nobile, che viene temperata dal
limite sapiente costituito dall’incrocio di sōphrosunē (temperanza) e di aidos (pudore).
Si tratta di due cavalli considerati di razza opposta (enantios)10 , ma complementari nella
potenza d’assieme dell’anima. Il cavallo bianco risponde immediatamente all’auriga,
mentre il cavallo nero va in direzione diversa, in quanto resiste. L’auriga è il logos.
Logos che, come si sa, è termine molto pregnante, che significa molte cose, forse anche
troppe, ma tutte da attraversare e congiungere: è il raccogliere, l’unificare, il pensare, il
ragionare, il parlare, il discorrere, il dialogare, il raccontare. Sono tutte connotazioni in
cui è necessario scavare.
Se consideriamo la tripartizione dell’anima, ci accorgiamo che possiamo guardarla
secondo tre diversi profili: secondo il profilo dell’intuizione della meta, secondo il
profilo della capacità equilibratrice e secondo il profilo del volume vitale. Le tre figure
hanno tre specializzazioni diverse. L’auriga guarda alle idee eterne, verso la cui
direzione deve andare. Egli muove verso una meta precisa, verso l’idea. Il cavallo
bianco, che appartiene all’eccellenza morale, alla razza dei belli e buoni, si muove
secondo la stessa direzione che gli trasmette l’auriga essendo dotato delle qualità
specifiche che gli consentono di condividerne l’attrazione. Il cavallo nero, invece, è
5
Platone, Fedro, 246a (XXV).
«Dell’immortalità dell’anima s’è parlato abbastanza, ma quanto alla sua natura c’è questo che dobbiamo
dire; definire quale essa sia sarebbe una trattazione che assolutamente solo un dio potrebbe fare e anche
lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa umana e più breve» (ibid .).
7
Platone, Fedro, 248a (XXVIII).
8
Platone, Fedro, 246b (XXV).
9
Platone, Fedro, 253d (XXXIV).
10
Platone, Fedro, 246b (XXV).
6
4
tozzo e irregolare, è cioè sregolato, raccogliendo in sé tutte le direzioni possibili, con
preferenza per i piaceri immediati. Il cavallo nero va in direzione opposta a quella del
cavallo bianco, che va invece docilmente nella direzione trasmessagli dall’auriga. Dal
punto di vista della specializzazione, l’auriga rappresenta l’istanza noetica, il logos; il
cavallo bianco è connotato dalla eccellenza morale (il traduttore dice: «nobile e buono e
di buona razza»); il cavallo nero, tozzo e resistente, rappresenta innanzitutto l’istanza
vitale, per quanto sregolata. A prima vista, l’auriga ha il compito di governare i due
cavalli e la biga, cercando di puntare verso l’alto. Ciò è forse vero solo in una prima
approssimazione, perché esiste un’altra possibile verità da investigare, di cui Platone
stesso ci propizia tracce. Nella prospettiva platonica, infatti, bisogna saper costruire il
discorso attraverso la via diairetica, che è la modalità retorica della dialettica. È noto che
fra gli studiosi si discute sulla differenza tra diairetica e dialettica, mirandosi
generalmente a vedere nella diairetica una mera modalità retorica del discorso e nella
dialettica una modalità capace di esprimere discorsivamente le articolazioni ontologiche
del reale11 . Sia nella diairetica, sia nella dialettica il pensiero opera per diramazioni
progressive, aspirando in modo ascendente, attraverso percorsi infiniti, a una possibile
unità di carattere universale12 . Qualunque posizione si sposi nel rapporto fra diairetica e
dialettica, rimane il fatto che ci si trova davanti a un procedimento del pensiero che
tende, attraverso suddivisioni e unificazioni, a persuadere e/o a conoscere. Si realizza
così un movimento del pensiero che non discende verso il kata, ma sale verso l’ana,
ossia verso l’universale, procedendo per articolazioni e per (tentate) unificazioni. Si
tratta, in realtà, dello stesso movimento in cui si esprime la memoria, nella quale ogni
momento dell’insieme richiama gli altri ed è da essi richiamato.
C’è, in questo testo platonico, un punto degno di particolare attenzione, quasi
freudiano, in cui l’autore, parlando del cavallo nero che si trova davanti al corpo amato,
osserva come egli voglia soddisfare il proprio desiderio al più presto, abbreviando il
percorso più lungo e rifiutandone di fatto il prolungamento virtuoso. «Quando l’auriga
alla vista del volto amoroso, tutto infiammato l’animo di quella sensazione, è invaso
dalla smania e dal pungolo della passione, il cavallo docile all’auriga, costretto ora
come sempre dal pudore, si trattiene dal lanciarsi sull’amato, ma il cavallo, sordo alle
sferzate della frusta, scalpitando è spinto di forza e, mettendo in grande imbarazzo il
compagno e l’auriga, li costringe ad avanzare verso l’amato e a rammemorare i piaceri
dell’amore afrodisiaco. […] E di nuovo cerca di forzarli ad avanzare contro voglia e
solo a stento cede alla loro preghiera di rimandare a un’altra volta. E quando gli
[all’amato] sono vicini, [il cavallo nero] protende innanzi la testa, rizza la coda, morde il
freno e tira avanti impudico. Ma l’auriga, impressionato ancor più violentemente di
prima, rovesciandosi indietro come un corridore rinculante dalla barra di partenza, con
rinnovata violenza strappa indietro dai denti il morso del cavallo insolente
insanguinandogli la lingua malvagia e le mascelle, e atterrandolo sulle anche lo dà in
preda ai dolori. Quando però, spesse volte sottoposto allo stesso trattamento, il malvagio
abbandona l’insolenza, ubbidisce finalmente, tutto umiliato, alla guida dell’auriga e,
11
Per alcuni cenni sul punto si veda l’introduzione di Bruno Centrone a Platone, Fedro, cit. p. XXII e
ss.
12
Su un possibile rapporto, in Platone, tra la dialettica e il labirinto, vedi Giuseppe Limone,
Dimensioni del simbolo, Arte tipografica, Napoli 1997, pp. 48-51.
5
quando vede il bell’amato, muore dalla paura. Così avviene che l’anima dell’amante
tiene dietro all’amato, vergognosa e riverente»13 . Il cavallo nero, cioè, più che tradire il
desiderio del bello e del bene, ne vuole semplicemente anticipare la soddisfazione.
Platone rappresenta il cavallo nero nel suo accosciarsi14 , mentre l’auriga, tirando il
morso, cerca di indirizzare quell’energia nella giusta direzione. Il cavallo nero non
manca di bía, ma di direzione e, d’altra parte, non potrebbe esserci direzione senza bía.
Questo percorso platonico, che tiene conto attraverso la diairetica e la dialettica delle
divisioni e dell’unità, può essere, a nostro avviso, guardato anche in altro modo: modo
perfettamente compatibile con quello con cui Platone guarda i movimenti della mente
nel suo confrontarsi con l’idea. Potremmo, a questo punto, ripensare il rapporto fra i due
cavalli e l’auriga, perché, se è vero che l’auriga porta all’anima tripartita il contributo
dello sguardo sulla meta e se è vero che il cavallo bianco porta all’anima il contributo
della forza nobile e moderatrice, capace di promuovere e di contenere, è altresì vero che
il cavallo nero, per sua particolare specializzazione, porta all’anima il contributo del
volume energetico, anche se non regolato e mal direzionato. In realtà, l’anima
raccontata da Platone, se è potenza d’insieme delle tre componenti che si fanno una cosa
sola, deve poter essere considerata nella sua unità, se si guarda al cavallo nero non come
a una componente di cui liberarsi ma come a una componente da cui si trae specifica
forza.
Vorremmo richiamare a questo punto e ad altri fini una celebre similitudine di
Emanuele Kant, là dove egli parla dell’illusione della colomba, la quale, se potesse
pensare, immaginerebbe di poter volare più velocemente in assenza d’aria. La verità è,
come nota Kant, che, se l’aria mancasse, la colomba non potrebbe neppure volare.
L’aria costituisce, per il suo volo, non solo la resistenza, ma il sostegno necessario.
Com’è noto, Kant riferiva questa immagine all’illusione trascendentale della ragione la
quale s’illude che senza le forme a priori potrebbe vedere la realtà direttamente, senza
schermi, senza intermediazioni, mentre in realtà senza le forme a priori la ragione non
sarebbe in grado di operare in alcun modo.
Se pensiamo a questo punto all’immagine tripartita dell’anima e al modo in cui se la
rappresenta Platone nel mito, possiamo accorgerci che il cavallo nero, costituente il
momento ctonio nel movimento complessivo dell’anima, presta a quella «potenza
d’insieme» dell’anima l’energia senza la quale essa non potrebbe volare. Potremmo
dire, paradossalmente, se vogliamo prendere sul serio la dialettica platonica come arte
delle suddivisioni e dell’unità, che nello stesso Logos abita l’energia delle viscere, così
come nelle stesse viscere abita il fattore del Logos. Si tratta di vedere in modo
radicalmente dialettico e unificante la potenza d’insieme di cui il mito parla, in cui tutti
gli elementi dell’insieme sono parimenti essenziali nella dinamica della sua vita. Nel
gioco complessivo di questa dinamica, al tempo stesso ripartita e unitaria, ogni
momento dell’insieme s’innesta nell’altro entrando a farne parte. Se infatti guardiamo
alla figura dell’auriga nel momento in cui l’anima s’incontra con l’amato, il testo
racconta che l’auriga è «tutto infiammato» (pasan aisthēsei diathermēnas tēn psuchēn:
253e). Ciò significa che l’auriga, in quanto Logos, è tutto pervaso dall’energia che gli
13
Platone, Fedro, 253e-254e (XXXIV- XXXV).
14 Vedi Platone, Fedro, 254c (XXXV).
6
viene dai corsieri, compreso quello nero, che, diversamente dal bianco, ha una
prevalente funzione mobilitante più che frenante. Né va trascurato, come un’accorta
disamina filologica potrebbe mostrare, che la descrizione minuziosa con cui il mito
Platonico racconta l’espandersi e l’erigersi dell’ala contiene un subliminale rapporto con
una descrizione sensuale, di cui vengono rappresentati sulla scena suggestivi dettagli. In
una ideale trasposizione metaforica che veda l’auriga come “mente”, il cavallo bianco
come “cuore” e il cavallo nero come “viscere”, potremmo dire che della mente entrano
a far parte integrante le viscere e il cuore, così come potremmo dire che accade
parimenti per le altre due figure. Nella mente c’è il contributo dinamico delle viscere e
del cuore, così come c’è il contributo dinamico della mente nelle viscere e nel cuore. In
questa luce, dell’anima potrebbe dirsi, parafrasando Dante Alighieri, che essa, per
essere anima, in qualibet redolet parte nec cubat in ulla (fa sentire tracce di sé in ogni
parte, senza risiedere in nessuna: è dappertutto e in nessun luogo). Andrebbe forse qui
complessivamente rivisitata l’immagine della stessa biga, la quale si pone in realtà come
luogo in cui si concentrano dinamicamente tutte le tensioni di cui è depositaria e
unificatrice.
Occorre saper pensare l’unità nella sua concretezza dialettica e memoriale, là dove
ogni momento, entrando nella composizione di ogni altro, è essenziale alla dinamica
complessiva. Si scopre così che ogni punto dell’insieme contiene l’insieme e che da
ogni punto dell’insieme si irradiano tensioni in tutte le direzioni, generando la dinamica
unica che ne deriva. A questo punto possiamo capire che nel cavallo bianco Platone ci
propizia la rappresentazione del rapporto con l’altro: il cavallo bianco è aidos pudore,
mentre il cavallo nero è bia, ossia energia e l’auriga «logos», ossia senso della meta e
della direzione. Se ci sforziamo di guardare a quel mito dal nostro luogo di
contemporanei, sapendo che anche questo luogo entra a far parte integrante della
consistenza di quel mito, possiamo dire che ognuno dei tre momenti contiene in certa
misura anche l’altro, perché tutti e tre esprimono quella «potenza d’insieme» in cui si
realizza, attraverso la diairetica e la dialettica, la memoria vivente dell’anima che vola.
Forse non è affatto un caso che nel mito del Fedro Platone parli non solo dell’anima,
della retorica e della scrittura, ma anche della memoria: la memoria non è soltanto ciò
che mostra la povertà della scrittura, ma anche quell’unità vivente che costituisce lo
statuto stesso dell’anima nelle sue interne distinzioni.
Il mito dell’anima, in quanto fa centro sulla tensione che spinge verso le idee,
s’incardina intorno all’essenza di quel movimento che è l’amore. L’anima, in questa
prospettiva, è il suo stesso amore che si volge verso l’eternità dell’idea. Ma, a questo
punto, s’inserisce nel mito platonico un momento essenziale. L’anima, per diventare
conoscenza dell’idea, non può non incontrare il corpo terreno a partire dal quale si
eleva. «Ecco dove l’intero discorso viene a toccare la quarta specie di delirio: quello per
cui quando uno, alla vista della bellezza terrena, riandando col ricordo alla bellezza
vera, metta le ali, e di nuovo pennuto e agognante di volare, ma impotente a farlo, come
un uccello fissi l’altezza e trascuri le cose terrene, offre motivo d’essere ritenuto uscito
di senno. Quel delirio, dico, che è la più nobile forma di tutti i deliri divini e procede da
ciò che è di più nobile, quanto per chi ne è preso tanto per chi ne partecipa; e chi
7
conosce questo rapimento divino, e ami la bellezza, è detto amatore»15 . L’anima mira
verso l’alto passando attraverso l’altro: in questa attrazione, che viene dall’oggetto, si
esprime la fecondità dell’anima che coopera con l’altra anima attraversata. Ciò che
vale per tutte le idee, vale ancor più per l’idea della bellezza, alla quale non si può
tendere se non a partire da un corpo terreno. Ma, per incontrare veramente questo corpo,
bisogna incontrare un’altra anima, che in quel corpo è radicata. La conoscenza dell’idea,
pertanto, nel momento in cui passa per l’incontro con un corpo, passa per l’incontro con
un’altra anima, ossia per l’incontro con un “tu”. Il luogo di questo contatto è il rapporto
fra l’amante e l’amato. In questo rapporto, di cui la relazione maestro-allievo è un
possibile modello topico, si vive la conoscenza come vissuto di conoscenza che entra in
risonanza con un altro vissuto, il vissuto del tu. L’anima dell’amante s’incontra con
l’anima dell’amato, che reagisce e restituisce16, e, vivendo il delirio – il vissuto – di
questo amore, è condotto dall’amore alla conoscenza della bellezza, che non è altro se
non l’oggetto ideale d’amore. In questo senso, l’idea di bellezza è oggetto d’amore alla
seconda potenza, perché è al tempo stesso oggetto d’amore in quanto idea e oggetto
d’amore in quanto idea specifica in cui si sostanzia l’amore. Ogni idea è termine di un
movimento d’amore, tuttavia l’idea di bellezza è non solo termine ma nucleo del
movimento stesso che lo spinge17. Platone passa così dal mito dell’anima al mito
dell’anima che incontra l’altra anima attraverso la corporeità: attraverso una corporeità
che è sia la corporeità dell’altro sia la corporeità propria, che si dà in un vissuto. Tutti i
movimenti, interiori ed esteriori, attraverso cui Platone minuziosamente rappresenta i
fenomeni d’amore, costituiscono la descrizione in termini di vissuto del rapporto fra due
anime che avviene attraverso il rapporto fra corpi: corpi da intendere non solo come
corpi viventi, ma come corpi vissuti. Mentre la corporeità vivente, infatti, dice il corpo
osservato dall’esterno, il vissuto dice la corporeità sentita da dentro, dall’interiorità.
Platone, attraverso il mito dell’anima, ci sta introducendo a un nuovo modo di intendere
la conoscenza. Attraverso la conoscenza della bellezza si esprime, in maniera più diretta
che in altre, la conoscenza attraverso il vissuto della corporeità. In questo rapporto tra il
15
Platone, Fedro, 249de (XXX).
Su questo complesso fenomeno amoroso in cui si sviluppa un progressivo coinvolgiment o
dell’amato nell’iniziativa dell’amante vedi Platone, Fedro, 255a-256a (XXXVI). Si tratta di un passo che
sembra un precursore del dantesco «Amor ch’a nullo amato amar perdona» (Dante, Inferno, canto V, vs
103). In questo rapporto amoroso fra l’amante e l’amato Platone sottolinea, nel passo sopra indicato
(Fedro, XXXVI, 255 a - 256 a), la possibilità di una confusione psicologica tra eros e philía. Da questa
sensibilità platonica all’eros parte una tradizione ricchissima, che conoscerà molteplici sviluppi e
contaminazioni. Per una disamina forte e originale delle tradizioni di pensiero che si muovono intorno a
eros, philía e agapē si veda Andrea Milano, Donna e amore nella bibbia. Eros, agape, persona,
Dehoniane, Bologna 2008.
17
Per Platone, l’anima dell’amante, nel conoscere la bellezza attraverso l’amato, sceglierà secondo i
criteri della bellezza di cui ha avuto intuizione nel mondo ultraterreno, a seconda del dio al cui seguito è
stata. Diversa infatti sarà la sua scelta se avrà seguito Zeus o Ares o Era o Apollo, o altri ancora. L’anima
pertanto cercherà o proietterà nell’amato le virtù di quel dio che l’ha improntata di sé e, inoltre, tenderà a
modellarsi e a modellare l’amato secondo le virtù di quello stesso dio. L’anima dell’amante renderà così
culto a valori diversificati, come la saggezza e l’arte del comando, la bellicosità, la regalità, etcetera,
provocando nell’amato simmetrici movimenti nei propri confronti. Ogni anima rivela, perciò, un suo
specifico carattere nel decidere chi sia l’amato attraverso cui potrà ascendere alla bellezza. Valori diversi
tra loro potranno condurre a un’unica idea di bellezza. Sul punto vedi Platone, Fedro, 252c-253c
(XXXIII).
16
8
vissuto dell’anima e il vissuto dell’altra accade un fenomeno analogo a quello già
osservato nel rapporto tra le figure interne dell’anima. Accade cioè un fenomeno di
interazione tra eventi. Platone rappresenta questo fenomeno col movimento di un’onda
o di un vento che, colpendo il corpo dell’amante e passando al corpo dell’amato, si
riverbera di nuovo sul corpo dell’amante, innestando – ancora una volta – un’
interazione circolare18 .
Guardiamo alle modalità con cui Platone descrive il rapporto fra l’amante e l’amato:
«Così avviene che finalmente l’anima dell’amante tiene dietro all’amato, vergognosa e
riverente. Così l’amato, divenendo oggetto di culto come un dio non già da parte di uno
che simula, ma da parte di uno che davvero prova tale devozione, anche egli di sua
natura si dispone amichevolmente verso il suo devoto; e se prima era stato fuorviato da
compagni e da altri che trovavano vergognoso egli avesse commercio con un amante, e
se per questa ragione egli lo aveva respinto, tuttavia, col passare del tempo, l’età stessa e
la forza delle cose lo spingono ad accoglierlo nella sua intimità»19 .
Importantissimo è quindi nel mito platonico il momento in cui si instaura il rapporto
col tu, col tu del discepolo. È qui infatti che l’amore viene chiamato a una scelta di
direzione e di responsabilità, mettendo in causa l’identità stessa del bene. È nel modo in
cui il maestro si rapporta col discepolo il possibile collaudo dell’identità di questo bene
e dell’amore che lo partorisce. Qui, nel mito platonico, può svelarsi quella particolare
relazione che si stabilisce tra l’eros e il corpo, tra l’eros e il corpo del tu, tra l’eros e il
corpo del tu che si dà in quel corpo. Qui colui che insegna al fanciullo sublima l’eros in
una luce in cui l’energia vitale è trasvalutata, se riesce attraverso l’autogoverno a non
consumare anticipatamente la propria direzione. Nel rapporto col tu, in cui consiste il
movimento della paideia, la mia percezione dell’altro è tale se il mio vissuto di
educatore riesce a entrare in risonanza col vissuto dell’educando, richiamandolo a sé. In
questo rapporto fra l’io dell’educatore e il tu dell’educando il volume erotico della vita
si dà una misura, e quindi un equilibrio e una direzione. Qui appare la conseguibilità di
quell’idea che non abbandona ma riassume e consuma in sé tutti i gradi che l’hanno
preceduta. Non bisogna dimenticare che in Platone il corpo bello nella sua fisicità
contiene in sé quella bellezza che costituisce via per un’idea in cui quella corporeità non
è annullata ma sussunta al grado ontologico a cui la conoscenza è chiamata. In questa
prospettiva, parafrasando in forma contraria Ludwig Wittgenstein, potremmo dire che,
arrivati all’ultimo grado, la scala non può e non deve essere lasciata perché ogni gradino
della scala fa parte dell’ultimo grado.
Può nascere a questo punto un nuovo modo di guardare alla conoscenza stessa,
ovverossia al suo statuto. Bisogna riuscire a conoscere in una situazione di risonanza in
cui sia messo in discussione il carattere del noetico come mentale puro. Può essere qui
sottoposta a critica radicale la noesis come istanza separata per arrivare a quel livello
più alto e complesso in cui si riesce a pensare nel corpo, col corpo, oltre il corpo, stando
sull’onda di quell’energia che ci conduce al grado superiore, mantenendosi in rapporto
con quel tu che segna la leva energetica fondamentale e la misura. In un convegno
tenuto qualche anno fa all’ospedale Cotugno di Napoli si svolse un incontro di studi,
18
19
Sul punto si veda Platone, Fedro, 255a-256a (XXXVI).
Platone, Fedro, 254e-255e (XXXV-XXXVI).
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che aveva una particolare caratteristica: gli illustri medici che vi parteciparono vi
parlavano non solo da esperti ma da ammalati. Essi potevano così, nella nuova
condizione di malati, riflettere meglio sulla conoscenza scientifica di cui erano portatori
come esperti. Quei medici erano chiamati a svolgere il discorso su un oggetto in cui
erano studiosi e uomini coinvolti. Una conoscenza che sia separata dal vissuto, una
conoscenza che si presenti solo alla “terza persona”, è conoscenza mutila, che manca
dei suoi alimenti essenziali. Ciò non dovrà significare privare la conoscenza dei suoi
caratteri noetici ma potenziare quei caratteri attraverso quel vissuto da cui quei caratteri
non possono essere separati20 .
Il progresso tecno-scientifico, che ha radicalmente separato il momento intellettuale
dal momento esperienziale, forse ha molto da imparare dal modello platonico,
nonostante la facile vulgata corrente sulla concezione di Platone a proposito della rigida
separazione anima-corpo. Il nuovo modello gnoseologico a cui è chiamato il nostro
futuro è quello di una conoscenza partecipante, in cui il Logos non sia separato dal
pathos e sia, al tempo stesso, misurato dall’aidos. Si tratta di un Logos che vive radicato
nel vissuto della corporeità, in un pathos e in un aidēs, e che sa, in quanto tale, entrare
in risonanza con un possibile tu. Siamo davanti a quella conoscenza che, in termini più
moderni, potremmo dire conoscenza nutrita di pietas. Una tale “conoscenza
partecipante” non significherà affatto la perdita di quella dimensione di distacco che è
pur necessaria nelle attività tecno-scientifiche e professionali, ma significherà che,
mentre queste attività devono poter esprimersi secondo piani distinti in cui è
diversamente graduato il distacco dall’oggetto trattato, tutti questi distinti piani debbono
poter essere comandati da un sottostante piano fondamentale in cui agisca il rapporto
strutturale di risonanza tra il vissuto di un io e il vissuto di un tu, che fa da asse
strategico rispetto all’intera struttura dei piani considerati.
Il mito platonico dell’amore è il mito dell’anima: dell’anima che conosce e del
conoscere l’anima. È, perciò, il mito dell’anima che, per conoscere, conosce le idee e,
fra le idee, quella più radicata in un corpo: l’idea della bellezza. Il mito platonico
dell’amore è, pertanto, il mito dell’anima che, per conoscere l’idea della bellezza,
conosce l’altra anima e che, per conoscere l’altra anima, muove dal suo corpo, e quindi
dal suo vissuto. L’idea del bene in Platone è la massima delle idee; l’idea della bellezza
in Platone è inseparabile dall’idea del bene (kalos kai agathos): è lungo questa direttrice
che bisogna camminare. Senza dimenticare peraltro che per Platone il bene è l’unità e
che, se la bellezza è dal bene inseparabile, la sua idea è la forza che meglio ne propizia,
a partire dal corpo e dalla ricchezza delle molteplici forme, l’armonia. Il mito platonico
dell’amore è quindi il mito che segretamente realizza, nella concezione del conoscere,
uno straordinario e mai pensato modello, costituente una rivoluzione nel rapporto fra
conoscenza e vissuto: il mito di un vissuto di conoscenza che si fa conoscenza di un
vissuto, il mito di un vissuto proprio che incontra un vissuto altrui. Accade qui, nel
mito, una rivoluzione nel rapporto fra conoscenza e vissuto e fra vissuto e conoscenza,
là dove un io e un tu in relazione possono essere gli ostetrici del vero. Stiamo dicendo
20
Si tratta del convegno “Organizzazione e umanizzazione tra efficienza e cura della persona”, tenuto
a Napoli in data 1-2 marzo 2007, voluto dall’Azienda Ospedaliera Cotugno.
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“rivoluzione” in due sensi: nel senso del rovesciamento di ciò che fin qui si usa pensare
e nel senso del ritorno a ciò che una volta si era già pensato.
Il testo platonico sull’anima tripartita può rivelarsi così, al nostro sguardo, in due
passi fondamentali. Nel primo passo si scopre che la conoscenza si sviluppa a partire da
una corporeità percepita da dentro, ossia dall’interiorità, da un vissuto. Nel secondo
passo si scopre che questa conoscenza, sviluppandosi a partire da un vissuto, muove
necessariamente dal rapporto di risonanza con un altro vissuto, che s’incarna in un tu.
Ciò significa che in questo mito platonico possono paradossalmente rinvenirsi due
critiche radicali al modello epistemologico contemporaneo della conoscenza, là dove
quest’ultimo si presenta, da un lato, come forma mentale separata dal vissuto (proprio e
altrui) e, dall’altro lato, come forma mentale che ha trasformato ogni “tu” in un “egli”.
La conoscenza a cui è chiamato il prossimo futuro deve saper superare questi suoi
deficit strutturali: recuperare il senso della corporeità come vissuto e recuperare il senso
del rapporto di questo vissuto con quell’altro vissuto che è il tu. Non va d’altra parte
trascurato che il senso del vissuto, pur essendo senso della corporeità, luminosamente
mostra la miseria di una corporeità vista solo dal di fuori, cioè osservata. Il vissuto, pur
essendo evento realissimo, è inosservabile costituendo la testimonianza più forte contro
la mera corporeità osservata, su cui esclusivamente indaga, non potendo far altro, la
tecno-scienza contemporanea, la quale, almeno nella sua forma egemone, ritiene che
solo l’osservabile appartiene al mondo reale. Riconquistare pertanto il senso del vissuto
significa, in questa prospettiva, conquistare contemporaneamente il senso della
corporeità e il senso di una corporeità di caratura umana. Il vissuto va inteso non solo
come corporeità sentita da dentro, ma come memoria, come memoria radicale: come
memoria perennemente in atto che conserva in sé contemporaneamente il passato, il
presente, il possibile futuro e l’altro; come memoria, cioè, in cui sinergicamente vivono
tutti i suoi momenti e tutte le sue articolazioni. Ognuno ha memoria non solo del suo
passato, che in lui dura, ma del suo presente; ognuno, in quanto in lui abitano stimoli
compresenti e diffusi, ne ha contemporanea memoria; ognuno, in quanto si attivano in
lui intuizioni sommerse, ne ha memoria; ognuno, in quanto custodisce subliminali
tensioni al futuro, ha memoria del futuro; ognuno, di qualunque cosa senta la mancanza,
ne ha memoria; ognuno, in quanto manca del tu, ha memoria del tu. In questa memoria
risuona, per intrinseca costituzione, il vissuto di tutto ciò che è presente, di tutto ciò che
manca e del tu. È d’importanza capitale capire, anche su questo punto, quanto sia stata
acuta la dottrina platonica della conoscenza come memoria (“anamnesi”, su cui c’è, a
nostro avviso, ancora molto da indagare e scoprire).
La prospettiva qui individuata sul mito platonico è perfettamente consapevole di
essere situata in una condizione in cui opera la sensibilità contemporanea, ma sa,
proprio per questo, che il dialogo con un testo platonico, in quanto dialogo con uno
scritto, deve poter rispondere alle stesse questioni che Platone sollevava a proposito di
ogni scritto: deve sapere che il testo scritto non può rispondere, che il testo scritto può
essere divulgativamente banalizzato e che il testo scritto non può più esprimere i
molteplici movimenti sottesi di cui è portatore e a cui non intende e non deve
rinunciare. D’altra parte, la prospettiva qui individuata è ben consapevole di contenere
al suo interno un problema immenso, che nella tradizione filosofica si è in più modi
declinato: il problema del rapporto tra “materia” e “spirito”, tra “non essere” e “essere”,
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tra “male” e “bene”. Questa prospettiva custodisce in se stessa il problema che sarà
chiamato dell’incarnazione. Rimane in ogni caso vero che, per dichiarazione dello
stesso Platone che parla dei suoi scritti, il mito platonico è strutturalmente aperto e
lascia intenzionalmente varchi propizi a ogni interlocutore che dal futuro lo interroghi e
lo continui, prolungandolo nel tempo. La prospettiva qui enunciata intende essere un
piccolo contributo a questo cimento.
Teramo, 1 Marzo 2012
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