Testo Pasquini - Istituto Superiore di Studi Medievali `Cecco d`Ascoli`

Transcript

Testo Pasquini - Istituto Superiore di Studi Medievali `Cecco d`Ascoli`
1
Concezione e lessico dell’amicizia fra Stilnovo e
«Commedia»
E’ nozione comune che la scuola denominata «dolce stil
novo» grazie a un celebre passo del Purgatorio (XXIV 49-63),
ripreso e valorizzato da Francesco De Sanctis, sia dominata –
su uno sfondo borghese e comunale – dal tema dell’amicizia,
reso tangibile dal proliferare di rime di corrispondenza, le
quali denunciano «la forza del gruppo nei legami
dell’amicizia», ma insieme inaugurato dalla singolare
espressione «fedeli d’amore» nell’esordio della Vita nova. Ciò
equivale a distinguere l’amicizia stilnovistica dall’àmbito
semantico del compagnonnage, così diffuso nella letteratura
transalpina fra le chansons de geste, segnatamente entro la
Chanson de Roland. Di contro al legame eroico tra forti
individualità, quali Rolando e Ulivieri, si accampa fra gli
stilnovisti un rapporto corale, fatto di sorridente complicità e
di sapidi ammicchi.
Va detto che in parallelo alla straripante prevalenza del
lessema amore sul lessema amare, si ha una netta
prevalenza di amico rispetto all’astratto amicizia, che è
addirittura un hapax in Dante. E va anche precisato che
esistono testi che hanno al centro, solare,
il mito
dell’amicizia senza che vi ricorrano la parola o un termine
qualsiasi di quel campo semantico: lo si dica a proposito del
più celebre sonetto dantesco, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo e
io, che fra l’altro ricevette una risposta sgarbata da parte del
Cavalcanti; ma qualcosa di simile potrebbe ripetersi per tante
rime di corrispondenza degli stilnovisti.
Prendiamo le mosse dagli usi propri dei termini che ci
interessano. Il sostantivo amico si trova in Cavalcanti in uno
dei suoi testi di corrispondenza, Certe mie rime a te mandar
vogliendo (XXXVI, 5), dove l’amico sembra proprio essere
Dante, probabile destinatario del sonetto. Gianni Alfani si
rivolge a Guido come a «maestro e amico»; Dino Frescobaldi
indirizza una sua canzone (XIX) a un innominato amico , con
echi dell’ Inferno dantesco. Più variegato il repertorio di Cino
2
da Pistoia, il quale usa il vocativo amico mio per Onesto da
Bologna, mentre si rivolge con amato Gherarduccio ad altro
poeta bolognese, il quale lo ripaga con «dolce d’amore amico».
In altri casi, riferendosi a personaggi sconosciuti, egli
impiega i vocativi amico saggio o semplicemente amico (pp.
816 e 821), come pure in un sonetto indirizzato forse a Dante
(p. 691).
Venendo agli usi figurati, i punti estremi sono raffigurati da
Guinizzelli (dove tali impieghi latitano) e Guido Cavalcanti, di
cui annotiamo almeno un paio di esempi, fra XV 1 («Se Mercé
fosse amica a’ miei disiri») e XXXV 27-28 («Deh, ballatetta
mia, a la tu’ amistate /quest’anima che trema raccomando»),
quest’ultimo con appello al sostantivo astratto, nell’onda
degli usi figurati di amico: non diversamente da Lapo Gianni,
dove si parla di una amistate (cioè “benevolenza”) della morte
(VI 63), mentre altrove la stessa morte viene definita (XIII 33)
«partimento d’amistate», cioè “distacco dagli amici”. Ma sulla
stessa linea si colloca Cino da Pistoia, in grazia del souhait
LIV 3 Deh, com’ sarebbe dolce compagnia, dove si parla della
«perfetta amistate» che intercorre fra la donna, Amore e
Pietate.
Il prospetto qui abbozzato quanto agli usi stilnovistici
trova conferme, ma soprattutto incrementi, nel circuito del
sistema espressivo dantesco: a parte, annoto che mi pare
un’incongruenza diffusa quella di studiare e pubblicare gli
stilnovisti senza includere anche i relativi testi danteschi. Si
pensi – per quanto concerne il femminile amica – al prevalere
dei valori metaforici, fra madonna «amica di pietate» (Rime
57), cosa che «amica sia di veritate» (Rime 85), la Filosofia in
quanto derivante dall’anima e dalla sapienza «fatte amiche»
(Conv. III xii 4), la nobiltà amica della filosofia (Conv. IV Le
dolci rime 146 e xxv 6), rispetto all’isolato valore concreto di
“amante” veicolato da Mirra, «al padre fuor del dritto amore
amica» (Inf. XXX 39). Sullo stesso versante, ma senz’ombra di
risvolti negativi, si richiami il celebre passo della Vita nova
dove si parla di Guido Cavalcanti come del «primo de li miei
amici» (III 14) e di Manetto Portinari come del secondo, in
questa speciale graduatoria (XXXII 1). Sul versante opposto,
3
spicca quel luogo del prosimetro giovanile (XXII 2) dove si
discorre dell’«intima amistate» che intercorre tra «buon padre
e buon figliuolo». Ma è nel Convivio che il concetto e il lessico
dell’amicizia sembrano conseguire sviluppi importanti, con
una relativa rarità di passi a valenza concreta, rispetto ai
tanti caratterizzati da un senso figurato. Ciò si verifica
soprattutto nel terzo trattato, il quale si configura come una
sorta di De amicitia dantesco, apparentemente nel solco della
lettura del trattato ciceroniano, chiaramente delineata (di
concerto con quella del De consolazione philosophiae di
Severino Boezio) a II xii 1-4. Eccezionale nel Convivio, e
isolato anche nel sistema tematico dantesco, il passo che sta
al centro di III xi, con quella sua rete di analogie fra i campi
semantici di “amicizia” e di “filosofia”, non senza i dovuti e
reiterati rinvii all’ Etica nicomachea di Aristotele, ma
soprattutto i fitti rapporti tra i campi lessicali e tematici di
“amicizia” e di “amore”:
Ne la ‘ntenzione d’Aristotile, ne l’ottavo de l’Etica, quelli si dice amico la cui amistà non è
celata a la persona amata e a cui la persona amata è anche amica, sì che la benevolenza sia da
ogni parte: e questo conviene essere o per utilitade, o per diletto, o per onestade. […] E sì come
l’amistà per diletto fatta, o per utilitade, non è vera amistà ma per accidente, sì come l’Etica ne
dimostra, così la filosofia per diletto o per utilitade non è vera filosofia ma per accidente. […] Né si
dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, [li[
medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere studiano ma per acquistare moneta o
dignitade; e chi desse loro quello che acquistare intendono, non sovrastarebbero a lo studio. E sì
come intra le spezie de l’amistà quella che per utilitade è, meno amistà si può dicere, così questi
cotali meno partecipano del nome di filosofo che alcuna altra gente; per che, sì come l’amistà per
onestade fatta è vera e perfetta e perpetua, così la filosofia è vera e perfetta che è generata per
onestade solamente, sanza altro rispetto, e per bontade de l’anima amica, che è per diritto
appetito e per diritta ragione. […] E sì come de la vera amistade è cagione efficiente la vertude,
così de la filosofia è cagione efficiente la veritade. E sì come fine de l’amistade vera è la buona
dilezione, che procede dal convivere secondo l’umanitade propriamente, cioè secondo ragione, sì
come pare sentire Aristotile nel nono de l’Etica; così fine de la Filosofia è quella eccellentissima
dilezione che non pate alcuna intermissione o vero difetto, cioè vera felicitade che per
contemplazione de la veritade s’acquista.
Più coinvolgente il ventaglio dell’”amicizia” come istituto
sociale e insieme affettivo all’interno del poema, nel riverbero
del De amicitia ciceroniano, specie nella seconda cantica,
nata, per consenso generale, sotto l’egida dell’amicizia: un
giudizio che poggia sull’analisi dei memorabili incontri con
Casella e Belacqua, con Nino Visconti e Currado Malaspina,
soprattutto con Forese Donati. Non possiamo certo
4
soffermarci, qui, sulle diverse accezioni di amico, s’intende
anche metaforiche, nella Commedia, ma dobbiamo limitarci a
qualche esempio più significativo. Si parte, ovviamente, dal
celebre sintagma «l’amico mio e non de la ventura», posto in
bocca a Beatrice nella rievocazione che ne fa Virgilio (Inf. II
61), eco del nesso amicus fortunae presente in Boncompagno
da Signa; più normali, per il sostantivo, il valore di “alleato,
fautore” (Purg. XX 57) e quello di “persona amata”, per Titone
«dolce amico» dell’Aurora (Purg. IX 3), da confrontare con
l’occorrenza già vista a Inf. XXX 39. Così, per l’aggettivo, il
valore di “animato da sentimenti amichevoli” nelle Rime e in
Inf. V 91 («se fosse amico il re de l’universo») o di “amato,
caro” per le «serpi amiche» di Inf. XXV 4, in un contesto
sarcastico; mentre tale semantema si rapporta a una
dimensione sacra per i poverelli che «si fero amici a Dio» (Par.
XII 132) e per le anime che Dio «s’ha fatte amiche» (Par. XXV
90).
Non sarà qui inutile uno sguardo al sottotesto del De
amicitia ciceroniano, dove il discorso si sviluppa sotto la
costellazione del “senza amicizia la vita non è vita”, «sine
amicitia vitam esse nullam», ma dove, accanto ad amicizie
straordinariamente strette come quella fra Lelio e Publio
Scipione e al conseguente dolore per la morte di un uomo
sommo ed amicissimo, si danno anche esempi di grandi
amicizie tramontate o insidiate dalle diverse opinioni in
materia di politica. Rapporti di questo genere si possono
dunque definire secondo l’essenza dell’amicizia, cioè il
massimo accordo delle volontà, delle propensioni e delle
opinioni. La definizione viene ripresa a breve distanza, in un
luogo dove colpisce l’affermazione che l’amicizia non può
sussistere senza la virtù, e poi replicata più volte; mentre
risulta di grande interesse, nella prospettiva del rapporto fra
Dante e Guido, l’allusione ciceroniana alle tesi epicuree
sull’anima che perisce insieme col corpo, cui si contrappone
anche la fiducia sulla corrispondenza di amorosi sensi che
s’instaura con gli amici morti.
5
Ma lo snodo decisivo per noi (e per gli sviluppi danteschi) è
quello in cui si dipanano gli stretti rapporti fra la
fenomenologia dell’amicizia e quella dell’amore:
Amor enim, ex quo amicitia nominata est, princeps est ad benevolentiam coniungendam. Nam
utilitates quidem etiam ab eis percipiuntur saepe, qui simulazione amicitiae coluntur et
observantur temporis causa. In amicitia autem nihil fictum est, nihil simulatum est et, quidquid
est, id est verum et voluntarium. Quapropter a natura mihi videtur potius quam ab indigentia
orta amicitia, adplicatione magis animi cum quodam sensu amandi, quam cogitazione quantum
illa res utilitatis esset habitura.
I riflessi di questo passo si colgono con sicurezza nella
serrata argomentazione di Conv. III xi, che incrocia i campi
semantici di “amicizia” e “amore” proprio al crocevia della
filosofia, in un passo che abbiamo già citato, importante
anche per la varietà lessicale, con quel libero incrocio degli
allotropi del termine astratto.
Di fatto, le tre varianti lessicali di “amicizia” mancano del
tutto nella Commedia, pur gremita di amici, e vi manca una
vera digressione sul concetto di “amicizia”; ma sussiste una
precisa ragione del fatto che Dante vi ricorra piuttosto ai
campi lessicali di “amore”/”amare” o di “affetto”/”affezione”.
Il passo-chiave riguarda proprio il rapporto fra Stazio e
Virgilio, dove Stazio alla fine viene a recitare la parte di
controfigura di Dante entro una dimensione materna.
All’origine tuttavia sta la straordinaria invenzione di un
Giovenale mediatore fra i due poeti latini, in quanto
portatore, al suo arrivo nel Limbo, delle novità terrene (Purg.
XXII 9 ss.):
[…] Amore,
acceso di virtù, sempre altro accese,
pur che la fiamma sua paresse fore;
onde, da l’ora che tra noi discese
nel Limbo de lo ‘nferno Giovenale,
che la tua affezion mi fé palese,
mia benvoglienza inverso te fu quale
più strinse mai di non vista persona,
sì ch’or mi parran corte queste scale.
Ma dimmi, e come amico mi perdona
se troppa sicurtà m’allarga il freno,
e come amico omai meco ragiona….
Un passo dove la fenomenologia cortese dell’amor de lonh
s’intreccia coi precisi richiami al De amicitia ciceroniano,
6
oltre che all’ Etica aristotelica cui Dante stesso rinvia
espressamente. Ma soprattutto colpisce lo scambio fra i
lessemi dell’amore e quelli dell’amicizia, confermato – ma non
ce ne sarebbe neppure bisogno - dalla successiva risposta di
Stazio: «Ogne tuo dir d’amor m’è caro cenno…». E a questo
punto non si può non misurare la distanza che separa la
concezione dell’amicizia e, in parallelo, quella dell’amore,
nella Commedia, dagli esiti stilnovistici (Vita nova inclusa) e
da quelli dello stesso Dante autore delle grandi canzoni
morali, specie le tre rifluite nel Convivio.
Riassumendo, un primo salto di qualità si verifica
attraverso lee riflessioni del Convivio, in pagine che intessono
una fitta rete di analogie fra i semantemi di “amicizia”,
“amore” e “filosofia”, sotto l’egida dell’ Etica Nicomachea. Ma
il tema dell’amicizia assume uno sviluppo decisivo nel
poema, specie entro la seconda cantica, non solo nella scia di
quella rilettura del De amicitia di Cicerone attestata da un
celebre passo del Convivio (II xii 1-4). In quel passo Dante
associava l’operetta ciceroniana al De consolazione
philosophiae di Severino Boezio, additandoli esplicitamente
come i veicoli di un’uscita dall’avvilimento per la morte di
Beatrice, ma implicitamente come una riflessione sulla
perdita dell’amico per eccellenza, Guido Cavalcanti: prima col
distacco intellettuale, poi con la scomparsa fisica a distanza
di pochi mesi da quella che sarebbe stata la data fittizia del
viaggio oltremondano. Proprio nella Commedia esplode quel
geniale parallelismo fra i campi semantici dell’amore e
dell’amicizia, che vede prevalere la serie lessicale “amoreamare-affetto”, et similia, anche sul versante dell’amicizia.
Tale tendenza culmina nello straordinario incontro fra
Virgilio e Stazio (Purg. XXII 9 ss.), quasi controfigura (per
certi aspetti) del binomio Dante-Guido, con un ventaglio di
termini apparentemente eterogenei posti sullo stesso piano
(«amor… affezion… benvoglienza… amico… amico… amor»).
Quanto mai significativa, dunque, la ripresa della sentenza di
Francesca da Rimini (Inf. V 103 ss.: «Amor, ch’a nullo amato
amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte…») a Purg.
XXII 10 ss., con una radicale limitazione o correzione di
7
rotta: «Amore, acceso di virtù, sempre altro accese, / pur che
la fiamma sua paresse fore…». Essa infatti chiama in causa
quella virtù che Cavalcanti, all’opposto di Dante, nella sua
grande canzone-manifesto (Donna me prega),
escludeva
senza remore dal meccanismo dell’amore.
Emilio Pasquini