istituzioni di diritto romano

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istituzioni di diritto romano
INSEGNAMENTO DI ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO
LEZIONE IV
“LE FONTI DI DIRITTO ROMANO (C)”
PROF. FRANCESCO M. LUCREZI
Istituzioni di Diritto Romano
Lezione IV
Indice
1
L’editto del pretore -------------------------------------------------------------------------------------- 3
1.1
1.2
1.3
2
I responsa prudentium ---------------------------------------------------------------------------------- 5
2.1
2.2
3
Principe e giuristi ------------------------------------------------------------------------------------ 7
Principali giureconsulti------------------------------------------------------------------------------ 7
La trasmissione della letteratura giurisprudenziale---------------------------------------------- 8
Le innovazioni introdotte dalla giurisprudenza classica------------------------------------------ 9
4.1
4.2
4.3
4.4
4.5
4.6
5
L’attività del respondère ---------------------------------------------------------------------------- 5
Giurisprudenza pontificale e laica ----------------------------------------------------------------- 6
La giurisprudenza del principato --------------------------------------------------------------------- 7
3.1
3.2
3.3
4
Praetor Urbanus, praetor peregrinus, ius honorarium ------------------------------------------- 3
Edictum e iuris dictio-------------------------------------------------------------------------------- 3
Commentarii ad edictum---------------------------------------------------------------------------- 3
Delicta e quasi delicta ------------------------------------------------------------------------------- 9
Possessio ---------------------------------------------------------------------------------------------- 9
Accessio e specificatio ---------------------------------------------------------------------------- 10
Contratti, lavoro, artes liberales, favor libertatis----------------------------------------------- 10
I contratti ‘misti’ ----------------------------------------------------------------------------------- 11
Obligationes naturales, altre innovazioni ------------------------------------------------------- 12
La burocratizzazione della scientia iuris nel dominato ----------------------------------------- 13
5.1
5.2
Assolutismo imperiale, diritto, teologia--------------------------------------------------------- 13
La ‘legge delle citazioni’-------------------------------------------------------------------------- 14
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Lezione IV
1 L’editto del pretore
1.1 Praetor Urbanus, praetor peregrinus, ius honorarium
La iuris dictio, ossia l’organizzazione del processo privato, ebbe, a partire dal terzo secolo
a.C., il suo fulcro nell’attività svolta dalla magistratura del praetor (distinto, a partire dal 242 a.C.,
nei due distinti uffici del cd. praetor Urbanus – competene per le controversie tra cittadini romani –
e del cd. praetor peregrinus – preposto a ius dicere tra cittadini romani e stranieri (peregrini) o tra
stranieri residenti in territorio romano [peregrini in Urbe Roma]). Intorno alla figura del praetor,
come abbiamo ricordato, andò così a costruirsi un nuovo sistema giuridico, coesistente ma distinto
da quello dello ius civile, detto, dall’honor magistratuale del pretore, ius honorarium.
1.2 Edictum e iuris dictio
Il praetor, per informare gli utenti del diritto riguardo ai criteri che sarebbero stati da lui
osservati nell’amministrazione della giustizia, assunse la costante usanza, all’inizio del proprio anno
di carica, di pubblicare ufficialmente (edìcere) un apposito bando (detto, appunto, edictum),
attraverso il quale tutti avrebbero potuto acquisire contezza delle modalità attraverso cui la iuris
dictio sarebbe stata realizzata. Venendo, col tempo, l’editto del pretore riproposto, di anno in anno,
sostanzialmente uguale, o con poche modifiche, si arrivò a una sua forma di graduale
‘consolidamento’, che avrebbe avuto il suo coronamento – secondo una tradizione in verità
contestata da una parte minoritaria ma autorevole di dottrina, in ragione del carattere tardo delle
relative testimonianze – in una vera e propria ‘codificazione’ dell’editto, ossia una sua redazione
definitiva e immutabile, che sarebbe stata ordinata, nel secondo secolo d.C., al giurista Salvio
Giuliano.
1.3 Commentarii ad edictum
L’editto, in quanto schema espositivo e ordinatorio della giurisdizione, acquistò così una
fondamentale funzione non solo sul piano processuale, ma anche sul piano della sostanza del diritto,
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in quando si radicò la convinzione che in esso trovassero menzione tutti i problemi di possibile
rilievo giuridico, per cui la esclusione dall’editto andava in pratica a significare estraneità dallo
stesso ius privatum. E tale importanza fu sensibilmente accresciuta dall’interesse ad esso riservato
dai giureconsulti, che, quando ritennero di procedere alla stesura di ‘manuali’ di diritto, di carattere
sistematico e enciclopedico, assunsero proprio lo schema dell’editto come traccia per le loro
trattazioni (ricordiamo, in particolari, i due grandi Commentarii ad edictum redatti, agli inizi del
terzo secolo d.C., dai giureconsulti Paolo [in 80 libri] e Ulpiano [in 83]).
E’ significativo che Gaio, come abbiamo visto, inserisce anche l’editto del pretore (edicta
eorum, qui ius edicendi habent: “gli editti di coloro che hanno il potere di edìcere”) tra gli iura
populi Romani, le “fonti del diritto romano”: anche se l’editto non aveva in realtà il potere di
‘creare’ diritto, e restava, formalmente, una mera informazione, una fonte ‘di cognizione’ anziché
‘di produzione’, è comprensibile che gli utenti del diritto e gli stessi giureconsulti guardassero ad
esso, sostanzialmente, come a una vera e propria ‘fonte’, nella quale il diritto privato trovava non
solo la propria collocazione, ma anche la propria consistenza ed effettività.
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2 I responsa prudentium
2.1 L’attività del respondère
Tra gli iura populi Romani Gaio menziona anche i responsa prudentium, ossia i pareri
formulati dai iuris prudentes (esperti di diritto, anche detti iuris consulti o iuris periti). Essi erano
dei privati cittadini, di riconosciuta esperienza nel campo della scientia iuris, rispettati e interpellati
in ragione del loro sapere, e il respondère (rispondere a quesiti) rappresentava una delle tre
tradizionali funzioni (accanto all’àgere, ossia l’assistenza alle parti nelle actiones processuali, e al
cavère, l’aiuto nella realizzazione dei negozi giuridici), attraverso cui, fin da età remota, la scienza
del diritto veniva utilizzata ed esibita da parte di chi ne fosse depositario. Col termine di responsa,
in particolare, si andarono a indicare tutti gli scritti dei giureconsulti che avessero ad oggetto
l’interpretazione del diritto, anche quando essi non consistessero in singole risposte a specifici
quesiti, ma assumessero la forma di più ampie trattazioni su determinati argomentiti, o di
esposizioni generali, di carattere manualistico, degli istituti del diritto privato.
Anche in questo caso, va notato che i responsa non avrebbero potuto essere propriamente
considerati ‘fonti’ di ius, giacché i pareri dei giureconsulti (anche se provenienti da soggetti muniti
del cd. ius publice respondendi, ossia della facoltà di respondère “ex auctoritate prìncipis”, “con la
stessa autorità dell’imperatore”) erano semplici manifestazioni private di pensiero, espressioni di
libera scienza (oltretutto, in frequentissima, reciproca contraddizione), prive di forza vincolante e
autoritativa (anche se essi, afferma Gaio, 1.7, “legis vicem optinent”, se unanimemente convergenti
verso un’unica soluzione [quorum omnium si in unum sententiae concùrrunt]).
Ma l’autore dei Commentarii si mostra consapevole che era proprio nell’editto del pretore e
nei responsi giurisprudenziali (i quali proprio nel commento alle clausole dell’editto trovarono un
costante e fondamentale punto di riferimento, anche quando l’editto stesso, a partire dal secondo
secolo, vide esaurita la sua capacità di arricchimento ed evoluzione) che gli utenti del diritto
trovavano, nella maggioranza dei casi, la risposta alle loro esigenze. E – soprattutto in assenza di
direttive imperiali – era principalmente la giurisprudenza a istruire e indirizzare, nella loro attività
giurisdizionale, tanto il pretore quanto i magistrati municipali, i praesides provinciarum e gli stessi
funzionari dell’imperatore.
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2.2 Giurisprudenza pontificale e laica
Nell’età arcaica la scientia iuris aveva un fondamento essenzialmente sacrale, ed era
considerata appannaggio specifico del collegio dei Pontìfices, i quali la esercitavano secondo criteri
esoterici, la cui conoscenza era preclusa al resto della cittadinanza.
Le cose cambiarono dopo le XII Tavole e il superamento del conflitto patrizio-plebeo (che
segnò anche la fine del monopolio pontificale sulla conoscenza e interpretazione del diritto), e
soprattutto quando, a partire dal III e II secolo a.C., le nuove esigenze commerciali sollecitarono la
creazione di una nuova forma di iuris prudentia ‘laica’, ossia svincolata dalla religione, e volta alla
costruzione di una ratio iuris ‘tecnica’ e ‘scientifica’, funzionale a nessun altro interesse all’infuori
della propria interna logica e funzionalità.
Momento significativo di questo passaggio risulta, secondo la tradizione, la pubblicazione,
nel 304 a.C., da parte del plebeo Gneo Flavio, scriba del censore e console Appio Claudio Cieco,
dei formulari delle actiones custoditi dai pontifici, e fino ad allora segreti. Nell’orazione Pro
Murena (12.25), Cicerone – fiero avversario, in quanto rètore, della categoria dei iuris periti –
scrive che Gneo Flavio, così facendo, avrebbe “rubato gli occhi alle cornacchie” (uccelli che la
credenza popolare riteneva dotati di particolare astuzia), nel senso che avrebbe svelato l’inganno
perpetrato dai pontefici, intenti a coprire di mistero e segretezza una scienza in realtà insulsa e
inconsistente (tenuis scientia), intrisa di astrusità e stupidaggini. Qualche decennio dopo, Tiberio
Coruncanio, primo plebeo a ricoprire la carica di Pòntifex Maximus, avrebbe stabilito che le riunioni
del collegio pontificale dovessero essere pubbliche, accelerando così il definitivo tramonto del
potere dei Pontifices, e spianando la strada alla definitiva affermazione di una iuris prudentia laica e
razionale, retta dai criteri della scienza e della ragione.
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3 La giurisprudenza del principato
3.1 Principe e giuristi
Com’è noto, la grande vitalità e la straordinaria capacità di irradiazione e di durata storica
del diritto romano è dovuta principalmente al notevole livello culturale raggiunto (particolarmente
nel cd. periodo classico, coincidente con l’età del principato) dalla letteratura giurisprudenziale, i
cui risultati – per ampiezza e profondità di analisi - rendono la romana scientia iuris un ramo del
sapere decisamente unico, nel suo genere, nell’intero mondo antico.
La fioritura della giurisprudenza romana toccò il suo acme nell’età del principato, anche in
virtù dell’intensa opera di mecenatismo svolta dalla corte imperiale, che sostenne attivamente (già
Augusto concesse ad alcuni giuristi, considerati meritevoli della propria fiducia, il particolare
beneficium,già ricordato, del ius publice respondendi) i migliori iuris consulti, interessata al
contributo da loro offerto alla pace sociale e all’armonizzazione della vita civile dell’impero.
3.2 Principali giureconsulti
Fra le figure particolarmente eminenti di giureconsulti, ricordiamo: nel primo secolo, i rivali
Capitone e Labeone (fondatori, rispettivamente delle contrapposte sectae dei Sabiniani e dei
Proculiani); Masurio Sabino (seguace di Capitone, capo della scuola Sabiniana – che da lui prese il
nome – sotto Tiberio, autore dei celebri Libri tres iuris civilis). Nel secondo secolo, Salvio Giuliano
(a cui si deve la presunta ‘codificazione’ dell’editto del pretore, e la cui autorità avrebbe segnato il
superamento di una lunga contrapposizione tra due contrapposte scuole (sectae) di giureconsulti,
dette dei Sabiniani e dei Proculiani), Pomponio (autore dell’unico trattato a noi giunto di storia della
giurisprudenza romana, detto, con termine greco, enchiridion), Gaio (estensore delle più volte
ricordate Institutiones, le cui caratteristiche fanno però pensare a un’opera con finalità più didattiche
che scientifiche). Nel terzo secolo: Ulpiano (scrittore altamente prolifico, a cui si devono estese
trattazioni sui più diversi argomenti giuridici); Modestino (allievo di Ulpiano, probabilmente di
origine ellenica, che scrisse tanto in latino quanto in greco); Papiniano (pensatore di particolare
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raffinatezza logica ed ermeneutica, assurto, in virtù del proprio elevato talento, alla fama di
‘principe’ dei giuristi.
3.3 La trasmissione della letteratura giurisprudenziale
Le opere dei giureconsulti non sono, in genere, giunte a noi direttamente, ma attraverso delle
raccolte e crestomazie di età successiva, che talvolta ce ne riportano i testi in modo alterato rispetto
all’originale. Ma il merito di avere tramandato, attraverso i secoli, i migliori risultati raggiunti dalla
letteratura giuridica classica (sia pure risistemati in ordine completamente nuovo e diverso) spetta,
com’è noto, alla grande raccolta dei cd. Digesta, voluta, nel sesto secolo, da Giustiniano, su cui
avremo modo di tornare prossimamente.
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4 Le innovazioni introdotte dalla giurisprudenza
classica
4.1 Delicta e quasi delicta
I temi toccati dalla giurisprudenza cd. ‘classica’ (quella, cioè, attiva nell’età del principato,
quando la scientia iuris raggiunse il suo livello di maggiore perfezionamento culturale), com’è noto,
abbracciarono la totalità dei rami dello ius privatorum (riconducibili, secondo lo schema gaiano,
alle tre grandi categorie delle persone, delle cose e delle azioni: 1.8: “omne… ius, quo ùtimur, vel ad
personas pèrtinet vel ad res vel ad actiones” [tutto il diritto che usiamo riguarda o le persone, o le
cose, o le azioni]), e tanto lo ius civile quanto lo ius honorarium furono profondamente e
continuamente rielaborati dallo sforzo di razionalizzazione e attualizzazione messo in atto dalla
scientia iuris.
Furono definite e sanzionate diverse tipologie dei delicta di furtum, iniuria, rapina, e le
possibilità di risarcimento del danno si moltiplicarono, attraverso l’elaborazione, da parte dei
giuristi, di una vasta serie di cd. quasi delicta, ossia di atti illeciti non desumibili dall’originario
tenore della lex Aquilia de damno, ma sanzionabili in forza di actiones ad exemplum, inserite
nell’editto e concesse utilmente dal pretore in determinate circostanze (p. es., in caso di deiezione di
oggetti, dall’alto, in luoghi aperti al pubblico [effusum vel deiectum], o di semplice sospensione
pericolosa di materiali capaci di danneggiare i passanti [pòsitum vel suspensum], o di emissione
dolosa di una sentenza ingiusta da parte di un giudice [litem suam fàcere], o di falsa misurazione
effettuata, in mala fede, da un agrimensore incaricato di determinare i confini tra due fondi [falsum
modum dicere] ecc.).
4.2 Possessio
Le possibilità di tutela della possessio si ampliarono notevolmente, ammettendo che il
possesso, iniziato animo et còrpore (ossia con la volontà di possedere e con l’apprensione materiale
della cosa), potesse validamente proseguirsi (ai fini della tutela interdittale e della decorrenza del
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tempo valevole per l’usucapione) col mero animus (cd. possessio animo retenta), nel caso che
l’elemento della disponibilità fisica dell’oggetto si rivelasse momentaneamente impossibile o inutile
(p. es., in caso di possesso di uno schiavo o di un animale fuggitivi, o di terreni non richiedenti una
coltivazione continuativa [cd. saltus hiberni et aestivi]).
4.3 Accessio e specificatio
Si andarono precisando molteplici possibilità di acquisto di res a titolo originario, in forza di
accessio (ossia di assorbimento, fisicamente irreversibile, di una materia in un’altra, con
conseguente estensione del dominium del proprietario della cosa ritenuta prevalente [p. es., semi di
un dominus andati a fruttificare su un fondo altrui, casa costruita con travi altrui ecc.]) o di
specificatio (creazione di una nova species da una aliena materia, ritenuta motivo giustificativo per
la nascita di un nuovo diritto di proprietà a favore del creatore [p. es., statua plasmata da uno
scultore con marmo o bronzo altrui]). Una tematica, questa di accessio e specificatio, che
rappresentò (p. es., nel caso della cd. tabula picta, dipinto effettuato su una superficie di altri,
inquadrato tanto come accessione quanto come specificazione, con risultati ovviamente opposti)
l’occasione per un confronto particolarmente interessante tra due contrastanti esigenze, quella della
tutela della proprietà materiale (intrinseca al principio dell’accessio, fondata sull’idea della
preminenza della materia sulla nova species, “quia sine materia nulla species èffici potest” [Gai. D.
41.1.7.7: perché senza materia non può esistere nessuna species]), e quella della valorizzazione del
lavoro umano (sottostante al riconoscimento della specificatio, nella quale prevale il diritto dello
specificatore, “quia quod factum est, àntea nullìus fùerat” [Gai., loc. cit.: perché ciò che è stato
fatto, prima non era di nessuno]), e che diede adito a una lunga e vivace controversia, dai molteplici
risvolti sociali e filosofici, tra la secta dei Sabiniani (schierati, più tradizionalmente, a tutela della
proprietà materiale e dell’accessio) e quella dei Proculiani (paladini, più ‘progressisti’, dei
lavoratori e della specificatio).
4.4 Contratti, lavoro, artes liberales, favor libertatis
Furono dettagliatamente specificate le possibilità di tutela giurisdizionale per le varie ipotesi
di contratti consensuali (emptio-venditio, locatio-conductio, socìetas, mandatum), e il lavoro, sia
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libero che servile, conobbe una minuziosa regolamentazione, adatta alla varietà dei mestieri e delle
professioni. Furono definite le regole atte a disciplinare l’esercizio delle ‘nobili’ artes liberales ossia gli studia ritenuti “homine libero digna” (Sen. Ep. ad Luc. 88.2), e perciò adatti ai cittadini di
rango elevato, quali retorica, grammatica, geometria, filosofia, ius civile (“vera philosophia”,
secondo Ulpiano [D. 1.1.1]), avvocatura, agrimensura, musica e, a volte, medicina -, per le quali
non era ritenuto ammissibile il pagamento di una mercede (che avrebbe equiparato il lavoro
intellettuale alle vili opere meccaniche [“inliberales et sordidi quaestus”, secondo Cicerone, De off.
1.42.150], per le quali la merces pagata avrebbe rappresentato addirittura un segno di ‘schiavitù’
[auctoramentum servitutis]), ma di un semplice honorarium (corrisposto, teoricamente, a titolo di
mera gratitudine e cortesia).
Furono delineate numerose tipologie di “contratti di lavoro”, nelle forme di locatio operis e
locatio operarum (specificando il tipo di prestazioni richieste, la qualità e il prezzo del servizio, il
risarcimento degli eventuali danni ecc.), e il lavoro servile, in particolare, fu oggetto di una analitica
valutazione (per esempio, definendo i parametri di apprezzamento dei servi in base alle loro
capacità professionali [in particolare nei casi, molto diffusi, di schiavi scribi, artisti, precettori ecc.],
o stabilendo, in caso di locatio servorum, l’entità del risarcimento dovuto nell’eventualità di morte
o ferimento dello schiavo, in base al suo valore di mercato, all’entità della menomazione, alla
responsabilità del conduttore ecc.).
Fu dato ulteriore impulso al favor libertatis (ossia alla tendenza a favorire la fuoriuscita
dallo status servile e l’acquisto della libertà), proponendo un’interpretazione sempre più estensiva
dei negozi di manomissione, atta a favorire, in tutti i casi dubbi, la soluzione atta a raggiungere
l’obiettivo dell’affrancazione del servus.
4.5 I contratti ‘misti’
Furono ideate inedite e fantasiose figure di contratti ‘misti’, alcune delle quali, come è stato
notato, sembrano sorprendentemente anticipare delle creazioni della contrattualistica
contemporanea: pensiamo, in particolare, a un passo di Gaio (3.146) in cui si esamina un contratto
tra un proprietario di gladiatori e un impresario di giochi, nel quale si prevede che, nel caso il
combattente sia restituito integro, si paghi un prezzo di venti denari, da aumentare a mille
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nell’eventualità che il gladiatore venga ucciso o mutilato (e reso perciò inabile al combattimento).
Alla domanda se l’accordo integri una vendita o una locazione, il giurista risponde che sarà da
considerarsi locazione nel primo caso (restituzione del gladiatore intatto), vendita nel secondo
(gladiatore morto o debilitato): una ‘doppia causa negoziale’ che ha fatto giustamente pensare al
moderno contratto di ‘leasing’.
4.6 Obligationes naturales, altre innovazioni
Fu elaborata la nuova, controversa categoria delle obligationes naturales, ossia di quei debiti
civilisticamente irrilevanti, in quanto assunti da soggetti giuridicamente incapaci (p. es., figli o
schiavi), ritenute, per lo più, incoercibili, e tuttavia meritevoli, in forza di un vinculum aequitatis
(Pap., D. 46.3.95.4), di soluti retentio (ossia di legittimo trattenimento di quanto pagato in
spontaneo adempimento dell’obligatio).
Furono prese in esame numerose possibilità di vizio della volontà contrattuale, si crearono
nuove actiones (gli atti con cui dare avvio al processo privato), nuove exceptiones (mezzi
processuali a disposizione del convenuto) e nuovi interdicta (strumenti a tutela del possesso e di
situazioni d’urgenza), furono configurate varie forme di responsabilità per le obbligazioni assunte
da soggetti alieni iuris, si andarono a disciplinare in modo innovativo le diverse figure di credito,
peculio, dote, servitù, garanzia, successione, tutela, curatela ecc.
L’elenco fatto, evidentemente, ha un valore meramente esemplificativo. Ma può rendere
l’idea, forse, di come la vasta portata della speculazione giurisprudenziale facesse maturare, a un
certo punto, un’ineludibile richiesta di riordino e sistemazione del complessivo sapere giuridico.
Un’esigenza che, com’è noto, sarebbe diventata esplicita, e avrebbe trovato una compiuta risposta,
soltanto nell’età del dominato assolutistico, ma che è già piuttosto evidente nell’impianto
sistematico dei grandi commentari ad edictum redatti, agli inizi del terzo secolo, dai giureconsulti
severiani.
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5 La burocratizzazione della scientia iuris nel
dominato
5.1 Assolutismo imperiale, diritto, teologia
Dopo avere conosciuto un periodo di ininterrotta fioritura, durato circa due secoli e mezzo,
la giurisprudenza classica, nei primi decenni del terzo secolo d.C., perse rapidamente – per ragioni
interne - la propria capacità creativa e innovativa. Se, fino a quel momento, nell’età del principato
tra principe e giuristi aveva funzionato costantemente, sia pure a fasi alterne, un meccanismo di
reciproco sostegno e legittimazione , all’insegna di una politica di mecenatismo ed evergetismo
illuminato (con i giureconsulti spesso nobilitati al ruolo di ‘consiglieri del principe’, e talvolta
chiamati a far parte ufficialmente del consilium princips, una sorta di ristretto ‘consiglio della
corona’), le basi di tale rapporto sarebbero completamente venute meno nell’età del dominato
cristiano, allorché l’imperatore sarebbe diventato l’unico legislatore, e avrebbe avuto bisogno non
più di consiglieri, né di liberi intellettuali che ne avallassero il potere con l’eleganza del loro
ingegno, ma esclusivamente di una nutrita schiera di funzionari che ne interpretassero,
trascrivessero e divulgassero le volontà.
La cancelleria imperiale diventò così il vertice di un sistema normativo autosufficiente e
autoreferenziale, in cui il collegamento alla voluntas principis – e, attraverso essa, al volere divino aveva ormai completamente sostituito la ratio iuris come elemento legittimante il comando
giuridico. Il ruolo di ‘consigliera’, ormai, sarebbe stato svolto dall’autorità ecclesiastica, ed è nei
confronti di essa che la corte imperiale avrebbe costruito un nuovo, complesso e ambiguo, rapporto
di interdipendenza.
Il sovrano, in quanto supremo legislatore e amministratore della giustizia, continuava,
naturalmente – anzi, più di prima – ad avere bisogno di esperti di diritto. Ma non si sarebbe più
trattato di liberi pensatori, in quanto, di fronte alla ineluttabilità e alla ineludibilità del comando
imperiale, non c’era più alcuno spazio per una interpretazione ‘creativa’ del diritto, essendoci
bisogno unicamente di zelanti e precisi burocrati di corte. Chi avesse avuto attitudini alla
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speculazione teorica, ormai, si sarebbe rivolto allo studio delle materie ecclesiastiche, anziché di
quelle giuridiche.
5.2 La ‘legge delle citazioni’
La burocratizzazione della scienza giuridica non coinvolse soltanto gli uomini di diritto del
quarto, quinto e sesto secolo, ma, retroattivamente, gli stessi scritti della giurisprudenza classica, i
quali furono anch’essi riletti e utilizzati secondo aridi criteri meccanici. Chiaro esempio di questa
tendenza la cd. ‘legge delle citazioni’, promulgata, nel 426, dall’imperatore di Occidente
Valentiniano III (e poi inserita, nel 438, nel Codice Teodosiano, e accolta così anche in Oriente),
secondo la quale, in caso di controversie, avrebbero avuto prevalenza i pareri prodotti – a sostegno
della propria tesi – provenienti dalla penna di cinque giureconsulti, evidentemente eletti su un
piedistallo di superiorità: Gaio, Modestino, Paolo, Ulpiano e Papiniano. In caso di pareri
contrapposti (per esempio, uno a sostegno di una parte, due dell’altra), avrebbe prevalso la
maggioranza; in caso di parità, avrebbe prevalso il parere di Papiniano, il ‘principe’ dei giuristi. Un
metodo che, evidentemente, faceva torto innanzitutto all’intelligenza e al pensiero degli stessi
cinque ‘grandi’, e del quale essi stessi, probabilmente non si sarebbero rallegrati.
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