Francesco Rigamonti - Osservatorio Balcani e Caucaso

Transcript

Francesco Rigamonti - Osservatorio Balcani e Caucaso
Francesco Rigamonti
L’IDENTITA’ ETNICA E L’IDENTITA’ URBANA IN BOSNIA ERZEGOVINA
NELL’ESPERIENZA DEGLI OPERATORI UMANITARI ITALIANI
Università degli Studi di Bologna
Facoltà di Scienze Politiche
Indirizzo Politico - Sociale
Tesi di laurea in Sociologia dello sviluppo
Relatore : Prof. Alberto Tarozzi
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
INDICE DELLA RICERCA
I Balcani: una lunga storia di pregiudizi
pag.
3
L’oggetto della ricerca
pag.
6
Aspetti metodologici
pag.
8
I temi chiave
pag. 10
La formazione
pag. 10
La specificità bosniaca
pag. 16
L’identità etnica
pag. 21
La contrapposizione città/campagna e l’identità urbana e rurale
pag. 31
L’identità etnica e l’identità urbana e rurale
pag. 39
Conclusioni
pag. 42
Bibliografia di riferimento
pag. 46
2
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
I BALCANI: UNA LUNGA STORIA DI PREGIUDIZI
La Jugoslavia in generale e la Bosnia Erzegovina in particolare sono considerate il cuore della
cosiddetta Penisola Balcanica. Questa definizione non ha solamente una valenza geografica, ma
ha assunto un profondo significato denotativo. Come ci fa notare Martelli, nel suo “La guerra in
Bosnia”: “nell’immaginario collettivo i Balcani assumono un’immagine cupa, tetra, fatta di
montagne orride, capaci sì di fermare gli eserciti invasori, ma anche di separare in maniera netta e
drammatica le popolazioni infelici che si trovano a vivere fra esse. Cristiane e islamiche che siano,
queste popolazioni sono infatti destinate all’isolamento economico ed all’arretratezza culturale,
nonché a dilaniarsi in orrende faide tra genti di diversa fede o di diversa etnia” (Martelli 1997). Molti
studiosi rappresentano i Balcani come una sorta di realtà che va al di là della geografia, tanto da
individuare addirittura, come fa Prevelakis, una nozione di “balcanità” e affermare che “i Balcani
esistono prima di tutto nel cuore della gente e poi sul terreno” (Prevelakis 1997).
Si tratta certamente di un approccio affascinante e suggestivo, ma che ugualmente rischia di
essere fuorviante. Todorova a questo proposito sottolinea, nel suo “Immaginando i Balcani”, come
la rappresentazione che noi abbiamo dei Balcani sia basata su un coacervo di stereotipi
praticamente privi di un fondamento storico o antropologico. L’autrice individua, rifacendosi al
concetto di “orientalismo” elaborato da Said 1, la categoria del “balcanismo”. Essa si basa su di una
“immagine congelata…elaborata nei suoi parametri generali intorno alla prima guerra mondiale,
che è stata riprodotta quasi senza modifiche nei successivi decenni e funziona come una
dissertazione” (Todorova 2002).
L’autrice ci dà inoltre un esempio molto efficace della esistenza nonché della forza del pregiudizio
negativo nei confronti di questa area attraverso l’analisi dell’uso del termine “balcanizzazione”.
Esso ha un significato dispregiativo e indica “il processo di frammentazione nazionalista di vecchie
unità geografiche e politiche in nuovi piccoli stati dall’esistenza fragile”. Questo termine è stato
coniato all’indomani della prima guerra mondiale, per dare conto della disintegrazione dell’impero
Austro-Ungarico e di quello dei Romanov e della relativa nascita della Polonia, dell’Austria, degli
stati Baltici, dell’Ungheria e della Cecoslovacchia. Il riferimento ai Balcani nasce dall’analogia
instaurata fra questo processo e quello della disintegrazione dell’impero Ottomano in piccole entità
statali, avvenuto negli anni immediatamente precedenti il primo conflitto mondiale. Ciò di cui ci si
dimentica è però che, nello stesso periodo in cui gli imperi si “balcanizzavano”, nasceva proprio nel
cuore dei Balcani, sulle ceneri dei mini stati post-ottomani, il regno SHS, dei serbi e dei croati e
sloveni, attraverso un processo, tecnicamente parlando, inverso alla “balcanizzazione”.
1
L’opera a cui facciamo riferimento è “Orientalismo” di Edward W. Said, pubblicata in Italia da Bollati
Boringhieri nel 1991
3
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
Se vogliamo poi fare una ulteriore precisazione, dobbiamo riconoscere che, come ci ricorda
Prevelakis, la stessa definizione Balcani, che noi utilizzeremo nella nostra ricerca per denominare
l’intera regione, nasce da un errore geografico. L’origine sarebbe infatti il termine turco “Balkan”,
montagna, con cui si voleva indicare la catena di monti detta Haemus. Fino alla metà del XIX
secolo, ripetendo le convinzioni dei geografi classici, greci soprattutto, si è sostenuto che tali rilievi
collegassero l’Adriatico al Mar Nero e che occupassero una posizione dominante nella Penisola,
tanto da costituirne il confine settentrionale. Questa opinione si è dimostrata erronea ed il termine
è stato più correttamente riferito ad una catena montuosa di dimensioni più modeste che si ferma
ai Carpazi e che i popoli slavi chiamano con il nome di Stara Planina. (Prevelakis 1997).
Ci troviamo dunque a trattare una tematica molto complessa intorno alla quale si sviluppano tutta
una serie di luoghi comuni e teorie storiche che, in alcuni casi, sono prive di ogni fondamento
oppure sono frutto di una abile propaganda e di una manipolazione dei dati storici.
Come rileva giustamente Bianchini infatti, l’uso politico della storia è stato portato avanti in maniera
evidente dai diversi regimi che si sono succeduti nell'area, anche da quelli comunisti. Per cui
“vicende considerate sgradite o delegittimanti erano state cancellate” e “l’esistenza di
un’interpretazione ufficiale, dogmatica e distorta degli eventi del passato, nonché il persisteretroppo spesso- di silenzi…che si sono voluti stendere nei confronti di vicende considerate
imbarazzanti o ingiustificabili ai fini della legittimità del potere comunista, hanno provocato una
diffusa sfiducia perfino verso le fonti archivistiche, via via rese disponibili alla ricerca. La diffidenza
è giunta al punto per cui – anche quando non sono strumentalmente utilizzate a fini di lotta politica
– esse vengono ritenute a priori manipolate all’origine da risultare inservibili alla ricostruzione della
Verità” (Bianchini 1996).
“La storia”, ci dice ancora Bianchini, “anziché essere fonte di legittimazione del potere (ma
potrebbe mai esserlo realmente ?) si trasforma invece in una vera e propria forma di ossessione
collettiva che favorisce l’intolleranza”. A questo si deve aggiungere poi che “nei Balcani ogni
popolo lamenta una serie di pulizie etniche, o almeno di politiche assimilatrici da parte dei vicini,
salvo poi adottare la stessa condotta al momento in cui se ne ha la forza. Le alterne vicende di
oppressione non suscitano una vicendevole pietas ma lamentosi vittimismi collettivi” (Limes
1993/1).
Bisogna dire che questa situazione rappresenta “una costante nella cultura politica dei gruppi
dominanti del Sud-Est europeo”(Bianchini 1996) e che ne troviamo esempi non solo nei regimi che
hanno retto queste aree a cavallo fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, ma anche nel passato
a noi più prossimo. A questo proposito possiamo citare, come esempi paradigmatici, due testi che
hanno certamente giocato un ruolo nelle vicende legate alla dissoluzione violenta della exJugoslavia: da un lato il Memorandum dell’Accademia Serba della Scienza e delle Arti (Limes
1993/1), una rilettura in senso nazionalistico della storia della Serbia, dall’altro la “Deriva dalla
realtà storica” di Franjo Tudjman, che si occupa del tema delle vittime della seconda guerra
4
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
mondiale in Jugoslavia, con specifico riferimento al numero delle vittime del lager ustasa di
Jasenovac. Questi due testi, di cui sono usciti in italiano solo frammenti, sono molto interessanti,
più che per il loro specifico contenuto, per la logica che è ad essi sottesa: la rilettura, potremmo
dire la revisione, della storia a “tesi”. Riferendoci ancora a Bianchini, possiamo dunque notare che
“i meccanismi culturali e politici a cui le élite nazionaliste fanno ricorso ogni qualvolta cercano di
realizzare i loro disegni si presentano, allo stesso tempo, come identici e fra loro incompatibili.
Identici, perché tutti fanno il medesimo uso della storia, della politica, dei media, dell’economia,
della demografia per il perseguimento dei propri fini ma incompatibili”. (Bianchini 1996). Anche la
Kaldor, sempre con riferimento alle vicende del recente conflitto bosniaco, mette in evidenza
questa sostanziale identità di logica che ha animato le parti in conflitto, pur in presenza di richieste
contrapposte. Essa ha portato a paradossali casi di collaborazione fra le forze in campo, non solo
per quello che riguarda traffichi poco chiari o mercato nero, ma anche in alleanze locali a breve
termine. Ad esempio nel 1993, “la Forza di protezione dell’ONU ha intercettato una conversazione
telefonica tra il comandante musulmano di Mostar ed il locale comandante serbo, in cui si
discuteva la cifra in marchi tedeschi che sarebbe stata pagata se i serbi avessero bombardato i
croati. Il fondo è stato toccato nel luglio 1993 quando i serbi conquistarono il monte Igman, da cui
si domina Sarajevo, ed i gruppi paramilitari che difendevano in quel momento la città si
dichiararono pronti a vendere le loro posizioni in cambio del controllo del mercato nero” (Kaldor
1999). Questi episodi di collaborazione o di rapporti “sottobanco” non riguardavano solo le unità
più o meno regolari coinvolte nel conflitto o le realtà locali, ma trovavano il loro corrispettivo nei
numerosi accordi segreti che sono stati stipulati dalle parti in conflitto. Il più famoso e,
probabilmente il più importante, è quello che ha visto Tudjman e Milosevic spartirsi a tavolino la
Bosnia in un incontro a Karadjordjevo, in Vojvodina, nella villa che fu di Tito. Questo incontro,
svoltosi ben prima dell’esplodere del vero e proprio conflitto armato, non solo in Bosnia ma anche
in Croazia, è stato confermato pubblicamente da Tudjman in una intervista al Times del 1992
(Rastello 1997) e dimostra come fin dall’inizio le leadership nazionalistiche avessero un preciso
piano d’azione, che è stato cinicamente portato avanti. Come dimostra, d’altra parte, il silenzio di
Belgrado sulla Operazione Tempesta, che ha permesso, nell’agosto del 1995, la riconquista della
Krajina e ha causato un esodo di un numero di profughi serbi che è quantificabile nell’ordine delle
centinaia di migliaia di persone (le fonti parlano di un numero minimo di 250.000 persone).
5
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
RICERCA
L’oggetto della ricerca
Come abbiamo già anticipato molto brevemente nell’introduzione, la nostra ricerca si propone,
attraverso interviste ai cooperanti e volontari italiani, di affrontare la tematica dell’identità etnica in
Bosnia Erzegovina. Abbiamo anticipato in precedenza il ruolo chiave che ha svolto, nell’analisi
delle vicende di questo conflitto, il tema dell’etnia e dell’identità etnica, tanto da fare della guerra di
Bosnia e dei sanguinosi eventi che hanno caratterizzato la dissoluzione della Federazione
Jugoslava una sorta di manifesto delle conseguenze della conflittualità etnica. Sono tornati in auge
termini, come balcanismo o il concetto di tribalismo balcanico, che, come acutamente ci ricorda
Todorova (Todorova 2002), hanno sempre accompagnato la nostra visione di quest’area
dell’Europa. Immagini orrorifiche e veri e propri “miti storici” (Martelli 1997), privi fra l’altro di alcuna
concreta base, hanno riempito le descrizioni, non solo quelle giornalistiche purtroppo, dei tragici
avvenimenti di Bosnia, favorendo un’immagine distorta di quell’area. Liquidata l’esperienza del
comunismo come una sorta di parentesi storica ed adottando un’improbabile “teoria del
congelatore” (Bianchini 1996), sono state utilizzate categorie esplicative, che quando non fanno
riferimento ad un medioevo, spesso più immaginato secondo stilemi romantici che conosciuto
veramente, si ricollegano alla turbolenta fine dell’Impero Ottomano. Metafora simbolo di questa
visione è, naturalmente, l’assassinio a Sarajevo dell’Arciduca Ferdinando, “sicché alla luce del
conflitto jugoslavo, il XX secolo è parso concludersi così come era cominciato: nel 1914 Gavrilo
Princip, sparando a Francesco Ferdinando lungo il fiume Miljacka, colpì al cuore le vecchie cornici
dinastiche sovranazionali; nel 1992, la guerra civile in Bosnia ha teso a dimostrare l’impossibilità di
una convivenza pacifica di popoli diversi in una stessa cornice statuale. Suo malgrado, la città di
Sarajevo è assurta a simbolo cruento del Novecento” (Bianchini 1996).
Di fronte a questa visione così profondamente compromessa da una serie di pregiudizi di natura
essenzialmente eurocentrica, abbiamo deciso di concentrare la nostra attenzione non sulla visione
e sulle esperienze della popolazione locale, ma di prendere in considerazione una visione
“indiretta” di “ secondo livello”: quella appunto degli operatori della solidarietà internazionale che
hanno operato in Bosnia Erzegovina.
Se vogliamo usare una terminologia di tipo antropologico, possiamo dire di avere privilegiato nella
nostra ricerca il punto di vista etico2, esterno alla cultura osservata, ma interno alla nostra, quella
osservante, “ossia la prospettiva che valorizza l’applicazione delle categorie scientifiche
dell’osservatore” (Fabietti 1995).
La scelta di questa dimensione nasce da una serie di ragioni sia di ordine pratico che teorico.
2
Il punto di vista interno alla cultura osservata viene definito, nella moderna antropologia, come emico
6
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
In primo luogo, non si può non mettere in evidenza la difficoltà di affrontare questa tematica senza
un’approfondita conoscenza della lingua, che ha una notevole rilevanza all’interno di questo tema
e che, inoltre, è divenuta materia di un vero e proprio scontro di tipo politico. Basti pensare alle
operazioni di pulizia linguistica effettuate dal governo Tudjman, immediatamente dopo la sua
elezione nel 1990, “perseguita in vari modi attraverso la riscoperta di espressioni arcaiche se non,
addirittura, con l’invenzione di locuzioni e con il ricorso a termini del dialetto Kajkavo, peraltro
incomprensibile alla maggior parte dei Croati e parlato solo in un triangolo compreso tra Zagabria,
l’Ungheria e la Slovenia” (Bianchini 1996). Vi sono poi delle ragioni teoriche, legate ad una serie di
riflessioni provocate da alcuni eventi occorsi sia durante la guerra che successivamente. Sempre
riferendoci a Bianchini ed al suo testo “Sarajevo, Le radici dell’odio”, un episodio rappresentativo
che ci ha spinto a dedicare attenzione allo sguardo degli operatori umanitari non bosniaci sono
stati gli avvenimenti legati al cosiddetto piano Vance-Owen: una delle cause scatenanti del conflitto
croato-musulmano del 1993-1994. Come abbiamo già anticipato nel capitolo precedente, nel
gennaio del 1993 i mediatori internazionali proposero un piano di spartizione della Bosnia
Erzegovina sulla base di cantoni etnici; questa scelta rappresentava una legittimazione per le
leadership nazionaliste che, attraverso la politica violenta della pulizia etnica, perseguivano proprio
la politica di spartizione di uno stato su una base etnico-religiosa. Non possiamo, infatti,
dimenticare che anche gli ultimi dati parziali del censimento del 1991, mai pubblicato a causa della
dissoluzione della Federazione, davano conto di una distribuzione etnica assolutamente mista, tale
che solo tre villaggi erano etnicamente puri al di sopra del 90%, in 25 distretti (compreso quello
della capitale Sarajevo) nessuna nazione superava il 50%”. Purtroppo questo non è stato l’unico
né il più macroscopico caso di difficoltà da parte delle autorità internazionali di leggere la
situazione sul campo e di agire di conseguenza, come diremo più ampiamente nella esposizione
dei risultati della ricerca, soprattutto nella sezione dedicata a quella che abbiamo definito come
specificità bosniaca.
Un’ulteriore ragione che ci ha poi spinto a scegliere come oggetto della nostra indagine gli
operatori della solidarietà internazionale, con particolare riferimento alla realtà delle ONG, è dettata
dalla rilevanza eccezionale che ha assunto l’intervento umanitario, professionale e non, sia
durante il conflitto, bosniaco ed ex-jugoslavo in genere, che nelle fasi successive. Stime di diverse
associazioni ci portano a calcolare in 20.000 il numero dei civili italiani che si sono recati nell’area
in qualità di operatori umanitari o di semplici civili per realizzare interventi di cooperazione, di
interposizione o di aiuto umanitario. Sono circa 1200 poi le associazioni, i gruppi grandi e piccoli, le
parrocchie, le scuole ed i comitati spontanei che si sono mobilitati per la solidarietà con le aree dei
Balcani e 1000 gli enti locali che, a diverso titolo, si sono impegnati in questa esperienza di
intervento umanitario e di cooperazione (ICS 2001).
A fianco del tema della identità etnica abbiamo voluto verificare presso i nostri intervistati la
presenza e la rilevanza di una differente forma di identità: quella urbana, nonché la sua eventuale
7
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
contrapposizione con un’identità di tipo rurale. La scelta di questa nuova variabile, come
spiegheremo diffusamente più oltre, deriva non solo dal rilievo che ad essa hanno dato numerosi
storici che si sono concentrati sulle vicende bosniache, ma anche dalle riflessioni di due intellettuali
jugoslavi: la filosofa Rada Ivekovic e l’architetto Bogdan Bogdanovic.
L’introduzione della identità urbana, a fianco di quella etnica, nasce poi dalla volontà di verificare
se presso gli intervistati prevale un modello esplicativo “monocasuale” che pone al centro la
questione etnica o se piuttosto non vi sia il tentativo di sviluppare un approccio multidimensionale
che sottolinei la complessità e l’intreccio di dimensioni differenti e di molteplici strategie identitarie.
Nel corso della ricerca abbiamo anche chiesto ai nostri soggetti di valutare l’impatto che le
differenti forme di identità possono avere sull’attuale situazione bosniaca e il grado di preparazione
che i singoli soggetti avevano sulle tematiche stesse.
Quello della formazione, in special modo di quella precedente la partenza, è stato anch’esso
oggetto di indagine. Il fine è stato quello di valutare l’influenza che la preparazione ha avuto sul
lavoro concreto dei cooperanti e dei volontari e, in presenza di eventuali effetti di feed-back
negativo, quale potevano essere le modificazioni ed i mutamenti da introdurre per giungere alla
elaborazione di un percorso di formazione “ideale”.
Aspetti metodologici
Lo strumento scelto per svolgere la nostra indagine è stato quello della intervista semi-strutturata.
La traccia dell’intervista, che è allegata al termine di questa breve fase introduttiva, è stata
elaborata dopo l’effettuazione di interviste a testimoni significativi, reperiti attraverso contatti
personali. Una volta sperimentata la validità dello strumento, esso è stato somministrato a 16
soggetti che avevano svolto attività di cooperazione o volontariato in Bosnia Erzegovina, sia
durante il periodo del conflitto che nei periodi successivi:
•
12 soggetti hanno svolto le loro attività per conto di una ONG;
•
1 ha lavorato in un progetto di cooperazione decentrata di un ente locale;
•
1, con esperienza di cooperazione “professionale” in un’altra area dei Balcani, ha svolto attività
di volontariato in un microprogetto di una associazione;
•
1 ha operato per conto di una agenzia internazionale delle Nazioni Unite;
•
1 ha svolto attività di interposizione nonviolenta durante il conflitto nelle file di una associazione
pacifista, soggiornando per un certo periodo nella capitale bosniaca.
La traccia dell’intervista era costituita da 12 domande aperte e da una serie di stimoli che
l’intervistatore poneva per approfondire le tematiche in esame. Le sotto-domande, se così le si può
definire, rappresentavano una traccia per l’intervistatore e sono state poste direttamente solo
qualora l’intervistato non affrontasse tali tematiche nella risposta ai vari quesiti. Durante il corso dei
8
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
colloqui, che si sono svolti sempre con modalità faccia a faccia, si è tentato di mantenere una certa
elasticità, per rispettare una dinamica aperta e non direttiva, permettendo eventualmente
all’intervistato di collegare fra loro le varie domande. In ogni caso, ci si è adoperati, facendo leva
proprio sugli stimoli, perché in ogni colloquio vi fosse una trattazione accurata ed esaustiva di tutti
gli argomenti oggetto della ricerca. I colloqui hanno avuto una durata media di 45 minuti e, con il
consenso degli intervistati, sono stati incisi su cassetta.
TRACCIA INTERVISTA
1. Incarico o missione svolta in Bosnia Erzegovina, durata della stessa e luogo (o luoghi) di
svolgimento.
2. La realtà bosniaca è molto complessa, la preparazione precedente alla partenza le è stata utile
per lo svolgimento del suo incarico ?
Ø Se sì, perché ?
Ø Se no, perché ?
Ø In base alla sua esperienza, modificherebbe il percorso di formazione precedente alla partenza
?
Ø Se sì, come ?
3. Si è parlato di una specificità della realtà bosniaca, caratterizzata da una cultura pluralistica in
rapporto alla cultura europea più omogenea. Cosa ne pensa ?
Ø Nel caso esista questa specificità, pensa che questo abbia influito sul suo lavoro?
Ø Se sì, in che modo ?
4. La Bosnia è stata rappresentata, a torto o a ragione, come un paradigma della conflittualità
etnica. Cosa ne pensa ?
Ø In base alla sua esperienza, pensa che l’identificazione secondo linee etniche abbia svolto un
ruolo nelle vicende della guerra in Bosnia ?
Ø Se sì, quali forme concrete ha assunto questa identificazione ?
Ø Quali sono gli elementi principali di questa eventuale identità etnica ? (lingua, religione,
usanze)
Ø Ritiene che il fenomeno dell’identità etnica abbia radici profonde in Bosnia o che sia un
fenomeno indotto ?
Ø In questo caso, chi, a suo avviso, lo ha fomentato e perché?
Ø Pensa che il conflitto abbia acuito o attenuato il fenomeno dell’identità etnica ?
5. Come ha influito sul suo lavoro la presenza dell’identità etnica ?
6. E’ stato scritto: “Lo scontro fra città e campagna ha costituito e costituisce uno degli elementi
caratterizzanti la guerra jugoslava e, in particolare, il conflitto bosniaco. Qui, infatti, in modo più
acuto che altrove, campagne e sobborghi urbani, si sono contrapposti ai centri urbani. Cosa ne
pensa ?
Ø Nella sua esperienza si è mai trovato di fronte a questo tipo di frattura città -campagna?
Ø Se sì, quali caratteristiche ha assunto questa differente linea di identificazione ?
Ø Quali effetti concreti ha avuto ?
Ø Pensa che la guerra abbia acuito o attenuato il fenomeno di questa differente forma di identità
?
7. Come ha influito sul suo lavoro la presenza dell’identità urbana/rurale ?
9
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
8. Quali sono state le interazioni fra identità etnica e identità urbana/rurale ?
Ø Sovrapposizione ?
Ø Prevalere dell’una sull’altra
9.
Era preparato, prima dell’arrivo, a dover tener conto, nello svolgimento del suo incarico, della
presenza dell’identità etnica ? E dell’identità urbana o rurale ?
Ø Ritiene che la sua eventuale preparazione abbia influito in qualche modo sulla sua percezione
di tale problematica ?
10. Pensa che la presenza dell’identità etnica possa favorire o ostacolare la soluzione dei problemi
che attualmente vive la Bosnia ?
11. E la presenza della identità urbana/rurale ?
12. Altri argomenti o considerazioni
I temi chiave
Ricapitolando, sono cinque i temi principali che sono stati oggetto delle nostre interviste:
§
La formazione e la sua influenza sulla percezione delle problematiche presenti in loco;
§
La presenza di una specificità bosniaca dettata dal pluralismo e l’eventuale influenza di tale
fattore sul lavoro concreto dei cooperanti e volontari;
§
L’identità etnica, la sua ricaduta sul lavoro dei soggetti intervistati e la sua influenza sui
problemi che oggi vive la Bosnia;
§
La contrapposizione città-campagna, la presenza di una identificazione secondo le linee
città-campagna, le sue relative conseguenze sul lavoro di cooperazione o sull’attività di
volontariato e sulla situazione bosniaca;
§
L’eventuale interazione fra queste due differenti strategie di identificazione.
Anche nell’illustrazione dei risultati della ricerca seguiremo questo schema.
La formazione
Un dato univoco che emerge dalla analisi delle interviste è che la maggioranza degli intervistati
non ha svolto un percorso di formazione precedente alla partenza:
non c’è stata alcuna preparazione da parte dell’organizzazione (int.4);
la preparazione che abbiamo avuto prima di partire è stata nulla, cioè non ci hanno fatto
nessun tipo di preparazione, semplicemente si è trattato di firmare il contratto, spiegarci
più o meno quello che dovevamo fare e poi partire (int.13);
nel caso specifico, data l’emergenza del mio incarico, sono stato mandato lì un po’ allo
sbaraglio, mi hanno descritto brevemente le mie mansioni, che erano eminentemente
tecniche…però se guardiamo dal punto di vista tecnico, la preparazione che mi è stata
data è stata…molto sommaria, sono stato praticamente mandato in tempo reale, perché
avevano bisogno urgente in Bosnia.(int.12).
Le eccezioni sono dovute principalmente ad interesse personale:
dal punto di vista culturale i Balcani sono stati sempre una mia passione, dal punto di vista
storico, geografico ed anche culturale (int.15);
10
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
ho incominciato ad occuparmi di conflitto dell’ex-Jugoslavia a partire dal 1991…abbiamo
organizzato molti convegni, con esperti, docenti universitari, politologi, intellettuali
provenienti anche dai paesi dell’ex-Jugoslavia e, personalmente stimolato da queste
occasioni di confronto, ho cominciato a leggere tutto quello che era uscito in quel periodo
sul conflitto (int.8).
Le parole dell’intervista 12 tuttavia rappresentano la spiegazione a questa situazione, l’impegno di
molte ONG, ma anche di agenzie internazionali:
nel momento in cui loro (si fa riferimento ad una agenzia delle Nazioni Unite, n.d.a.) mi
hanno reclutato a Ginevra, io ho fatto 3 giorni di briefing….e in questi tre giorni mi hanno
preparato per andare a fare il Field Officer in Serbia e Montenegro. Dopodiché sono
arrivato a Belgrado e mi hanno detto perché non vai all’ufficio BiH Desk (l’ufficio che si
occupava della Bosnia Orientale) (int.9);
in Bosnia era connesso a progetti di emergenza che richiedevano un intervento immediato:
in realtà non c’è stata una grande preparazione prima dello svolgimento del mio incarico
perché il progetto sul quale sono partito è un progetto di emergenza, quindi le tempistiche
del progetto non permettevano un lungo periodo di preparazione (int.11);
nessuno aveva avuto una preparazione specifica, calcola che in Bosnia, visto che c’era
questa emergenza, ci sono andati quasi tutti, c’era una altissima richiesta di personale
(int.13).
Al di là poi di queste ragioni di tempistica, è necessario tenere in considerazione le oggettive
difficoltà di organizzare un percorso di formazione specifico per ogni volontario impegnato in uno
specifico progetto, in un determinato paese:
io non ho fatto un corso di formazione ma ritengo sia indispensabile, non soltanto per la
Bosnia Erzegovina ma per tutti i percorsi di formazione e di solidarietà…mi rendo conto
che non è facile perché comunque sarebbero dei corsi di formazione ad hoc, per quella
persona, per quel paese, perciò organizzarli è un po’ complicato (int.1 );
Questa operazione rischia di far lievitare i costi di un progetto e sicuramente si scontra con una
situazione di mancanza di risorse delle ONG, che, come sappiamo, sono sempre maggiormente
legate agli stanziamenti provenienti dai grandi enti finanziatori (MAE e Unione Europea).
I volontari ed i cooperanti hanno dovuto quindi svolgere autonomamente un percorso di
preparazione, sfruttando sia le risorse informative a loro disposizione che i rapporti con i
collaboratori locali o i beneficiari:
io credo che quello che abbiamo fatto noi, per documentarci, cioè cercare testi, consultare
Internet, guardando cosa era stato scritto anche dalle organizzazioni che già avevano
lavorato in loco, parlare soprattutto con la gente, ecco quel tipo di percorso che noi
avevamo fatto in modo autonomo, avrebbe, forse, potuto essere suggerito e minimamente
preparato insieme all’organizzazione, prima della partenza, niente di grave…non è stato
così difficile trovare fonti per documentarsi e anche appunto il parlare, il conoscere le
persone del posto, ha aiutato a farsi una idea abbastanza precisa della realtà. (int.4);
11
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
fortunatamente la ONG dove lavoro… è anche un centro di documentazione
internazionale, ho potuto consultare alcuni testi, sia storici che letterari, riguardanti la
Bosnia (int.13).
La presenza di questo dato non era inattesa, eravamo già consci infatti, prima di iniziare la nostra
ricerca, di questa situazione e quindi abbiamo deciso di chiedere ai soggetti intervistati di tracciare
un percorso ideale di formazione, alla luce della loro esperienza concreta nell’area della Bosnia.
I risultati sono abbastanza univoci e vanno nel senso di fornire ai cooperanti e volontari un
bagaglio di formazione storica specifica, una serie di conoscenze tecnico-gestionali sulla realtà
progettuale ed una serie di stimoli di riflessione sul ruolo stesso del cooperante:
queste analisi devono rappresentare un punto cardine della formazione di un
cooperante/volontario, soprattutto per arrivare in modo rapido e concreto, a concretizzare il
lavoro che si vuol fare…si evita di voler esportare in Bosnia l’efficientismo tipico
dell’Occidente europeo (int.14).
Uno strumento che potrebbe essere utile in tale ottica sono gli incontri con i volontari ed i
cooperanti che abbiano già operato nell’area:
sicuramente una serie di incontri con diverse figure a diversi livelli, parlo di cooperanti ma
anche di operatori in agenzie, in varie agenzie che hanno operato e stanno operando
tuttora in Bosnia, per un cooperante che, per la prima volta, si reca nel paese, sarebbe di
importanza fondamentale, perché mi sono reso conto che, per quello che riguarda i testi,
non sempre sono esaurienti (int.13).
In quest’ottica vale la pena di fare riferimento ad una proposta, emersa da un’intervista, di creare
una sorta di spazio di discussione e di socializzazione delle esperienze per i volontari, anche al
termine del lavoro nei singoli progetti. Questa proposta nasce proprio dalla constatazione della
mancanza di un collegamento fra le singole realtà, in special modo le ONG, le associazioni di
volontariato e gli enti locali, che si trovano ad operare nelle stesse zone o in quelle vicine, spesso
senza poter usufruire del bagaglio di esperienze di chi li ha preceduti:
manca completamente uno spazio dove poter discutere di quelle che sono state le
esperienze di chi ha lavorato giù, di chi sta lavorando giù, noi abbiamo amici che lo stanno
facendo tuttora e che si trovano, per assurdo, di fronte alle stesse problematiche, magari
in aree diverse dei Balcani, proprio perché manca questo feed-back, manca la possibilità
di incontrarsi, anche a tappe, durante la realizzazione dei progetti, questo non fa crescere
la qualità delle cose che si fanno, né la professionalità di chi poi continua a lavorare
nell’ambito della cooperazione per anni e anni (int.16)
Di recente ha visto la luce un progetto in tal senso: la creazione di un database sui progetti messi
in atto nei Balcani, da parte dell’Osservatorio Balcani, il database ARCO. Si tratta di un programma
disponibile in Rete, con sessioni aperte al pubblico ed altre dedicate agli utenti, che contiene i dati
relativi ai progetti svolti da organizzazioni non governative, associazioni ed enti locali, divisi per
area e per settore di intervento
I dati vengono forniti direttamente dalle singole associazioni
attraverso la compilazione di una serie di schede.
12
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
Ugualmente utili ai fini della formazione sono considerati anche gli incontri con persone provenienti
dall’area interessata all’intervento, sia con intellettuali che con gente comune:
purtroppo adesso non ci sono più quelle occasioni, o comunque, ce ne sono di meno,
quelle occasioni di confronto anche con intellettuali della ex-Jugoslavia, di convegni di
dibattiti, che dieci anni fa ovviamente anche in Italia erano all’ordine del giorno e credo
siano stati molto importanti per chi, come noi, poi è stato là in quegli anni (int.8);
avrei preferito incontrare prima, qui in Italia, persone originarie magari bosniache o della
città, profughi o incontrare persone comunque, un incontro diretto più che con i libri (int.5).
Oltre all’aspetto tecnico e storico quindi, viene messo in evidenza l’aspetto della conoscenza della
società civile e del suo eventuale coinvolgimento all’interno dei processi di formazione del
volontario e del cooperante:
mi è mancato l’aspetto (di formazione n.d.a.) sulla società civile, perché poi noi andiamo a
operare su questa….un’altra cosa poi, io la valuto come un grosso errore, per i programmi
che ho visto dei corsi di formazione che vengono fatti, è che non vengono coinvolte, e
parlando dei Balcani si potrebbe fare perché esistono, le realtà culturali
dell’area…bisognerebbe puntare di più sul coinvolgimento delle risorse intellettuali, che
esistono e che hanno bisogno di sostegno per continuare nei loro processi e che vanno
ascoltati.(int.16).
Questo limite nella capacità di ascolto è un problema che non riguarda unicamente la
cooperazione, ma che ha riguardato da vicino tutte le realtà, le agenzie internazionali, ma anche i
diplomatici, che hanno dovuto fare i conti con una serie di difficoltà di lettura della situazione
concreta sul campo e sono incappati, in alcune occasioni, in una serie di errori con conseguenze
anche gravi (ancora una volta il riferimento al caso Vance-Owen, di cui si è parlato in precedenza).
Tornando allo specifico della formazione, vorremmo sottolineare ancora una serie di riflessioni
interessanti che sono emerse dall’analisi dell’interviste. La domanda sulla revisione, alla luce
dell’esperienza degli operatori umanitari, del loro
percorso formativo, ha fatto emergere la
tematica più ampia dei criteri che dovrebbero informare la selezione del personale per i progetti di
cooperazione. Ci permettiamo di operare una brevissima digressione in tal senso, questa tematica
infatti, sebbene sia di carattere più ampio e generale, ci pare strettamente collegata con quella
della formazione.
In particolare sono tre i passaggi che hanno colpito la nostra attenzione:
però non è sufficiente (l’aspetto tecnico), perché deve essere una persona che impari a
vivere i diversi, con i diversi, la diversità, a rispettarla…un corso di formazione sul rapporto
psicologico della persona con il nuovo contesto, perché lavorando ho incontrato dei
cooperanti frustratissimi, non preparati all’altro, alla fine posso dire di aver sentito delle
parole di odio verso il paese dove lavorano(int.1);
bisogna selezionare il personale in base alle loro capacità di capire il mondo che li
circonda….quando c’è una realtà di conflitti irrisolti o di conflitti incancreniti da soluzioni
improprie, tipo la guerra…occorrerebbe la capacità di saper identificare i conflitti per quello
che sono ed una capacità di orientare la soluzione verso forme nonviolente (int.6);
13
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
io mi sono occupato anche di selezione del personale…o dei volontari, ancor più che
un’ottima preparazione accademica, fatta di tanti master….mi interessava se queste
persone avessero fatto esperienza di volontariato in Italia… il profilo di chi è abituato a
lavorare sul territorio, ad aggregare la persone, in qualche modo lavorare per la
trasformazione della società (int.8).
Emerge in maniera rilevante il tema delle capacità e del profilo del cooperante e volontario che, a
fianco della preparazione tecnica, di cui non viene in alcun modo negata l’importanza e la
rilevanza, deve offrire un saldo bagaglio di capacità “relazionali”, in quanto l’operatore della
solidarietà internazionale non deve porsi come semplice strumento di strategie, macro o micro, ma
deve essere capace di proporsi come elemento catalizzatore. Il ruolo del volontario che opera in
un progetto di solidarietà internazionale, sia che si tratti di emergenza che, a maggior ragione, di
cooperazione allo sviluppo, dovrebbe essere, citando uno degli intervistati:
un confronto ed uno scambio nello stesso tempo, perché la tua opera dovrebbe essere al
massimo quella di stimolare dei ragionamenti che magari sono stati dimenticati o sono
sopiti…(int.14).
Queste affermazioni sono in linea di principio condivisibili, ma si scontrano con una realtà di fatto,
che vede sempre di più il restringersi dello spazio per la progettualità autonoma e specifica delle
singole ONG, in molti casi costrette a ricorrere ai progetti umanitari, basti pensare all’esempio del
Kosovo. Questa tipologia di intervento, spesso irrinunciabile per molte ONG in crisi cronica di
risorse finanziarie, diventa un’arma a doppio taglio. Essa infatti trasforma queste realtà di base,
che dovrebbero essere portatrici di un modello di sviluppo altro e diverso, più attento e rispettoso
delle specificità locali, in agenzie esecutrici di progetti pensati in altre sedi e che si esauriscono con
il cessare della emergenza e soprattutto della attenzione mediatica. Questa situazione
problematica non ci deve indurre tuttavia a parlare di crisi irreversibile del ruolo delle ONG né ci
deve spingere a invocare altre forme di cooperazione, quella decentrata ad esempio, come
panacea di ogni male, come purtroppo talvolta accade nel nostro paese. Come ci ricorda la lettura
del Dizionario dello Sviluppo di Sachs (Sachs 1998) infatti, in questi “decenni dello sviluppo”
abbiamo assistito alla nascita ed alla crescita di numerosi esempi di strategie risolutive, come
quella dello sviluppo sostenibile, che si sono poi rivelate delle “parole passe-partout”, adattabili
alle diverse intenzioni e strategie e prive di un vero valore. La cooperazione decentrata, molto à la
page di questi tempi, non può essere la soluzione per i problemi della cooperazione internazionale
non governativa, né le reti territoriali o le associazioni informali possono sostituire in toto le ONG,
con il loro bagaglio di elaborazione tecnica e politica e di risorse umane.
Chiudiamo questa lunga parentesi e ritorniamo all’analisi del contenuto delle nostre interviste ed in
particolare alla influenza che l’eventuale preparazione ha avuto sulla percezione delle
problematiche da parte dei soggetti intervistati.
14
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
La tematica è stata affrontata attraverso due domande: una rivolta al tema dell’identità etnica ed
una rivolta alla identità che abbiamo definito urbana e rurale e di cui parleremo diffusamente in
seguito.
Per il primo caso possiamo dire che il giudizio sull’influenza della preparazione sul lavoro concreto
è sostanzialmente positiva, sia che si tratti della formazione pre-partenza che quella svolta
autonomamente in loco. Il dato significativo per la nostra analisi è la consapevolezza di come la
preparazione sull’identità etnica possa contribuire a sviluppare una visione più consapevole delle
dinamiche in gioco:
ha influito, nel senso che ho cercato di essere, nel modo più assoluto, di essere il più
neutrale possibile, perché ovviamente non puoi prendere parte…il fatto che ognuno ti dica
che…è stata questa etnia quella che ha subito la maggiori efferatezze, le maggiori crudeltà
da parte delle altre…se tu ti fai prendere da questo come la verità, o comunque non come
uno degli aspetti del conflitto, rischi di diventare non obiettivo nel valutare la situazione in
cui ti muovi (int.15);
io ritengo che mi sono servite molto (le letture fatte prima della partenza n.d.a.) soprattutto
come sguardo, sguardo proprio di epochè, cioè di sospensione del giudizio, riuscire a
guardare in modo più o meno neutrale (int.5).
Ma anche il fatto che neppure la formazione è, di per sé, un aspetto neutro ma che porta con sé
anche il rischio della creazione di pregiudizi che interferiscono con la lettura della realtà:
un libro dirompente come quello della Ivekovic (“La balcanizzazione della ragione” n.d.a.)
forse influisce anche negativamente perché ti fa partire con molti schemi in testa, con una
spiegazione preordinata (Int.8);
da un lato mi hanno creato dei pregiudizi, cioè o non mi aspettavo determinate condizioni
o mi aspettavo una situazione completamente diversa, forse credevo che questi libri o
queste letture mi avessero dato anche delle chiavi di interpretazione o delle risposte che
poi forse mi ha smentito il territorio, insomma vivere sul territorio (int.5).
Il rischio che si corre è quello di mettere in moto il circolo vizioso che Fabietti definisce come
“l’occhio del potere” (Fabietti 1995), ovverosia quel complesso di fenomeni che ha portato
l’antropologia ad enfatizzare le differenze esistenti in seno alle “società altre” ed a creare delle
divisioni basate su queste caratteristiche, presunte come ben distinte e irriducibili. Una delle
conseguenze di tale processo è stata quella che i “nativi” hanno assunto le categorie con le quali
erano stati definiti e quindi un fenomeno di etero-riconoscimento diventa auto-riconoscimento e
costruzione di una “identità fittizia”. Forse è eccessivo parlare nel caso della Bosnia Erzegovina di
un fenomeno simile, ma riteniamo che sia molto significativo il dubbio che viene sollevato dal
seguente passaggio:
per me la multietnicità rischia di inquinare paradossalmente il futuro della Bosnia, se ne sta
parlando tanto che quasi quasi la gente si sta convincendo….sono cose che la gente
assorbe…più se ne parla più la gente ci pensa e comincia a considerarlo ma lo considera
in maniera sbagliata, invece di dire c’è e lo risolvo, c’è e quindi mi ci devo abituare (int.12).
15
Questa trappola della multietnicità emerge anche dalle acute riflessioni di Rada Ivekovic che, nel
suo “Autopsia dei Balcani”, afferma “per fare la guerra si è inventato un paese multietnico,
multiculturale, un paese di differenze separate che si sarebbero per così dire sfiorate nei quartieri e
nei villaggi” e che “insistere sulle differenze (piuttosto su ciò che è comune e condiviso) non fosse
che per predicarne il rispetto, dà a esse, in questo contesto una consistenza quasi ontologica e le
trasforma in limiti invalicabili” (Ivekovic 1999).
Un ulteriore rischio legato alla formazione è quello di portare a indebiti schieramenti a favore di una
delle parti in conflitto, anche le fonti infatti possono risentire delle manipolazioni prppagandistiche,
che hanno avuto un ruolo così rilevante in questo conflitto.
Riferendoci al caso specifico del volontario internazionale che è andato ad operare per conto di
una agenzia delle Nazioni Unite in Bosnia Orientale, egli non ritiene un fatto di per sé negativo di
non avere svolto una formazione per il suo compito:
nel mio caso ritengo che questo sia stato positivo, sono arrivato con l’idea che mi ero fatto
seguendo le informazioni della stampa, nel 1994 già si incominciava a parlare, anche
pesantemente, dei massacri in Bosnia, pulizia etnica e tutta la stampa, tutta la opinione
pubblica era stata condizionata da un certo punto di vista che era evidentemente
antiaereo, pesantemente antiaereo ed io sono arrivato con questo tipo di informazione.
Avevo capito che c’erano vittime e aggressori, e si sapeva chiaramente chi era dalla parte
delle vittime innocenti e chi era dalle parti degli aggressori, in realtà il fatto di non avere
avuto una preparazione più approfondita secondo me ha anche evitato che si accentuasse
questo fenomeno, perché purtroppo c’è anche la tendenza anche da parte di chi lavora
all’interno di questi organismi ad identificarsi, in modo molto forte, con la realtà sul territorio
in cui si lavora (int.14).
Per quello che riguarda invece il tema della contrapposizione città/campagna e di quella che
abbiamo definito come identità urbana e rurale, nonostante i soggetti abbiano, come vedremo, una
concezione differente di tale concetto, essa ha rappresentato per ben tredici dei sedici soggetti
interessati una scoperta sul campo.
La specificità bosniaca
Il tema della specificità della cultura bosniaca, caratterizzata da un intrinseco pluralismo
sostanzialmente differente ed in contrapposizione rispetto alla cultura europea più omogenea,
nasce da una seri di stimoli suggeriti in primo luogo da esperienze di tipo personale vissute nella
città di Sarajevo e dalla lettura di alcuni testi.
Le conclusioni del testo di Bianchini “Sarajevo le radici dell’odio” si aprono con una citazione di un
passo de “Il centro del Mondo” di Dzevad Karahasan, precisamente del brano che racconta il
dialogo fra l’autore ed un suo amico francese. Questo passo, forse uno dei più belli e drammatici
del libro, racconta la difficoltà di comprensione fra i due interlocutori, l’uno, il francese “pronto a
condividere la tragedia del popolo della Bosnia e della sua città Sarajevo, tende a cercare sul
piano materiale e quotidiano, potremmo dire perfino fisico i segni del dolore e della persecuzione
imposti alla città sin dal 1992, quando gli uomini fedeli a Radovan Karadzic iniziarono un degli
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
assedi più lunghi che la storia ricordi” (Bianchini 1996). Dall’altra parte Karahasan che vuole
richiamare l’attenzione dell’amico europeo, piuttosto che sulle difficoltà oggettive degli uomini e
delle donne assediate, sulla necessità di “salvare Sarajevo e la possibilità che qui convivano
quattro nazioni e quattro religioni”, sull’importanza di evitare “che i gruppi etnici non serbi
reagiscano in modo sciovinista allo sciovinismo serbo che minaccia tutti in Città, compresi i serbi
che non hanno voluto sottomettersi allo sciovinismo dei loro leader politici” (Karahasan 1997). Il
problema che affligge maggiormente l’autore è che non venga spazzata via l’esperienza di
convivenza che ha fatto di Sarajevo la seconda Gerusalemme, infatti “ è un problema se al mondo
rimane solo una Gerusalemme, perché l’interezza del mondo deve manifestarsi almeno in due
luoghi per essere credibile e perché la si possa sperimentare nella realtà”. Ciò che vuole
comunicare al suo interlocutore è che “tutti i problemi…derivano dalla paura della interculturalità
che ha determinato in modo decisivo una politica e ha rivolto le armi contro quelli che volevano
vivere insieme contenti della loro diversità”. Il colloquio naturalmente si conclude con un fallimento
e l’amara conclusione di Karahasan che afferma “ ci siamo sforzati, ci siamo veramente sforzati,
ma non ci siamo capiti. Non potevamo non ce lo permettevano le differenze fra le nostre culture.
La mia in sé pluralistica, polifonica e dialogica – e la sua: in sé unica, polifonica omogenea”.
Altrettanto illuminanti e stimolanti sono state le riflessioni svolte da Bianchini sul tema della
specificità balcanica, sul fenomeno del nazionalismo e sulle sue implicazioni non solo per l’area in
esame, ma anche per tutta l’Europa. Vista la complessità di rendere in poche righe le dense
argomentazioni dell’autore rimandiamo ad un’analisi approfondita del fondamentale testo
“Sarajevo, le radici dell’odio” (Bianchini 1996), già citato in numerose occasioni.
Partendo da questo stimolo, abbiamo voluto chiedere ai nostri soggetti se avessero eventualmente
percepito questa specificità e dunque la contrapposizione con la cultura europea e se ciò avesse in
qualche modo influito sul loro lavoro.
Le risposte dei soggetti interessati sul primo quesito non sono uniformi ma sostanzialmente
possono essere distribuite lungo un continuum che va da una sostanziale negazione del concetto:
questa cultura pluralistica la vedo, l’ho vista esplosa…dopo la guerra, forzata…il
pluralismo in termini culturali, ampliando il termine di cultura…è venuto fuori forzatamente
dopo quando appunto, se tu pensi che Tudjman e Izetbegovic con Tito erano in galera,
allora questo ti dà l’artificiosità di questa Bosnia patria…di Sarajevo Gerusalemme
d’Europa (int.7);
quindi io sono più propenso a pensare all’archetipo, al fatto che sia diventato un mito che
cioè questa convivenza multietnica…una sensazione nata più dal dramma che è scoppiato
dopo più che dal suo valore reale (int.12);
passa per il riconoscimento di una particolarità, assimilabile all’esperienza di altre realtà europee
che vivono una situazione di convivenza, al loro interno, di popolazioni con differenti tradizioni
culturali:
17
sicuramente la Bosnia, nella sua realtà territoriale così limitata, ha in sé una serie di
diversità, non le trovo però così diverse rispetto ad una Svizzera o ad un Belgio o ad una
Italia in generale (int.11);
per arrivare ad un riconoscimento di una specificità:
per quanto riguarda la realtà bosniaca, certamente quello è un posto in cui c’era una
cultura pluralistica, in cui si mischiavano, si mischiano tuttora varie tradizioni culturali e
religiose, però appunto molto mischiate, i cui elementi si ravvisano come se fosse in un
piatto: stanno tutte assieme e poi si sente il sapore di uno o di un altro, ma alla fine stanno
in un unico piatto. Rada Ivekovic fa riferimento, nel suo libro (Autopsia dei Balcani n.d.a.)
ad un piatto bosniaco, che è il bosanski lonac, la pentola bosniaca (int.8).
Sempre Rada Ivekovic, dopo aver notato che il segreto di questo piatto “sta nel fatto che gli
ingredienti s’insaporiscono a vicenda acquisendo un gusto che non avrebbero separatamente”
(Ivekovic 1999), sottolinea come limite di tale situazione che “la complessità, la mescolanza, lo
scambio e la diversità culturali, disgraziatamente, non sono stati usati o incoraggiati, né sono stati
visti come adatti a favorire l’insieme”. Questo dato emerge anche dall’analisi di talune delle nostre
interviste che rimarcano come:
è vero che esistesse una cultura pluralistica, forse non esisteva una coscienza di quanto
fosse positiva l’esistenza di questo fattore, cioè non c’era coscienza di quanto in realtà
questo fosse un punto di forza. Purtroppo, questa mancanza di coscienza credo che sia
uno dei motivi per cui poi si è arrivati allo scontro, come poi invece le differenze sono state
facilmente utilizzabili per raggiungere determinati obiettivi…si è fatto del pluralismo un
oggetto di conflitto (int.16).
Oppure mettono in evidenza un timore delle reciproche tradizioni culturali di essere, nonostante la
convivenza o forse proprio a cagione di essa, cancellate o messe in ombra dalle altre:
effettivamente sul territorio sono presenti culture diverse, però dai risultati, dagli eventi, si
può anche capire che queste culture comunque hanno avuto, nonostante la coesistenza,
scarse occasioni di compenetrazione…ognuno è cosciente del fatto che …esiste non solo
la propria cultura...ci sono presenti anche le altre….ma c’è questa paura che la propria
cultura e le proprie tradizioni vengano cancellate oppure soverchiate o prevaricate dalle
culture degli altri (int.15).
E’ necessario dunque fare un’ulteriore precisazione e notare come la percezione della specificità
bosniaca sia più forte nei soggetti che hanno svolto il loro lavoro nelle realtà urbane:
è vera (la specificità bosniaca) almeno fino a tutto il 94, la gente di Sarajevo, è diverso
parlare della Bosnia….l’integrazione al livello della società civile… era vera (int.2);
per quello che riguarda la specificità della realtà bosniaca, pensando anche alla città di
Mostar nel dettaglio, per me è una città multiculturale (int.5).
In ultima analisi tuttavia ci pare importante sottolineare che affrontare il tema della specificità della
società bosniaca ed osservare come in tale ambito si siano affrontate le sfide e i problemi che
sorgono dalla convivenza più o meno pacifica di diverse tradizioni culturali sia un tema di notevole
importanza, dal momento che oggi anche noi, in Europa Occidentale, dobbiamo fare i conti con
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
queste problematiche, sull’onda dei fenomeni legati all’immigrazione. Rifacendosi sempre alle
interviste possiamo notare che il pluralismo è:
il problema che hanno anche le società europeo-occidentali…non è molto diverso da
quello di territori con una pluralità di religioni o di tradizioni culturali. Nel senso che, anche
l’Europa occidentale si trova ad affrontare i problemi dell’immigrazione e quindi, tanto per
fare un esempio, nelle nostre scuole ci sono ragazzi provenienti da altre culture, e ancora
nessuno sa come fare a gestire questo problema (int. 8).
Se passiamo a considerare le risposte degli intervistati sul tema dell’influenza della presenza di
questa eventuale specificità bosniaca, emergono alcuni dati che meritano di essere commentati.
In primo luogo vengono messi in evidenza alcuni aspetti di carattere, diciamo così materiale, e che
dipendono dalla presenza simultanea sul terreno di differenti tradizioni culturali:
sicuramente (c’è stata influenza n.d.a.),innanzitutto per quanto riguarda la concezione del
tempo, la dimensione spaziale e temporale molto diversa da una concezione condivisa qui
da noi in Europa e questo ha condizionato fortemente il lavoro, il tempo ha assunto un
ritmo completamente diverso…anche per l’importanza che si dà al concetto di lavoro, in
modo differente (int.5).
Gli aspetti che tuttavia noi riteniamo essere più rilevanti per la nostra ricerca sono quelli che
richiamano la tematica della incapacità di comprensione della situazione e la relativa e
conseguente azione sul campo da parte degli attori della comunità internazionale. Con questo
vogliamo sottolineare un tema che abbiamo già anticipato: la miopia dell’intervento internazionale
e le difficoltà di comprendere la situazione bosniaca. In più occasioni abbiamo parlato del caso
eclatante del piano di pace Vance-Owen e delle sue conseguenze sulla alleanza fra croati e
musulmani. Come ci fa notare giustamente la Kaldor “la cosiddetta comunità internazionale è
caduta nella trappola nazionalista perché ha fatto proprio e ha legittimato la percezione del conflitto
che gli stessi nazionalisti volevano diffondere. In termini politici i nazionalisti avevano tutti lo stesso
obiettivo: ristabilire su basi etniche il tipo di controllo politico che era stato proprio in passato del
Partito Comunista. A questo fine, essi dovevano dividere la società in diverse comunità etniche.
Dando per scontato che paura e odio fossero endemici della società bosniaca e che i nazionalisti
rappresentassero l’intera società, i negoziatori internazionali ( e la comunità internazionale in
genere n.d.a.) non potevano vedere altra soluzione se non il tipo di compromesso che gli stessi
nazionalisti cercavano di raggiungere” (Kaldor 1999). Ancora Bianchini ci ricorda poi come i
governi, anche il nostro, “fedeli alla tradizionale consegna di trattare solo con i governi, hanno
rifiutato l’appoggio alle opposizioni, ai movimenti della società civile che cercavano di uscire dalla
incomunicabilità provocata dal conflitto” (Bianchini 1996). Ed un esempio di questa miopia è
costituito da un episodio che avuto luogo proprio nel nostro paese nel settembre del 1995:
l’incontro, con il sostegno dei pacifisti italiani, dei rappresentanti dell’Unione socialdemocratica di
Bosnia, del rappresentante dell’opposizione indipendente del parlamento di Pale, dei partiti croati
non schierati con l’HDZ di Bosnia e di un’organizzazione civica dei serbi di Sarajevo. Non solo la
stampa ignorò questo evento ma, fatto ben più grave, “i partecipanti vennero invitati dal mondo
19
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
politico ad adeguarsi alla realtà” (Bianchini 1996). Queste forze erano accomunate dal principio di
tutelare l’interculturalità del loro paese che certo non si può dire ispiri la soluzione diplomatica
raggiunta qualche mese dopo nella base di Dayton in Ohio:
gli accordi di Dayton non sono degli accordi che preparano o hanno preparato in qualche
modo la ricostruzione di un paese ma avevano come obiettivo, principale ed unico, quello
di fermare un conflitto…gli accordi di Dayton hanno favorito la cessazione del conflitto,
permettendo però di mettere le premesse per continuare comunque, da parte delle varie
parti in conflitto, una politica aggressiva nei confronti delle altre etnie e soprattutto una
politica di ostacolo all’implementazione di quelli che sono i punti qualificanti dell’accordo
stesso: il rientro delle comunità, delle minoranze, il rispetto e la libertà di movimento delle
persone, le pari opportunità (int.15).
Il caso di Mostar riveste anch’esso un valore esemplare e merita di essere citato, facendo
riferimento alla esperienza dei nostri intervistati e ad un case-study inedito, presentato durante il
convegno “Dieci anni di cooperazione con il sud est Europa: bilancio, critiche, prospettive””,
organizzato dall’Osservatorio dei Balcani a Trento il 24 novembre del 2001.
Lo studio, realizzato da Bazzocchi dell’ICS, si concentra sull’operato dell’Amministrazione
dell’Unione Europea a Mostar (EUAM) e dell’Ufficio dell’Inviato Speciale in Mostar (OSEM) “che
dal luglio 1994 al dicembre 1996 operarono per riunificare la città bosniaca” (Bazzocchi 2001).
Il lavoro si basa principalmente sull’analisi della Relazione Speciale n.2/96 sui conti
dell’Amministratore e sull’Amministrazione dell’Unione Europea a Mostar, a cura della Corte dei
Conti dell’Unione Europea nonché su un documento inedito e non pubblicato: il “Rapporto
sull’Amministrazione dell’Unione Europea a Mostar (EUAM) e sull’Uffico dell’Inviato Speciale a
Mostar (OSEM): 23 luglio 1994 - 31 dicembre 1996”, redatto da Sir Martin Garrod, capo del
personale dell’EUAM, in seguito responsabile dell’OSEM e infine della delegazione in Mostar
dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante (OHR) fino al 1998). La tesi centrale dello scritto di Bazzocchi
è che le grandi difficoltà incontrate dall’EUAM, riconosciute dalla stessa UE, sono dovuti alla
scelta, come interlocutori principali, delle “solite élite politiche nazionalistiche e non le parti sociali
della città ovvero i cittadini e le cittadine di Mostar”.
Gli amministratori europei hanno trascurato completamente di entrare in rapporto con quei “leader
popolari che si erano affermati durante la guerra nell’emergenza umanitaria: distribuzione degli
aiuti, cura dei feriti, spegnimento degli incendi, mantenimento delle attività scolastiche sotto le
bombe e delle comunicazioni” (Bazzocchi 2001). Per gli amministratori dell’EUAM tuttavia questi
individui non contavano e non venne avviato nessun piano di conoscenza e supporto nei loro
confronti, cosicché, dopo pochi mesi, furono spazzati via dal potere politico e da quelle stesse élite
”responsabili della guerra e dei massacri”.
Quella di Mostar e dell’EUAM è quindi una occasione mancata, una speranza tradita, e per
commentare tale situazione ci possiamo rifare proprio alle parole di uno dei soggetti intervistati,
che ha operato nella realtà di Mostar:
20
le differenze etniche sono state accentuate e credo che uno degli errori di chi è andato ad
intervenire sia stato quello di prenderle troppo sul serio, sia nel senso che si è stati succubi
politicamente delle élite nazionaliste…bisognava essere molto spregiudicati, perché li non
si trattava di rispettare qualcosa o qualcuno, si trattava invece di rompere un paradigma
culturale assolutamente devastante, che faceva sì che non si andasse a fondo delle vere
questioni e che soprattutto non si potesse garantire giustizia sociale e risposte ai bisogni
della gente comune (int.8).
In conclusione dobbiamo però dire che, onestamente, le conseguenze di questa mancata o errata
percezione della specificità della società bosniaca si sono fatte sentire non solo per la “grande
cooperazione”
il problema è che, soprattutto le grandi agenzie internazionali, addirittura nella
impostazione del progetto, ti impongono di realizzare quel progetto creando delle
divisioni…faccio un esempio concreto, si ricostruiscono case per rientranti e tu devi
utilizzare una determinata percentuale di croati, serbi o musulmani, piuttosto chi è di
minoranza in quella zona e chi di maggioranza….l’Onu e le altre agenzie internazionali,
avevano come prescrizione che nei loro uffici dovevano esserci un terzo di dipendenti
musulmani, un terzo di dipendenti serbo bosniaci ed un terzo croato bosniaci (int.16);
ma anche nell’ambito della cooperazione che possiamo definire di base:
adesso si sta costruendo questo modello pluralista, ma secondo me sbagliando, perché
non si guarda alla qualità ma alla appartenenza etnica….così anche dall’alto verso il
basso, anche le ONG spesso fanno “abbiamo 3 bosniaci, dobbiamo scegliere 2, 3 serbi”
(int.1).
L’identità etnica
Abbiamo ripetuto più volte come la guerra di Bosnia rappresenti, nel sentire comune e non solo, il
paradigma più rappresentativo della conflittualità etnica, nonostante molti storici ed esperti
dell’area abbiano dimostrato da tempo l’infondatezza di tale assunto (Bianchini 1996, 1999,
Todorova 2002, Martelli 1997) Uno degli obiettivi principali della ricerca era proprio quello di
verificare quanto i cooperanti ed i volontari condividessero, in base alla loro esperienza, questa
visione. Il risultato è che tutti i soggetti intervistati, con le sfumature che ora metteremo in
evidenza, non condividono questa immagine e che considerano in maniera differente il rapporto fra
guerra e contrapposizione etnico-religiose.
Usando le parole di uno dei soggetti intervistati:
trovo questo tipo di affermazioni pericolose, perché rischiano di degenerare nel più bieco
populismo con cui si è cercato di spiegare i tragici avvenimenti bosniaci ed, in generale,
ex-jugoslavi. Il fenomeno del tribalismo in quel luogo d’Europa, per la mia esperienza,
assolutamente non esiste (int.14).
Viene così a cadere uno dei luoghi comuni più persistenti e perniciosi che hanno caratterizzato le
spiegazioni del conflitto bosniaco: quella del cosiddetto primitivismo balcanico. Si tratta di un
meccanismo che, come spiega puntualmente la Todorova nel suo “Immaginando i Balcani”, tende
a spiegare i conflitti e le violenze presenti rifacendosi ad una sorta di ritardo di sviluppo dell’area in
questione, quasi che “i montanari del XVII secolo fossero rientrati sulla scena politica del tardo XX
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
secolo senza alcun cambiamento” (Todorova 2002). Così “le atrocità jugoslave, e in genere le
atrocità balcaniche…sono i risultati naturali che ci si attendeva da un ethos guerresco,
profondamente radicato nella psiche delle popolazioni balcaniche”. La “naturalità” di tale
spiegazione “è basata sull’apparente convinzione che esistano dei motori inconsci di
comportamento: è la tradizione culturale che li guida”. Come abbiamo anticipato in parte nel punto
precedente, un aspetto insolito di questo “primitivismo” è stato il fatto che le parti in conflitto3, a
livello di leadership, hanno sostanzialmente avallato, per dare forza alle loro rivendicazioni ed
accreditarsi come unici e credibili rappresentanti dei loro gruppi, tale linea di lettura, favorendo così
un’assunzione di tale criterio esplicativo anche da parte della comunità internazionale nelle sue più
alte sfere. Come ci ricorda la Kaldor, “Karadzic, il leader dei serbi di Bosnia, ha affermato che
serbi, croati e musulmani sono come cani e gatti, mentre Tudjman, il presidente croato, ha
ripetutamente sottolineato che serbi e croati non possono vivere insieme perché i croati sono
europei mentre i serbi sono orientali come i turchi o gli albanesi. (E’ interessante che talvolta
Tudjman sembri ritenere possibile la convivenza con i musulmani, poiché nella sua visione essi
sono veri croati, e la Croazia e la Bosnia Erzegovina sono state tradizionalmente unite. D’altro
canto, i serbi vedono i musulmani come dei turchi, cioè come dei serbi secondo le concezioni
croate!)” (Kaldor 1999). O ancora “questa percezione della guerra - evidente ad esempio nel libro
di David Owen (il mediatore internazionale n.d.a.) - ha permeato gli ambienti politici europei ed i
negoziati al massimo livello”. Uno dei riferimenti più utilizzati, sia dai politici che dai giornalisti, è
stato quello ad un breve racconto di Ivo Andric, autore de “Il Ponte sulla Drina”, che narra le
vicende di un giovane che decide di lasciare la natia Bosnia perché è un paese di paura e di odio.
Ciò che tuttavia spesso viene dimenticato è che lo stesso giovane trova la morte in Spagna,
durante la guerra civile, a dimostrazione che il male e la violenza fratricida non sono certo
appannaggio della penisola balcanica (Rumiz 1999).
I soggetti intervistati ritengono che il fenomeno della identità etnica abbia delle radici concrete nella
compresenza sul territorio di una pluralità di tradizioni culturali e religiose:
3
Addirittura la biologa serbo bosniaca Plavsic, vice presidente del Parlamento di Pale avrebbe dimostrato la
presenza di una differenza genetica fra musulmani e serbo-bosniaci. Le tesi deliranti di tale studiosa sono
arrivate a dimostrare anche la superiorità dei serbi di Bosnia rispetto agli altri serbi e quindi a sostenere il
sogno di Karadzic di porsi come guida del processo di costruzione dello stato della Grande Serbia, progetto
cui abbiamo accennato nel capitolo precedente.
22
credo che la popolazione sia stata, in fondo, un po’ manipolata sulla idea di questa identità
etnica, credo che molto sia stato costruito però sicuramente le radici culturali su cui hanno
fatto leva c’erano, altrimenti nessun popolo si sarebbe fatto utilizzare in quel modo (int.5);
ma che sia stato fomentato per motivazioni diverse da un presunto “odio secolare”:
“è stato un modo facile per interpretare la guerra e le sue efferatezze: spiegazioni
semplicistiche per i disattenti e coloro che erano in malafede. è facile dire che è venuto un
gruppo di musulmani armati ad uccidere i cattolici…più complicato analizzare con
esattezza il perché dell’attacco, le ragioni economiche del conflitto, le strumentalizzazioni
di gruppi particolari all’interno dei gruppi etnici (int. 6).
ci sono state fortissime pressioni a livello esterno, che hanno generato il conflitto e che
l’hanno comunque sostenuto: prima fra tutte quelle provenienti dalla Germania e dal
Vaticano nel sostenere la secessione della Slovenia prima e della Croazia poi. A livello di
responsabilità includerei l’intera Unione Europea che non ha capito (o ha fatto finta di non
capire) quanto staca accadendo. Questo tipo di miopia ha implicitamente avallato una
delle più grosse tragedie del Novecento. (int.14).
Gli intervistati mettono in evidenza l’elevata complessità delle situazioni alla base degli eventi della
guerra di Bosnia sottolineando l’interazione tra pressioni, locali e globali:
durante la guerra c’è stato un coagulo spaventoso….di interessi mafiosi locali, interessi
internazionali ma anche problemi storici irrisolti (int. 6).
Quello degli interessi mafiosi in gioco è una tesi molto stimolante che emerge anche da altre
interviste:
le divisioni etniche sono state prese a pretesto ed a strumento per scatenare una guerra
che serviva a legittimare politicamente dei clan locali, delle classi dirigenti, delle mafie, dei
potentati, che avevano interesse a dividersi le spoglie di uno stato in dissoluzione, che era
la Jugoslavia…queste élite politiche nazionaliste, non sempre molto ben definibili, nel
senso che erano élite politico mafiose, o che comunque dipendevano da interessi mafiosi
o viceversa, cioè c’era il caso in cui l’élite politica era più forte della manovalanza politica,
in altri casi era il contrario, cioè c’era una élite mafiosa che esprimeva una élite politica
(int.8).
Non si tratta ovviamente dell’unica o più potente causa del conflitto, come ha provocatoriamente
affermato Rumiz nel suo fondamentale testo “Maschere per un massacro” (Rumiz 1996) che, pur
essendo un’opera giornalistica rappresenta, a nostro avviso, ma anche di molti degli intervistati, un
testo di grande importanza per comprendere il conflitto bosniaco.
Certamente però gli interessi dei gruppi mafiosi hanno svolto un ruolo di rilievo all’interno delle
vicende belliche:
c’è chi ha sostenuto, scrivendo anche dei libri che, in realtà, le guerre in Jugoslavia sia
stata una guerra fra cosche mafiose, è una tesi interessante, però penso che quello sia
stato solo un effetto cioè io posso dire, anzi sono sicuro che queste cosche mafiose, i
criminali abbiano tratto indubbio vantaggio dalla situazione di caos che si è creata (int.12)
una situazione di questo tipo succede nel momento in cui si aprono le galere escono i
criminali ed allora a quel punto davvero si sovverte l’ordine costituito, si comincia a tagliare
la gola a qualcuno e da lì si genera una spirale di violenza che diventa inarrestabile (int. 9)
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
Pur usando le dovute cautele però, non si possono non dimenticare alcuni di fatto che vengono
messi in evidenza da vari autori (Kaldor 1999, Limes 1993/1, La guerra di Bosnia: una tragedia
annunciata 1994). In primo luogo va ricordato che nelle truppe paramilitari di tutte le parti c’era una
notevole presenza, in ruoli di comando, di criminali comuni: il famigerato Arkan, Caco e Celo, eroi
della difesa di Sarajevo fino al 1994, ma anche Mate Boban, leader dell’autoproclamata Herceg
Bosna, morto nel 1995 in quello che quasi certamente era un regolamento di conti. In secondo
luogo, non si può trascurare il ruolo che hanno avuto i taglieggiamenti ed i saccheggi a spese dei
profughi, sia di etnie differenti che della propria, nel finanziamento dei vari gruppi in combattimento
di cui diffusamente parla e riferisce la Kaldor, nel suo “Le nuove guerre” (Kaldor 1999).
Vi è poi l’aspetto degli accordi fra parti belligeranti, che contribuisce a dare un’immagine del
conflitto ben differente da quella di una guerra tribale o etnica che punti all’annientamento dei
membri del gruppo avverso, senza alcuna possibilità di comunicazione o mediazione:
adesso si comincia a sapere, io spero che prima o poi la storia venga spiegata bene, che
fra Tudjman e Milosevic, due personaggi ormai scomparsi dalla scena, e lo stesso
Izetbegovic…ci fossero degli accordi segreti per la spartizione (int.6);
questi due principali attori (il leader croato e quello serbo), che vedevano nella Bosnia,
comunque un territorio, è chiaro se guardi adesso quelli che sono gli eventi, da spartire,
perché la Bosnia è considerata comunque un territorio dove, essendo presenti minoranze
territorialmente ben presenti e identificabili, sia di serbi che di croati, il disegno era quello
di poter incamerare queste popolazioni e di annettersi il territorio (int. 15).
Il ruolo giocato dalla etnicità nel conflitto ed il fatto che ad essere strumentalizzato sia stato questo
fattore, nasce dalla constatazione della capacità evocativa e simbolica che questi fenomeni hanno
sugli individui, in alcuni casi anche al di là di una loro effettiva esistenza:
tutti quegli argomenti, quelle situazioni, quelle possibili argomentazioni che potevano
portare a giustificare una differenziazione, sono stati usati…si sono portati quindi, passo,
passo, verso una differenziazione, attraverso tutta una serie di strumenti, che sono stati
usati con molta oculatezza, molta abilità, per creare nella popolazione, nelle genti, proprio
questo sentimento di appartenenza ad una etnia, prima, e poi ostilità nei confronti delle
etnie diverse (int.15);
chi ha preso in mano questi simboli sapeva bene che ormai non avevano più alcun tipo di
valore reale, però evocavano immagini e sensazioni forti (int. 5).
le divisioni etniche hanno rappresentato il campo di aggregazione più semplice, più facile e
più naturale (int.13);
Prima di passare ad affrontare il tema della influenza di questa identità etnica sul lavoro concreto
dei cooperanti e del volontari è necessario soffermarsi per un istante su alcuni passi delle interviste
che fanno emergere spunti rilevanti.
24
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
Il primo aspetto che vogliamo evidenziare è la presenza, per quello che riguarda l’identità etnica, di
una sorta di variabile “spaziale” che assume una certa importanza.
All’interno delle città infatti il fenomeno della identificazione secondo linee etniche assume una
importanza particolare, tanto da presentarsi come un fenomeno sfumato:
poi bisogna però cercare di vedere dove avviene questa cosa, per esempio nei villaggi
rispetto alla città, questo è tutto molto più sfumato, questa differenziazione, perché i tempi
della città a volte confondono le diversità (int.13);
o addirittura assente:
Tuzla, andiamo a Tuzla dove, fondamentalmente, grosso conflitto non ce n’è stato, una
città che comunque ha continuato a vivere la propria multietnicità tranquillamente (int.7).
Il secondo riguarda un tentativo di interpretazione della conflittualità etnica, si tratta di una
spiegazione che riprende alcune riflessioni di Bianchini (Bianchini 1996) sul riconoscimento della
diversità all’interno della Federazione Jugoslava.
Il tentativo di spiegazione si basa su due punti fondamentali: il mancato riconoscimento a livello
sostanziale della differenza fra gli individui:
la conflittualità etnica…nasce, a mio parere, laddove non vengono riconosciute le diversità
dei cittadini e dove manca il diritto alla cittadinanza…sulla carta la Jugoslavia riconosceva
dei diritti che, a tutt’oggi, in Italia non riconosciamo a diverse popolazioni…ma c’era un
divario fra quello che era riconosciuto formalmente e ciò che effettivamente, nella vita
quotidiana, avveniva (int.16);
e il ruolo svolto dai processi manipolatori della storia portati avanti sia dai regimi comunisti che da
quelli precedenti e, purtroppo, non sconosciuti ai governanti attuali:
il fatto che la storia sia stata guardata, che non si sia riflettuto su ciò che era accaduto, dai
massacri fino a comunque tutti gli eventi, non dico solo della seconda guerra mondiale, ma
anche precedenti, e che tutto sia stato insabbiato…Tito vuole un paese unito, unificato,
con migliaia di diversità, l’unica possibilità che io ho è quella di cancellare, ripartiamo da
zero (int.16).
L’ultimo riguarda invece un paradosso che contraddistingue la società bosniaca del dopoguerra, il
modello che si è affermato infatti è quello di una multiculturalità intesa certamente come
compresenza sullo stesso territorio, ma senza alcun momento di comunicazione e scambio fra i
diversi gruppi etnico-religiosi:
divisi è più facile andare d’accordo….la convivenza è possibile solo da separati (int.6).
L’omogeneità etnico-religiosa diviene quindi il principio della sicurezza individuale, ma anche dello
sviluppo economico:
pensare che lo stare ognuno a casa propria sia il modello di sicurezza, ognuno con la
propria gente, sia il modello di sicurezza migliore e possa anche essere il modello che
garantisce la ricchezza e lo sviluppo, perché quando si è tutti di una stessa parte si va più
spediti, non ci si frega l’uno con l’altro e si è più simili all’Europa (int.8).
25
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
Si realizza quindi quel processo che la Todorova aveva definito di “orientalismo a catena” per cui
“un serbo è un orientale per uno sloveno, ma un bosniaco sarebbe un orientale per un serbo,
anche se geograficamente situato ad ovest; lo stesso vale per gli albanesi che, posti nei Balcani
occidentali, sono percepiti come più orientali da tutte le nazioni balcaniche. La Grecia, essendo
l’unica all’interno dell’Unione Europea, non è considerata orientale dai suoi vicini balcanici, anche
se occupa il ruolo di orientale nella compagine istituzionale europea. Per tutti i popoli balcanici
l’orientale è concordemente il turco, anche se il turco si considera un occidentale di fronte ai veri
orientali, come gli arabi” (Todorova 2002):
quindi si è più buoni , si è più bravi, si è più europei, si è meno bizantini perché poi, come
dire, mischiare tutto crea qualcosa di strano, di particolare, e invece si è come gli italiani
che sono tutti italiani, i tedeschi che sono tutti tedeschi ed i francesi che sono tutti francesi
(int.8).
Proprio il riferimento all’Europa mette in evidenza la natura paradossale di questo processo di
cancellazione delle differenze:
creare uno stato nazionale omogeneo è il primo passo per entrare in Europa, sembra un
paradosso, prepararsi ad entrare nell’Europa Unita con questo tipo di cultura (int.8).
Come ci ricorda Bianchini del resto, “è opinione diffusa nel Sud-Est europeo che sia possibile
mantenere e rafforzare tali caratteristiche (salvaguardia identità nazionali, n.d.a.) in una Unione
Europea peraltro interpretata come un punto di approdo di ciò che, al tempo stesso, si presenta
come una fuga dal proprio contesto regionale e dai popoli contigui. In altre parole l’europeismo di
questi movimenti nazionalisti si traduce, spesso, in un’aspirazione ad entrare nella UE., anche se
ciò dovesse andare a scapito di vecchie compagini sovranazionali o di stati vicini; non è insomma
marginale o secondaria la tendenza a ritenere che la corsa verso l’Europa debba e possa
avvenire, ad esempio, per la Croazia o la Slovenia anche a danno della Jugoslavia o della Serbia”
(Bianchini 1996).
Al di là delle posizioni sostanzialmente omogenee sul tema della identità, tutti i cooperanti ed i
volontari hanno sottolineato che la presenza sul territorio di tale situazione ha influenzato in modo
evidente il loro lavoro.
Le difficoltà contro cui si sono dovuti scontrare gli operatori umanitari nascevano da una situazione
che è caratterizzata da profonde fratture e divisioni all’interno della società, al di là del significato
storico che possono avere le denominazioni etniche. Come ci ricorda Fabietti infatti, “il fatto che le
etnie risultino essere delle realtà immaginate piuttosto che delle realtà reali, non impedisce che
l’identità etnica sia percepita, da coloro che vi si riconoscono, come un dato assolutamente
concreto” (Fabietti 1995). Il conflitto ha inevitabilmente favorito una polarizzazione che, come
abbiamo visto, si è facilmente sviluppata lungo le linee etnico-religiose, le più evidenti ma anche le
più sensibili. In condizioni in cui è prevalso questo tipo di frammentazione, è risultato più facile e
naturale rivolgersi ai membri del proprio gruppo che comunque rappresentavano un punto di
26
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
riferimento quasi obbligato, anche per i soggetti che non condividevano i principi sui quali era
avvenuta la separazione:
comunque dopo il conflitto la gente si è schierata perché se avevi bisogno chi ti aiutava
erano, se eri musulmano, le milizie di Izetbegovic, se eri croato, quelli della tua parte
(int.6).
In una situazione di questo tipo non è assolutamente possibile prescindere da una attenta analisi
della situazione che permetta di comprendere le dinamiche in gioco:
quando si lavora in paesi dove la situazione dell’emergenza o la motivazione della
presenza della cooperazione è dovuta ad un conflitto, i perché del conflitto sono
sicuramente molto importanti nel lavoro che si fa (int.11).
Ancora una volta emerge il problema della lingua e del suo uso politico:
bisognava stare attenti alle parole che si usavano…e stare attenti alle parole che usavano
loro, per capire con chi si aveva a che fare (int.11);
anche nello scrivere un documento, non so, una pagina, tu devi stare attento al tipo di
inflessione o di parole che usi, perché un certo tipo di parole,…perché tutti parlano serbocroato ma poi adesso parlano serbo, croato e bosniaco, che è la stessa lingua con delle
piccole varianti (int.6);
o aspetti che all’apparenza potrebbero sembrare insignificanti, ma che assumono, in questa
prospettiva, un valore ben più marcato:
abiti in un posto, in che bar vai ? Dove vai a mangiare ? E su questo tipo di equilibrio si
definisce anche la tua identità di cooperante, sei un cooperante che sta con i buoni o un
cooperante che sta con i cattivi ? E allora così, uno cerca di fare una vita a prescindere e
cerca di essere un po’ ovunque per dimostrare che non ha pregiudizi, poi hai le tue
opinioni personali, però giudizi non ne hai (int.4)
Tuttavia le difficoltà maggiori che i soggetti hanno incontrato rispetto a questa problematica si sono
manifestati non tanto con la popolazione civile, costretta a fare i conti con il problema più prosaico
della sopravvivenza di ogni giorno:
che poi (la divisone n.d.a.) non è assolutamente l’espressione di una sorta di volontà
popolare, questo è un nazionalismo bieco che viene sfruttato da un pugno di persone per i
loro esclusivi interessi personali…a livello popolare la gente non si fa queste domande,
spesso perché deve pensare ad altre cose: campare con 300 marchi al mese in Bosnia è
difficile (int.12);
quanto piuttosto con i politici e gli amministratori:
ho rapporti più che altro con autorità, con personalità politiche o personalità
dell’amministrazione e, come ho detto prima, essendo quest’aspetto dell’etnia un aspetto
strumentalizzato a fini politici ed a fini personali, devi stare attento in questo senso,
purtroppo hai delle controparti che sono sempre lì che aspettano, o almeno questo è il mio
parere, che tu sbagli e quindi ogni cosa può essere usata contro di te (int.12)
ha influenzato molto (l’identità etnica n.d.a.) nel momento in cui i progetti dipendevano
anche dal veto, dall’ostruzionismo o dalla partecipazione di una realtà istituzionale, la
27
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
municipalità piuttosto che il cantone, non ha creato dei problemi nel momento in cui invece
erano progetti che mettevano in rapporto delle comunità locali, quindi microrealtà che,
peraltro, erano obbligate, anche se magari senza rapporti in quel momento, però obbligate
a vivere vicine, lì non abbiamo avuto grossi problemi (int.16);
questo è stato ovviamente un grande problema però, più che rispetto alla gente comune,
che poi erano il target del mio lavoro, nei confronti delle élite politiche, con le quali si aveva
a che fare (int.8).
Non si può non tener conto infatti, come abbiamo ampiamente detto sopra, del ruolo svolto dalle
élite politiche nel fomentare la divisione etnica, per trovare una fonte di legittimità e del loro
interesse a mantenere tale atteggiamento anche nel dopoguerra:
queste forze avevano come obiettivo il mantenimento della divisione etnica, perché questo
garantiva la loro legittimità politica e di potere, nel senso che loro si ergevano a protettori
della propria etnia nei confronti del vicino di etnia diversa e questo era la legittimità del loro
potere e questo dava loro consenso (int.16).
Passiamo ora a considerare le conseguenze della presenza della identità etnica sui problemi che
vive attualmente la Bosnia. Gli intervistati sono sostanzialmente concordi nel ritenere la presenza
di tale identificazione come un ostacolo, soprattutto a causa delle caratteristiche con cui si
manifesta questo fenomeno:
a tutt’oggi l’identità etnica ostacola, perché è stato un processo di pacificazione, che è
ancora in corso e fatica a decollare o comunque a stare in piedi sulle proprie gambe,
proprio perché l’identità etnica è fortissima e di conseguenza, per farti un esempio banale,
piuttosto che pensare ad una cooperazione fra le diverse identità etniche e quindi alle
istituzioni che ogni etnia si è data, piuttosto che avere un vantaggio comune, preferiscono
danneggiare le altre etnie. Se noi diciamo che c’è una determinata opportunità, loro
dicono: “Se ne ho un vantaggio solo io bene, se l’hanno anche gli altri, preferisco allora
che nessuno ce l’abbia o lo date solo a me”, l’importante è che non vadano avanti gli altri
(int.15).
Essa infatti prende la forma di una identità “contro”, che si basa sulla contrapposizione anche
violenta rispetto all’altro, al diverso:
se l’identità è una identità contro abbiamo poco da sperare (int.16);
un’identità etnica, per come è stata vissuta, soprattutto in quel luogo d’Europa, non mi
riferisco solo alla Bosnia, ma a tutta l’area ex-jugoslava ha rappresentato…una
problematica che divideva (int.14).
Questa situazione fa sì anche che in alcuni casi, due in particolare, la separazione fra gruppi etnici
e l’enfasi sulla identità etnica venga vista come un passo inevitabile, soprattutto dopo le lacerazioni
del conflitto:
è una realtà di fatto (l’identificazione secondo linee etniche n.d.a.), quindi non se ne può
fare a meno (int.9)
secondo me è necessaria, non saprei dire se ostacola…cioè a lungo andare sicuramente
ostacola però è un passaggio attraverso cui dover passare, ripeto, secondo me non sono
28
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
ancora pronti per tornare a vivere da buoni vicini, mescolati, come erano fino a qualche
anno fa (int.5).
Il problema, comunque, viene da tutti individuato nella ricostruzione di quel tessuto comune che
aveva fatto della Bosnia Erzegovina, al di là di tutte le deformazioni della propaganda nazionalista,
un luogo dove si realizzava una singolare convivenza fra popolazioni con tradizioni culturali
diverse, che aveva portato, attraverso un processo di contaminazione reciproca, addirittura allo
sviluppo, in svariate occasioni, di un idem sentire e di un senso di appartenenza che trascendeva
le singole appartenenze etnico-religiose in nome di una comune appartenenza bosniaca:
ti rendi conto che ci sono molte etnie ma non sono molto diverse fra di loro, hanno assunto
una cultura bosniaca che ha dentro del turco, dell’austroungarico, del croato, del
serbo…..è sì un miscuglio ma è diventato un’unica cultura, non è che ci sono più culture
(int.1);
come la gente la viveva (l’identità etnica, n.d.a.) prima dell’esperienza dell’urbicido di
Sarajevo era stato un modo direi intelligente, perché la gente stessa aveva creato delle
tradizioni, delle abitudini, che aiutavano le persone stesse a superare questa diversità di
tipo religioso ed a creare una unica etnia, tra virgolette, che era essere, sentirsi, popolo di
Bosnia (int.2).
Si tratta evidentemente di un compito difficile che passa comunque per un lavoro di molti anni,
un’opera che deve partire, in molti casi, addirittura dall’abbattimento dei muri invisibili che tuttora
separano, anche fisicamente, le diverse comunità:
questo è un lavoro che bisogna fare ricominciando a preparare, a formare i giovani, a
lavorare con loro, permettere alla gente di avere alcune occasioni di lavorare insieme, per
esempio sulle zone limitrofe, sulle zone di confine (int.9);
il lavoro che si sarebbe dovuto fare fin dall’inizio è questo, cercare di cambiare la
coscienza della gente, non certo in dieci anni, ti devi porre in una ottica di venti o trenta
anni (sic n.d.a.), cominciare dai bambini delle elementari, perlomeno cominciare a mettere
il dubbio (int.12).
Un’attività che dovrebbe portare ad una nuova “declinazione” dell’identità etnica, intesa come
occasione e non come limite:
sai la diversità è una risorsa, diciamo noi in Occidente, però sarà un lavoro duro poter
lanciare questo slogan in Bosnia, sarà un lavoro di decenni (int.7);
la divisione di identità è necessaria, poi, io spero, per ritrovarne di nuovo una unica, nuova
probabilmente, una identità che risulterà una nuova rielaborazione dal passaggio
attraverso queste due identità (int.5);
fondamentale sarebbe il recupero di una identità, io non ci metterei l’aggettivo etnica,
un’identità se vuoi storica e culturale, ma nella convivenza e nel pluralismo (int.14).
L’esperienza della convivenza sperimentata in Bosnia Erzegovina infatti può costituire, come
abbiamo già anticipato, una grande risorsa per l’Europa, in particolare oggi, quando si propone,
29
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
sulla spinta del fenomeno della immigrazione, il dilemma fra l’apertura verso una sincera
interculturalità e l’arroccamento e la chiusura nella Fortezza Europa:
risorsa è quella cultura della pentola bosniaca4 che ha fatto sì che questi problemi di
differenza religiosa, di differente tradizione culturale non fossero un ostacolo ma fossero
un originale modo di convivenza. E’ un tipo di cultura che è una risorsa per tutta l’Europa,
per i problemi di convivenza delle differenze che in tutta l’Europa ci sono (int.8).
D’altro canto proprio dal rapporto con l’Europa passa una delle vie di possibile soluzione di
quello che potremmo definire come l’enigma bosniaco:
credo che non ostacolerà la soluzione dei problemi in Bosnia, se la questione dell’identità
etnica diverrà un fatto personale o comunque regionale, e questo è possibile nel momento
in cui alla Bosnia Erzegovina e a tutta la ex-Jugoslavia si darà la possibilità di far parte,
questo non vuol dire solo entrare nell’Unione Europea, però fare parte di un area molto più
ampia in cui l’identità ha, a quel punto, un’accezione molto più ampia e quindi l’identità
etnico religiosa, non dico diventa quella meno importante, ma non è quella di maggiore
importanza (int.16).
Non si tratta dunque tuttavia di un percorso così lineare e semplice, quei potenti interessi
internazionali che, intrecciati con dinamiche interne, abbiamo visto essere la causa della
disgregazione dell’ex-Jugoslavia e della tragedia bosniaca non sono in alcun modo cessati e
continuano a fare sentire la loro influenza.
Anche il trattato di Dayton, ai cui limiti abbiamo accennato più sopra, non è facilmente
interpretabile: “era esso il primo passo verso la riunificazione della Bosnia verso la sua
definitiva spartizione ? Si trattava di una realistica presa d’atto della situazione per ricostruire
quella interculturalità che rappresentava l’aspetto originario della Bosnia (e dei Balcani) o di un
atto volto a legittimare le divisioni imposte con le armi e, per molti aspetti, perfino la pulizia
etnica, sia pure attenuandone l’impatto nell’opinione pubblica democratica attraverso lo
svolgimento di qualche processo e la condanna di alcuni criminali di guerra da parte del
tribunale internazionale dell’Aja ?” (Bianchini 1996).
In conclusione non possiamo che sottolineare la presenza di queste ambiguità anche nelle
riflessioni dei nostri intervistati:
una cosa che mi viene da pensare è…che, in questo caso, si debba uscire dalla Bosnia e
pensare a quello che stanno facendo e come si muove la comunità internazionale in
Bosnia. Questa domanda andrebbe posta a chi, in questo momento, sta governando la
Bosnia, e non mi riferisco a ministri e governanti bosniaci, ma alle istituzioni internazionali
che di fatto sono lì e che fanno della Bosnia un protettorato, se non di diritto, quantomeno
di fatto (int.16).
4
Il riferimento è alla metafora del piatto bosniaco, già citata in precedenza, mutuata da testo della
Ivekovic “Autopsia dei Balcani “ (Ivekovic 1999)
30
La contrapposizione città/campagna e l’identità urbana e rurale
Il tema della contrapposizione fra città e campagna e della presenza di un modo di vita urbano e di
un modo di vita rurale, nonché di un uomo urbano contrapposto a quello rurale, sono un classico
della riflessione sociologica.
Per quello che riguarda in specifico la nostra ricerca, abbiamo deciso di verificare se i nostri
soggetti avessero percepito un’eventuale presenza di una contrapposizione fra città e campagna,
se la presenza di un’identificazione secondo le linee urbano/rurali avesse avuto una qualche
influenza sul loro lavoro e, infine, quale poteva essere l’influenza di questa istanza identitaria sui
problemi che attualmente vive la Bosnia Erzegovina. Come si può facilmente notare abbiamo
adottato pressoché lo stesso schema usato per indagare il tema della identità etnica.
La scelta di verificare la presenza di una contrapposizione fra l’identità urbana e quella rurale
prende spunto, oltre che dall’esperienza concreta vissuta in particolare nella città di Sarajevo, dalle
riflessioni raccolte nel testo “La Balcanizzazione della Ragione” di Rada Ivekovic, cui abbiamo già
attinto più sopra, e quelle contenute in un articolo di Bogdan Bogdanovic, pubblicato su “Il
Manifesto” del giugno 1992, che si intitola significativamente “Il massacro rituale della città”.
La Ivekovic concentra la sua attenzione sul ruolo del nazionalismo e sul significato della guerra,
che viene letta come una guerra alla diversità, sia essa culturale, sociale o di genere. In una
prospettiva in cui “il soggetto occidentale 5, in quanto identità definita dall’appartenenza ad una
comunità, ha per principio costitutivo l’esclusione dell’Altro” e “l’esclusione dell’Altro non è un
effetto contingente della soggettivazione: è inerente ad essa” (Ivekovic 1995); si comprende
perché siano “aggrediti in modo particolare i luoghi in cui ha origine la commistione, cioè i luoghi
della cultura (giacché cultura e meticciato sono tutt’uno)”. “Ecco il motivo”, continua la filosofa
croata, “per cui, in Jugoslavia, sono le città a subire per prime la distruzione. Le città: luoghi di
nascita della mescolanza, dell’incrocio di differenze, della cultura”. Ed ancora “questa
guerra…potrebbe essere descritta come una guerra contro le città, condotta da forze retrograde
ostili alla città”.
La Ivekovic fa poi riferimento, giustamente, al “flusso spettacolare e precipitoso, mal calcolato e
non frenato, dalle campagne verso le città, dalle province verso la metropoli” (Ivekovic 1995), che
ebbe luogo nel secondo dopoguerra in Jugoslavia. Questo massiccio movimento di popolazione
non ha potuto che acuire quella “ostilità tra la minoranza di cittadini (e borghesi) originari ed i nuovi
venuti che riuscirono a prendere d’assalto le istituzioni e l’amministrazione, come pure le cariche
direttive”. Proprio “da questi provinciali provennero in seguito i nazionalisti più accaniti delle due
parti” e noi non possiamo ricordare la grottesca coincidenza per cui sia Milosevic che Karadzic,
ultrà del nazionalismo serbo, sono entrambi di origine montenegrina (Rumiz 1996) e che lo stesso
Tudjman, padre della patria croata, era nato in Erzegovina.
5
L’autrice sottolinea spesso il carattere profondamente “europeo” dei nazionalismi contrapposti in opera in
ex-Jugoslavia
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
L’estremismo di questi nuovi arrivati, derivato proprio “dalla loro inadattabilità alla città, che non
fece alcuno sforzo per socializzarli” (Ivekocic 1995), li avrebbe spinti verso l’esercito e avrebbe
portato alla situazione per cui i vertici dell'Armata Federale erano composti da serbi e che la guerra
difensiva dei croati era stata combattuta soprattutto da volontari erzegovesi.
In questa ottica il conflitto città/campagna “cioè delle campagne e delle periferie contro la secolare
cultura delle città (Dubrovnik, Sarajevo, Mostar, Vukovar e tante altre) è principalmente un conflitto
economico e culturale” (Ivekovic 1995).
La distruzione della città significa “per questa gente prendere definitivamente il potere; significa
distruggere la minaccia rappresentata dall’Altro (urbano, misto, colto, impuro)”, e ancora “la
distruzione della città acquista in effetti un carattere rituale…è così che un comandante militare tra
quelli che attaccarono Dubrovnik, un certo Vucurevic, ha potuto proclamare che i Serbi avrebbero
costruito una Dubrovnik ancora più bella e più antica”.
La scelta di Sarajevo e della Bosnia, per l’autrice nasce dal desiderio di colpire il “cuore della
Jugoslavia, il suo nucleo caldo, il più vulnerabile, il punto dove la Jugoslavia è più vicina a se
stessa, più somigliante a se stessa nel senso del metissage”, proprio perché “la Bosnia era un
luogo d’incrocio e di mescolanza di culture….coloro che appartengono ad una cultura, ad una sola
nazione vogliono distruggerla. Azzerano così le differenze e la mescolanza”. “Non si tratta” infatti
“di distruggere le città, ma le città in quanto gigantesco pentolone (bosniaco) della cultura in cui
sono mescolati ingredienti e spezie tra i più vari”.
La filosofa croata stabilisce infine una contrapposizione fra la raja, termine usato nel periodo
ottomano per definire il popolo, che “rappresenta la semplice popolazione di città”, “una
popolazione civilizzata, con una cultura urbana…composta da Serbi, Musulmani, Croati, Ebrei tutti
insieme (corsivo nostro, n.d.a.) ed i papani (da papak zoccolo), i selvaggi delle montagne,
“etnicamente puri” che “condividono l’ostilità nei confronti della civiltà urbana…a prescindere dalle
diverse nazionalità. La popolazione della città è troppo mista, infatti perché si possano bombardare
solo i Musulmani o altri, allora si bombardano tutti quelli che ci vivono”(Ivekovic 1995).
L’articolo di Bogdanovic è particolarmente interessante, soprattutto se si considera che l’autore è
serbo e la sua riflessione si concentra proprio sulle ragioni che spingono i suoi concittadini a
distruggere le città. Egli ci fa notare come da tempo l’occidente abbia abbandonato “anche sul
piano strettamente etimologico, ogni distinzione tra il concetto di città e quello di civiltà” e che
quindi “agli occhi dell’occidente questa assurda devastazione non significa altro che la negazione
barbaramente esplicita dei valori più alti della società civile” (Bogdanovic 1992). L’autore individua
“uno tra i principali elementi di progresso e di crisi della civilizzazione” nell’antagonismo fra chi ama
la città e la odia, conflitto pronto a “esplodere
in ogni momento storico, in ogni paese e cultura, in ogni uomo”. La distruzione delle città trova la
sua spiegazione in una “perversa aggressività verso tutto ciò che rappresenta l’urbano. E dunque
32
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
anche verso le complesse successioni semantiche dell’anima della morale, del linguaggio, del
gusto, dello stile.
Il termine urbanità, dal quattordicesimo secolo, indica in quasi tutte le lingue europee, la cortesia,
la coerenza, l’armonia tra le parole e i sentimenti, i sentimenti e i gesti, etc…Per chi non riesce a
modellare la propria esistenza sulle leggi dell’urbanità, la soluzione più semplice è quella di
liquidare ogni cosa” (Bogdanovic 1992). Bogdanovic ci mette poi in guardia sui drammatici effetti
che la distruzione delle città porta anche in seno alla società dei distruttori, in questo caso i serbi.
Ricollegandosi alle vicende del secondo dopoguerra, che ha visto un massiccio inserimento nelle
città di popolazioni non-urbane con lo scopo di “rigenerarle”, paventa una soluzione simile anche
per la “Seconda Serbia”, una sorta di pulizia etnica interna alla città con le ovvie conseguenze
drammatiche e devastanti.
Il tema del ruolo delle realtà urbane è stato preso in considerazione da molti storici che si sono
occupati della storia dei Balcani e della Bosnia (Pinson 1995, Pirjevec 1997, Prevelakis 1997,
Bianchini 1996, 1999, 1984), tanto da diventare una specie di classico, ma non ha avuto uguale
risonanza nei resoconti giornalistici o presso l’opinione pubblica, completamente oscurato dal tema
della identità etnica.
A dimostrazione della importanza della questione presso gli storici, possiamo citare un passo tratto
da “Sarajevo. Le radici dell’odio” di Bianchini, che abbiamo peraltro scelto di inserire nella
domanda, in cui si afferma esplicitamente che “lo scontro fra città e campagna ha costituito e
costituisce uno degli elementi caratterizzanti la guerra jugoslava e, in particolare, il conflitto
bosniaco. Qui infatti in modo più acuto che altrove,
campagne e sobborghi urbani, ove il peso del mondo rurale e delle sue autarchie ha continuato ad
esercitare un ‘influenza rilevante, si sono contrapposti ai centri urbani, per loro natura luoghi di
scambio, di contatto e contaminazione culturale, economica e sociale” (Bianchini 1996).
I risultati della nostra analisi confermano la rilevanza di questa linea di identificazione e la sua
influenza sul lavoro dei volontari.
Emerge il dato della contrapposizione fra la città come luogo della complessità e la campagna ed i
sobborghi urbani come luoghi in cui a prevalere è la tradizione:
l’integrazione etnica aveva avuto successo nelle città…..nelle campagne, nei villaggi, più
che nei sobborghi, invece, il problema era quello che questi villaggi erano costituiti da
comunità chiuse, vale a dire della stessa etnia…famiglie allargate con una forte identità
etnica, per cui un villaggio era tutto serbo, un villaggio era tutto croato, oppure, se c’erano
e ci sono villaggi in cui sono presenti due etnie, i villaggi sono fisicamente separati (int.15);
in questa regione c’è una forte differenza fra città e campagna, nelle campagne ancora
prevaleva la cultura della zadruga e quindi del clan di tipo etnico, con un forte sospetto nei
confronti della città, come luogo di contaminazione, della immoralità, della decadenza
(int.8).
Alla radice di questa situazione si devono collocare una serie di fattori storici:
33
c’è stato uno scontro fra popolazioni contadine, lasciate ai margini del processo di
modernizzazione e quindi anche di benessere, e la popolazione urbana, che negli anni 80
ormai viveva con maggiori libertà individuali e con maggiore benessere. In città si erano
sperimentati i vantaggi di una convivenza laica (int.6);
nella città era presente la forza produttiva di un paese, la forza amministrativa e quindi
erano capaci di richiamare lavoratori….c’erano uffici, c’era quindi l’élite del partito che era
poi la base del consenso….quindi una forte presenza…al di sopra della considerazione
etnica (int.15).
Questa disparità evidente è stata strumentalizzata nel corso del conflitto, e le campagne sono
diventate il luogo dove il nazionalismo ha avuto il suo bacino di consensi:
queste comunità hanno conservato, anche durante il conflitto, il serbatoio di consenso per
la politica nazionalista, per un conflitto etnico, molto di più di quello che possono essere
state le città (int.15);
un certo tipo di reazione ha avuto più presa nelle campagne, questo è vero…. questa sorta
di delirio etnico (int.12).
Consensi spesso ottenuti attraverso un’opera di manipolazione:
ma i politici sapevano e sanno che lì dove l’ignoranza è maggiore, si lavora meglio, allora
arruolavano gente dalle campagne per i loro scopi (int.1);
o di vero e proprio terrorismo psicologico:
occorre anche sapere che nella conduzione della guerra, le atrocità peggiori sono state
fatte in campagna (int.6).
In ogni modo sia, come conseguenza della guerra, si è assistito ad un radicale mutamento degli
equilibri demografici e della composizione sociale della città, che ha influito profondamente sul
rapporto e la contrapposizione fra questi due luoghi:
la guerra ha alterato gli equilibri, cioè la composizione sociale delle città e la loro cultura.
Le città prima erano laiche, culturalmente ed etnicamente tolleranti, erano
cosmopolite…aperte alla cultura occidentale la guerra ha distrutto questa situazione, con
la pratica delle pulizie etniche, ha creato degli spazi di arrivo dall’esterno, di popolazioni
rurali (int.6);
ora una conseguenza molto forte della guerra è che, essendo molti cittadini scappati da
Mostar ed essendo avvenuta questa pulizia etnica, per questo molte case sono rimaste
vuote, sono state occupate da abitanti della campagna circostante (int.5);
la guerra, sociologicamente parlando, porta a degli stravolgimenti nei vari strati della
popolazione (int.14)
Sul fenomeno della pulizia etnica tuttavia è necessario fare chiarezza, infatti, contrariamente a
quello che si è soliti pensare, tale processo non è stato unicamente un processo di allontanamento
dei membri di un gruppo etnico differente ma ha preso la forma, in taluni casi, di una “pulizia
sociale”(Rumiz 1996), che ha operato in seno agli stessi gruppi, costringendo all’allontanamento
dei “moderati e di quanti rifiutavano di aderire alla strategia dell’odio” (Kaldor 1999):
molti intellettuali, molto ceto medio dalle città bosniache se n’è andato, durante la guerra,
sia perché cacciato, nel senso che non erano funzionali alla spartizione etnica del territorio
perché resistevano su di un principio di multiculturalismo, di cosmopolitismo (int.8).
Sta di fatto che si è assistito ad un fenomeno molto rilevante di fuga o di allontanamento forzato di
molti cittadini dalla città:
con lo scoppio della guerra, le élite urbane, quelle più illuminate sono andate via, sono
scappate (int.14);
dalla città quelli che non accettavano le guerre scappavano, perciò la città si svuotava,
perché comunque, diciamo, i cittadini capivano dove stava portando quello che si stava
facendo (int.1).
In questo modo si è potuto realizzare quello che la Ivekovic aveva definito come “la conquista della
città”:
questa gente delle campagne entrava nelle città, entrando si appropriavano di case, di
appartamenti e così via, ma la città è un po’ il sogno per tanti, perciò per loro si realizzava
quel loro sogno, perché comunque, anche in modo illecito, avevano un appartamento in
città (int.1);
il loro posto (dei cittadini, n.d.a.) è stato preso da chi veniva dalle campagne, che ha
conquistato la città, finalmente intanto ha messo i piedi nella città odiata ed ha cominciato
ad amministrarla come sempre aveva sognato, in cui appunto l’elemento della forza,
dell’etnicità pura e dura avesse il sopravvento (int.8).
Anche in questo caso è però necessario fare una precisazione per evitare di dare una immagine
troppo rigida della guerra bosniaca; il nostro scopo non è infatti quello di trovare un principio
esplicativo alternativo che sostituisca quello della etnicità, ma verificare se sia possibile individuare
il concorso di più fattori causali, arrivando ad una visione più articolata. Come abbiamo detto fin
dall’inizio, si tratta di superare il modello del tribalismo e non sostituirlo con un eventuale
“ruralismo”.
A questo scopo ci pare opportuno riferire alcuni passaggi di interviste che contribuiscono a dare
conto della complessità della situazione e di come sia assolutamente riduttivo stabilire, per
esempio, una equazione fra provenienza rurale e partecipazione alla guerra:
c’è stata una guerra urbana, abbiamo visto Mostar, abbiamo saputo dei racconti di Mostar,
a Mostar si sparava chi era a Mostar, e poi magari è successo che su queste teste di
ponte, su queste linee di fronte, poi c’era un afflusso di persone che venivano fatte venire
a sostegno (int.4);
c’è stata anche gente che ha partecipato alla guerra quando negli scatenamenti degli odi e
dei contro odi….le persone si sono trovate a doversi unire a quelli che li
aiutavano…inevitabilmente affiliazioni si sono verificate, anche classe urbana intellettuale
ha fatto la guerra (int.6).
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
Se passiamo a considerare successivamente la situazione del dopoguerra riscontriamo l’insorgere
di alcune problematiche particolarmente interessanti, in primo luogo si è assistito ad un ricambio
della classe dirigente che ora è soprattutto di provenienza contadina o rurale:
ho quindi visto scuole, giornali, televisioni, uffici politici occupati da chi, pur non avendo
nessun merito per stare in quei posti aveva fatto un investimento sulla guerra, cioè aveva
deciso di rimanere lì, di mostrarsi fedelissimo del proprio regime e quindi, in virtù di questo,
occupare i posti di potere (int.8)
un grosso problema in Bosnia Erzegovina è che, chi è venuto in città, chi è sceso dalle
montagne, oggi ricopre ruoli in diversi gradi dell’istituzione, della gestione amministrativa
delle municipalità fino ai ministeri del cantone, pur non avendo una preparazione (int.16)
la nuova ondata di immigrati di guerra….ha espresso la nuova classe politica (int.6)
anche la classe dirigente è espressione di una cultura più arretrata (int.7).
Questo ha avuto delle influenze sul lavoro dei cooperanti, visto che le nuove classi politiche di
estrazione rurale sentono più forte il richiamo della etnicità, ma anche sulla vita concreta della
popolazione bosniaca, che si trova costretta a fare i conti con un peggioramento evidente della vita
all’interno dell’ambiente urbano:
questo scontro di cultura fra città e campagna…si vede anche nei modi in cui gestiscono la
città: si vive alla giornata (int.6)
questa immissione rapida di persone dalla campagne….ha portato forse ad un piccolo
livello di inciviltà rispetto alla vita urbana (int.4).
Una conseguenza forte di tale condizione è, d’altra parte, che la diffidenza da parte dei cittadini
verso le popolazioni rurali, un sentimento comune non solo alla realtà bosniaca, ma a tutto il
mondo:
vedo le stesse cose anche in Italia, sono nata ed ho vissuto a Milano per trent’anni,
comunque c’è un atteggiamento, anche nelle generazioni più giovani, un senso di
superiorità nei confronti di chi viene dalla provincia (int.16);
aumenti fino a tramutarsi in una sorta di disprezzo:
i nostri collaboratori bosniaci avevano un po’ di atteggiamenti, forse a volte un po’ di
disprezzo verso i contadini (int.4);
per i cittadini di Mostar questo è una ennesima ferita perché dicono che queste persone
non sono abituate ad essere cittadini, per cui non hanno rispetto della bellezza della città,
della convivenza civile (int.5).
La situazione è ulteriormente complicata dalla questione dei rifugiati, le città hanno infatti costituito,
durante la guerra, dei rifugi per i profughi in fuga dalla guerra e dalla pulizia etnica:
le città erano gli unici punti di rifugio, città come Zenica erano un punto di grande affluenza
di profughi (int.11)
36
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
ed ora si presenta il problema del ritorno ai propri paesi d’origine, come stabilito fra l’altro
dall’Annesso 7 della Pace di Dayton. L’attuazione del principio contenuto in questo articolo, quello
del diritto al ritorno dei profughi ai loro luoghi di origine e della inalienabilità delle loro proprietà,
risulta molto problematico, non solo per le innumerevoli difficoltà politiche, ma anche perché, in
alcuni casi, le popolazioni rurali rifugiate nelle città non vogliono ritornare, sia per timore di
ritrovarsi in minoranza che di subire un drastico peggioramento del tenore di vita:
devo dire che è molto difficile convincere la gente a ritornare in area rurale….perché sanno
benissimo che rientrano in un’area dove, non solo possono incontrare l’ostilità di una
comunità diversa dalla loro, ma soprattutto perché sanno che la loro condizione di vita
peggiorerà (int.15);
adesso c’è il grosso problema di far rientrare questa gente nei villaggi, però loro,
abituandosi alla vita della città, alle comodità della città, non vogliono più andare via (int.1)
E’ molto difficile rendersi conto della dimensione drammatica che assume questo problema e forse
un esempio numerico può essere di aiuto: nel 2000 si contavano circa 800.000 rifugiati su una
popolazione complessiva di poco più che 4.500.000 abitanti.
Due sono state le principali conseguenze della presenza della contrapposizione città/campagna
sul lavoro concreto degli operatori umanitari: in primo luogo, come abbiamo già anticipato, in molti
casi i cooperanti hanno dovuto fare i conti con i nuovi amministratori e la nuova classe politica, di
provenienza rurale, riscontrando notevoli difficoltà, in particolare nei centri più piccoli:
se a Sarajevo, non fosse altro per la presenza di internazionali, che è più forte che a
Gorazde…però è ovvio che l’attitudine della amministrazione locale è un po’ diversa, un
po’ più chiusa, un po’ più bigotta, un po’ più cafona e meno intelligente (int.12);
sinceramente le difficoltà per quanto riguarda le persone che vengono dalla campagna e
dalla città le incontro, diciamo, nei punti istituzionali, dove le persone che, per il ruolo che
hanno svolto durante la guerra, per chiavi politiche, sono finiti ad occupare degli
assessorati, non essendo cresciuti in città e non conoscendo i bisogni di una città, non
sanno darti delle risposte, non prendono delle responsabilità perché semplicemente non
sanno, non capiscono il funzionamento di una città (int.1).
In secondo luogo, i soggetti intervistati sottolineano la difficoltà di intervenire su di un tessuto
sociale che è stato sconvolto:
il punto è che c’è stato uno spostamento radicale, coercitivo, di oltre 2 milioni di persone
(int.14).
Abbiamo visto in precedenza le difficoltà legate al ritorno dei profughi che hanno riparato nelle
città:
la città, oggi come oggi, in Bosnia, che sia poi la città serba, musulmana o croata, è l’unica
occasione che fornisce a chiunque una opportunità di lavoro, un’opportunità anche di
avere delle condizioni migliori (int.15);
37
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
c’è però anche il rovescio della medaglia, rappresentato dalla situazione della popolazione di
provenienza urbana che è stata costretta a trasferirsi in campagna. In questo caso la situazione
risulta essere, se possibile, ancora più drammatica:
l’impossibilità di andare a lavorare tranquillamente in città (occupata dai serbi) li ha
costretti ad improvvisarsi contadini…ho notato che il riadattamento ad una nuova identità
(rurale in questo caso) è stato difficilissimo (int.14).
Anche perchè chi doveva scappare a causa della pulizia etnica da una città in molti casi, oltre a
non portare con sé pressoché nulla, aveva grosse difficoltà di adattamento alla nuova realtà:
in una situazione critica e difficile chi veniva dalle campagne aveva più risorse per
sopravvivere rispetto a chi veniva dalle città…..chi è arrivato, vivendo magari in un
appartamento qualsiasi della città della Bosnia, da Sarajevo, al confine con la Serbia, è
arrivato con le mani in tasca, non aveva assolutamente nulla e magari facevano
l’impiegato, non era sicuramente un contadino, per questa gente è stata veramente
dura…..c’è una differenza enorme fra chi lavora con le proprie mani, chi lavora in
campagna….che, anche magari avendo perso tutto, però viene trasferito in un altro posto
e deve ricominciare, ha perlomeno una esperienza, chi invece, facendo l’impiegato, non
poteva fare altro (Int.9).
Concludiamo affrontando il tema della influenza di questa contrapposizione città/campagna e della
identità urbana e rurale sui problemi attuali della Bosnia Erzegovina.
Ovviamente tale risposta è strettamente alla concezione che i diversi soggetti hanno di questa
differente forma di identità, ed il suo rapporto con quella etnica, tema che tratteremo
specificatamente nel prossimo paragrafo. Comunque un dato significativo che può essere messo
in evidenza è quello, di cui abbiamo già parlato, della difficoltà di ritorno dei profughi nelle zone
rurali:
la maggior parte delle persone che abitavano nelle aree rurali, a causa della guerra, si è
vista, tranne rari casi, costretta a muoversi ed a andare verso le città, o comunque
spostarsi, per molta gente è stata addirittura la prima volta che avevano messo il naso
fuori dal proprio villaggio. Credo che questo…possa aver modificato le dinamiche sociali,
lasciando come strascico il fatto che, soprattutto i giovani, non accettano più l’idea di
ritornare nelle aree rurali, se non costretti, anche se costretti poi, vedono la città come
obiettivo da raggiungere, per poter mettere su famiglia (int.15);
questo aspetto si ricollega al problema della fragilità economica della Bosnia ed alla mancanza di
fonti di sostentamento. In questa ottica è necessario lavorare, per gli intervistati, al fine di evitare
uno svuotamento completo delle campagne. Se infatti:
l’economia bosniaca è una economia (oggi, n.d.a.) agricola ed è quella che maggiormente
subisce gli influssi, in questo caso negativi, delle politiche economiche, perché tutto questo
porta ogni attività a livello molto circoscritto, per le attività agricole di esportazione non se
ne può neanche parlare (int.14);
non si può non concordare sul fatto che:
l’agricoltura dovrà essere una delle risorse per un modello autosostenibile ed
autocentrato….è auspicabile che le campagne non si svuotino, così come un certo tipo di
cultura legata al territorio non scompaia (int.8)
38
e quindi è necessario:
lavorare sulle campagne ma lavorare per arricchirle, fargli capire che l’agricoltura è e può
essere una fonte di reddito e di benessere (int.1).
L’identità etnica e l’identità urbana e rurale
La risposta al quesito dei rapporti fra identità etnica e identità urbana e rurale è quella che ha dato
un ventaglio di risposte più ampio. Con questo quesito si voleva verificare se vi fosse fra queste
differenti strategie identitarie una sovrapposizione o se l’una prevaleva sull’altra. Possiamo
collocare le risposte degli intervistati in un continuum che va dalla affermazione di una prevalenza
della identificazione secondo le linee urbane e rurali al riconoscimento della pregnanza della
identità etnica.
A dire il vero, solo due soggetti si collocano al primo polo, sottolinenado fra l’altro, come questa
situazione sia assolutamente un approdo recente:
io credo che adesso l’identità più forte sia città campagna che non quella etnica. Si tratta
comunque di un fenomeno recente (int.16).
C’è quindi una visione che tende a mettere in evidenza come nella realtà urbana tenda a
prevalere, per il complesso di ragioni di cui abbiamo ampiamente detto più sopra, una
identificazione del tipo città/campagna rispetto alla realtà rurale, dove invece prevale l’aspetto
etnico:
oggi ritengo che la conflittualità urbana e rurale, rispetto a quella etnica, nella città sia più
forte. Nelle campagne, fuori dalle città, l’elemento etnico è ancora forte, perché vissuto in
maniera più forte (int.11);
lo schema dovrebbe essere quello che l’identità rurale è tutt’uno con l’identità etnica, cioè
che chi sta nelle campagne sente molto di più il senso di appartenenza etnica. Devo dire
che nella realtà concreta ho riscontrato questo (int.8).
Si viene in questo modo a confermare l’immagine del conflitto bosniaco come lotta delle
campagne, portatrici della tradizione, contro le città, luoghi del metissage culturale.
Questa immagine è certamente di grande valore evocatico nonché supportata anche da dati storici
concreti. Riteniamo tuttavia, nello spirito di evitare un modello di spiegazione monocausale, di
dover sottolineare l’ambiguità che si nasconde dietro questo schema esplicativo. Già
precedentemente, infatti, abbiamo sottolineato che sarebbe sbagliato scaricare tutte le
responsabilità del conflitto sulla popolazione rurale, non si può infatti dimenticare, come ci fa
notare uno dei nostri intervistati, il ruolo che molti contadini hanno avuto nella difesa delle città,
duramente colpite nel corso del conflitto:
io ebbi modo di intervistare, ancora sette anni fa, Zdravko Grebo su questo elemento della
contrapposizione fra città e campagna, lui mi disse che effettivamente la sua Sarajevo si
era trasformata, perché erano arrivati tanti dalle campagne, portatori di una cultura che
non era quella della Sarajevo cosmopolita e che questo per lui era un colpo molto duro,
che però doveva dire che quelli erano coloro che avevano difeso la sua città, perché erano
quelli che erano stati nelle trincee ed hanno combattuto, perché molti della città se ne
erano andati e chi le difendeva queste città ? Sono stati loro e lui, che si sentiva estraneo
a questa cultura, però li doveva ringraziare (int.8).
Le parole di Grebo, intellettuale antinazionalista, già direttore durante la guerra di Radio Zid ed ora
responsabile del Law Center di Sarajevo 6 ricordano quelle di un altro grande intellettuale e poeta
bosniaco, Abdullah Sidran, che in una sua poesia tesse le lodi dei suoi “concittadini che vengono
dal Sangiaccato7”, essi sono certamente quelli che hanno “sfigurato la città, costruendo le case
abusive tutt’attorno” e modificato radicalmente il volto della Sarajevo multietnica, ma sono anche
quelli che hanno contribuito alla difesa di quella stessa città. “Chi”, infatti, “legge gli avvisi mortuari
e s’intende di etimologia dei nomi, ha potuto facilmente calcolare: di cinque caduti, alla difesa della
città, almeno due, ogni giorno sono del Sangiaccato. E questo anello attorno a Sarajevo, che ci
protegge, è costituito dalle loro case. Non è caduto nemmeno un quartiere, se c’erano loro a
proteggerlo, quelli del Sangiaccato” (Del Giudice 1996).
Chiusa questa parentesi, ritorniamo alle nostre interviste. Ripercorrendo il continuum da un polo
all’altro, possiamo dare conto di una serie di risposte che, pur riconoscendo la sovrapposizione fra
questi due fenomeni, tendono a sottolineare la maggiore rilevanza dell’aspetto etnico.
Secondo questa ottica la strategia di identificazione città/campagna è una sottodimensione della
appartenenza etnica, che quindi tende a prevalere:
all’interno del gruppo che si identifica, religiosamente parlando, in cattolico, ebreo, musulmano e
ortodosso, esiste una sottoclassificazione in chi è urbano e chi è rurale (int.16);
quando parliamo di problema etnico contrapponiamo più etnie, invece quando si parla di città e
campagna è all’interno della stessa etnia….è una cosa secondaria, non è a livello nazionale (int.1);
il primo livello di conflittualità e di rapporto….è sicuramente il livello etnico…all’interno del gruppo
c’è sicuramente una dinamica, una relazione ed anche forse una conflittualità di tipo culturale fra,
appunto cittadini e campagnoli (int.4).
6
Si tratta di un macroprogetto creato nell’ambito della Open Society Fund-Soros Fundation. La principale
attività è un master in studi europei che coinvolge le università di Sarajevo, Tuzla, Banja Luka, Mostar Est e
Mostar Ovest, l’Università del Sussex e quella di Bologna.
7
Si tratta di una regione al confine fra Bosnia Erzegovina, Montenegro e Serbia, con un elevata percentuale
di popolazione musulmana
Vi è infine la posizione per cui a prevalere è l’identità etnica:
la situazione più marcata era quella etnica (int.15);
l’importante adesso è evidenziare la differenza etnico-religiosa (int.2);
inevitabilmente è diventata una questione di tipo etnico (int.9).
Tale situazione è la conseguenza della polarizzazione su linee etniche scatenata dal conflitto:
tutto era in funzione di questo (divisione in gruppi etnici, n.d.r): la ripartizione degli aiuti, il
sistema di potere all’interno delle varie zone assediate o assedianti (int. 9).
C’è tuttavia anche una responsabilità da parte della comunità internazionale che ha favorito il
riallineamento secondo direttrici di tipo etnico-religioso:
la situazione più marcata era quella etnica, nel senso che, attraverso tutta una serie di
accordi, che fanno sempre riferimento a Dayton, a tutta una serie di azioni intraprese
dall’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite per la Bosnia, praticamente c’è stata una
azione che…. ha posto fine, in parte, al discorso città/campagna, mentre il discorso etnico
è stato continuamente presente (int.15).
CONCLUSIONI
La formazione e la sua influenza sul lavoro degli operatori umanitari
I dati significativi che emergono in specifico dall’analisi del tema della formazione possono essere
così sintetizzati:
•
una mancanza pressoché totale di una vera e propria formazione da parte dei cooperanti e dei
volontari;
•
La difficoltà di organizzare percorsi specifici in tal senso, sia per la tempistica dei progetti, sia
per la mancanza cronica di fondi che affligge le ONG;
•
L’importanza che riveste, ai fini della formazione, la conoscenza della esperienza dei
cooperanti e dei volontari che hanno lavorato nell’area dei Balcani, prevedendo eventualmente
luoghi appositi per la socializzazione delle esperienze;
•
La necessità di conoscere la società civile della realtà in cui si va ad operare, per esempio
attraverso incontri con intellettuali locali o con gente comune;
•
Il rilievo che deve essere dato, a fianco della preparazione tecnica, a quello dello sviluppo delle
capacità “relazionali” dell’operatore umanitario.
Per quello che riguarda invece l’influenza della formazione sul lavoro dei volontari e dei cooperanti,
possiamo mettere in evidenza soprattutto il seguente punto:
•
Il duplice ruolo della formazione che ha un significato positivo, in quanto migliora la percezione
delle problematiche presenti in campo, ma, allo stesso tempo, reca con sé il rischio di creare
dei pregiudizi che interferiscono con la lettura della realtà.
La specificità bosniaca
I punti salienti emersi dall’analisi del primo punto possono essere così riassunti:
•
Le risposte degli intervistati non sono univoche e vanno dalla negazione della specificità
bosniaca, nei termini che abbiamo illustrato più sopra, ad un suo sostanziale riconoscimento;
•
La convivenza, tutto sommato pacifica, fra diverse tradizioni culturali che si è realizzata in
Bosnia costituisce uno stimolo sia per l’Europa Occidentale che per l’Italia, che sotto la spinta
dell’immigrazione devono fare i conti con il tema/problema del pluralismo.
Per quello che riguarda l’influenza sul lavoro dei cooperanti e dei volontari, il dato più rilevante
emerso è:
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
• Un deficit di capacità di comprensione e lettura della situazione bosniaca, soprattutto da parte
degli interlocutori istituzionali (governi occidentali e mediatori internazionali) e delle agenzie
internazionale.
L’identità etnica
Sul tema della identità etnica i dati maggiormente interessanti emersi dalla ricerca sono:
•
Il rifiuto di ogni spiegazione del conflitto bosniaco basata sul concetto di primitivismo balcanico;
•
l’accentuazione delle differenze etnico-religiose, presenti da sempre in Bosnia Erzegovina,
dettata da un intreccio di motivazioni politiche e di potere sia locali che internazionali, nonché
dalla presenza di interessi mafiosi;
•
la maggiore forza e pregnanza delle strategie di identificazione per linee etniche nelle realtà
rurali ed il suo minor valore nelle città;
•
l’affermarsi, all’indomani del conflitto, di un modello che intende la multiculturalità come
compresenza sullo stesso territorio, ma senza alcun momento di comunicazione e scambio fra
i diversi gruppi;
•
la difficoltà di fare i conti con una realtà divisa e frammentata su linee etniche, certamente
fomentate ad arte ma ugualmente efficaci e con esiti concreti;
•
i problemi che l’identità etnica, infiammata e inasprita in seguito al conflitto, pone alla
risoluzione degli attuali problemi della Bosnia Erzegovina
•
la necessità di ricostruire il tessuto di convivenza che era stato tipico di questa terra e che
costituisce, come già emerso una grande risorsa per l’Europa.
L’identità urbana e rurale
I dati salienti che risultano dalle interviste rispetto a questo punto sono i seguenti:
•
la presenza di una contrapposizione fra le realtà urbane, come luogo della complessità,
dell’incontro e del metissage culturale, e la campagna, più legata alla tradizione, in cui a
prevalere è il modello della zadruga, la famiglia allargata di tipo monoetnico;
•
il fatto che le zone rurali siano state il bacino di consenso del nazionalismo ed abbiano
espresso la nuova classe politica;
•
il mutamento nell’equilibrio demografico e nella composizione delle città, dovuto alla fuga o
all’allontanamento della popolazione urbana ed alla sostituzione con i profughi provenienti dalla
campagna;
•
il relativo ricambio nella classe politica, ora di provenienza soprattutto rurale, con una serie di
conseguenze negative sulla qualità della gestione e della amministrazione urbana e sul lavoro
degli operatori umanitari, che si trovano a fare i conti con leadership poco colte ma soprattutto
poco interessate alla riconciliazione;
43
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
•
i problemi legati al difficile rientro dei profughi provenienti dalle campagne nelle zone rurali
d’origine.
L’identità etnica e l’identità urbana e rurale
Dall’analisi di questo ultimo punto emergono soprattutto due elementi:
•
la mancanza di una risposta univoca sul rapporto fra identità urbana e rurale e identità etnica,
con un ventaglio di risposte che vedono la prevalenza dell’una o dell’altra o un intreccio fra
entrambi i fattori;
•
il rapporto complesso che lega le due dimensioni in esame.
In sintesi possiamo affermare che la visione della realtà bosniaca che emerge dall’analisi delle
interviste mette in evidenza la complessità e la non univocità della realtà della Bosnia Erzegovina.
Per spiegare la tragedia bosniaca e per leggere l’attuale situazione, viene adottato un modello,
potremmo dire, multicausale, che tiene conto delle diverse dimensioni presenti sul terreno e non si
limita a fornire una lettura basata unicamente sul principio della identità etnica, come purtroppo
hanno invece fatto non solo i mass-media, con qualche lodevole eccezione, ma anche ampi settori
della comunità internazionale e financo molti studiosi.
Come è stato possibile allora che i governi e le grandi istituzioni internazionali non paiono essere
state capaci di fare ciò che sembra essere riuscito agli operatori delle ONG o delle associazioni di
volontariato ?
Una prima risposta, peraltro condivisa da Bianchini (Bianchini 1996), può essere quella che tali
realtà non sono state capaci di rapportarsi direttamente alla società civile ed alla popolazione, le
vere vittime della guerra, preferendo un rapporto con quelle élite locali, gravemente responsabili
del conflitto. Non bisogna dimenticare poi gli interessi, spesso inconfessabili, che hanno agito
presso le cancellerie occidentali e che hanno favorito una condotta perlomeno discutibile, quando
non completamente criminale.
L’elemento che tuttavia riveste, a nostro avviso, maggiore rilevanza è stata l’incapacità di
comprendere che, come dice Rada Ivekovic “i Balcani non sono sostanzialmente diversi
dall’Europa di cui sono una regione: sono il suo rimosso, il suo inconscio, il suo specchio e, in un
certo senso, la sua interiorità” (Ivekovic 1999). L’inettitudine della Europa e della comunità
internazionale in genere, tragicamente esemplificata dalle recenti vicende in Kosovo e Macedonia,
nasce dal non avere compreso il carattere essenzialmente moderno delle vicende che hanno
portato
alla dissoluzione della ex-Jugoslavia. Esse non sono causate dal risveglio di un
fantomatico spettro dei Balcani, ma chiamano in causa “l’organizzazione della società e la forma di
Stato” (Bianchini 1996), infatti “in ciò risiede la sfida che i Balcani hanno lanciato all’intiera Europa.
Inevitabilmente, quindi, dalla capacità o meno di costruire uno Stato democratico a partire dal
rispetto delle differenze dipenderà il futuro dell’Europa”
44
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
E’ giunto il momento di comprendere che i Balcani non possono e non devono più essere
rappresentati come la polveriera d’Europa bensì come il suo “termometro” (Prevelakis 1997).
“Se per la pace nei Balcani è importante capire le ragioni della crisi jugoslava, lo è ancora di più
per l’avvenire dell’Europa. La crisi della Jugoslavia deve servire come rivelatore dei problemi
europei, ci deve far prendere coscienza della realtà del mondo del dopo guerra
fredda…Comprendendo la complessità di una realtà in cui la forza si mescola con la debolezza, la
buona volontà con la cinica ricerca di interessi economici o di potenza, è possibile immaginare
un’azione comune di coloro che, tra gli occidentali e i balcanici, hanno le stesse aspirazioni di
pace, di tolleranza e di giustizia”.
Un primo passo in questa direzione è certamente quello di una buona cooperazione.
45
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
AA.VV., La guerra di Bosnia: una tragedia annunziata, Franco Angeli, Milano 1994.
Aruffo A, L’inferno dei Balcani, Da fine ottocento alla guerra del Kosovo, Datanews, Roma 1999.
Bazzocchi C., Riunificare Mostar: il caso EUAM (1996-1997), Atti del convegno “Dieci anni di
cooperazione con i sud est Europa: bilancio critiche prospettive”, Trento 24/11/2001.
Bianchini S., Sarajevo, Le radici dell’odio, Ed. Associate, Roma 1996.
Bianchini S. ( a cura di), L’enigma jugoslavo. Le ragioni della crisi, Franco Angeli, Milano 1989.
Bianchini S., La diversità socialista in Jugoslavia. Modernizzazione, autogestione e sviluppo
democratico dal 1965 ad oggi, Edizioni Est, Trieste 1984.
Bianchini S., La questione jugoslava, Giunti-Casterman, Firenze 1999.
Bianchini S., Dassù M., Guida ai paesi dell’Europa orientale centrale e balcanica 2000, Il Mulino,
Bologna 2000.
Bogdanovic B., “Il massacro rituale delle città. Vukovar, Zadar, Dubrovnik, perché la guerra civile
colpisce le città ? Interviene un architetto serbo”, Il Manifesto, 19/6/1992.
Cataldi A., Sarajevo, Voci da un assedio, Baldini e Castoldi, Milano 1993.
Conte F., Gli slavi. Le civiltà dell’Europa occidentale e orientale, Einuadi, Torino 1991.
Cviic C., Rifare i Balcani, Il Mulino, Bologna 1995.
Del Giudice P. (a cura di), Sarajevo, Edizioni e, Trieste 1996..
Dizdarevic Z., L’Onu è morta a Sarajevo, Il Saggiatore, Milano 1996.
Dizdarevic Z., La morte di Tito, la morte della Jugoslavia, Longo Editore, Ravenna 2001.
Fabietti U., L’identità etnica, Carocci, Roma 1995.
ICS, E’ tempo di pace, Il Manifesto, Roma 2001.
Ivekovic R., Autopsia dei Balcani, Saggio di psico-politica, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999.
Ivekovic R., La balcanizzazione della ragione, Manifestolibri, Roma 1995.
Janigro N., L’esplosione delle nazioni, Il caso jugoslavo, Feltrinelli, Milano 1993.
Kaldor M, Le nuove guerre, Carocci, Roma 1999.
Karahasan D., Il centro del mondo, Edizioni Est, Milano 1997.
Martelli F., La guerra di Bosnia, Violenza dei miti, Il Mulino Alfa Tape, Bologna 1997.
Pinson M. (a cura di) , I musulmani di Bosnia, Donzelli, Roma 1995.
Pirjevic J., Il giorno di S.Vito, Nuova Eri, Milano 1993.
Pirjevic J., Serbi, Croati, Sloveni, Il Mulino, Bologna 1995.
Prevelakis G., I Balcani, Il Mulino, Bologna 1997.
Privitera F.( a cura di), L’Europa Orientale e la rinascita dei nazionalismi, Franco Angeli, Milano
1994.
Rastello L., La guerra in casa, Einaudi, Torino 1998. .
46
F. Rigamonti – Università degli Studi di Bologna – Tesi di laurea
Riva G., Jugoslavia, il nuovo Medioevo, Mursia, Milano 1992.
Rumiz P., Maschere per un massacro, Ed. Riuniti, Roma 1996.
Rumiz P., Armi, droga, mafia: la guerra come affare, in Limes 1993/1.
Sachs W. (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998.
Seton Watson H, Le democrazie impossibili, Rubettino Editore, Messina 1992.
Spanò R. (a cura di), Jugoslavia e Balcani: una bomba in Europa, Franco Angeli, Milano 1992.
Todorova-M., Immaginando i Balcani, Argo, Lecce 2002.
Tullio-Altan C., Ethnos e civiltà, Feltrinelli, Milano 1995.
Volcic Demetrio, Sarajevo, Quando la storia uccide, Nuova Eri, Milano 1993.
47
L’identità etnica e l’identità urbana in Bosnia Erzegovina nell’esperienza degli operatori umanitari italiani
Osservatorio sui Balcani
Centro di ricerca e informazione per agire in modo competente
e insieme critico nei confronti del sud-est Europa.
Un impegno per la pace che va oltre la cultura dell’emergenza.
Progetto promosso da:
Fondazione Opera
Campana dei Caduti
Con il sostegno di:
Forum Trentino
per la Pace
Provincia Autonoma
di Trento
Comune di
Rovereto
Fondazione Cassa di
Risparmio di Trento e
Rovereto
Per ulteriori informazioni:
Osservatorio sui Balcani
Palazzo Adami - Piazza San Marco 7 - 38068 Rovereto (TN)
Telefono: +39 0464 424230 - Fax: +39 0464 424299
E-mail: [email protected]
Web site: www.osservatoriobalcani.org
48