I figli d`Internet

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I figli d`Internet
Tema
I figli d’Internet
arrivano
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La comunicazione online, che collega in rete ogni parte del mondo, non trasforma solo i processi
commerciali. Con i figli d’Internet arriva nelle aziende una generazione abituata a nuove forme di
interazione e lavoro. Ciò promette produttività, ma nasconde anche potenziali di conflitto.
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«Il nostro modo di comunicare influisce direttamente sullo sviluppo della personalità», spiega Urs
Gasser, direttore del Berkman Center for Internet &
Society dell’università americana di Harvard. Ciò si
evidenzia con particolare chiarezza nella generazione
cresciuta con Internet, Instant Messaging, videogame,
social network, blog e telefonia mobile. Questi individui hanno sviluppato altre forme comportamentali e
lavorative rispetto ai loro genitori cresciuti con la corrispondenza epistolare e il telefono fisso.
Figli unici competenti online – I sociologi parlano di
Digital Natives, generazione Y oppure – in base ai loro
anni di nascita a cavallo del nuovo millennio – di «Millennials». Non si distinguono solo per un approccio consapevole a tutte le forme di comunicazione elettronica. Sono per lo più cresciuti anche in famiglie piccole,
hanno ricevuto tanti regali e sono abituati ad essere
subito ricompensati anche per piccoli servizi. Per molti
di loro l’insicurezza derivante da una separazione dei
genitori o dalla loro perdita del posto di lavoro rientra
nella normalità. Commisuratamente minore è il loro legame emozionale ad un datore di lavoro. Questi deve
offrire loro un chiaro plusvalore per mantenerli a medio
e lungo termine. Ma tale valore aggiunto non deve essere affatto materiale. Alcune ricerche mostrano che
i Millennials favoriscono le aziende che condividono i
loro stessi ideali.
Facebook come problema direttivo – Sintetizzando le
sue esperienze, Gasser afferma che finora le aziende
sono però rimaste molto perplesse e inerti di fronte
alle esigenze dei Digital Natives. Quanto sia grande
l’insicurezza nel rapporto con la generazione Internet
si capisce, ad esempio, dal dibattito sulla chiusura di
social network come Facebook. Mentre alcuni bandiscono in modo restrittivo tutte le piattaforme corrispondenti per questioni di sicurezza o per la presunta
perdita di tempo lavorativo, altri datori di lavoro fanno
affidamento sull’autoresponsabilità e ne promuovono
addirittura l’utilizzo.
La generazione Internet
Il progetto interdisciplinare sui Digital Natives
della Harvard University e
dell’Università di San Gallo
studia le implicazioni giuridiche, sociali e politiche della
generazione Internet.
www.digitalnative.org
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Mentre la loro competenza online in molti casi si limita
alla consultazione di statici siti web informativi e all’uso
della mail, i giovani mescolano virtuosamente i mezzi
più diversi. Per svolgere le mansioni professionali, cercano soluzioni simili in Internet e si rivolgono ai propri
amici delle community online. Queste tecnologie affermatesi nel tempo libero, nella scuola e nello studio, li
rendono reattivi e produttivi. D’altro canto il loro spirito
del tempo «Copia-Incolla» si scontra con le tradizionali
culture aziendali. Frammenti copiati da Wikipedia, ad
esempio, possono essere adeguati alla fama di serietà
che l’azienda si è costruita negli anni? Ancora pochissime aziende si occupano seriamente dell’inevitabile
cambiamento culturale che le attende con i figli d’Internet.
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Tema
«Non di rado la discussione su Facebook tralascia un
problema direttivo», analizza Robert W. Kuipers, direttore di HRS Consulting (consulenza servizi risorse umane) presso la PricewaterhouseCoopers Svizzera (PwC).
«Le aziende che in pratica misurano i propri dipendenti solo in base alla presenza alla postazione di lavoro,
percepiscono la navigazione privata in Internet come
perdita di produttività. Tuttavia, più passa il tempo più
questo modello è meno rispondente all’economia globale 7 x 24 (7 giorni la settimana, 24 ore su 24). Chi esige prestazioni superiori alla media, deve tollerare come
compensazione anche attività private. Se la gestione
aziendale è orientata all’obiettivo, queste attività non
possono assolutamente travalicare i limiti.»
Mancanza di consapevolezza della qualità – Kuipers
giudica in ogni caso l’approccio attuale delle imprese
alla tematica dei Millennials in modo complessivamente più positivo rispetto a Gasser: «Nei prossimi anni le
aziende si adatteranno automaticamente ai nuovi lavoratori», questa la sua convinzione. Anch’egli tuttavia
vede nell’arrivo in azienda della generazione Internet
un cambiamento culturale che cela qualche potenziale
di conflitto. A fronte dell’efficienza basilare nettamen-
te superiore dei Digital Natives c’è una limitata coscienza dei valori. Qualità dei contenuti e riservatezza
delle informazioni vengono troppo sottovalutate dalla
generazione Internet e lo staccato di comunicazione
può portare ad un uso non corretto della lingua.
Sensibilizzare senza dare restrizioni – Giudicare positivamente o negativamente le varie qualità è comunque irrilevante per Kuipers: «La generazione Internet è
una realtà. Bisogna utilizzare le sue buone qualità e nel
contempo fermare quelle meno buone.» In concreto
si tratta di sensibilizzare i giovani dipendenti in modo
mirato, perché abbiano un approccio ai contenuti e alla
riservatezza che sia conforme all’azienda. Nel contempo ciò non deve trasformarsi in un busto stretto che
ingessi la loro dinamicità.
Nozioni interessanti sui Millennials sono fornite dallo
studio «Managing tomorrow’s people» nel quale PwC
ha condotto un’indagine sulle aspettative di 3000 diplomati di scuole superiori negli USA, in Gran Bretagna
e Cina. L’ampia corrispondenza delle risposte mostra
forse quanto sia già progredita la globalizzazione culturale tra i giovani. Così, indipendentemente dall’origine,
oltre il 90 percento si aspetta di lavorare ad un livello
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Facebook e Co.: aziende tra restrizioni
e incoraggiamenti all’uso
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Il fatto che la commistione di vita privata e professionale nei giovani abbia già oggi concrete ripercussioni sulle
aziende, è dimostrato dall’intenso dibattito attualmente in corso sull’impiego di social network quali Facebook
o Xing durante l’orario di lavoro. Di fronte a tale fenomeno non si individua un comportamento unitario, ma si
cristallizza sempre più un approccio settoriale. Le banche bloccano i siti soprattutto per questioni di sicurezza:
si potrebbero scaricare dei virus o inoltrare avventatamente informazioni confidenziali. Nelle pubbliche amministrazioni e nelle industrie le motivazioni primarie per il blocco sono la perdita di ore lavorative a causa delle
attività internet private e il sovraccarico della rete. Invece, aziende di tecnologia come Microsoft o Swisscom,
che occupano una quota superiore alla media di cosiddetti lavoratori della conoscenza, addirittura sostengono
l’utilizzo di tali servizi. Si aspettano che i loro dipendenti conoscano tutte le forme moderne di comunicazione
e che sappiano gestire questa libertà responsabilmente. Inoltre, una restrizione renderebbe le loro aziende non
appetibili agli occhi di giovani altamente qualificati.
Tuttavia, che l’autoresponsabilità in materia di social network in molti casi non faccia presa, è dimostrato
dall’esempio del comune di Zurigo, intervenuto lo scorso marzo quando gli accessi ai siti di networking hanno
complessivamente superato i 3 milioni al mese. «Ciò equivale a circa 28 anni lavorativi», spiega Daniel Heinzmann, direttore della società di servizi informatici Organisation und Informatik Zürich (OIZ), per chiarirne l’entità. Con un intervento mediatico del consigliere comunale competente e una circolare a tutti i dipendenti si
è riusciti temporaneamente a spezzare il trend. Successivamente però le cifre sono di nuovo aumentate e ad
agosto è stato pertanto deliberato il blocco agli accessi. Per Heinzmann c’è tuttavia una seconda ragione per
bloccare i siti: «L’upload e download di immagini e filmati sovraccarica enormemente la nostra rete di dati. Se
dovessimo per questo potenziarla, verrebbe a mancare il budget per un’altra voce.»
La cultura aziendale diventa il criterio – Quelli che
sono cresciuti con le campagne di pulizia dei torrenti
e le iniziative antilavoro minorile attribuiscono infatti
grande importanza alla responsabilità sociale ed ecologica del proprio datore di lavoro. Oltre il 90 percento
lo richiede pure esplicitamente e anche qui non ci sono
quasi differenze tra occidentali e cinesi. Da un lato i Digital Natives vogliono non dover negare i propri valori
con il lavoro, e dall’altro un datore di lavoro non deve
danneggiare la propria immagine. Per un’azienda che
ha fama di inquinare l’ambiente o sfruttare la povertà,
su Facebook non si mette affatto bene.
Daniel Meierhans
Profilo personale e libro
Urs Gasser è direttore del Berkman Center for Internet & Society dell’Università di Harvard. Si occupa da molti anni delle conseguenze giuridiche e
sociali d’Internet. Nel 2008 ha pubblicato insieme
a John Palfrey il libro molto autorevole «Born Digital – Understanding the First Generation of Digital
Natives» (ISBN: 978-0465005154 ).
Ai giovani manca un
sistema di riferimento
Signor Gasser, concretamente come cambia la cultura del lavoro
nelle aziende con Internet?
Il modo in cui comunichiamo ci dà un’impronta basilare. Scrivere
lunghe lettere con la stilografica oppure scambiare di continuo e rapidamente Instant Messages o SMS influisce sul modo di pensare e
sui rapporti sociali. Il confronto aperto su piattaforme di community modifica la capacità di lavorare in team. I giovani sono molto più
disponibili a fornire informazioni. Per questo, ad esempio, l’attuale
gestione della conoscenza nelle aziende funziona molto meglio.
D’altra parte c’è naturalmente anche una certa irresponsabilità,
che può diventare problematica. La qualità dei dati e la riservatezza
hanno un valore molto inferiore per la generazione Internet.
Ma proprio i Digital Natives non sono particolarmente sensibilizzati
in materia di sfera privata?
I nostri studi dimostrano il contrario. Nei giovani spariscono i confini
tra dati personali e pubblici. I rischi correlati alla pubblicazione del
privato spesso sono sottovalutati. Ciò potrebbe anche dipendere
dal fatto che, dal punto di vista dello sviluppo biologico, i ragazzi
non sono ancora assolutamente in grado di stimare in dettaglio i
rischi a lungo termine delle loro azioni. E anche per la qualità di informazioni non possiedono un sistema di riferimento affidabile. Per
gli utenti più giovani, ad esempio, la mera lunghezza del testo è un
criterio di qualità. Se qualcuno si prende la briga di scrivere così tanto, deve essere vero; questa è la loro formula breve. In un’azienda ciò
può generare conflitti se, ad esempio, per una perizia un praticante
copia semplicemente Wikipedia e altre fonti Internet, anziché consultare la relativa letteratura specialistica. Questa personale esperienza maturata nella mia vita professionale mostra, ad esempio,
come sia necessario offrire molto supporto nella formazione per
allenare queste capacità.
Quali sono le esigenze della generazione Internet rispetto ai datori
di lavoro?
Vogliono lavorare in aziende flessibili e aperte, che mettano a loro
disposizione gli stessi mezzi tecnici che usano abitualmente nel privato. Inoltre, rivestono un ruolo molto importante criteri sociali o
economici, oppure lo stile di un’azienda. Ciò dipende certamente
anche dalla cultura della reputazione, che viene curata nei forum
Internet e sui siti dei social network. Il datore di lavoro è parte della
propria immagine fino ad un certo punto.
I Digital Natives non rappresentano tuttavia l’intera gioventù.
Non sono soprattutto ben istruiti e appartenenti a ceti benestanti?
In realtà osserviamo una spaccatura sempre più profonda tra quelli
che hanno un accesso diretto ai moderni mezzi di comunicazione e
quelli che non possono permettersi alcun apparecchio di accesso a
Internet. E anche il livello culturale in casa dei genitori si ripercuote
direttamente sulla competenza nell’uso dei media e quindi sul tipo
di utilizzo. Qui entra in gioco la politica. Come società non possiamo
lasciare che questo gap aumenti ulteriormente, se in futuro vogliamo sfruttare il potenziale dei giovani in modo davvero produttivo.
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più internazionale rispetto ai genitori e i tre quarti suppongono che in futuro svolgeranno la loro attività in
più sedi di lavoro. Per Kuipers si pone quindi la domanda concreta, se le aziende non debbano utilizzare più
attivamente questa internazionalizzazione dei giovani
e mandarli all’estero già molto tempo prima di quanto
facciano oggi. Sorprendentemente i diplomati credono
di avere solo da due a cinque datori di lavoro nel corso di
tutta la loro vita professionale e i tre quarti si aspettano
di lavorare per la maggior parte del tempo durante i
normali orari di ufficio. Per i Millennials, quindi, la flessibilità lavorativa è un desiderio, ma non un fattore indispensabile e anche la fedeltà al datore di lavoro pare
essere sostanzialmente maggiore rispetto alle supposizioni. D’altro canto egli viene giudicato secondo criteri
finora a malapena considerati.
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