Mosaico - Bibliotheca Aretina

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Mosaico - Bibliotheca Aretina
Laurie Anderson Roberta Ascarelli
Riccardo Castellana Alessandro Ghignoli
Luisa Giannandrea Clemens-Carl Härle
Estefanía Hernández Rodríguez Andrea Landolfi
Piera Sestini Stefania Stefanelli
María Gracia Torres Díaz
Mosaico
Sulla traduzione letteraria
a cura di Daniele Corsi e Julio Perez-Ugena Partearroyo
b
A
Questo volume è stato realizzato con il contributo del Dipartimento
di Scienze della Formazione, Scienze Umane e della Comunicazione
Interculturale, e del Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature
Antiche e Moderne dell’Università di Siena.
© 2015 Bibliotheca Aretina
ISBN 978-88-90573-85-9
www.bibliothecaaretina.it
[email protected]
work in progress
Sommario
PrefazioneVII
Clemens-Carl Härle
Malinconia del traduttore, vita delle lingue
1
Roberta Ascarelli
Tradurre un titolo e realizzare un’utopia.
Da Alneuland a Tel Aviv
9
Riccardo Castellana
‘Changeling’, ‘Wechselbalg’, ‘canciatu’.
Tradurre il folklore passando per la letteratura
23
Andrea Landolfi
Rivedersi dopo trent’anni. Appunti di un traduttore
alle prese con se stesso
39
Piera Sestini
L’(im)possibile necessità di tradurre Virginia Woolf:
esempi e raffronti
51
Stefania Stefanelli
Dal portoghese all’italiano. Il caso di Eça de Queiroz
69
Luisa Giannandrea
Un ‘singolare’ caso di traduzione teatrale.
Lo studente in Paradiso di Hans Sachs
87
María Gracia Torres Díaz
La tradución y la interpretación consecutiva del cuento
103
Laurie Anderson
Leveraging pragmatics in the translation classroom: Promoting active learning through literary translation
towards the ‘non-mother’ tongue
113
Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez
La autotraducción literaria. Una escritura postcolonial
129
Prefazione
Gli studi sulla traduzione letteraria occupano un luogo significativo all’interno della critica e della teoria della letteratura, e
centrale nella traduttologia e nella linguistica; sono quindi tesi a
uno specialismo dal quale rendere manifesto il loro carattere determinante. Il dispiegamento della loro fecondità avviene tuttavia
nell’ambito dei molteplici rapporti che essi intrecciano non solo
con le discipline sopra citate ma anche con la filosofia, la teologia,
la filologia, l’antropologia, la storia della cultura, la pedagogia, ecc.
E così come non è pensabile proporre una teoria della traduzione
letteraria senza coordinarla con una teoria della traduzione in senso lato e con una teoria del linguaggio, più umilmente non è pensabile in realtà neppure lo studio della traduzione letteraria senza
una buona competenza in altre discipline.
Il lettore potrà trovare nei saggi che seguono diverse attestazioni
della ricchezza tematica e culturale alla quale conduce la riflessione
su questo argomento: Clemens-Carl Härle sostiene, nel saggio di
filosofia del linguaggio che apre il volume, che noi uomini siamo
casualmente animali parlanti e che per qualsiasi atto linguistico
dobbiamo adoperare la traduzione, che dunque risulta indispensabile per la stessa esistenza della lingua come factum loquendi, una
lingua sempre di nuovo inaugurata ma sempre con una perdita
insanabile dell’oggetto, che comporta un lutto nel traduttore-parlante, declinato in una creativa malinconia.
L’articolo di Roberta Ascarelli, incentrato nell’«intraducibile»
titolo del romanzo di Theodor Herzl, Altneuland, di cui lei stessa ci ha offerto un’elegante versione italiana, approfondisce le sue
vaste risonanze nel segno della Scrittura, della storia e dell’utopia,
prefazione
attraverso lo studio delle sue traduzioni in diverse lingue, tra cui
la più infedele – Tel Aviv, in ebraico, a cura di Nachum Sokolov,
del 1902 – sarebbe anche la più interessante, nel suo accentuare
l’aspetto profetico del testo.
È normale che successive edizioni di testi, letterari e non, includano delle modifiche, ed è frequente che una medesima opera
venga tradotta da diversi traduttori. Più raro è che un traduttore
possa rivedere a distanza di trent’anni la propria traduzione: Andrea Landolfi narra e analizza questa circostanza ripercorrendo la
vicenda delle due versioni che ha realizzato del romanzo La morte
di mio fratello Abele, di Gregor von Rezzori: la prima, nel 1988, in
collaborazione con l’autore, e la seconda nel 2016, da solo ma con
un’approfondita conoscenza dell’opera di Rezzori e una maggiore
esperienza, il che gli ha consentito di lavorare con un approccio
vitale e creativo, come un ‘secondo autore’.
Nello studio che Stefania Stefanelli dedica alle traduzioni italiane del racconto José Matias, di Eça de Queiroz, vengono prese in
esame, tra le altre, due versioni di questo testo realizzate nel 1951
e nel 1992 da una stessa traduttrice, Luciana Stegagno Picchio.
Alcune loro varianti, questa volta a distanza di quarantuno anni,
sono in linea con alcune tra quelle introdotte da Landolfi nella sua
revisione del 2016 di La morte di mio fratello Abele (come i pronomi ‘egli’, ‘essa’, che passano ad essere ‘lui’, ‘lei’), a conferma della coscienza dei traduttori della trasformazione dell’italiano e dell’invecchiamento fatale delle traduzioni. La Stefanelli, che analizza anche
le versioni di Mario Puccini (1953) e di Davide Conrieri insieme a
Maria Abreu Pinto (2000), conclude che la razionalizzazione e normalizzazione dello stile e la distanza dall’oralità nelle traduzioni del
’51 e del ’53 mostrano la sintonia non con Eça de Queiroz (18451900) ma con gli scrittori italiani a lui coevi, che erano ancora alla
ricerca di una lingua unitaria che rendesse sulla pagina le movenze
del parlato, e distanti dalla concisione e dalla freschezza dei dialoghi dello scrittore portoghese, che potranno essere letti in italiano
molti anni dopo, soprattutto nella versione di Conrieri e Pinto.
Interrogandosi sull’opportunità di tradurre o meno un appellativo femminile inglese, legato al cognome di un uomo che diventerà quello della donna-moglie, protagonista di uno dei più
VIII
prefazione
importanti romanzi di Virginia Woolf, Mrs. Dalloway, Piera Sestini difende il senso la scelta prospettica di mantenerlo nella lingua
originale, sia nel titolo sia nel corpo del testo, e mostra, in un
confronto con sei traduzioni italiane, come si tratti di un emblema
della prigione retorica, sociale e politica, che la scrittrice elabora
sottilmente su più piani nelle pagine della sua opera, aspetto che i
traduttori spesso non hanno saputo cogliere.
Un termine inglese, changeling, che in altre lingue ha trovato
un equivalente semantico perfetto (Wechselbalg in tedesco, skifting
in danese, bortbyting in svedese, chanjon o changeon in antico francese), in italiano non ha un traducente adatto, e non l’ha perché il
mito folklorico che denota, che ha avuto una presenza importante
nella letteratura inglese o in quella tedesca, non ha attecchito nella penisola italiana (ma sì in Sicilia, dove si riscontrano i termini
canciatu e canciateddu). Riccardo Castellana, in un saggio che sa
mantenersi a cavallo tra traduzione, letterature comparate e antropologia, analizza le quasi sempre insoddisfacenti versioni italiane
di changeling e di Wechselbalg in alcuni brani di Shakespeare, di
John Gay, di E.T.A. Hoffmann, e scopre una soluzione accettabile
non in una traduzione ma nel titolo di una novella del siciliano
Pirandello: Il figlio cambiato.
Hans Sachs è un prolifico e importante autore della letteratura
tedesca ma in Italia esistono solo la traduzione di una breve antologia di «canti popolari» a cura di Ettore Lo Gatto del 1916, e
la versione di una farsa, Lo studente vagante in Paradiso, che Pier
Donato Lauria, professore di un istituto magistrale salernitano, ha
realizzato per una recita scolastica nel 1959. Luisa Giannandrea
analizza i significativi cambiamenti che il traduttore introduce
nell’impianto drammaturgico, nei paratesti, nel registro linguistico
e negli elementi culturali. Siamo in effetti davanti a una «traduzione-assimilazione» nella terminologia di Koustas, o a una «traduzione etnocentrica» secondo la terminologia di Berman. E di questa
assimilazione, ha notato finemente Giannandrea, sarà vittima anche il protestantesimo di Hans Sachs, che nel 1523 aveva dedicato
L’usignolo di Wittemberg a Martin Lutero.
L’autotraduzione letteraria è un affascinante fenomeno di cui
Alessandro Ghignoli e Estefanía Hernández Rodríguez ci presen-
IX
prefazione
tano opinioni di diversi esperti, per poi esaminare il caso dell’autotraduzione nei paesi postcoloniali, con le ricadute antropologiche,
culturali, sociali e politiche, che comporta la scelta di scrivere nelle
lingue autoctone e/o nelle lingue dei colonizzatori.
Le peculiarità della traduzione e dell’interpretazione della letteratura per l’infanzia sono analizzate da María Gracia Torres Díaz,
che mette in primo piano l’esigenza dei traduttori di adattare il
loro lavoro al livello di conoscenze del bambino e alla sua atmosfera culturale specifica, rivolgendosi ai bambini nonché a coloro
che filtreranno o addirittura censureranno i testi, e cioè i genitori
e gli educatori. Le società multiculturali richiedono un’attenzione
sempre maggiore all’integrazione culturale dei bambini stranieri,
senza che ne debba risentire la formazione culturale degli autoctoni, e così troviamo ad esempio dei racconti pubblicati in più lingue. L’interpretazione bilingue di racconti in aula, per ora diffusasi
principalmente negli Stati Uniti, l’Australia, il Canada e la Gran
Bretagna, è anche un mezzo prezioso per favorire l’integrazione
culturale.
I metodi per l’insegnamento delle lingue non sempre hanno
guardato di buon occhio la traduzione, soprattutto se si trattava di
testi letterari. Laurie Anderson difende in questo articolo l’utilità
della traduzione di testi letterari in una lingua non materna al fine
di apprenderla con la flessibilità e la proprietà necessarie. Nella
fattispecie espone una sequenza metodicamente articolata, applicando nozioni della linguistica pragmatica, affinché gli studenti
possano imparare la sintassi inglese del cosiddetto «future in the
past» attraverso la traduzione di due brani di Buzzati e di Cassola.
Daniele Corsi e Julio Pérez-Ugena
X
Clemens-Carl Härle
Malinconia del traduttore, vita delle lingue
per Lavinia, Hana, Zana, Neroli e Anita
Possiamo distinguere una lingua – e i suoi elementi, le parole
e le frasi – da ciò che non è una lingua. Possiamo distinguere una
lingua da un’altra. Quando non comprendo le parole con cui qualcuno mi si rivolge, deduco che parla un’altra lingua. Una lingua
esiste e prende forma in virtù di questa duplice differenza: quella
che la separa dall’indistinto del semplice suono e quella che distingue le lingue fra loro. Il linguista francese Jean-Claude Milner
chiama la prima differenza il factum linguae, «il fatto che ciò che
un essere parlante parla merita il nome di lingua»1, e la seconda
il factum linguarum, il fatto che le lingue sono diverse, anche se
non è affatto semplice determinare ciò che costituisce l’unità di
una lingua e, quindi, la natura della differenza fra le lingue. C’è
però anche un terzo elemento che Milner prende in considerazione, il factum loquendi, «il fatto che ci sia gente che parla». Il factum
loquendi evidenzia che c’è sempre una pluralità di locutori, che
ogni locuzione è sempre anche un’interlocuzione.
Il problema della traduzione sorge quando il factum loquendi,
il fatto che qualcuno parla, s’interseca con il factum linguarum,
con il fatto che esistono più lingue. Nella traduzione – che Quintiliano chiama conversio – un locutore è costretto a prendere atto
della lingua del suo interlocutore, dell’affinità o della distanza che
vige tra il suo idioma e quello del destinatario del discorso. E il
1
J.-C. Milner, Introduction à une science du langage, Seuil, Paris 1989, p. 44.
clemens-carl Härle
traduttore è colui che, di fronte all’esperienza che chi mi rivolge la
parola o al quale io rivolgo la parola parla una lingua diversa dalla
mia, non si ritrae né si sottrae, non rinuncia a interloquire. Egli
scommette sul discorso, si sforza di continuarlo e cerca di superare
il divario fra le lingue, accettando di saltare da una lingua all’altra.
Osare sempre di nuovo questo salto, questo è in fondo ciò che
Benjamin chiama il «compito del traduttore», la condizione che
precede ogni singolo atto di traduzione.
Definire il problema della traduzione in questo modo significa affermare che in nessuna situazione discorsiva un locutore può
presupporre una lingua comune o affidarsi a una lingua a priori,
condivisa da tutti i parlanti. Significa anche affermare – ma questa
è solo una prima conseguenza – che la lingua madre è un semplice
idioletto, un gergo che parlo senza averlo voluto e che ho imparato a parlare senza accorgermi di stare imparando una lingua. Più
che in un mondo, siamo gettati – come dice Heidegger – in una
lingua o addirittura in più lingue, perché ci sono bambini che fin
dall’inizio sono immersi in diverse lingue e per i quali il compito di
tradurre fa tutt’uno con l’ingresso in un mondo linguisticamente
organizzato. «Lingua madre» è solo il nome del fatto che nell’idioma in cui ho avuto accesso alla parola c’è qualcosa che mi sfugge,
qualcosa di perturbante, di «unheimlich» nel senso letterale del
termine. Neanche nella lingua madre ci si sente veramente a casa
propria, e la lingua madre è l’idioma che s’impone non appena
apro bocca, prima ancora di ogni intenzione e di ogni riflessione.
Non conosciamo mai completamente la lingua che parliamo, e
non conosciamo la lingua dei nostri interlocutori. Conosciamo la
nostra «propria» lingua solo grazie a un lavoro che non ha fine –
questa è la prima esperienza che facciamo quando cerchiamo di
tradurre – e possiamo eventualmente conoscere le lingue dei nostri
interlocutori grazie a un lavoro che è anch’esso senza fine.
Occorrerebbe a questo punto modificare la definizione dell’essere umano proposta da Aristotele: l’uomo non è lo zoon logon
echon, l’animale che ha il linguaggio o la lingua. L’essere umano è
piuttosto un animale cui capita di esprimersi linguisticamente. È
un semplice caso, infatti, che gli esseri umani parlino una lingua
determinata, ed è un semplice caso che parlino tout court. L’uomo
2
Malinconia del traduttore, vita delle lingue
è un animale che si esprime, talvolta per mezzo di segni il cui
senso è rigidamente codificato – e in questo senso si fa sentire
linguisticamente –, talvolta attraverso gesti e suoni il cui senso
è, nella maggior parte dei casi, indeterminato o indeterminabile. Come ogni lettore di Kafka sa bene, i confini dell’articolazione linguistica – del factum linguae – sono estremamente fragili,
e a ciascuno può accadere ciò che accade a Gregor Samsa, cioè
di dover sentire che alla propria voce «si univa un irreprimibile
pigolio doloroso che solo in un primo momento lasciava integre
le parole per distorcerle poi nella loro risonanza, sì che non si
sapeva più se si era inteso bene»2.
Schiavi di una sorta di soggettivismo idealista, riflettiamo
troppo raramente sul fatto che ogni pensiero può diventare una
realtà per chi parla o per chi ascolta – e anche per chi sta pensando in silenzio e in solitudine – soltanto nella misura in cui quel
pensiero prende corpo in una traccia materiale, effimera o duratura: voce, scrittura, disegno, immagine, gesto, sguardo. La realtà
di un pensiero è irrevocabilmente sospesa alla sua manifestazione
contingente in un supporto contingente – e secondo un codice
contingente, quando un tale codice esiste. L’idea di codice presuppone la rigida separazione tra significante e significato. Postulare
la traducibilità di una frase da una lingua a un’altra presuppone
– è una banalità dirlo – che la forma del significante sia arbitraria rispetto al suo significato o al suo concetto. Possono esistere,
dunque, molteplici significanti per lo stesso significato che è posto
come uno e identico, nonostante la molteplicità dei significanti
o forse grazie a tale molteplicità. S’istaura così l’illusione, inevitabile o ‘trascendentale’, di un pensiero universale e identico per
tutti i parlanti, di un pensiero che curiosamente, però, non può
esprimersi, cioè essere accessibile ai parlanti, in modo univoco,
attraverso una lingua unica o universale, come accade invece nel
caso delle lingue artificiali e costruite a tavolino, che si fondano su
un rapporto biunivoco tra significante e significato. Per diventare
reale, cioè comprensibile al mio interlocutore, il mio pensiero deve
2
F. Kafka, La metamorfosi, in F. K., Nella colonia penale e altri racconti, trad. it.
di F. Fortini, Einaudi, Torino 1986, p. 62.
3
clemens-carl Härle
consegnarsi a una lingua determinata, che è per definizione incommensurabile con ogni altra lingua determinata. Tuttavia non posso
non presupporre che, malgrado la loro diversità, i singoli significanti esprimano in qualche modo un medesimo pensiero. Porre la
sostituibilità dei significanti materialmente diversi rispetto al significato è il presupposto – o almeno l’orizzonte – di ogni traduzione.
Il suo correlato implicito è che io possa esprimere un pensiero che
ritengo universalmente comprensibile solo in una lingua determinata e, dunque, contingente rispetto al pensiero espresso in una
certa parola o in una certa frase. Parlando, pongo l’universalità
del significato o del concetto e, allo stesso tempo, la singolarità
irriducibile dell’idioma di cui sono costretto a «servirmi». La possibilità della traduzione richiede, quindi, due atteggiamenti profondamente opposti, una sorta di strabismo generalizzato. Richiede
di porre l’equivalenza, l’identità o l’idealità del significato come
orizzonte di ogni locuzione e, allo stesso tempo, richiede di abbandonarsi senza riserve alla diversità e alla singolarità degli idiomi.
Il traduttore deve destreggiarsi fra queste due esigenze opposte,
incompatibili e contraddittorie, che condannano in fondo ogni
traduzione al fallimento. Se vuole salvare il senso, egli deve tradire
l’idioma, se cerca di rimanere fedele all’idioma, rischia di perdersi
nel nonsenso. La malinconia del traduttore nasce da questa condizione. Il termine, però, non va inteso nel senso di una vaga tristezza o di un’apatia rassegnata, ma nel senso – o almeno in uno dei
sensi – che Freud gli ha conferito, nel senso, cioè, di un’insanabile perdita dell’oggetto3. Nessun lutto, nessun «lavoro interno»
e nessuna sostituzione possono far dimenticare questa perdita,
questa mancanza. Ciò che il traduttore ha perso è l’idea o l’ideale
di una traduzione che possa soddisfare quei due requisiti opposti.
E poiché ogni atto linguistico, ogni frase pronunciata è sempre
sospesa al rischio che l’interlocutore non condivida l’idioma in
cui mi è capitato di dovermi esprimere, questa perdita non è un
evento occasionale, come il venir meno di una persona amata.
L’esperienza di questa perdita s’impone sempre di nuovo, ogni
3
S. Freud, Lutto e melanconia, in Opere 1915-1917, Boringhieri, Torino 1976,
pp. 102-118.
4
Malinconia del traduttore, vita delle lingue
volta che apro la bocca per rivolgermi a qualcuno ed è, dunque,
assolutamente incancellabile. Ma il termine malinconia fa venire
in mente anche la famosa incisione di Dürer. La figura alata che
tiene un libro chiuso sul grembo potrebbe essere interpretata come
una rappresentazione allegorica del traduttore o della traduttrice, e
gli oggetti e gli attrezzi sparsi che riempiono lo spazio dell’immagine – emblemi del rimuginare – potrebbero essere letti come degli
analoga dei dizionari. Aby Warburg ha voluto riconoscere nell’incisione di Dürer la vittoria dello spirito melancolico sul destino
della follia4. Lo studio o la traduzione riescono a resistere a questa
minaccia. In effetti, occorre riconoscere nella malinconia una
figura di conforto: a proposito delle traduzioni hölderliniane di
Sofocle, Benjamin nota che in esse – che sono «archetipi della loro
forma» perché il senso vi «resta sfiorato dalla lingua come un’arpa
eolica dal vento» – abita, «più che in altre, il pericolo originario di
ogni traduzione: che le porte di una lingua così estesa e dominata
si chiudano – e chiudano il traduttore nel silenzio»5.
Contro le osservazioni che ho fatto qui potrebbero essere sollevate due obiezioni.
La prima si fonda sull’argomento di Wittgenstein contro l’esistenza di una lingua privata. Anche se su un piano completamente
diverso, inoltre, le ipotesi della linguistica positiva sull’evoluzione
diacronica delle lingue suggeriscono che una lingua è per definizione condivisa o condivisibile. Sostenere che il problema della
traduzione nasce dal fatto che non si può presupporre che un
interlocutore condivida l’idioma nel quale un locutore gli si rivolge
e che ogni atto linguistico è esposto al compito della traduzione
può apparire in quest’ottica come una forzatura perché tende a
ridurre la lingua a un semplice idioletto o addirittura a un gergo.
Ed effettivamente si tratta di una forzatura – euristica, se si vuole –,
non arbitraria però, bensì motivata dal tentativo di separare la
lingua da quel sostrato che generalmente vi viene associato, cioè
4
A. Warburg, Heidnisch-antike Weissagung in Wort und Bild zu Luthers Zeiten,
in Id., Gesammelte Schriften, Erste Abteilung, Band I.2, Akademie Verlag, Berlin
1998, p. 527.
5
W. Benjamin, Il compito del traduttore, in W. B., Angelus novus, Einaudi,
Torino 2001, p. 52.
5
clemens-carl Härle
da quel corpo etnico, il popolo o la popolazione, che costituisce
il vero fulcro della condivisione. Configurare il factum loquendi a
partire da un’appartenenza etnica significa respingere la traduzione ai confini della comunità linguistica, per salvare l’intimità della
lingua madre da quell’instabilità che la minaccia, non appena è
esposta a una lingua straniera. In maniera analoga, il problema
della traduzione viene accantonato dalle teorie della comunicazione che – con la loro visione puramente strumentale – presuppongono la condivisione del codice tra i parlanti e considerano
la singolarità del significante come una sorta di «variante libera»,
irrilevante per definizione. In questo modo si presuppone di fatto
qualcosa come una lingua maggioritaria o unica. Sostenere invece
che il problema della traduzione è coestensivo con il fatto che
siamo convocati a diventare esseri parlanti – proprio perché, come
ho detto, non possediamo «per natura» o per essenza la lingua o
una lingua – implica che in ultima istanza non solo non sappiamo
a chi ci rivolgiamo quando parliamo, ma che non conosciamo
neanche la lingua dei nostri interlocutori eventuali. È una condizione che solo la traduzione può affrontare, anche se non è in
grado di risolverla.
La seconda obiezione riguarda la distinzione tra la traduzione
letteraria e la traduzione nell’ambito della cosiddetta comunicazione quotidiana. Definendo la traduzione letteraria come una forma
artistica sui generis, Benjamin ha virtualmente equiparato la traduzione all’atto poetico da cui si distingue unicamente per la sua
Nachträglichkeit o secondarietà costitutiva: pur essendo anch’essa
un’opera, una traduzione non può – a differenza dell’originale –
essere tradotta a sua volta. La nota differenza benjaminiana fra das
Gemeinte e die Art des Meinens – tra il significato e la maniera in
cui un’espressione di una determinata lingua allude al significato
senza dirlo – va letta in questo senso. La traduzione letteraria – tale
è secondo Benjamin il suo compito – cerca di cogliere il singolo
modus significandi delle espressioni – la loro letteralità, se si vuole –
facendo astrazione dal loro senso. Essa contribuisce così all’integrazione (Ergänzung) delle singole lingue: nella misura in cui è
più della «mera comunicazione» di un contenuto determinato, la
traduzione fa nascere in ogni lingua qualcosa che «non è a sua volta
6
Malinconia del traduttore, vita delle lingue
traducibile», «l’eco dell’originale»6. Ogni traduzione tende, quindi,
a ciò che Benjamin chiama la «lingua pura», la lingua nascosta
nelle singole traduzioni, ma che affiora quando quell’eccesso indeterminabile che è la traduzione riesce a integrare le lingue, nonostante o forse proprio grazie alla loro estraneità e alla loro incommensurabilità.
Situare la traduzione sul piano dell’interlocuzione non significa
cancellare la specificità della traduzione letteraria, ma articolarla
in maniera diversa. L’aporia della traduzione letteraria evocata da
Benjamin si manifesta, infatti, in modo simile anche nell’ambito
dell’interlocuzione. Pur essendo indifferente all’originale – anche
se finisce per manifestarne, come sostiene Paul de Man, la fragilità essenziale7 –, la traduzione letteraria conferisce alle opere una
«maturità postuma» (Nachreife) e con essa una «sopravvivenza»
(Fortleben) singolare, propria solo delle opere, un «ultimo e più
comprensivo dispiegamento». In questo senso, alla traduzione «tocca come compito specifico di avvertire e tener presente
quella maturità della parola straniera, e i dolori di gestazione della
propria»8.
Il telos della traduzione nella sfera della semplice interlocuzione
è diverso. Non essendo il suo oggetto un’opera d’arte, ma la parola
tout court, essa afferma sempre di nuovo, attraverso il suo fallimento, la pluralità delle lingue e la loro radicale estraneità. Solo
in virtù di questa diversità, infatti, può sorgere qualcosa come la
lingua, non la lingua pura nel senso di Benjamin che è una sorta
di proiezione teologica per proteggere il traduttore dall’abisso cui
è esposto, non la lingua nel senso di un’universalità di un senso
condivisibile, sia nella forma «dura» di un equivalente generale sia
in quella «morbida» di una vaga conciliazione delle nazioni, ma la
lingua intesa come factum loquendi, cioè come capacità di produrre blocchi di suoni più o meno articolati, «parole» e «frasi«, il cui
Ivi, p. 45.
P. de Man, Conclusions: Walter Benjamin’s “The Task of the Translator”, in P.
d. M., The Resistance to Theory, Minnesota University Press, Minneapolis, 1986,
p. 84.
8
W. Benjamin, Il compito del traduttore, cit., p. 43.
6
7
7
clemens-carl Härle
significato non coincide mai, ma si ripercuote infinitamente nel
risuonare dei blocchi di suoni. Se c’è una vita della lingua, essa
consiste in questi suoni più o meno udibili, in questo senso più o
meno distinto che si afferma e si perde in ogni atto di traduzione.
Barthes ha dichiarato: «La bellezza si mostra e non si dice»9. Di
fronte alla bellezza vige un silenzio. Forse quel silenzio è l’immagine infinitamente distante, ma allo stesso tempo quasi speculare
di quel silenzio cui Benjamin allude a proposito delle traduzioni di Hölderlin nelle quali «il senso precipita di abisso in abisso,
fino a rischiare di perdersi in profondità linguistiche senza fondo».
«Trasformare» qualcosa che si mostra in qualcosa che si dice, una
realtà non-linguistica in una lingua, costituisce forse una sorta di
«archi-traduzione» – e dunque un «archi-tradimento» – che inaugura il factum loquendi. La lingua verrebbe inaugurata sempre di
nuovo, ogni volta in cui non possiamo impedirci di rompere un
silenzio, di violare la bellezza o il dolore. E non possiamo inaugurare la lingua senza esporci a quel double bind insanabile che è la
traduzione.
9
R. Barthes, Sur des photographies de Daniel Boudinet, in Œuvres complètes, V,
Seuil, Paris 2002, p. 326.
8
Roberta Ascarelli
Tradurre un titolo e realizzare un’utopia:
da Altneuland a Tel Aviv*
La scelta del titolo del suo unico romanzo non fu facile per
Theodor Herzl.
Da qualche tempo lavoro a un’opera d’immensa grandezza – scrive
nel luglio del 1895 –. Oggi non so ancora se riuscirò a realizzarla.
Sembra un sogno potente. Pure da giorni e settimane mi pervade
insinuandosi nell’inconscio, mi perseguita, si libra sui miei discorsi quotidiani, mi guarda altera nel mio lavoro giornalistico insolitamente modesto, mi disturba e mi cattura. È ancora presto per
intuire cosa ne verrà fuori. Solo che la mia esperienza mi dice che
si tratta di qualcosa di straordinario, già, come un sogno, e devo
annotare tutto, se non per documentarlo all’umanità, almeno per
mio futuro diletto o per mio piacere. E, probabilmente, la verità è
nel mezzo: per la letteratura. Se il romanzo non si trasformerà in
azione, allora l’azione si trasformerà in romanzo. Titolo: la Terra
Promessa1.
Quasi dieci anni dopo (nel 1902), il libro, ormai concluso, ha
un titolo diverso: Herzl sceglie Altneuland ispirandosi al nome
della più antica sinagoga europea, la Altneuschule di Praga che,
secondo la leggenda, era stata costruita con le pietre del Tempio di
Gerusalemme portate in volo dagli angeli fino al centro d’Europa.
Ringrazio la collega e amica Anna Morpurgo per le traduzioni dalle
lingue slave.
1
Th. Herzl, Briefe und Tagebücher, Bd. II: Zionistisches Tagebuch 1895-1899,
bearb. v. S. Gelman – C. Harel – I. Rubin – J. Wachten, Propyläen, Frankfurt
a.M.-Berlin 1983, p. 43.
*
roberta ascarelli
Si tratta di un composto oppositivo, azzardato e seducente2,
che non si limita a nominare il testo, ma possiede una evidente funzione comunicativa: vuole infatti contribuire a diffondere
alcune parole d’ordine del movimento sionista3, in modo che esse
«rimanessero conficcate nell’immaginario» di tutti coloro che il
libro avrebbe raggiunto4.
Il titolo, insegna Rothe5, getta un primo ponte tra il testo e
il suo il lettore, ne attira la attenzione e lo informa su quello che
troverà; ma non si limita a questo, vuole, infatti, anche annunciare una particolare estetica proponendo metafore, antitesi,
ellissi, ambiguità: «una specie di apritisesamo che fa intravedere
prospettive incantate»6 del libro.
Ellittico e ambiguo sicuramente è questo titolo, anche se
il richiamo centrale alla terra (Land) contiene un riferimento
evidente e non contrattabile al gelobtes Land, la Terra promessa –
2
Da notare che alcune versioni del romanzo in tedesco scelgono una
trascrizione del titolo che scioglie in parte il composto: sarà allora Alt-Neuland
per i caratteri di Keren Hajessod (jüd. Palästinawerk, Berlin 1922); oppure
AltNeuland (cfr. edd. Nordstedt 2004, Holzinger, Berlin 2014, Hoffenberg,
Berlin 2015).
3
Si vuole fortemente caratterizzare in questo caso come un «sintomo di
energia da cui scaturisce l’azione» (L. Valeriani, Dentro la trasfigurazione. Il
dispositivo dell’arte, Meltemi, Roma 2004, p. 213). Nella prospettiva della
«classica» Sprachtheorie di Bühler del 1934 il titolo scelto da Herzl possiede
pienamente le tre classiche funzioni: Ausdrucksfunktion, Appellfunktion,
Mitteilungsfunktion. Cfr. K. Bühler, Sprachtheorie. Die Darstellungsfunktion
der Sprache, Stuttgart-New York 1982, ungekürzter Nachdruck der Ausgabe
von 1934; sull’attualità di questo paradigma cfr. R. Bouchehri, Filmtitel im
interkulturellen Transfer, Frank & Timm, Berlin 2008.
4
H. Weinrich, Sprache, das heißt Sprachen: mit einem vollständigen
Schriftenverzeichnis, Gunter Narr Verlag, Tübingen 2006, pp. 109-113 (in part.
i riferimenti riguardo «die memorielle Funktion»). Cfr. anche H. W., I titoli e
i testi, in M. Prandi – P. Ramat (a cura di), Semiotica e linguistica. Per ricordare
Maria Elisabeth Conte, Franco Angeli, Milano 2001, pp. 49-62.
5
A. Rothe, Der literarische Titel, Klostermann, Frankfurt a.M. 1986; la
citazione è a p. 27; cfr. anche pp. 49-85; 90-95.
6
S. Brugnolo – G. Mozzi, Ricettario di scrittura creativa, Zanichelli, Bologna
2000, p. 234.
10
tradurre un titolo e realizzare un’utopia
richiamo importante per gli ebrei e obiettivo strategico per il
Sionismo.
Originale e spiazzante è invece il composto aggettivale: non si
tratta di una «terra libera», come titola Menachem Eisler il suo
romanzo sionista del 1885, Freiland. Ein soziales Zukunftsbild
(Terra della libertà. Un’immagine sociale per il futuro), una saga
attraverso due generazioni e due mondi, dall’Europa alla Palestina,
fino alla realizzazione di una dolce monarchia costituzionale nella
Terra dei padri, e neppure di una interazione tra terra antica e
uomini nuovi come propone Felix Salten in uno scritto del 1925
che a Herzl e al suo romanzo si ispira: Neue Menschen auf alter
Erde 7 (Uomini nuovi su una terra antica).
Attraverso una comunicazione in cui la funzione descrittiva
non sia in contrasto con quella seduttiva Herzl vuole che, fin dal
titolo, attraverso l’unificazione di ‘alt’ e ‘neu’, traspaia la promessa
di una unione indissolubile tra vecchio e nuovo e si affermi che
il ritorno nella terra dei padri (una terra antica, o meglio vecchia
come segnala la preferenza data alla parola ‘alt’) coincida con un
radicale rinnovamento sia della vita ebraica sia di quella terra che
dagli ebrei aspetta da secoli la redenzione (‘neu’).
Sul tema di questa «vecchianuova terra», su cosa significhi e cosa
prometta, Herzl torna più volte nelle pagine del romanzo perché
non vi siano dubbi sugli obiettivi del suo movimento e perché la
prospettiva della Aliyah in una regione così amata, ma anche così
lontana e inospitale, potesse essere idealizzabile per milioni di ebrei
minacciati e oppressi.
7
F. Krobb, Gefühlszionismus und Zionsgefühle, Sentimente, Gefühle, Empfin­
dun­gen: zur Geschichte und Literatur des Zionismus, hrsg. v. A. Fuchs – S.
Strümper-Krobb, Königshausen & Neumann, Würzburg 2003, pp. 149-165,
qui p. 161. Da notare le differenze con il titolo di un altro romanzo utopico e
sionista del 1893 di Max Ernst Osterberg Verakoffs, Das Reich Judäa im Jahre
6000 (edito da Druckerei und Verlagshaus, Stuttgart), in cui si pone con forza il
legame tra terra e dinastia e in cui la distanza tra l’epoca di chi scrive e quella in
cui l’utopia si realizza rende il racconto simile al sogno che Herzl voleva bandire
dalla sua narrazione.
11
roberta ascarelli
In questa situazione avevano solo due possibilità: diventare acerrimi nemici di una società così ingiusta oppure guardarci intorno
in cerca di un luogo dove fuggire. L’abbiamo trovato, ed eccoci
qua. Ci siamo salvati.
«Una vecchia terra nuova!» mormorò Friedrich.
«Sissignore, eccola» esclamò David Littwak serio e commosso.
«Nella nostra cara vecchia terra abbiamo fondato una Nuova
Società. Imparerete a conoscerla, signori miei» (p. 53)8.
Anche il più importante tra i personaggi non ebrei che popolano il romanzo, il prussiano Kingscourt, un cittadino del mondo
che, per caso e per affetto, diventa testimone della trasformazione della Palestina, ribadisce il valore di questo incontro felice tra
tradizione e modernità:
Non è necessario aspettare mille, cento, cinquant’anni. Oggi! Con
le idee, le nozioni, i mezzi che oggi, il 31 dicembre del 1902,
sono in possesso dell’umanità, si potrebbe cambiare in meglio la
situazione. Non c’è bisogno della pietra filosofale né di un’aeronave maneggevole. Si ha già tutto quello che serve per rendere il
mondo migliore. E lei sa, signore, chi può mostrare il cammino?
Voi! Voi ebrei! Proprio perché state male. Voi non avete niente
da perdere. Voi potete creare in questa terra un laboratorio per
l’umanità; là, dove noi eravamo, sull’antica terra crearne una
moderna. Una vecchia terra nuova (p. 41).
Alla prospettiva nietzscheana del rinnovamento attraverso il
dolore si unisce, nei riferimenti all’«Altneuland» disseminati nel
testo, la dimensione progettuale che, con forti innesti positivistici9,
8
Qui e di seguito (con il numero di pagina tra parentesi nel testo) si cita
la versione italiana di Altneuland, Vecchia terra nuova, a cura di R. Ascarelli,
Bibliotheca Aretina, Roma 2012.
9
Herzl scrive: «I veri fondatori di questa terra così antica e così nuova –
disse David – sono stati i tecnici che hanno realizzato gli impianti. La bonifica
delle paludi, l’irrigazione dei terreni aridi e, inoltre, l’insieme delle centrali
elettriche, queste sono le cose che hanno avuto davvero grande importanza»
(p. 168).
12
tradurre un titolo e realizzare un’utopia
testimonia la volontà di progresso del popolo ebraico, destinata a
contagiare il mondo intero10:
Eppure penso che questa terra così vecchia e così nuova non si
possa comprendere se ci si limita a costatare che tutte le iniziative e le istituzioni che vi sono già vi erano quando noi abbiamo
abbandonato il mondo civilizzato [...]. E da tutto questo si è
sviluppato comunque qualcosa di nuovo. Questa vecchia terra
nuova è qualcosa di più, deve essere qualcosa di più di una sintesi
di tutti i progressi sociali e tecnici del passato (p. 194).
Le traduzioni che accompagnarono nei paesi europei l’incerto
successo di questo romanzo disorganico e commovente cercano
un compromesso tra il valore progettuale del titolo e la difficoltà
di rendere in modo sensato e, insieme, coinvolgente quella concatenazione di parole. La resa ‘militante’ di un titolo ‘militante’ in
un romanzo-manifesto, come è Altneuland per il suo autore e per
gran parte del movimento, diventa così oggetto di una «infedeltà
programmata»11, più volte commessa dai traduttori - traduttori in
genere sionisti - per garantirsi «un’azione sul pubblico», farlo avvicinare senza resistenze al libro e quindi spingerlo a condividerne
gli obiettivi12.
10
Cfr. M. Buber, Israel und Palästina. Zur Geschichte einer Idee (1950), trad.
it. di P. Gonnelli, Sion. Storia di un’idea, Marietti, Milano 1964, pp. 87-90.
11
G. Raboni, Giovanni Raboni (ovvero tradurre per amore), in A. Dolfi (a
cura di), Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento, Bulzoni, Roma 2004, pp.
625-628, qui p. 627.
12
G. Genette, Soglie (1987), trad. it. Einaudi, Torino 1989, p. 4. Bisogna
tener presente che in molti studi si rifiuta la parola «traduzione» quando si
tratta di passare da un «source title» ad un «target title» e si preferisce parlare
di «adattamento», «trasposizione» o sostituzione, nella prospettiva che ci debba
essere comunque una equivalenza tra fonte e destinazione. Su questo aspetto si
rimanda inoltre a C. Bucaria, What’s in a title? Transposing Black Comedy Titles
for Italian Viewers, in C. Valero-Garcés (ed.), Dimensions of Humour. Explorations
in Linguistics, Literature, Cultural Studies and Translation, PUV, Valencia 2010,
pp. 333-359 e H. Levin, The Title as a Literary Genre, in «The Modern Language
Review», 72, 4 (1977), pp. 23-36.
13
roberta ascarelli
Con l’edizione russa del 1903, che segue di solo un anno l’uscita del volume in Germania per i caratteri di Seemann a Lipsia
inizia una lunga serie di tradimenti descrittivi in cui le esigenze di
propaganda e la personale adesione dei traduttori e degli editori al
progetto herzliano (oltre all’esigenza di adeguarsi alle aspettative
dei lettori, spesso diverse a seconda dei luoghi e delle culture della
diaspora13) hanno la meglio sul rigore traduttivo.
Obnovliennay strana (Altneuland), La terra rinata14 è il titolo
scelto dall’anonimo traduttore di Kiev che sacrifica la filologia alla
«accettabilità» e alla comprensibilità del messaggio15. Oltre all’infedeltà, vi è in questo caso una violazione della prospettiva teorica
dell’autore, e cioè la convinzione che fosse possibile dar vita,
nell’intreccio dei tempi, a una realtà che non avesse eguali nella
storia del mondo. Si perde inoltre l’effetto originale di sorprendesa
e di stupore, che Herzl aveva affidato al composto ‘altneu’ e ciò che
rimane è solo una generica idea di rinnovamento.
Se Baal-Makhshoves (ovvero Israel Isidor Eljaschoff) nel 1905
può esercitare nella versione jiddisch un assoluto rispetto per l’ori La trasformazione del titolo di un testo in traduzione è fenomeno
largamente diffuso e ampliamente studiato: «The practice of book titles
translation is often characterized by a lack of semantic equivalence….between
the source title and the target title», scrive M. Viezzi in P. Kujamäki (et al.
ed.), Beyond Borders: Translations Moving Languages, Literatures and Cultures,
Frank & Timme, Berlin 2011, pp. 183-195, qui p. 183. Cfr. inoltre A.
Rothe, Der literarische Titel, cit., p. 124. Inoltre sulle riflessioni sul carattere
«kulturspezifisch» dei titoli si rimanda a C. Nord, Einführung in das funktionale
Übersetzen: am Beispiel von Titeln und Überschriften, Franke, Tübingen-Basel
1993, in part. pp. 5, 28 e 131. Nord altrove afferma che la «information about
the genre which in the source culture is given by the author’s name is shifted
to the title in the target-language formulation» (C. Nord, Translation as a
process of linguistic and cultural adaptation, in C. Dollerup – A. Lindegaard,
Teaching Translation and Interpreting. Insights, Aims, Visions, John Benjamins,
Amsterdam-Philadelphia 1994, 59-67, qui p. 64).
14
Pubblicato senza l’indicazione dell’editore e senza il nome del traduttore,
Kiev 1903.
15
Cfr. B. Osimo, Traduzione e qualità, Hoepli, Milano 2004, p. 35. Come
scrive Maiorino «interpretation begins with the title, which is the seed that
contains the tree» (G. Maiorino, First Pages. A Poetics of Titles, The Pennsylvania
State University Press, University Park PA 2008, p. 2).
13
14
tradurre un titolo e realizzare un’utopia
ginale scegliendo un omogeneo Altneyland (anche se il traduttore sente l’esigenza di aggiungere un rematico Roman, seguito in
questo da molti)16, è soprattutto grazie alla lingua di arrivo – lo
jiddisch è infatti particolarmente generoso per storia e tradizione
con i neologismi e le commistioni semantiche –, nelle altre versioni si predilige quanto più possibile la chiarezza e quando, invece,
si rimane aderenti all’originale, si sceglie di spezzare ‘Altneuland’
preferendo, in genere, al banale vecchio/nuovo il più idealizzabile
composto antico/nuovo.
In Romania, nel 1916, Horia Carp scioglie così il composto
‘alt’ e ‘neu’ per garantire un’immediata appropriazione interpretativa da parte del lettore aggiungendo però, come spesso accade,
anche il titolo originale: Ţară veche – nouă. Altneuland 17 (ancora
di più prevale l’esigenza di chiarezza in una seconda edizione
rumena dal titolo Ţară veche – Ţară nouă. Altneuland). Più creativo quello scelto invece nel 1919 dal traduttore olandese R.J.
Spitz che, con spirito romantico, mette in ombra senza troppi
rimpianti l’attivismo programmatico del romanzo di Herzl: Het
land der droomen (Alt-Neuland)18, La terra dei sogni, per poi,
citando il titolo originale, separare il composto.
I titoli, come quello di Spitz, che accentuano la prospettiva utopica – proprio quella che Herzl esplicitamente negava19 –
16
Senza casa editrice, né luogo, né data[ma 1902]. Il testo viene ripubblicato
a Berlino nel 1921 per i caratteri di B. Harz.
17
Ed. societății culturale Șaron, Bucarest 1916. Nel 1937 si sente l’esigenza di un
titolo più esplicito (anche se l’originale rimane tra parentesi a garantire – come accade
con una certa ricorrenza – il rispetto della volontà dell’autore e, quindi, la fedeltà del
traduttore) Ţară veche – ţară nouă (Altneuland): roman, a cura di M. Moscovici –
L.B. Wechsler, Editura Organizatiei sioniste din România Centrală culturală,
Bucarest 1937.
18
«De Zonnebloem», Apeldoorn 1919.
19
Alla conclusione del romanzo che si apriva con un potente invito all’azione
(«Se lo volete non è un sogno», scrive Herzl) si leggono alcune frasi che espungono
nettamente la prospettiva dell’utopia e della favola: «Adesso, dopo tre anni di
lavoro, ci dobbiamo separare e cominciano i tuoi dolori, mio caro libro. Attraverso
inimicizie e contrasti, quasi come attraverso un bosco oscuro, dovrai trovare la tua
strada. Ma quando sarai arrivato da gente amichevole, salutala da parte mia che
sono tuo padre. Tuo padre è convinto che sognare sia comunque il compimento
del tempo che trascorriamo sulla terra. Il sogno non è così diverso dall’agire, come
15
roberta ascarelli
sono segnali della crisi del movimento sionista che ha perso la sua
concretezza politico-diplomatica e si interroga, invece, sul senso
del Rinascimento ebraico, o sulle prospettive di vita socialista nella
lontana Palestina, rimandando a un domani sempre più lontano
l’organizzazione di un grande movimento di massa che riportasse
gli ebrei nella Terra promessa.
Non stupisce quindi che, alla fine degli anni Venti, nell’edizione polacca si aggiunga l’indicazione che si tratta di un romanzo
utopico, mentre del titolo del 1902 non rimane praticamente nulla,
al di là di una generica allusione a una ri-nascita tutta da realizzare:
U wrót nowego zycia – (Altneuland): powiesc-utopja si legge sulla
copertina (Alle porte di una nuova vita – (Altneuland): romanzo –
utopia)20.
Nel 1928, in una prima edizione francese, l’anonimo traduttore preferisce, con una scelta piuttosto libera per quanto
riguarda la congruenza con l’originale21 (ma dal forte impatto
propagandistico), il nome di uno dei protagonisti, il giovane
sionista che ha contribuito a costruire con il suo lavoro e il
suo impegno politico-sociale la ‘Nuova società’ (aggiungendo poi tra parentesi l’ormai consueto riferimento al titolo
tedesco) David Littwak («Altneuland»)22. Le varie proposte
dell’editoria francese sciolgono in vario modo, dopo il 1928,
ma senza troppa creatività, il composto ‘vecchionuovo’ anche
perché il titolo e il romanzo hanno ormai conquistato una loro
convenzionalità anche nel mondo francofono: Terre nouvelle,
terre ancienne appare nel 1931 per i caratteri di Rieder, quindi
alcuni credono. Ogni azione degli uomini è stata un sogno e lo ridiventerà» (p.
211).
20
Freid, Warszawa [s.d. ma 1928]. Da notare che alcune versioni successive
del romanzo in lingua tedesca aggiungono lo stesso sottotitolo definendolo un
‘romanzo utopico’ (ed. Nordstedt 2004, che presenta un titolo particolarmente
ampliato: AltNeuland. Tel Aviv: Ein utopischer Roman; l’edizione pdf on line
HaGalil; l’edizione Hoffenberg, Berlin 2015).
21
Cfr. A. Rothe, Der literarische Titel, cit., pp. 176-183.
22
Editions «L’Avenir Illustré», Casablanca 1928.
16
tradurre un titolo e realizzare un’utopia
Nouveau pays ancien ad opera di L. Delau e J. Thursz23 e, infine, Pays
ancien, pays nouveau (Altneuland): roman a cura di P. Giniewski24.
Così in inglese sarà Old new Land nella traduzione di Lotta Levensohn per Bloch Publishing & Co. del 194125 e Old-new-land: novel
a cura di Paula Arnold nel 196026.
L’unica traduzione in spagnolo del romanzo, pubblicata nel
1944 a Buenos Aires, trasforma in un moderno «patria» la parola
«terra», pur così ricca di echi nel mondo ebraico: Vieja y nueva
patria. Altneuland 27, mentre per l’edizione italiana del 2012, si è
deciso di sciogliere il composto «vecchio» – «nuovo», tentando però
di restituire al titolo la sua originale increspatura letteraria e un po’
della sua eccentricità con un assemblamento inusuale: Vecchia terra
nuova.
Ma la più infedele delle traduzioni è anche la più interessante.
Nell’anno della prima pubblicazione in Germania, il libro viene
stampato anche in ebraico a cura di un noto intellettuale, Nachum
Sokolow, che sarebbe diventato di lì a poco il segretario generale
del congresso sionista, un giornalista di fama, redattore del quotidiano Ha­Tzefira (oltre che di numerosi periodici ebraici di Varsavia) e tra i promotori della dichiarazione Balfour nel 1917.
Il titolo scelto da Sokolow, che si inserisce autorevolmente con
la sua formazione rabbinica e la sua visione del mondo nel processo
traduttivo, accentua, nel distacco dall’originale, l’aspetto profetico
23
Degli stessi traduttori, ma per una nuova edizione, troviamo Terre ancienne,
terre nouvelle Slatkine, Paris-Genève 1980.
24
Stock, Paris 1980. «Anche in questo caso, c’è alla base un fenomeno noto:
i titoli tradotti nascono spesso non una, ma due o addirittura più volte. Anche
quando la traduzione del libro rimane la stessa. I due motivi della rinascita sono,
tipicamente, l’ammodernamento della lingua e, appunto, il ripristino di una
fedeltà all’originale che si ritiene, a quel punto, dovuta» (M. Bricchi, Tradurre,
re-inventare, ritradurre titoli, in S. Arduini – I. Carmignani, a cura di, Giornate
della traduzione letteraria 2012, Marcos Y Marcos, Milano 2013, pp. 67-75, qui
p. 73).
25
Ripubblicato con lo stesso titolo da M. Wiener, Princeton, N.J., 1997.
26
Haifa publishing company, Haifa 1960.
27
M. Gleizer, Buenos Aires 1944.
17
roberta ascarelli
del testo. Invece di mettere in evidenza il rapporto tra tradizione e
sviluppo così nodale nel testo herzliano, sceglie per i suoi lettori28
un titolo che colloca il romanzo e il suo progetto nella tradizione
del Libro: è Tel Aviv, la collina di primavera alla quale si accenna
in un passo di Ezechiele (3, 15).
Non si tratta nella Scrittura di un luogo di rinascita e di rinnovamento – come suggerivano tante altre traduzioni di «Altneuland» –
ma semmai di una terra di esilio nella quale Ezechiele profetizza
la distruzione di Gerusalemme ad opera di Nabucodonosor come
punizione di Dio verso la casa ribelle di Israele.
4 Poi egli mi disse: «Figlio dell’uomo, va», recati dagli Israeliti
e riferisci loro le mie parole, 5 poiché io non ti mando a un
popolo dal linguaggio astruso e di lingua barbara, ma agli Israeliti: 6 non a grandi popoli dal linguaggio astruso e di lingua
barbara, dei quali tu non comprendi le parole: se a loro ti avessi
inviato, ti avrebbero ascoltato; 7 ma gli Israeliti non vogliono
ascoltar te, perché non vogliono ascoltar me: tutti gli Israeliti
sono di dura cervice e di cuore ostinato. 8 Ecco io ti do una
faccia tosta quanto la loro e una fronte dura quanto la loro
fronte. 9 Come diamante, più dura della selce ho reso la tua
fronte. Non li temere, non impaurirti davanti a loro; sono una
genìa di ribelli».
10 Mi disse ancora: «Figlio dell’uomo, tutte le parole che ti dico
accoglile nel cuore e ascoltale con gli orecchi: 11 poi va’. recati dai
deportati, dai figli del tuo popolo, e parla loro. Dirai: Così dice il
Signore, ascoltino o non ascoltino».
12 Allora uno spirito mi sollevò e dietro a me udii un grande
fragore: «Benedetta la gloria del Signore dal luogo della sua
dimora!». 13 Era il rumore delle ali degli esseri viventi che le
battevano l’una contro l›altra e contemporaneamente il rumore
delle ruote e il rumore di un grande frastuono. 14 Uno spirito
dunque mi sollevò e mi portò via; io ritornai triste e con l›animo
eccitato, mentre la mano del Signore pesava su di me. 15 Giunsi
dai deportati di Tel-Avìv, che abitano lungo il Chebàr, dove
Da notare che coloro che avrebbero preferito leggere il romanzo in ebraico
piuttosto che in jiddisch o nelle lingue dei paesi di residenza potevano sicuramente
vantare profonde competenze di studi ebraici.
28
18
tradurre un titolo e realizzare un’utopia
hanno preso dimora, e rimasi in mezzo a loro sette giorni come
stordito.
Eccentrico rispetto alla visione del mondo di Herzl e distante dalla costellazione del Sionismo realizzato che Altneuland
minuziosamente descrive, questo riferimento biblico – che l’autore non contesta pensando, probabilmente, al suo potere evocativo per il pubblico che avrebbe letto questa versione – poteva
comunque essere oggetto di riflessione per i dotti che immaginavano il ritorno, anche a dispetto della durezza della profezia: che
la «salvezza» annunciata nel romanzo si rivolgesse ad un popolo
di esuli, minacciati e dal futuro incerto, crea un nesso evidente
tra l’esilio babilonese e la moderna diaspora, insieme a un legame
significativo tra l’antico e il nuovo «ritorno»29, l’antica e la nuova
vicenda dell’ebraismo.
Passato e presente si incontrano possenti nella voce del profeta,
legati dalla forza della ripetizione e dalla abitudine a interrogare
le pagine della Scrittura in cerca delle costanti della storia ebraica,
secondo un procedimento che il romanzo herzliano dimostra di
condividere30. Basteranno allora il riferimento metaforico alla
primavera e alla consistenza materica di una collina per rappresentare l’incontro tra ciò che è immutabile e ciò che, invece, si
trasforma secondo le leggi della natura, i diritti della vita e i voleri
del Cielo.
Si tratterebbe solo di un titolo tradotto avventurosamente se,
nel 1910, i coloni che avevano realizzato un nuovo insediamento
urbano alle porte di Jaffa non avessero deciso, dopo lunghe discussioni e su consiglio di Menachem Sheinkin, il coordinatore dell’uf29
Vi sono del resto degli interessanti rispecchiamenti tra l’antica e la nuova
storia: il ritorno dall’esilio babilonese anticipa di poco la costruzione del Tempio
che il Sionismo di Herzl voleva nuovamente edificare e solo parte degli ebrei
decide nel 539 di ritornare nella Terra dei padri, così come solo una parte di ebrei
della diaspora avrebbe deciso di andare, secondo Herzl, nella nuova Palestina.
30
Basta pensare al lungo capitolo dedicato nel romanzo di Herzl al Seder di
Pesach che termina con il racconto del nuovo Esodo: la nuova ‘colonizzazione’
della Palestina
19
roberta ascarelli
ficio immigrazione della città, di chiamare il quartiere con i suoi
600 abitanti proprio Tel Aviv31, la collina della primavera, con un
riferimento entusiastico a quel romanzo e al suo autore troppo
presto scomparso.
All’inizio vi erano poche case ottocentesche tra le dune di sabbia
a nord di Jaffa poi, nel 1909, sessanta famiglie, guidate da Meir
Dizengoff, un intraprendente sionista moldavo, si erano riunite
sulla spiaggia e avevano estratto a sorte il lotto di sabbia che spettava a ciascuna per costruirvi un nuovo nucleo abitativo. Il modello
era mutuato idealmente dall’Inghilterra: si pensava a un quartiere
con amministrazione indipendente di circa cento case, circondato
da una cintura verde e dotato di molti servizi, con innesti ideali
che, già evidenti nel progetto dell’architetto Wilhelm Stiassny e
nel riferimento al romanzo di Herzl, definiva un agglomerato che,
senza storia, potesse crescere nell’incontro con l’utopia. È la prima
città moderna della nuova Palestina ed è anche l’unica a prendere
il nome dal titolo di un libro32.
Herzl, le prophète des boulevards, comme l’appellent, sans
révérence, Jérôme et Jean Tharaud, avait vu, dans l’un de ses
rêves, la première ville juive s’élever doucement des bords de
la Méditerranée, et frapper les regards comme une colline
printanière. Tel-Aviv ! la colline du Printemps, la voici!33.
Se si leggono le pagine di Altneuland che descrivono gli insediamenti nella ‘vecchianuova’ terra appare chiaro che, al di là del
nome, nella costruzione di Tel Aviv i coloni si sono lasciati guidare
dalle suggestioni di quel romanzo:
Mai nella storia sono state costruite delle città così in fretta e così
bene come è avvenuto qui, perché mai gli uomini avevano avuto
31
Cfr. I. Meyboh, David Wolffsohn. Aufsteiger, Grenzgänger, Mediator: Eine
biographische Annäherung an die Geschichte der frühen Zionistischen Organisation,
Vandenhoek & Ruprecht, Göttingen 2013, p. 329.
32
J. Schlör, Tel Aviv. Vom Traum zur Stadt, Bleicher Verlag, Gerlingen 1996.
33
A. Londres, Le juif errant est arrivé (1929), ora in La Bibliothèque
électronique du Québec, http://beq.ebooksgratuits.com/classiques/Londres-errant.
pdf, p. 251.
20
tradurre un titolo e realizzare un’utopia
a disposizione mezzi tecnici così avanzati. Nel mondo civilizzato
alla fine del XIX secolo le potenzialità erano immense. È stato
sufficiente utilizzare qui tutte le innovazioni (p. 48).
E ancora:
Davanti a loro vi era una grande piazza, circondata da edifici imponenti con portici ad arco. Nel centro, un palmeto recintato da una
cancellata. Le palme, qui un albero comune, erano dappertutto:
a destra, a sinistra e anche ai margini della strada che conduceva
verso la piazza. Si intuiva subito che queste palme avevano una
doppia funzione: di giorno, dispensavano ombra e, di notte, luce
dai lampioni elettrici che pendevano dai loro rami simili a grandi
frutti vitrei… La piazza si chiamava piazza del Popolo e, di fatto,
lo era, non soltanto per suoi edifici, ma anche per la gran folla che
vi era radunata (p. 50).
E se Adamo ebbe la possibilità di dare il nome alle cose, nella
moderna città, «creata» da un’opera letteraria, gli ebrei ebbero
dopo lunghi secoli la possibilità di dare i nomi alle strade – ed
erano i nomi della loro tradizione34.
34
«Et les Juives? Elles ont jeté leur perruque aux ordures, coupé leurs cheveux
et mis leurs seins au vent! C’est une métamorphose. Avenue Herzl! Boulevard
Edmond-de- Rothschild! Rue Max-Nordau! La synagogue, monument central, que
l’on achève, semble tout dire. C’est le drapeau flottant sur le camp […]. D’abord
vous avez pensé que Tel-Aviv, si jeune, ne pouvait être qu’un noyau de maisons,
une petite cité dont un regard ferait aisément le tour. La surprise gagne peu à
peu votre esprit. Où vous supposiez trouver le bout du monde naît un boulevard.
Les haies de maisons succèdent aux haies de maisons. Un camp, peut-être, mais
non un camp volant. Il y a des arbres! La colline du Printemps est tracée, sans
monotonie. Rien des damiers américains. Les rues, les places, les boulevards, les
avenues se rencontrent, avec fantaisie. C’est clair, large, ensoleillé, tout blanc. C’est
gai. On y sent la volonté acharnée d’oublier le ghetto. Il est seulement surprenant
de ne pas voir tous ces Juifs plantés sur les trottoirs, la bouche ouverte, et buvant
amoureusement la liberté» (ivi, pp. 253-254). Cfr. inoltre E. Loewenthal, La
nuvola nera, Feltrinelli, Milano 2009, p. 138.
21
Al sorteggio della terra (1909)
Il progetto urbanistico di Wilhelm Stiassny (1909)
Riccardo Castellana
‘Changeling’, ‘Wechselbalg’, ‘canciatu’.
Tradurre il folklore passando per la letteratura
1.
Un mito folklorico e i suoi riflessi letterari
Grosso modo dai tempi di Spenser e di Shakespeare, la parola
changeling (che in inglese vuol dire molte cose: ‘persona o cosa
scambiata per qualcun altro o qualcos’altro’, ‘persona volubile e
incostante’, ‘idiota’) ha assunto nella lingua scritta un significato
specifico che, nei secoli a venire, avrà molta fortuna, sia in letteratura sia negli studi di antropologia culturale. Nella Faerie Queene
(1590) come in A Midsummer Night’s Dream (1595), e nel folklore
britannico cui tanto Spenser quanto Shakespeare devono tantissimo, un changeling è un «bambino segretamente sostituito in culla
ad un altro», e in particolare «un bambino (di solito stupido e
particolarmente brutto) che si suppone lasciato da esseri fatati in
cambio di un altro bambino che loro stessi hanno rapito»1.
Ho studiato altrove2 la rilevanza antropologico-letteraria di
questo mito folklorico dai molti possibili significati: spiegazione
«magica» della malattia e del ritardo mentale secondo l’antropologia positivista, a una lettura contemporanea più attenta alle dinamiche «emiche» e ai problemi dell’antropologia interpretativa offre
soprattutto gli estremi per una riflessione sull’identità, e persino sul
concetto di umanità, nelle società premoderne, dato che nel folk1
Cfr. Oxford English Dictionary (OED) ad vocem. Traduco dall’edizione on
line (http://www.oed.com).
2
R. Castellana, Storie di figli cambiati. Fate, demoni e sostituzioni magiche tra
letteratura e folklore, Pacini, Pisa 2014.
riccardo castellana
lore il «sostituto» è normalmente un folletto o un nano, una creatura fatata che per magia somiglia al bambino rapito, ma non è un
bambino e soprattutto non è un essere umano. In questa sede vorrei
ritornare, piuttosto, su alcuni problemi relativi alla traduzione del
termine changeling. Problemi che non riguardano gli etnologi (i
quali, indipendentemente dall’idioma in cui scrivono, sono legittimati ad adottare il termine inglese, ormai accreditato nella letteratura
scientifica) ma che appaiono piuttosto interessanti per chi si occupi
di traduzioni letterarie verso l’italiano. A differenza delle lingue del
Nord Europa, che hanno (o hanno avuto) quasi tutte un equivalente semantico perfetto (si confronti il tedesco Wechselbalg, il danese
skifting, lo svedese bortbyting, ma anche l’antico francese chanjon o
changeon), la nostra lingua non possiede un traducente adatto e deve
ricorrere a perifrasi che non sempre rendono trasparente quello che,
a un lettore inglese o tedesco, è (o dovrebbe) apparire un immediato
rinvio al mondo della fiaba, della leggenda e del folklore.
Diversamente (per fare un esempio su cui nel libro insisto
molto perché la critica hoffmaniana non vi ha prestato, a quanto
ne so, alcuna attenzione), si capirà ben poco della figura dello sgraziato, stupido e minuto protagonista che in virtù di un incantesimo appare a tutti come un giovane brillante e di successo in Klein
Zaches genannt Zinnober (1819) di E.T.A. Hoffmann. Quando,
nell’esordio, la madre di Zaches dice:
Diebe stahlen das Geld, Haus und Scheune brannten uns über
dem Kopfe weg, das Getreide auf dem Acker zerschlug der Hagel,
und um das Maß unseres Herzeleids vollzumachen bis über den
Rand, strafte uns der Himmel noch mit diesem kleinen Wechselbalg, den ich zu Schand und Spott des ganzen Dorfs gebar.
I ladri ci rubarono il denaro, la casa e il granaio s’incendiarono
sopra di noi, il grano nel campo fu colpito dalla grandine e per
colmare la misura delle nostre sventure il cielo ci punì con questo
mostricciattolo che io misi al mondo a vergogna e ludibrio di
tutto il villaggio3.
E.T.A. Hoffmann, Klein Zaches genannt Zinnober. Ein Märchen, Reclam,
Stuttgart 2004, pp. 5-6. La traduzione italiana che utilizzo (l’unica a non essere
fuori catalogo nel momento in cui scrivo) è quella di Ervino Pocar (Il piccolo
3
24
tradurre il folklore passando per la letteratura
è legittimo presumere che Hoffman avesse in mente la lettura,
peraltro freschissima, delle Deutsche Sagen dei fratelli Grimm
(1816-1818), le quali costituiscono lo sfondo culturale del suo
romanzo ed offrono, soprattutto, un modello preciso al suo
«Wechselbalg umoristico», come egli stesso definisce Zaches in una
lettera4. Ma è chiaro che rendere la parola Wechselbalg con un generico ‘mostricciattolo’, come fa Ervino Pocar, non serve a molto:
offre, certo, una soluzione pratica alle comprensibili esigenze del
traduttore, ma non restituisce affatto la complessa risonanza folklorica del termine, che qui mi pare la cosa più importante.
2.
Shakespeare e dintorni
Nel decimo canto del Primo libro della Regina delle Fate (1590)
di Edmund Spenser, la bella Una conduce il Cavaliere della Rossa
Croce presso la casa della saggia matrona Celeste, madre di Fede,
Speranza e Carissa. Qui, finalmente, il cavaliere errante conosce
dalle parole di Contemplazione la sua vera l’identità:
65
For well I wot, thou springiest form ancient race
Of Saxon kinges, that hate ith mighty hand
And many bloody battailes fought in place
High reared their royal throne in Britans land
And vanquish them, viable to withstand:
From thence a Faery thee vnweeting reft,
There as thou slept in tender swadling band,
And her base Elfin brood there for thee left.
Such men do Chaungelings call, so chaungd by Faeries theft.
66
Thence she thee brought into this Faery lond,
And in an heaped furrow did thee hyde,
Zaches, detto Cinabro, in E.T.A. Hoffmann, Il vaso d’oro e altri racconti, introd. di
C. Magris, Garzanti, Milano, 2006 [1a ed. 1969]).
4
R. Castellana, Storie di figli cambiati, pp. 116 ss.
25
riccardo castellana
Where thee a Ploughman all vnweeting fond,
As he his toilsome teem that way did guide,
And brought thee vp in ploughmans state to byde,
Whereof Georgos he thee gaue to name;
Till prickt with courage, and thy forces pryde,
To fary court thou cam’st to seeke for fame,
And proue thy puissaunt armes, as seemes thee best became.5
La bella traduzione metrica di Izzo degli anni Cinquanta rende
queste due stanze così:
LXV
Io so per certo che d’antico ceppo
Tu nascesti di re sassoni, i quali,
Vinta ogni vana resistenza opposta,
Con salda mano e sanguinose lotte,
Eressero in Britannia il loro trono.
Mentre dormivi in bianche fasce avvolto,
Fosti di lì rapito da una Fata,
Che in tuo luogo lasciò un suo folletto:
Di quelli che la gente chiama strambi,
E usano le Fate in tali scambi.
LXVI
Ti condusse di poi in questa terra,
E ti nascose in un profondo solco,
Dove, guidando il faticoso aratro,
Te ritrovò un bifolco, che, secondo
Il suo stato allevando, a te di Giorgio
Impose il nome dall’agreste suono.
Il tuo cuore orgoglioso ti sospinse,
Infine, a quella Corte, dove ambivi
Spiegare il tuo stendardo di vittoria,
E coprire le tue armi di gloria”.6
5
E. Spenser, The Faerie Qveene, ed. by A. C. Hamilton, Pearson Longman,
Harlow 2007.
6
E. Spenser, La regina delle fate. Libro primo, versione col testo a fronte,
introd. e note di C. Izzo, Sansoni, Firenze 1954, p. 403-405.
26
tradurre il folklore passando per la letteratura
Il testo originale pone alcuni problemi di interpretazione letterale. Innanzi tutto: cosa significa esattamente il termine «Chaungeling», qui, e a chi (o cosa) è riferito? Due le risposte possibili,
a seconda del contenuto che si vuole legare al pronome «such»
(= ‘questi’), e di come si traduce l’ultimo verso della stanza 65:
«Such men do Chaungelings call, so chaungd by Faeries theft».
Izzo riferisce quel «such» ai folletti, e per ottenere la rima baciata
con «scambi» traduce l’intraducibile «changelings» con «strambi».
Nella sua recentissima versione in prosa, invece, Luca Manini
attribuisce «such» a coloro che sono stati scambiati dalle fate, come
San Giorgio: «trovatelli li chiamano gli uomini, questi bambini
scambiati per furto di fata»7. Si noti l’aggiunta della parola ‘bambini’,
implicita sia nel significato di changeling sia in quello di ‘trovatello’.
Ma la resa di «Chaungelings» con ‘trovatelli’ appare quantomeno
arbitraria, dato che solo nella stanza successiva Contemplazione
dirà a San Giorgio che, quando era un bambino, era stato trovato
dall’Aratore («Ploughman»). Prima della stanza 66 Giorgio è solo
un changeling e non ancora (anche) un ‘trovatello’ (foundling).
Volendo optare per una traduzione di servizio, si sarebbe forse
potuto rendere il tutto, con una perifrasi un po’ pesante ma più
chiara, così: «la gente (‘men’) chiama costoro (‘such’) changelings
perché sono stati scambiati da bambini in conseguenza del furto
operato dalle fate (‘so chaungd by Faeries theft’)». E però il problema di fondo resterebbe irrisolto anche così, perché la perifrasi non
rende affatto le risonanze folkloriche dell’originale.
Ricapitolando, per Izzo il changeling (lo ‘strambo’) è il folletto, per Manini San Giorgio bambino. La prima soluzione può
tra l’altro poggiare sull’autorità dell’Oxford English Dictionary:
«A child secretly substituted for another in infancy; esp. a child
(usually stupid or ugly) supposed to have been left by fairies in
exchange for one stolen» («Un bambino segretamente sostituito a
un altro nella primissima infanzia; in particolare un bambino, di
solito stupido o particolarmente brutto, che si crede sia stato lasciato dalle fate in cambio di un altro rapito»). L’OED elenca tra gli
7
E. Spenser, La regina delle fate, introd. di Th. P. Roche, trad., note e guida alla
lettura di L. Manini, Bompiani, Milano 2012, p. 283.
27
riccardo castellana
esempi esattamente il passo in questione di The Faerie Queene; ma
aggiunge anche che nel Sogno di una notte di mezza estate (1595) il
sostantivo è riferito «al bambino rapito e non a quello lasciato». E
se tale uso è in Shakespeare, non è improbabile, a mio avviso, che
lo sia stato pochi anni prima anche in Spenser. Il che significherebbe che nell’inglese del tardo Cinquecento il significato della parola
non si era ancora stabilizzato e che il changeling poteva essere tanto
il bambino rapito quanto il suo sostituto fatato, come è perfettamente possibile che sia anche nel passo spenseriano qui esaminato.
E passiamo appunto a Shakespeare. Nel Sogno di una notte di
mezza estate, come si sa, Oberon e Titania sono in lite tra loro per
via di un fanciullo senza nome caro alla Regina delle Fate. È per
distogliere costei dal pensiero dell’amato giovinetto che Oberon
le fa somministrare da Puck il filtro d’amore che la farà invaghire di Bottom. Ma di tale misterioso personaggio, che stando alle
didascalie non compare mai in scena e che nella commedia non ha
nome né diritto di parola, si dice solo (II,1) che è un principino
indiano, figlio di un re e di una vestale («votress») dell’ordine di
Titania morta di parto; e che è per amore della sua adepta che
Titania ha deciso di rapirlo, allevarlo e non separarsene mai («And
for her sake do I rear up her boy / And for her sake I will not part
with him»), nonostante, appunto, le insistite richieste di Oberon
di averlo al suo seguito. Sul significato simbolico di questa figura
nel contesto del play shakespeariano ho avanzato qualche ipotesi
interpretativa in Storie di figli cambiati (pp. 98 ss.). Mi limito qui
a riprendere la questione traduttoria.
Dobbiamo anzitutto notare come Shakespare usi in modo
inequivocabile il termine changeling per indicare il fanciullo rapito,
sfruttando la duplicità semantica del termine ancora possibile in
età elisabettiana, quando questo poteva designare tanto il sostituto
magico (il changeling vero e proprio, come sarà di norma nei secoli
successivi) quanto il bambino rapito. Puck:
For Oberon is passing fell and wrath,
Because that she [=Titania] as her attendant hath
A lovely boy, stolen from an Indian king;
She never had so sweet a changeling;
28
tradurre il folklore passando per la letteratura
And jealous Oberon would have the child
Knight of his train, to trace the forests wild;
But she perforce withholds the loved boy,
Crowns him with flowers and makes him all her joy.
La traduzione in prosa di Gabriele Baldini (una delle più note e
diffuse in Italia) rende il tutto come segue:
ché Oberon è al colmo dell’ira: e tutto questo a causa d’un ragazzo
bellissimo ch’ella ha rubato a un re indiano e che s’è presa come
paggio. Non ne ha mai avuto uno più caro e l’invidioso Oberon
vorrebbe averlo lui, invece, tutto per sé, fra i cavalieri del suo
seguito, per batter la foresta selvaggia innanzi al suo passaggio.
Ma essa trattiene a forza il bel ragazzo, lo incorona di fiori e vi
concentra tutto il suo piacere8.
Ora, Baldini non prova neppure a rendere changeling con un
equivalente italiano e, anzi, lo ignora totalmente, ricorrendo a un
partitivo («ne») che si ricongiunge tautologicamente a «paggio»,
eludendo il problema traduttorio.
Né le cose vanno molto meglio nelle versioni italiane del Racconto d’inverno, dove la neonata Perdita è scambiata per un changeling
dal pastore che la trova abbandonata accanto a una cassetta colma
d’oro, e che così si rivolge al figlio incredulo:
Take up, take up, boy; open it. So, let’s see. It was told me I should
be rich by the fairies. This is some changeling. Open’t. What’s
within, boy?
[…]
This is fairy gold, boy, and ’twill prove so. Up with’t, keep it close.
Perdita è dunque creduta un changeling, nel senso ambivalente che già conosciamo, e che è comune all’epoca elisabettiana, di
«figlia delle fate» (e dunque di essere fatato ella stessa), oppure «di
bambina (umana) rapita dalle fate». Si potrebbe, è vero, riferire
W. Shakespeare, A Midsummer Night’s Dream, II,1, vv. 20-28; Sogno di una
notte di mezza estate, trad. it. con testo a fronte di G. Baldini, Rizzoli, Milano
1981, p. 55.
8
29
riccardo castellana
changeling non a Perdita, bensì alla cassa d’oro lasciata insieme
alla bambina («This is some changeling. Open’t»), e in questo
caso il termine assumerebbe il significato di «cosa surrettiziamente deposta in cambio di qualcuno o qualcos’altro», oppure quello
astratto di ‘scambio’ (come in Hamlet V, ii, 54); e, tuttavia, sempre
di intervento delle creature fatate si tratterebbe.
Quanto di tutto ciò riesce a passare nelle traduzione italiane?
Agostino Lombardo rende il passo così, saltando anche lui a piè
pari, come Baldini nel Sogno, la difficoltà posta dal sostantivo:
prendi su, prendi su, ragazzo – apri. Su, vediamo: mi hanno detto
che le fate mi avrebbero fatto diventare ricco. Questa l’hanno
lasciata loro – apri. Cosa c’è dentro, ragazzo?
[…]
Questo è oro della fate, ragazzo, vedrai se non è vero. Su, e tieni
la bocca chiusa9.
E nell’unico altro passo del Winter’s Tale in cui occorre la parola
changeling, la soluzione avanzata non è molto migliore. Quando
infatti, sedici anni dopo, Perdita è diventata una bellissima fanciulla innamorata di Florizel, Polissene non gradisce le nozze segrete tra
il figlio e quella che crede una semplice pastora. Ed è perciò che il
fratellastro di Perdita si azzarda a suggerire al padre di dire la verità:
«There is no way but to tell the King she’s a changeling and none
of your flesh and blood». Anche in questo caso (esattamente come
nella versione di Manini della Faerie Queene, che forse in questo
caso si è basato proprio sulla soluzione adottata da Lombardo per
il Racconto) la traduzione di changeling appare di gran lunga insoddisfacente: «Non c’è altra via che dire al re che è una trovatella, e
in nessun modo vostra carne e sangue10». E stavolta è certamente
a Perdita (e non alla cassa) che si riferisce la parola changeling, con
un’allusione scoperta al presunto intervento delle fate che l’avreb9
W. Shakespeare, The Winter’s Tale, III,3; Il racconto d’inverno, trad. it. con
testo a fronte di A. Lombardo, in W. Shakespeare, I drammi romanzeschi, «Teatro
completo di W. Shakespeare», a cura di G. Melchiori, vol. VI, Mondadori, Milano
1981, p. 653.
10
W. Shakespeare, Il racconto d’inverno, IV,4, trad. it., cit., p. 721.
30
tradurre il folklore passando per la letteratura
bero scambiata alla nascita. Ma la resa con «trovatella» appare poco
fedele, perché la fanciulla non è, agli occhi del fratellastro e del
patrigno, un semplice foundling ma qualcosa di più: è una creatura
circondata di magia e di mistero, il frutto di uno scambio magico.
3.
Una favola di John Gay
John Gay è noto ai più, oggi, come l’autore della Beggar’s
Opera, ma nel Settecento la sua opera più conosciuta in Europa
erano le Fables, il cui primo volume apparve nel 1727 e il secondo,
postumo, nel 1738. Il loro successo fu tale che prima della metà
dell’Ottocento ne circolavano già 300 traduzioni, non solo nelle
principali lingue europee, ma anche in idiomi esotici come l’Urdu
e il Bengalese11. La prima versione italiana (della sola prima serie)
realizzata dall’abate Giovanfrancesco Giorgetti apparve già nel
1767 a Venezia per il Graziosi. Su questa è esemplata l’edizione
bilingue londinese del 177312, che comprende solo una selezione
di 42 favole: 9 in meno rispetto alla stampa veneziana, e disposte
in un ordine del tutto arbitrario. Tranne un’edizione ottocentesca,
le Fables non saranno più tradotte in italiano.
Ecco il testo per intero della favola n. 3, prima nell’originale poi
negli sciolti di Giorgetti:
The Mother, The Nurse, and the Fairy
Give me a son! The blessing sent,
Were ever parents more content?
How partial are their doting eyes!
No child is half so fair and wise.
Waked to the morning’s pleasing care,
The mother rose, and sought her heir.
5
11
J.E. Lewis, The English Fable. Aesop and Literary Culture (1651-1740),
C.U.P., Cambridge 1996, p. 162.
12
Fables of Mr. John Gay, with An Italian Translation, by Gian Francesco
Giorgetti, printed for T. Davies, in Russell Street, Covent-Garden, Bookseller to
the Royal Academy, London 1773.
31
riccardo castellana
She saw the nurse, like one possess’d,
With wringing hands, and sobbing breast.
«Sure some disaster hath befell:
Speak, nurse; I hope the boy is well».10
«Dear madam, think not me to blame;
Invisible the fairy came:
Your precious babe is hence conveyed,
And in the place a changeling laid.
Where are the father’s mouth and nose,
15
The mother’s eyes, as black as sloes?
See here a shocking awkward creature,
That speaks a fool in every feature».
«The woman’s blind», the mother cries;
«I see wit sparkle in his eyes».20
«Lord! madam, what a squinting leer;
No doubt the fairy hath been here».
Just as she spoke, a pigmy sprite
Pops through the key-hole, swift as light;
Perched on the cradle’s top he stands,
25
And thus her folly reprimands:
«Whence sprung the vain conceited lie,
That we the world with fools supply?
What! give our sprightly race away,
For the dull helpless sons of clay!
30
Besides, by partial fondness shown,
Like you we doat upon our own.
Where yet was ever found a mother,
Who’d give her booby for another?
And should we change for human breed, 35
Well might we pass for fools indeed»13.
La Madre, la Nutrice, e la Fata
Quai caldi voti per avere un figlio
Far soglion sempre li novelli Sposi?
Ma poi che il Ciel cortese a lor concesse
J. Gay, Fables, in Poetry and Prose, ed. by V.A. Dearing, Clarendon Press,
Oxford 1974, vol. I, p. 305; Le nuove favole di Giovanni Gay tradotte dall’originale
inglese, Graziosi, Venezia 1767, pp. 21-22.
13
32
tradurre il folklore passando per la letteratura
Il sospirato bene, i lor desiri
Son forse quindi più contenti, e paghi?
Quanto mai son parziali gli amorosi
Passionati lor sguardi! in tutto il Mondo
Fanciul non v’ha del suo più bello, e saggio.
Svegliata in su ’l mattin la Madre un giorno
Dal letto alzossi, e al dolce uffizio intenta
Sen gio trovare il caro Primogenito.
Quand’ecco a lei s’appresenta la Balia,
Ch’a guisa d’una pazza spiritata
Torcea le mani, e dal profondo petto
Fuor tramandava interrotti singhiozzi.
Certo, la Madre prese a dir, n’avvenne
Qualche sciagura; su via parla, o Balia:
Sperar io voglio, che stia bene il figlio.
Cara signora, quivi ella rispose,
Io non ci ho colpa, e ben pregar vi voglio
A non sgridarmi: una malvagia Fata
Sen venne qui, sotto invisibil forme;
E via portando il vostro amabil figlio,
Ne pose un altro assai diverso in cambio.
Ove mai son li paterni sembianti,
La di lui bocca, e ’l naso? ove mai sono
Gli occhi materni al par di prugna nere?
Ecco quivi un fanciul defforme, e brutto,
Ch’è un vero sciocco in tutti i suoi sembianti.
Cieca che sei, la Madre esclama all’ora,
Brillar lo spirto in que’ begli occhi i’ veggio.
Buon Dio! Signora, deh mirate un poco,
Rispose l’altra, come ha querci gli occhi:
La Fata senza dubbio è qui venuta.
Tacqu’ella a pena, quando ecco un Folletto
Presto, e legger pel buco de la chiave
Venuto entro a la stanza di repente,
Poi che adagiossi de la culla in cima,
Così lo stolto suo parlar riprese.
E d’onde nacque mai quest’opinione
Piena di falsitade, e di menzogna,
Che noi qui al Mondo con le nostri fraudi
Crescer facciamo de gli sciocchi il numero?
33
5
10
15
20
25
30
35
40
riccardo castellana
Certo da noi sariasi assai bel cambio,
Co’l dare altrui la nostra stirpe eletta,
Sì spiritosa per gli inutil, sciocchi
Figli di creta, che tra voi sì abbondano.
Quindi per forza ancora di quell’affetto,
Ch’a i propri parti dà la preferenza,
Al par di voi ci tenghiam cari i nostri.
E dove mai trovassi una tal madre,
Che per l’altrui dar voglia il proprio figlio?
Noi sì, volendo far un cambio eguale,
Sciocchi saremmo a gran ragion creduti.
45
50
MORALITÀ
L’appassionata tenerezza, e il soverchio biasimevole affetto, che hanno
i Genitori verso i propri Figli, rende i medesimi quasi sempre insensibili, e ciechi ai loro sì Naturali, che Morali difetti.
Tralascerò qui gli elementi caratterizzanti lo stile traduttorio di
Giorgetti (come le lunghe perifrasi in luogo e lo spreco di aggettivazione, che fanno salire il componimento da 36 a ben 54 versi)
per affrontare il problema che ci riguarda. Qui il riferimento al
mito folklorico dei changelings è nelle parole della nutrice: «Invisible the fairy came: / Your precious babe is hence conveyed, /
And in the place a changeling laid». Giorgetti: «una malvagia Fata
/ Sen venne qui, sotto invisibil forme; / E via portando il vostro
amabil figlio, / Ne pose un altro assai diverso in cambio». Perifrasi
in fondo accettabile, e che di estraneo all’originale ha solo l’aggettivo «malvagia» riferito alla «fata» (che traduce il più ampio sèma
«fairy», ‘creatura fatata’). I due tratti maggiormente distintivi del
changeling (la bruttezza e la scarsa intelligenza) sono comunque
restituiti in modo abbastanza perspicuo: «See here a shocking
awkward creature / That speaks a fool in every feature» diventa,
rispettando una volta tanto l’unità metrica dell’originale, «Ecco
quivi un fanciul defforme, e brutto, / Ch’è un vero sciocco in tutti
i suoi sembianti».
Anche la requisitoria finale del «folletto» («pigmy sprite»,
letteralmente ‘spirito pigmeo’), che seccato dai discorsi delle due
donne spunta fuori dal buco della serratura e salta sulla culla, è resa
34
tradurre il folklore passando per la letteratura
piuttosto efficacemente. Ed è dal suo appassionato discorso che si
coglie la complessità del significato di The Mother, The Nurse, and
the Fairy: non solo una facile satira dell’incapacità che i genitori
hanno di vedere i difetti dei propri figli, ma anche, a veder bene,
una critica alla superstizione popolare, che affida la spiegazione della
malattia psichica o della deformità fisica a cause soprannaturali e
magiche. Siamo, come si vede, agli antipodi della futura nobilitazione romantica del Volksgeist e dalla riscoperta del folklore da parte
dei fratelli Grimm con i quali avevamo iniziato il nostro discorso.
4.
Una proposta (per concludere): Pirandello e il «figlio cambiato»
Il compito della traduttologia non è solo quello di evidenziare
i problemi o di sottolineare, quando è necessario, errori (e omissioni) ma anche, e forse soprattutto, proporre alternative valide e
utili. Nel nostro caso il problema è essenzialmente quello di individuare un traducente che non si limiti a spiegare la natura del
referente, ma che possa suggerire al lettore anche una vaga idea
delle connotazioni semantiche (folkloriche e letterarie) in gioco.
Ora, della difficoltà di tradurre un concetto del tutto estraneo
alla tradizione popolare italiana (o diciamo meglio: peninsulare),
era ben conscio uno scrittore attento alla lingua e ai dialetti come
Luigi Pirandello, che più o meno un secolo fa, dovendo rendere
in italiano il termine dialettale canciatu, scelse la perifrasi «figlio
cambiato».
Sui motivi (ancora oggi piuttosto oscuri) per cui la Sicilia sia
stata una delle poche isole linguistiche d’Italia dove una leggenda
così tipicamente «nordeuropea» risulti ben attestata nel folklore
non dirò nulla, rinviando il lettore curioso al mio libro. Per noi,
adesso, è più importante sottolineare (al netto delle ovvie considerazioni ecotipiche sugli elementi che caratterizzano la credenza
in area siciliana) come canciatu, e ancor più canciateddu14, siano
14
G. Pitré, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol. IV,
Libreria Pedone Lauriel, Palermo, 889, pp. 153-177.
35
riccardo castellana
equivalenti semantici pressoché perfetti di changeling, dei quali
condivide la radice mentre il suffisso -ing ha l’identico valore diminutivo (come in duckling, ‘anatroccolo’, o foundling, ‘trovatello’)
dell’italiano -ello. Ma mantenere il termine dialettale (magari in
corsivo, come fa Verga, a volte, nei Malavoglia) in un testo narrativo in lingua avrebbe comportato grossi equivoci, rinviando a un
orizzonte di tipo naturalista che era molto lontano dalle concezioni estetiche del modernista Pirandello. E allora, quando nel 1923
riscrive una vecchia novella di vent’anni prima intitolata Le nonne
(1902), ne muta il titolo in Il figlio cambiato, così da tematizzare
non più l’agente (le nonne, o donne, vale a dire i «donni di fuora»,
cioè le fate della tradizione folklorica siciliana), ma l’oggetto della
sostituzione magica, quel bambino brutto e malato che Sara Longo
crede, appunto, frutto di uno scambio magico.
Quelle brave comari erano ancora cosi tutte accorate e atterrite,
che del mio sbalordimento e della mia indignazione s’offesero.
Mi gridarono in faccia, come se volessero aggredirmi, che esse,
alle urla, erano accorse alla casa della Longo, mezz’ignude come si
trovavano, e avevano visto, visto coi loro occhi il bambino cambiato, ancora là sul mattonato della stanza, ai piedi del letto. Quello
della Longo era bianco come il latte, biondo come l’oro, un Gesù
Bambino; e questo invece, nero, nero come il fegato e brutto, più
brutto d’uno scimmiotto. E avevano saputo il fatto, com’era stato,
dalla stessa madre, che se ne strappava ancora i capelli: cioè, che
aveva sentito come un pianto nel sonno e s’era svegliata; aveva
steso un braccio sul letto in cerca del figlio e non l’aveva trovato;
s’era allora precipitata dal letto, e acceso il lume, aveva veduto
là per terra, invece del suo bambino, quel mostriciattolo, che
l’orrore e il ribrezzo le avevano perfino impedito di toccare. […]
Era dunque chiaro che le «Donne» erano entrate in casa
della Longo, nella notte, e le avevano cambiato il figlio,
prendendosi il bambino bello e lasciandogliene uno brutto
per farle dispetto15.
15
L. Pirandello, Il figlio cambiato, in Novelle per un anno, a cura di M.
Costanzo, vol. II, tomo 1, Mondadori, Milano 1987, pp. 496-501.
36
tradurre il folklore passando per la letteratura
A questo punto si sarà capito cosa voglio proporre ai futuri
traduttori di Spenser, di Shakespeare, di Gay e di Hoffman.
L’espressione «figlio cambiato» offre più di un vantaggio rispetto
a «trovatello», «mostriciattolo» e simili: traduce perfettamente il
termine tecnico changeling; possiede un certo grado di ambiguità
semantica, di cui probabilmente Pirandello era consapevole e che
arricchisce le armoniche del testo letterario («cambiato» non significa ovviamente solo ‘scambiato’ ma anche ‘mutato nel tempo’);
gode dell’autorità di un grande autore moderno e, per finire,
mantiene sufficientemente visibile, per il tramite della novella e del
dramma che ne sarà tratto nel 1933 (La favola del figlio cambiato),
il filo che collega quell’espressione all’immaginario popolare.
37
Andrea Landolfi
Rivedersi dopo trent’anni.
Appunti di un traduttore alle prese con se stesso
L’eterno dibattito sul tradurre, sulle ragioni e sui modi di questa
pratica, negli ultimi decenni va assumendo toni vagamente surreali.
Se da una parte, infatti, gli studi vòlti ad attribuire alla traduzione uno
statuto scientifico, elevandola a disciplina accademica, sono entrati
nel sentire comune1, dall’altra sembra sempre più allontanarsi, fuori
dagli ambiti specialistici, il riconoscimento del traduttore letterario
non dico come co-autore dell’opera, ma anche, più modestamente, come artefice di un prodotto dotato di un valore culturale oltre
che commerciale. Questa mancata considerazione credo dipenda
in buona parte da un atteggiamento che, ormai diffuso ovunque,
nel nostro Paese ha assunto una valenza ulteriore che definirei efficientistico-mediatica – molto simile a quella, per intenderci, che in
questi anni vediamo all’opera nella direzione e nell’indirizzo delle
nostre università. Parlo del malinteso per cui il prodotto, qualsia­si
prodotto, per «vendere bene» debba essere facile da usare, pratico
e soprattutto economicamente remunerativo a brevissimo termine.
Più proni di altri a questa grande mistificazione, gli editori italiani,
sempre più frettolosi nel trattare il prodotto libro, considerato ormai
residuale rispetto ad altri media più redditizi, da una parte ripropongono vecchie traduzioni presenti in catalogo senza minimamente
curarsi della loro «tenuta» a distanza di trenta, quaranta o addirittura
cinquant’anni; dall’altra tendono sempre più a «denaturare» le nuove
traduzioni, privilegiando e sostenendo, rispetto a quelle d’autore,
quelle «redazionali», ovvero quelle sottoposte, dall’editor e non solo,
1
Si pensi alla vasta diffusione dei lavori di A. Berman, L. Venuti, U. Eco, G.
Steiner, ecc.
andrea landolfi
a un pervicace processo di adattamento e normalizzazione al fine di
garantirne la fruibilità da parte di un pubblico sempre meno avvezzo
alla complessità. Senza entrare nel merito dell’evidente circolo
vizioso che viene così a crearsi, per il quale proprio perché sempre
meno esercitato il lettore perde progressivamente il gusto e la capacità di misurarsi con testi non necessariamente piani e scorrevoli, potrà
essere forse di qualche interesse in questo contesto il resoconto di
un’esperienza personale che costituisce, mi pare, una felice eccezione
a una prassi editoriale che sta tristemente diventando regola.
Nel 2014 cadeva il centenario di Gregor von Rezzori, lo scrittore
che Claudio Magris, nel suo celebre libro sul mito absburgico, ha
consacrato come l’ultimo esponente di quella grande stagione della
letteratura mitteleuropea. Per celebrare la ricorrenza qui in Italia,
dove Rezzori aveva trascorso felicemente gli ultimi trent’anni della
sua lunga vita (è morto nel 1998 a Donnini, a pochi chilometri da
Firenze), l’attivissima vedova, Beatrice Monti della Corte, che in
sua memoria ha fondato e dirige il «Premio Gregor von Rezzori –
Città di Firenze», propose a Bompiani di ripubblicare il romanzo
più ambizioso e imponente dello scrittore, La morte di mio fratello
Abele, pubblicato per la prima volta in Germania nel 1976 e qui da
noi nel 1988, dalle Edizioni Studio Tesi, nella mia traduzione2. La
grande casa milanese ha dunque riacquistato i diritti di pubblicazione e si è rivolta a me per la cessione dei diritti di traduzione, che
nel frattempo, trascorsi vent’anni, erano tornati di mia proprietà.
Di là dall’esiguità dell’offerta economica, il dato più sconcertante
di quella proposta è stato la totale noncuranza con cui l’editore si
apprestava a ripubblicare il testo così com’era, salvo mie correzioni, da apportare direttamente in bozza, di eventuali refusi. È stata
necessaria una lunga e difficile trattativa per convincere i miei referenti di una verità che per noi traduttori è un luogo comune, e per
un editore dovrebbe essere una regola aurea: e cioè che le traduzioni
invecchiano, e che dopo quasi trent’anni era impensabile riproporre
2
Ci si riferisce rispettivamente a: C. Magris, Il mito absburgico nella letteratura
austriaca moderna, Einaudi, Torino 1963, in particolare le pp. 317-328; G. von
Rezzori, Der Tod meines Bruders Abel, Bertelsmann, München 1976 e Heyne,
München 1983; G. v. R., La morte di mio fratello Abele, trad. it. di A. Landolfi,
Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1988 e, recentemente, Bompiani, Milano 2014.
40
appunti di un traduttore alle prese con se stesso
la traduzione di un’opera – tra l’altro, come si vedrà, estremamente
complessa – senza sottoporla a un minuzioso lavoro di revisione.
Alla fine ho spuntato dalla Bompiani tre mesi di tempo, il vecchio
testo riversato in word, l’assistenza di un bravissimo redattore,
Marco Piani, e un compenso poco più che simbolico. Ha avuto
inizio così un’esperienza traduttiva che forse vale la pena raccontare
per almeno tre ordini di motivi: 1. La morte di mio fratello Abele è
un’opera per sua stessa natura, oltre che per volontà del suo autore,
estremamente «aperta», e quindi suscettibile di interventi anche da
parte del traduttore; 2. La versione del 1988 è stata condotta dal
traduttore in stretto contatto con l’autore; 3. Il traduttore di cui
rivedo l’opera dopo trent’anni sono io stesso.
Scritto sulla base di una massa eterogenea di appunti che hanno
accompagnato l’autore per decenni, Der Tod meines Bruders Abel
narra la storia di uno scrittore che nel 1968, a Parigi, vorrebbe scrivere il romanzo della sua generazione – anche lui sulla base di una
massa eterogenea di appunti che lo accompagnano da decenni –, ne
è continuamente distolto dalla inafferrabilità e incontenibilità del
mondo uscito dalla tragedia delle due guerre mondiali, e proprio
nel dar voce alla propria impotenza scrive, di fatto, il romanzo che
andiamo leggendo. Lungo un arco temporale che va dal 1918 al
1968 la storia e le storie del protagonista si dipanano sfiorando e
incrociando persone, eventi e città che hanno costituito l’essenza
dell’Europa al tramonto, quell’attimo immobile prima del sacrificio della sua aura e della sua forma a ciò che Rezzori chiama il
moderno americanismo. Di questa perdita, sentita e sofferta come
irrimediabile tanto dall’autore quanto dal suo protagonista, il
romanzo accetta di farsi carico, riflettendola in sé nella contaminazione degli stili e nella frantumazione della forma. Sostanzialmente
ignorato in Germania a causa di un antico pregiudizio della critica
di lingua tedesca nei confronti dello scrittore e dell’uomo Rezzori,
il romanzo ha avuto una vicenda editoriale che dice molto, oltre
che sul suo autore, sulla natura stessa del libro. Nella postfazione
all’edizione Bompiani del 2014 io stesso ho scritto:
Del romanzo esistono infatti almeno quattro «prove d’autore»:
oltre alla prima edizione tedesca, del 1976, vi è quella del 1983,
41
andrea landolfi
profondamente modificata rispetto alla prima e già – come risulta
da appunti inediti – «pensata» per la futura versione italiana; segue,
nel 1985, la traduzione americana, che l’autore ha personalmente
rivisto, tagliando e spostando frasi e blocchi di testo. Nel 1986,
infine, ha inizio il mio lavoro sulla versione italiana, che culmina,
nell’estate 1988, in un lavoro di revisione, condotto assieme
all’autore, che oltre alla mia traduzione finisce per coinvolgere lo
stesso originale, in un confronto serrato tra autore e traduttore
vòlto ad adattare il testo al pubblico italiano ma anche a ripensarlo continuamente e, insomma, a considerarlo un organismo
vivo, suscettibile di continue modificazioni3.
Poter lavorare in stretto contatto con l’autore che si sta traducendo è il sogno di ogni traduttore. Per me l’estate del 1988,
trascorsa con Rezzori a rileggere le settecento e più pagine della
mia traduzione e spesso dello stesso originale, ha rappresentato
un’esperienza formativa di prim’ordine, che, tuttavia, è giusto oggi
analizzare in tutte le sue implicazioni. Rezzori parlava un bellissimo italiano costellato di piccole imprecisioni, alcune volute (‘politicante’ invece di ‘politico’, ‘credulente’, con chiaro richiamo a
‘credulone’, invece di ‘credente’, ecc.), altre no; viceversa non scriveva bene nella nostra lingua, cosa che gli dispiaceva. Era comunque perfettamente in grado di «sentire» l’italiano di una traduzione, e di verificarne passo passo la tenuta, la qualità della resa,
il nitore o viceversa l’oscurità nel rendere un passaggio scabroso.
Il traduttore, allora molto giovane, ha accolto correzioni e rilievi
sacrosanti, e spesso, per soggezione, anche interventi errati, dovuti
ora a difetto di conoscenza dell’italiano, ora a decisioni estemporanee («sì, la traduzione è corretta, ma io in realtà qui volevo dire
un’altra cosa…»), a capricci, a idiosincrasie (ricordo la dura battaglia, vinta in quel caso, per mantenere il termine ‘agnizione’). Ma
è anche capitato, l’ho raccontato altrove, che si sia discusso animatamente su una frase e sull’interpretazione da darle, e che la traduzione, a tutta prima rifiutata, sia stata poi dall’autore recuperata e
Cfr. A. Landolfi, Novecento mon amour. Rezzori, l’Abele e la forma impazzita,
in G. von Rezzori, La morte di mio fratello Abele, a cura di A. Landolfi, Bompiani,
Milano 2014, p. 744.
3
42
appunti di un traduttore alle prese con se stesso
accolta come «più autentica» rispetto allo stesso originale… Già da
questi pochi accenni mi sembrano segnalarsi alcuni aspetti importanti: l’estrema apertura dell’autore nei confronti di sollecitazioni,
suggerimenti e addirittura correzioni proposte dal traduttore; la
mancanza di qualsiasi «gelosia» autoriale, per cui il testo non è
stabilito una volta per tutte ma è suscettibile di interventi vari in
funzione del contesto di arrivo (i vari paesi di destinazione) e non
solo; la collaborazione fruttuosa tra autore e traduttore, ma anche,
di converso, la «debolezza» del giovane, una certa sua sopravvalutazione delle cognizioni dello scrittore anche in ambiti a costui
non familiari (la lingua italiana e i suoi usi grafici, la preparazione storico-politica, storicoartistica, filosofico-letteraria del lettore
italiano, la sua capacità di orientarsi nel patrimonio mitologicofiabesco dell’Europa centrale di sessant’anni prima, ecc.).
Trascorrono ventisei anni. In questo tempo chi scrive compie
un suo percorso di docente universitario e di traduttore, si volge
ovviamente ad altri autori ma continua a tradurre e curare diverse
opere dell’amico scrittore, alcune ancora con il conforto dell’autore, altre, la maggior parte, dopo la sua morte. Il ritorno all’Abele,
alla prima traduzione «importante», oltre a innescare una riflessione, come si è visto, abbastanza sconsolata sul tradurre, come
direbbe Hölderlin, «in dürftiger Zeit», in tempi di privazione,
induce nel revisore di se stesso un curioso processo di sdoppiamento e di pseudoidentificazione: da una parte, infatti, egli si
appresta a rivedere le pagine del se stesso trentenne con un certo
sussiego da traduttore e germanista esperto, pronto a cassare ogni
incertezza, ogni ingenuità del giovane; dall’altra ritrova l’autore,
allora non molto più vecchio di quanto non sia lui stesso oggi, ed
entra con lui in una sintonia tutt’affatto diversa da quella, all’insegna della devozione, di ventisei anni prima. Oggi gli sembra di
comprendere il suo autore molto meglio di prima, di intrattenere con lui un rapporto finalmente paritario, da uomo maturo a
uomo maturo, da intellettuale a intellettuale, anzi: da studioso
ritiene ormai di conoscere lo scrittore Gregor von Rezzori molto
più dello stesso Rezzori. Così il traduttore-revisore-di-se-stesso si
pone al lavoro tenendo ben presenti alcuni punti, per così dire,
preliminari, e cioè:
43
andrea landolfi
1. Autonomia. Con l’età ha acquisito maggiore esperienza, più
alta consapevolezza linguistica, più coraggio. Questo comporta, per
prima cosa, una radicale revisione della punteggiatura: trattini, due
punti, a capo, parentesi, ecc., che nell’edizione del 1988 avevano
seguito pedissequamente i «criteri» (spesso dovuti a ghiribizzi
estemporanei dell’autore, non di rado diversi da un’edizione all’altra, a volte dovuti evidentemente a interventi redazionali imprecisi e arbitrari, ecc.) dell’originale tedesco, vengono decisamente
normalizzati e orientati sugli usi italiani. Ma maggiore libertà
consente anche di poter tornare sui propri passi nella traduzione
di un termine squisitamente rezzoriano, che non pochi grattacapi
ha causato a traduttori, lettori e interpreti: Epochenverschleppung.
Il termine significa, letteralmente, l’atto di trascinare faticosamente con sé, verschleppen, le epoche trascorse; secondo la definizione
che ne ha dato il suo creatore, si tratta della «anacronistica sovrapposizione di elementi di realtà, che appartengono specificamente
a un’epoca trascorsa, in quella successiva»4; in un primo tempo
il giovane traduttore aveva tradotto il termine con la locuzione
«differimento epocale», ma si era scontrato con uno dei pochissimi
veti imposti dallo scrittore, al quale l’espressione ricordava irresistibilmente il differenziale, un dispositivo delle automobili che
credo oggi non esista più. Alla fine si era optato per il più neutro
«strascico del passato», accettato dal traduttore a malincuore e con
il sottaciuto proponimento di ripristinare la propria versione non
appena se ne fosse data l’occasione. E l’occasione si diede anni
dopo, morto ormai l’autore, quando si trattò di tradurre il termine
in altre sue opere e di analizzarlo in alcuni lavori scientifici. Sarebbe
stato dunque naturale che, rivedendo l’Abele, io ripristinassi anche
lì quel mio «differimento epocale» ormai entrato a pieno titolo, in
Italia, nella terminologia rezzoriana. Sennonché, rileggendo e rivedendo, quel termine mi suonava sempre più estraneo e artificioso,
così poco vitale, così freddo e teorico. Alla fine ho lasciato, con
Rezzori, «strascico del passato», concedendomi soltanto di alleggerire la traduzione di Epochenverschlepper, ‘strascinatore del passato’,
4
Cfr. G. von Rezzori, Sulle mie tracce, a cura di A. Landolfi, Guanda, Parma
2008, p. 14.
44
appunti di un traduttore alle prese con se stesso
sostituendola con l’assai più colloquiale ‘strascicapassato’, che al
Nostro sarebbe certamente piaciuto.
2. Rapporto con l’autore. Il traduttore-revisore non può più
confrontarsi con l’autore in carne e ossa, ma a torto o a ragione è
convinto di operare nello spirito e nei modi di lui, anche perché,
in questi anni, ha avuto l’occasione di ordinarne il lascito, e quindi
di compulsare l’immensa mole di appunti relativi al romanzo e alla
sua continuazione5. Questa conoscenza diretta e pressoché esclusiva
dei materiali gli dà agio di ‘tradire’ qua e là il testo alleggerendo
la traduzione ogniqualvolta abbia la sensazione che lo scrittore, per
noncuranza o stanchezza, si stia ripetendo o, peggio ancora, perdendo. Filologicamente esecrabile, questa pratica il revisore l’ha appresa,
a suo tempo, dallo stesso autore, che lo incoraggiava a suggerire lui
stesso piccoli tagli, ma anche inserti, funzionali all’edizione italiana.
Nel corso della revisione, tuttavia, non ho operato dei veri e propri
tagli, limitandomi a eliminare non più di una trentina di ridondanze6; in alcuni casi, poi, giovandomi della regola aurea del mettere e
levare, mi sono permesso qualche piccolo aggiustamento7, sempre,
va da sé, attingendo al patrimonio lessicale dell’autore, mentre solo
Prima di morire Rezzori stava lavorando alacremente a una sorta di
«continuazione» dell’Abele : pubblicato postumo con il titolo Kain. Das letzte
Manuskript (Bertelsmann, München 2001) l’interessantissimo torso si connota
in realtà più come una variazione che non come una continuazione del grande
romanzo; la versione italiana, a cura di chi scrive, uscirà da Bompiani nella
primavera del 2016.
6
Già nella versione del 1988 avevo sfoltito, se così si può dire, una forte
tendenza dell’autore alla formularità: nel brano riportato più avanti avevo per
esempio eliminato, sembrandomi fuori luogo in quel punto, un tic del protagonista
che quasi sempre, rivolgendosi al suo interlocutore americano, in modo caricaturale
pronuncia Parigi «Pèrris» (in tedesco è Paris, pronunciato «Parìs»), e allo stesso
modo avevo evitato di ripetere l’immagine vagamente ossessiva dello zio Ferdinand
come «un gigantesco gallo». Nella revisione del 2014 ho ulteriormente «asciugato»
il testo, consapevole che la lingua italiana tollera assai meno della tedesca le
ripetizioni.
7
Ne è un esempio il passaggio, circa alla metà del brano riportato più avanti,
che recita: «quel corredo di vita piccoloborghese», divenuto nella nuova edizione:
«il loro trepido corredo piccoloborghese»; nell’originale si parlava, letteralmente, di
«dote (Morgengabe) dell’animato (beseelt, qui nel senso di ‘pieno di anima’) mondo
dei borghesucci». Il mio ‘trepido’ è dunque il risultato di un recupero di beseelt
unito a una piccola forzatura del suo significato.
5
45
andrea landolfi
a lavoro ultimato mi sono accorto di avere smussato alcune espressioni «forti» che pure a suo tempo erano piaciute a Rezzori ma che
effettivamente non corrispondono ai termini usati nell’originale (il
volgare ‘coglioni’ l’ho sostituito con il più neutro ‘palle’, il dialettale
‘torzo’ con l’italiano ‘gonzo’, ecc.).
3. Rapporto con l’opera. Proprio perché il romanzo si pone, di
fatto, come una struttura «aperta», più e più volte modificata dal
suo autore (da solo e/o con i vari editor, redattori, traduttori, revisori, ecc.) e suscettibile di ulteriori interventi (da parte di analoghe
figure), il revisore ha dovuto tenere conto dell’evoluzione della lingua
e ha dovuto, di conseguenza, «aggiornare» il proprio testo, oltre che
normalizzandolo (eliminazione della d eufonica, riduzione drastica del soggetto pronominale, ecc.), sostituendo locuzioni divenute
desuete con altre più attuali (così la ‘stazione di servizio’ è diventata
‘area di servizio’, molti ‘uomini’ si sono mutati in ‘maschi’, parecchi
‘egli’ in ‘lui’, ‘essa’ in ‘lei’, ‘essi’ in ‘loro’, ecc.). Ho dovuto, insomma,
fare il contrario di quel che facevano un tempo i traduttori: invece di
tentare di dare al testo una pàtina anni Settanta, sono ricorso senza
paura a espressioni della nostra attualità, nel segno di quel procedimento in progress che ha permesso a Rezzori di andare oltre il vincolo
del copyright prima ancora dell’avvento della cosiddetta èra digitale.
Infine, vorrei aggiungere ancora un’ultima riflessione sul tema
della revisione. Rivedere una traduzione, propria o altrui, può
essere un lavoro ingrato (economicamente lo è comunque), ma
può rivelarsi anche una stimolante occasione di conoscenza e di
approfondimento. Così come i Karamazov dei diciassett’anni sono
gli stessi e insieme sono completamente diversi da quelli dei trenta
e poi dei cinquant’anni, anche le traduzioni e i traduttori hanno i
loro tempi, le loro occasioni, le loro storie irripetibili. Accanto al
rigore e alla precisione credo dunque sia necessaria, per ben rivedere, un’attitudine rispettosa e indulgente, aperta all’ascolto del testo
e dei suoi richiami, alle sue – non sempre immediatamente riconoscibili – ragioni profonde. È bene che una parte della devozione
dovuta all’originale il revisore la dirotti sulla traduzione. Perché –
noi lo sappiamo – anche il traduttore è autore dell’opera.
46
appunti di un traduttore alle prese con se stesso
La morte di mio fratello Abele *
[1988]
… Di nuovo non ho che da
ricorrere a qualche dozzina di
lettere, e lui già guizza sulla lustra
superficie convessa del samovar, si
ritira nella strozzatura al di sotto
della pancia di esso, si allunga
come un telescopio sulle sue
gambette sottilissime, è catturato e
orribilmente compresso dall’anello posto al di sopra del piede del
samovar, vi corre intorno, sfinato
come un serpente, e si versa, come
divenuto liquido, sulla base del
fornelletto –
e si allontana dal tavolino da
tè: ha arraffato il suo panino al
crescione il pasticcio di funghi la
torta di ribes il sandwich al cetriolo e di nuovo cammina impettito
per i giorni della mia infanzia –
e nell’argenteria del tavolino
da tè, come la sua ombra si allontana, torna a sbocciare cento
volte, in cento stelle splendenti, la
primavera, che fuori dalla finestra
aleggia nell’aria, azzurra e piena
di promesse tormentose. È la luce
primaverile della dolce essenza
della mia metà perduta. Nem-­
meno gli anni della mia formazione a Vienna presso zio Helmuth
[2014]
… Di nuovo non ho che da
ricorrere a qualche dozzina di
lettere, e lui già guizza sulla lustra
superficie convessa del samovar, si
ritira nella strozzatura al di sotto
della pancia, si allunga come
un telescopio sulle gambette
sottilissime, è catturato e orribilmente compresso dall’anello
posto subito al di sopra della
base, vi corre intorno, sfinato
come un serpente, e infine si
versa, come divenuto liquido,
sulla base del fornelletto. Ora si
allontana dal tavolino da tè: ha
arraffato il suo panino al crescione il pasticcio di funghi la torta
di ribes il sandwich al cetriolo e
di nuovo cammina impettito per
i giorni della mia infanzia; non
appena la sua ombra si allontana, nell’argenteria del tavolino da tè torna a sbocciare cento
volte, in cento stelle splendenti, la
primavera, che fuori dalla finestra
aleggia nell’aria, azzurra e piena
di promesse tormentose: è la luce
primaverile della dolce essenza
della mia metà perduta.
Nemmeno gli anni della mia
formazione a Vienna presso zio
*
La breve sezione di testo che si è scelto di offrire a margine di questo intervento
vale come esempio del metodo di lavoro adottato e descritto in queste pagine. Si è ricorso
al neretto per aiutare il lettore nell’individuazione delle differenze tra la versione del
1988 e quella del 2014, e sempre per comodità di chi legge si è deciso di porre il testo
originale a seguire.
47
andrea landolfi
zia Hertha zia Selma più il cugino
Wolfgang, quel corredo di vita
piccoloborghese, sono riusciti a
spegnerla. Il grigio cupo di quei
quattordici anni fu ancora tutto
foderato di essa – come la nebbia
di ieri (o l’altro ieri? O quante
notti e giorni fa?), nella quale ho
camminato da Place des Ternes
fino a «Calvet» sul Boulevard
Saint Germain, per incontrarLa.
Non mi prenda per un matto
da ricoverare se Le ripeto in
modo maniacale che era la luce
della vecchia Europa – dietro
la nebbia, anche qui, a Parigi,
nell’anno 1968. Trent’anni fa, nel
marzo 1938, a Vienna, Austria,
in un giorno di solstizio, quella
stessa luce mi si è ghiacciata. La
prima fase dell’èra glaciale si era
iniziata. Anche la seconda è ormai
passata da tempo. Ma il ghiaccio
sembra non essersi ancora sciolto
del tutto. Quanto ci vorrà ancora
perché le nebbie si dissolvano? E
sarà davvero la vecchia luce quella
che finalmente risplenderà? Lei
che crede?
Helmuth zia Hertha zia Selma più
il cugino Wolfgang, con tutto il
loro trepido corredo piccoloborghese, sono riusciti a spegnerla.
Il grigio cupo di quei quattordici anni fu ancora tutto foderato
di lei – come la nebbia di ieri (o
l’altro ieri? O quante notti e giorni
fa?), nella quale ho camminato da
Place des Ternes fino a ‘Calvet’
sul Boulevard Saint Germain, per
incontrarLa. Non mi prenda per
un matto da ricoverare se Le ripeto
in modo maniacale che anche qui,
a Parigi, nell’anno 1968, quella
che trapelava da dietro la nebbia
era la luce della vecchia Europa.
Trent’anni fa, nel marzo 1938, a
Vienna, Austria, in un giorno di
solstizio, quella stessa luce mi si è
ghiacciata. La prima fase dell’èra
glaciale si era iniziata. Anche la
seconda è ormai passata da tempo.
Ma il ghiaccio sembra non essersi
ancora sciolto del tutto. Quanto
ci vorrà ancora perché le nebbie
si dissolvano? E sarà davvero la
vecchia luce quella che finalmente
risplenderà? Lei che crede?
G. von Rezzori, La morte di mio fratello
Abele, trad. it. di A. Landolfi, Edizioni
Studio Tesi, Pordenone 1988, pp. 280 s.
G. von Rezzori, La morte di mio fratello
Abele, a cura di A. Landolfi, Bompiani,
Milano 2014, pp. 302 s.
48
appunti di un traduttore alle prese con se stesso
Der Tod meines Bruders Abel
… Ich brauche wieder nur einige Dutzend Buchstaben, und er
huscht über die spiegelblanke Wölbung des Samowars, zieht sich in
der Schnürung unter dessen Bauch zurück, schiebt sich dabei wie ein
Teleskop in sein spindeldürres Beingestell ein, wird vom Ring über dem
Samowarfuß aufgefangen und entsetzlich breitgezerrt, läuft, zur Schlange
ausgezogen, flink darum herum und ergießt sich wie flüßig geworden in
die Kegelbasis über der Flamme des Rechauds –
und tritt vom Teetisch zurück: er hat sein Kressebrötchen Champignonpastetchen Johannisbeertörtchen oder Gurkensandwich ergattert und
stolzt wieder als ein riesenhafter Gockel durch meinen Kindheitstag –
und im Silber auf dem Teetisch geht, wie sein Schatten davon fortzieht, hundertmal in hundert Strahlensternen der Frühling wieder auf, der
draußen vor dem Fenster blau und voll bedrängender Verheißung in den
Lüften weht. Es ist das Frühlingslicht des süßen Kerns meiner verlorenen
Lebenshälfte. Selbst meine Wiener Bildungsjahre bei Onkel Helmuth
Tante Hertha Tante Selma plus Vetter Wolfgang als eine Morgengabe
der beseelten Spießerwelt haben es nicht ausgelöscht. Das trübe Grau
jener vierzehn Jahre war noch damit ausgefüttert – wie der Nebel gestern
(vorgestern? oder vor wievielen Nächten und Tagen?), durch den ich von
der Place des Ternes bis zu Calvet auf dem Boulevard Saint Germain gegangen bin, um Sie zu treffen. Halten Sie mich nicht für klinikreif verrückt,
wenn ich manisch wiederhole, daß es das Licht des alten Europa war –
hinter dem Nebel auch noch hier, in Pärris, Franx, im Jahre 1968. Vor
dreißig Jahren, im März 1938, ist es mir in Wien, Austria, an einem Tag
des Solstitiums eingefroren. Die erste Phase der Eiszeit hatte eingesetzt.
Auch deren zweite ist nun längst vorüber. Aber das Eis scheint noch nicht
gänzlich weggetaut zu sein. Wie lange dauert’s noch, bis die Dämpfe sich
verzogen haben? Und wird’s dann wieder ganz das alte Licht sein, das
endlich wieder durchbricht? Was glauben Sie?
G. von Rezzori, Der Tod meines Bruders Abel, Heyne, München 1983, pp. 246 s.
49
Piera Sestini
L’(im)possibile necessità di tradurre Virginia Woolf:
esempi e raffronti
Allo scopo di privilegiare la dimensione pragmatica del presente studio, delimiterò il campo di indagine a un solo romanzo,
Mrs Dalloway, per esplorare così, attraverso esempi significativi,
e mettendo a confronto sei trasposizioni di traduttrici italiane,
alcuni nodi traduttivi. Si tratta di nodi che, talora, è pressoché
impossibile sciogliere, talaltra, si possono districare solo ponendo
estrema attenzione a contesto e co-testo. Difatti, prima di azzardare qualsiasi ipotesi interpretativa di un testo pluri-isotopo quale è
quello letterario, sotteso da vari livelli di codificazione coimplicati,
è bene possederne almeno una visione d’insieme1.
Sappiamo tutti che per quanto riguarda la traduzione interlinguistica una sinonimia secca non esiste, e quindi nemmeno una
reversibilità ideale, a meno che non si stia lavorando a un testo
chiuso, ma non è certo questo il caso dell’opera letteraria2. È
pertanto essenziale attuare una propria strategia traduttiva, nella
quale vengano individuate una o più dominanti del corpus prescelto, in modo da stabilire quali aspetti siano da evidenziare e quali
invece debbano confluire nella perdita di informazione, o residuo
comunicativo3. Questa pratica è assai ragionevole, specialmente se
il testo fonte è un romanzo complesso come quello che propon1
Per una specifica disamina del tema della letteralità nel tradurre, cfr. A.
Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, Quodlibet, Macerata
2003.
2
Cfr. U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani,
Milano 2003, p. 35 ss.
3
Cfr. B. Osimo, Manuale del traduttore, Hoepli, Milano 2004, p. 106.
Piera Sestini
go; sarebbe un obiettivo decisamente presuntuoso quello di voler
riuscire a tradurre l’intera totalità del prototesto, senza tralasciarne la benché minima parte. A questo proposito, ci viene in aiuto
anche Umberto Eco, laddove parla di traduzione come negoziazione, ovvero di traduzione vista come un procedimento che si basa
su diverse congetture tra le quali verrà scelta quella più adatta «in
quel contesto e in quel mondo possibile»4.
Ora, in riferimento a Mrs Dalloway, vorrei mostrare come siano
molti i segmenti del testo che non devono essere troppo addomesticati, per non interrompere la fitta rete di nuclei metaforicosimbolici che l’autrice tesse con grande maestria e che costituisce
un’indicazione isotopica attraverso tutto il testo. Torniamo quindi
al punto di partenza, all’imperativo imprescindibile: mai tradurre
Virginia Woolf (ma non solo) senza operare prima l’analisi interna
dell’opera, atta a evidenziare «come essa è fatta», il funzionamento
e il significato degli elementi, la loro globale intratestualità. L’analisi intratestuale deve essere ovviamente sorretta e/o completata sia
dall’intertestualità (mi riferisco soprattutto ad una intertestualità
interna, incentrata fra un testo e altri testi della stessa autrice), sia
dal riferimento degli elementi testuali ad adeguati codici storicoletterari; insomma, soltanto una complessa ricognizione del testo è
in grado di decifrarlo, di farne emergere il senso globale e, quindi,
di «aprirlo» alla traduzione.
Veniamo dunque a quella dimensione pragmatica cui accennavo, esplicando tre punti, selezionati tra tanti altri, che possono
anche sembrare a prima vista minimi, ma che sono invece un
passpartout per una idonea decrittazione del testo fonte.
Innanzitutto vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che ho
usato, per riferirmi all’opera, la versione inglese del titolo, Mrs
Dalloway, non La signora Dalloway – pur parlando di traduzione –,
dal momento che ritengo errato tradurre il titolo con quella che
sembrerebbe una sinonimia secca, ma non lo è; la stessa cosa vale
per l’uso dell’appellativo Mrs nel corpo della traduzione5. Opterei
U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, cit., p. 45.
È infatti essenziale intraprendere quel «giuoco a informazione completa» in
cui ogni mossa è strettamente correlata sia a quella precedente sia a quella successiva.
4
5
52
L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf
quindi per l’uso reiterato di «Mrs Dalloway», attuando così una
semplice trascrizione. Perché? Non sono dell’avviso che si debba
agire sempre in questo modo, anzi esorto in genere i miei studenti
a tradurre gli appellativi che hanno un equivalente nella lingua di
arrivo (quindi sì per Mr, Mrs, Miss, no per Sir, Lord, ecc.). Diverso
è il caso di Mrs Dalloway. Non tradurre questo titolo e i successivi utilizzi che vengono fatti dell’appellativo Mrs in riferimento al
personaggio di Clarissa aiuta il lettore a comprendere l’universo
linguistico e culturale del testo di origine6. Una delle istanze genetiche profonde di questo testo woolfiano è sicuramente la critica al
sistema sociale, come palesano le parole che la stessa autrice annotò
nel suo diario il 19 giugno 1923: «In this book I have almost too
many ideas: I want to give life and death, sanity and insanity. I
want to criticise the social system and to show it at work, at its most
intense»7.
Strettamente correlata alla critica al sistema sociale è la questione della posizione della donna nella società, un problema che
coinvolse molto Virginia Woolf, la quale collaborò attivamente nel
1910 con le suffragette, allo scopo di eliminare, anche a livello
politico, il ruolo subalterno della donna, una outsider in una società
patriarcale. Alla luce di quanto detto sarà più facile comprendere
che il titolo preannuncia uno dei temi centrali del romanzo. Nella
comunicazione letteraria il titolo appartiene infatti, a pieno diritto,
alla semantica del testo ed esercita un’azione orientativa sul lettore,
indirizzandone le aspettative verso alcune sceneggiature o trame
possibili8. In effetti, Mrs Dalloway è un titolo che costituisce una
sorta di informazione cataforica o condensativa dell’intero messaggio che anticipa e al quale rinvia, richiamando anche illustri anteCfr. J. Levy (1967), La traduzione come processo decisionale, in S. Nergaard (a cura
di), Teorie contemporanee della traduzione, Bompiani, Milano 1995.
6
In questo caso, inoltre, la decisione di non tradurre l’appellativo Mrs non
ostacola la lettura al fruitore del testo, trattandosi di un elemento noto anche ai
parlanti italofoni.
7
V. Woolf, The Diary, ed. by A.O. Bell, vol. II, Harcourt Brace & Company,
New York-London 1978, p. 248.
8
Ovviamente, il testo può rovesciare le attese più ovvie ingenerate dal titolo,
per esempio, evadendo dagli aspetti tradizionali del genere, o innovandolo, ecc.
53
Piera Sestini
nati come Madame Bovary9. Mrs Dalloway sarà la storia di una
donna marchiata con il solo cognome del marito, scontenta della
propria vita, anzi depauperata della sua esistenza a favore di quella
del marito? Sì, è in parte così (solo in parte, perché opera e protagonista sono pervase da una diffusa ambiguità), ma il lettore (e il
traduttore) lo comprendono solo andando avanti con la lettura.
Il personaggio entra in scena con il solo cognome, Mrs Dalloway. Sono queste le prime due parole che leggiamo nell’incipit,
poi nel secondo paragrafo compare il nome, Clarissa, ma sempre
accompagnato dal cognome del marito, Dalloway, che ricorre
molto spesso nel testo. Il solo Clarissa è presente soprattutto
quando il personaggio si perde nel suo flusso di coscienza e nel
suo tempo interiore, acquisendo così questo segno, in relazione al
referente, un valore supplementare, allusivo, evocativo, un sovrappiù di senso. Ma il momento davvero rivelatore, il moment of being
che illumina non solo il personaggio ma anche chi legge (e chi
traduce), arriva nelle prime pagine con un flusso di coscienza che
esplicita appieno il senso cataforico del titolo.
She had the oddest sense of being herself invisible; unseen;
unknown; […] only this astonishing and rather solemn progress
with the rest of them, up Bond Street, this being Mrs Dalloway;
not even Clarissa any more; this being Mrs Richard Dalloway10.
L’ultima parte dell’enunciato, «questo essere Mrs Dalloway;
nemmeno più Clarissa; questo essere Mrs Richard Dalloway», non
può che indurre il traduttore a serbare intatto l’appellativo inglese,
rappresentando l’espressione «Mrs Richard Dalloway» quello che
si definisce un elemento culturo-specifico. La signora Dalloway
è, secondo l’uso inglese, la signora Richard (il nome del marito)
Dalloway11. Il coefficiente d’intensità qui veicolato viene pertanto
Titolo a volte tradotto con La signora Bovary.
Virgina Woolf, Mrs Dalloway, Penguin Books, London 1992, p. 11. D’ora
in poi tutte le citazioni si intendono tratte da questa edizione. Pertanto, il numero
della pagina sarà indicato tra parentesi, a fianco della citazione medesima.
11
Per attivare un contatto che risulti davvero efficiente, il traduttore deve
principalmente assicurarsi di «parlare la stessa lingua» dell’autore del testo di
9
10
54
L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf
totalmente eliso nelle seguenti traduzioni (le sei versioni prese a
campione sono messe a confronto senza voler eleggere la traduzione più fedele o la migliore, concetti scomparsi dalla traduttologia.
Le traduzioni sono elencate in ordine di anno di pubblicazione)12:
- A. Scalero: «essere la signora Dalloway, neppur più Clarissa;
solo la moglie del signor Richard Dalloway» (Mondadori,
1946, riproposta senza modifiche nella collana «Meridiani»,
Mondadori, Milano 1989, p. 12).
- N. Fusini: «e questo era essere la signora Dalloway, non più
Clarissa, ma la moglie di Richard Dalloway» («Oscar Classici»,
Mondadori, Milano 2011, p. 10).
-- N. Fusini: «e questo era essere la signora Dalloway, non più Clarissa, solo la signora Dalloway» (Feltrinelli, Milano 2013, p. 8)
- A. Nadotti: «questo essere la signora Dalloway, neppure più
Clarissa, solo la moglie di Richard Dalloway» (Einaudi, Torino
2012, p. 11).
- M. Sestito: «questo essere la signora Dalloway; neanche più
Clarissa; questo essere la moglie di Richard Dalloway» (Marsilio, Venezia 2012, p. 61).
- B. Gambaccini: «e questo significava essere la signora Dalloway, non più Clarissa, ma semplicemente la moglie di Richard
Dalloway» (Ed. Clandestine, Massa 2014, p.13)
Si perde in queste versioni target-oriented la forte valenza ideologica e culturale della locuzione «this being Mrs Richard Dalloway»,
che colpisce personaggio e lettore (e il buon traduttore) come una
sferzata. Inoltre, Scalero elimina del tutto l’enfasi espressa dall’iteratio del deittico this, attenuata da tutti gli altri, tranne, giustamenpartenza, in maniera tale da legittimare il proprio lavoro, oltre che rispettare
un mondo che soltanto temporaneamente farà suo. Cfr. C. Taylor, Language to
Language, CUP, Cambridge 1988, p. 41.
12
Segnalo che il titolo della traduzione a cura di P.F. Paolini (Newton
Classici, Roma 2010) rimane immutato, come ritengo che debba essere, però
in tutto il romanzo l’appellativo «Mrs Dalloway» viene tradotto con «la signora
Dalloway», perdendo così il titolo la sua valenza di anticipazione fondamentale
di un’importante istanza tematica. Difatti, il segmento in oggetto viene tradotto
come segue: «poiché lei era la signora Dalloway, neppure più Clarissa, bensì la
moglie di Richard Dalloway».
55
Piera Sestini
te, Sestito; è infatti una sorta di epanalessi volta a meglio ‘situare’
l’enunciato, come a marcare ulteriormente la condizione privativa
che opprime la donna. A questo proposito, «il lavoro di Marisa
Sestito opta [sempre] per una resa decisamente orientata verso il
testo di partenza della deissi»13, di contro all’italiano ‘quello’, che
molti traduttori utilizzano «per privilegiare il fatto che la situazione
dell’enunciazione è lontana dal lettore»14. Ma è opportuno scegliere
l’autonomia del testo di arrivo, quando questo significa sacrificare la
resa della cifra emblematica della tecnica modernista? Tornando al
segmento del testo in oggetto, esso si volge dunque indietro, riprendendo unità intratestuali, ovvero elementi antecedenti, in primis il
titolo, e assumendo così una netta valenza anaforica. Il rincorrersi di
elementi anaforici e cataforici dà coerenza semantica al discorso, e
crea sin da subito, dal titolo, una co-testualità diffusa che va messa in
relazione con il contesto situazionale (vedi la situazione sociostorica
dell’Inghilterra del primo dopoguerra e la posizione femminile), con
altri testi dell’autrice, ecc., per avere un codice di riferimento su cui
proiettare l’elemento da analizzare e tradurre.
La critica al sistema patriarcale espressa in queste riflessioni
viene sottolineata da E. Showalter nell’introduzione all’edizione
Penguin di Mrs Dalloway del 1992, proprio ponendo in evidenza
la ripresa dell’appellativo Mrs.
Furthermore Mrs Dalloway demands our judgment of its heroine
from the moment we encounter its eponymal title. By her emphatic use of «Mrs», Woolf draws our attention to the way in which
the central woman character is socially defined by her marriage
and masked by her marital signature15.
Antonella Anedda, nella sua introduzione all’edizione Einaudi
della versione italiana di Mrs Dalloway a cura di Anna Nadotti
(2012), dilata la riflessione del personaggio:
13
M.G. Tonetto, Recensione a Virginia Woolf, La signora Dalloway, trad. it. M.
Sestito, Marsilio Editori, Venezia 2012, in «Status Quaestionis», 3 (2012), p. 205.
14
Ivi, p. 206
15
E. Showalter, Introduction, in V. Woolf, Mrs Dalloway, Penguin Books,
London 1992, pp. xi-xii
56
L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf
Tuttavia quando Clarissa prova la «bizzarra sensazione di essere
invisibile» credo che parli a nome di tutti, uomini, donne, perché
considera noi, e lei per prima, degli spettri. La sua riflessione è
ironica. Prende di mira non tanto il patriarcato e la soggezione
femminile quanto l’inconsistenza dei nomi, la loro volatilità, il
loro essere semplici suoni. Il nostro essere nulla16.
In realtà, in più parti del testo la donna è, implicitamente o
esplicitamente, presentata come appendice del marito, quasi senza
identità. È questo il caso di Lady Bradshaw, un personaggio che
sembra esistere solo per suffragare la teoria femminista secondo
cui «The name of the husband is one of the strongest insignia of
patriarcal power»17.
Insomma, è evidente che il titolo e la continua ripresa anaforica del cognome costruiscono un personaggio intrappolato in
un matrimonio convenzionale e nelle convenzioni sociali. Nulla
toglie che vi sia in queste righe anche l’ironico ammiccamento
a cui si riferisce A. Anedda, considerate la complessità e la ipersemantizzazione dei segni letterari18, ma di certo non possiamo
ignorare o minimizzare gli indizi che rinviano alla critica relativa
alla posizione femminile, se costruiamo una puntuale mappa di
unità co-testuali, contestuali e intertestuali. Paradigmatico, in una
sezione del testo che segue l’enunciato in questione, il lungo flusso
di coscienza di Elizabeth Dalloway, la quale rifiuta la madre come
modello femminile, sentendo che sarebbe infelice nel ruolo tradizionale della donna della sua classe, con le aspirazioni limitate al
matrimonio, ai figli, ai party. È una donna moderna influenzata da
alcuni mutamenti in atto nella società inglese postbellica. Questa
unità co-testuale dà una chiave di lettura inequivocabile di Mrs
Dalloway, suggerendo che le limitazioni della sua vita derivano da
presupposti generali e da convenzioni sociali: la società (e quindi
la donna) è mutata solo dopo la guerra.
16
A. Anedda, Che cos’è la realtà? E chi sono i giudici della realtà? in V. Woolf, La
signora Dalloway, Einaudi, Torino 2012, p. VIII
17
J. Rose, The Haunting of Sylvia Plath, Virago, London 1991, p. 112.
18
Cfr. W. Empson, Sette tipi di ambiguità, Einaudi, Torino 1965.
57
Piera Sestini
Per comprendere appieno la necessità di optare per una mera
trascrizione del titolo, occorre infine ricordare che, come annotò
la Woolf nel suo diario, esso fu scelto tra molte altre ipotesi, The
Party, At Home, e The Hours, quest’ultimo molto significativo,
vista l’importanza del tempo (o dei tempi) nel romanzo.
Passiamo al secondo elemento che intendo esaminare a fini
traduttivi, la ricorrenza dell’immagine del mare nel testo19. Già
l’incipit contiene un riferimento al mare nella quarta frase: «And
then, thought Clarissa Dalloway, what a morning – fresh as if
issued to children on a beach». Questo pensiero fa scattare nella
consciousness di Clarissa un moto interiore, un sentimento quasi
infantile: «What a lark! What a plunge!» Seguono poi similitudini
poetiche che insistono sui dati sensoriali dai quali parte il processo
memoriale in maniera proustiana (mi riferisco alle immagini sinestetiche «like the flap of a wave»; «the kiss of a wave»).
Ma è l’enfatica esclamazione «What a plunge» = «che tuffo», a
meritare una particolare attenzione per non tradurre in maniera
inappropriata alcuni segmenti essenziali del romanzo. Prima
di tutto, vediamo come quelle versioni in cui non è ridotta al
minimo la mediazione del traduttore non abbiano colto nel
segno, cioè non abbiano fatto quello che un’analisi traduttologica corretta deve fare: costruire i modelli delle varie isotopie che
caratterizzano il testo, in questo caso sul piano del contenuto
(isotopie semantiche):
-- A. Scalero: «Che voglia matta di saltare!» (p. 3)20.
-- N. Fusini: «Che emozione! Che tuffo al cuore!» (Mondadori,
p. 3).
-- N. Fusini: «Che gioia! Che terrore!» (Feltrinelli, p. 1).
-- A. Nadotti: «Che allegria! Che tuffo!» (p. 4).
19
V. Woolf e J. Joyce sono in effetti considerati dei veri e propri eredi della
tradizione derivante dalla poesia simbolista francese. Il romanzo della Woolf in cui
è maggiormente attivato il livello simbolico è sicuramente The Waves, ma anche in
Mrs Dalloway ricorrono vari simboli, siano essi tropi convenzionali, interpretazioni
figurali o comunque connotazioni metaforiche che dipendono da particolari
sottocodici dell’autrice.
20
Si noti la drastica e infelice riduzione: le due esclamazioni del testo di
partenza sono racchiuse in una sola nel testo di arrivo.
58
L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf
-- M. Sestito: «Che bellezza! Che tuffo!» (p. 45).
-- B. Gambaccini: «Quale emozione! Che batticuore!» (p. 5).
Questa espressione emotiva, «Che tufffo», sottolineata dall’intonazione (segno diacritico dell’esclamazione) ha un valore prolettico, riferendosi a un significato più profondo che si appalesa a poco
a poco nella lettura (intratestualità globale). Bisogna insomma,
anche in questo caso, riconoscere un codice di riferimento e la
pertinenza del rapporto tra questo elemento e quelli che seguono
(co-testo, appunto). Le versioni di Nadotti e Sestito contengono
l’esatta traduzione secondo la mia ipotesi interpretativa. Sappiamo
infatti che il testo letterario comporta l’attuazione di un costante
circolo ermeneutico fatto di congetture e verifiche.
Secondo Greimas due o più elementi costituiscono un’indicazione isotopica quando sono semanticamente omogenei21.
Ebbene, nella fattispecie l’iterazione di certe parole o locuzioni
rinvia, come detto, al medesimo referente, il mare. Le immagini
del mare diventano anche un mezzo attraverso il quale la protagonista, Mrs Dalloway, e il deuteragonista, Septimus Warren Smith,
sono correlati.
Il critico americano J. Hillis Miller ha suggerito che i due movimenti opposti del romanzo, il movimento ascendente (che culmina
nel party) e il movimento discendente (che culmina, o meglio che
declina, nella morte di Septimus), sono già implicitamente indicati
attraverso le due esclamazioni «What a lark!» e «What a plunge!»22.
Questa felice intuizione di Miller trova conferma se effettuiamo
un’attenta analisi intratestuale. Prendiamo, a titolo esemplificativo, questo segmento del testo: «But this young man who had
killed himself – had he plunged holding his treasure?» (p. 202). È
evidente che il verbo to plunge che compare in questo pensiero di
Mrs Dalloway formulato in stile indiretto libero vada tradotto alla
lettera con il verbo tuffarsi.
21
Cfr. A.J. Greimas, Del Senso, Bompiani, Milano 1974, e, dello stesso autore,
Del Senso 2: narrativa, modalità, passioni, Bompiani, Milano 1985.
22
J. Hillis Miller, Mrs Dalloway. Repetition as the Raising of the Dead, in
Fiction and Repetition. Seven English Novels, Harvard University Press, Cambridge/
Massachusetts 1982, p. 183.
59
Piera Sestini
Vediamo ora le traduzioni prese come campione per una valutazione comparativa:
-- A. Scalero: «Ma quel giovane che si era ucciso - aveva fatto il
gran passo tenendo stretti a sé i suoi tesori?» (p. 224).
-- N. Fusini: «Ma quell’uomo giovane che s’era ucciso – s’era
buttato tenendo stretto il suo tesoro?» (Mondadori, p. 170).
-- N. Fusini: «Sì, quell’uomo giovane s’era ucciso – ma s’era
buttato tenendo stretto il suo tesoro?» (Feltrinelli, pp.167168).
-- A. Nadotti: «Ma quel giovane uomo che si era ucciso - si era
buttato stringendo a sé il suo tesoro? » (p. 184).
-- M. Sestito: «Ma questo giovane uomo che si era ucciso – si era
buttato tenendo stretto il suo tesoro?» (p. 441).
-- B. Gambaccini: «Ma quando quel giovane si era suicidato,
aveva tenuto stretto a sé il suo tesoro?»23 (p. 196).
Nessuna delle versioni italiane qui citate riporta il verbo
«tuffarsi», che invece acquisisce grande pregnanza semantica in
questo specifico contesto, tant’è che poche righe sopra, quando
Mrs Dalloway riflette sul fatto che i Bradshaw hanno portato
la morte nel suo party raccontando del giovane che si è ucciso,
ricorda ciò che costoro hanno detto «He had thrown himself from
a window». To throw oneself from è il verbo neutro che ode Mrs
Dalloway quando viene descritto il suicidio di Septimus, ma non è
quello che balena poi nella sua consciousness (to plunge, ecco ribadito il valore simbolico del mare, ed anche il link – uno dei link – tra
Clarissa e Septimus).
Poco più avanti, il punto focale è sempre Mrs Dalloway, che
pone se stessa a confronto con Septimus; qui la morte è vista come
l’annegare [in mare] = to sink: « Somehow it was her disaster – her
disgrace. It was her punishment to see sink and disappear here a
man, there a woman, in this profound darkness, and she forced to
stand here in her evening dress» (p. 203).
Anche in questo caso il segno linguistico che rinvia alla valenza
simbolica del mare è stato tradotto con verbi che attenuano tale
Si noti l’ellissi totale del verbo to plunge.
23
60
L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf
rimando anaforico (e quello cataforico degli elementi precedenti,
come il verbo to plunge o altri segmenti del testo), indebolendo la
coerenza semantica del discorso.
Queste le traduzioni:
-- A. Scalero: «[…] veder scomparire qui un uomo, là una donna
come ingoiati dalle tenebre […] » (p. 225).
-- N. Fusini: «[...] veder sprofondare e scomparire in quel buio
profondo ora un uomo, ora una donna […]» (Mondadori, p.
171; Feltrinelli, p. 168).
-- A. Nadotti: «[…] veder sprofondare e sparire ora un uomo, ora
una donna, in quelle tenebre fitte […]» (p. 185).
-- M. Sestito: «[…] veder affondare e sparire qui un uomo, lì una
donna, in questa profonda oscurità […]» (pp.442-443).
-- B. Gambaccini: «[…] veder scomparire nelle tenebre ora un
uomo, ora una donna […]» (p. 197).
Il verbo annegare avrebbe rimandato inequivocabilmente al
mare come simbolo di morte, al pari del testo fonte.
A conferma della ripresa di elementi cataforici attraverso segni
linguistici che sono, in una diffusa co-testualità, nel contempo
anaforici e cataforici, si può notare che ancor prima Septimus
stesso si vede come un marinaio che si espone al mare e affoga:
«But he himself remained high on his rock, like a drowned sailor
on a rock. I leant over the edge of the boat and fell down, he
thought. I went under the sea» (p. 75).
Le traduzioni comparate usano in questo caso i giusti traducenti, ma dati i mancati rimandi antecedenti e successivi, essi non
acquisiscono la pregnanza che hanno le espressioni originali nel
testo fonte.
Il mare, dicevo, assume grande rilevanza simbolica in questo
romanzo e, come tutti i simboli, è plurivalente: si associa ora alla
morte (gli enunciati fin qui esaminati ne sono un chiaro esempio),
ora alla vita, con il suo flusso e riflusso. Paradigmatico a questo
riguardo il punto di vista di Peter Walsh, che vede il movimento della gente che si affaccenda per Londra come una Londra
che si imbarca. Quindi il mare che simboleggia la vita frenetica
della metropoli. E la Woolf utilizza per questa estesa similitudine
61
Piera Sestini
termini marinari che le traduzioni esaminate riportano con varianti minime. Questo ci conferma che la ricorrenza di parole o locuzioni afferenti al campo semantico del mare non deve essere ignorata al momento della traduzione. Ne è ulteriore esempio l’utilizzo
di termini correlati al mare per indicare l’assoggettamento di Lady
Bradshaw alla volontà del marito: «[…] only the slow sinking,
waterlogged, of her will into his» (p. 110).
-- A. Scalero: «null’altro che il lento sommergere, quasi di una
barca che fa acqua, entro la volontà del marito» (p. 120).
-- N. Fusini: «solo l’affondare lento della volontà di lei in quella
del marito, come fa una barca che si carica d’acqua» (Mondadori, p. 93; Feltrinelli, p.90).
-- A. Nadotti: «solo un lento affondare, naufragare, della sua
volontà in quella di lui» (p. 100).
-- M. Sestito: «solo il lento affondare, imbarcando acqua, della
sua volontà in quella di lui» (p. 257).
-- B. Gambaccini: «il suo animo si era lentamente adagiato e sottomesso, quasi si trattasse di una barca su cui una falla lasciava
lentamente entrare acqua, alla volontà del coniuge» (p. 106).
Solo Fusini, Nadotti e Sestito traducono il verbo to sink senza
addomesticamenti, con il diretto affondare (usato in altre parti
del testo = ulteriore segno di una co-testualità ad ampio raggio).
Proporrei: «solo il lento affondare della volontà di lei in quella
di lui, come una nave che imbarca acqua», oppure la versione di
Sestito, che evita una similitudine e un allungamento del testo
fonte, contenente un’espressione ‘abbreviata’, una sorta di ben più
incisiva descrizione metaforica.
Questa immagine tragicomica che connota la posizione subalterna della donna ci riporta a quanto già detto a proposito del
significato veicolato dall’alta ricorrenza dell’appellativo Mrs, quasi
a intervalli regolari, a mo’ di martellante refrain, al pari dei rintocchi del Big Ben, seppur in altro ambito isotopico.
Il terzo elemento che mi sembra possa illustrare in maniera
inequivocabile l’(im)possibile necessità di tradurre Mrs Dalloway
attiene in un certo senso al genere, o meglio alla prossimità dei
generi. Azzarderei un’ipotesi interpretativa secondo cui la «fedeltà
62
L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf
al ‘qui, ora’, che manifesta il tratto distintivo delle poetiche avanguardiste del Novecento: la questione del presente»24 include
anche, ad un altro livello di analisi, l’individuazione di una mescolanza di comico-realistico. E allora, Mrs Dalloway non è anche una
commedia sociale, dove la commedia e la tragedia si fondono e
si mescolano con le relative codificazioni tematico-stilistiche, una
sorta di satira che ha come oggetto la rappresentazione della realtà
quotidiana (del presente, appunto) in uno dei suoi molti aspetti,
ripeto, serio-comici?25
Ho già parlato della critica al sistema sociale che serpeggia nel
testo woolfiano in riferimento alla posizione della donna, del suo
nome che si disperde nel nome dell’altro, ma l’intento dell’autrice
va oltre. A proposito di figure rappresentanti a vario titolo dello establishment decadente (per lo più uomini) la Woolf fa ricorso a sottili
e composite strategie retorico-narrative, all’arma infallibile dell’ironia, esprimendo un concetto oltre i limiti della verosimiglianza.
Ecco dunque il proliferare di aggettivi iperbolici quali majestic,
magnificent e simili, declinati anche nella forma di avverbi, veri e
propri stilemi attraverso cui la Woolf tratteggia tronfi personaggi.
Paradigmatica a tal riguardo è la caratterizzazione di Lady Bruton,
che, dopo quello che per lei è l’evento della giornata, ovvero scrivere un’insulsa lettera al Times con l’aiuto di Hugh Whitbread, deve
ritirarsi nella sua stanza, distendersi sul sofà, sospirando assonnata
e, epilogo inatteso, russando fragorosamente.
And Lady Bruton went ponderously, majestically, up to her room,
lay, one arm extended, on the sofa. She sighed, she snored, not that
she was asleep, only drowsy and heavy, drowsy and heavy, like a
field of clover in the sunshine this hot June day, with the bees going
round and about and the yellow butterflies (p.122).
M.G. Tonetto, Recensione, cit., p. 205.
Assai significativo è l’atteggiamento snob della stessa Mrs Dalloway, cui è
riservato nel testo un trattamento ironico da parte del narratore, come rivela il
linguaggio affettato che ella adotta al party con persone dell’alta società quali Lord
Gayton e Nancy Blow, due giovani tratteggiati in modo tale da apparire persone
dotate di scarso acume.
24
25
63
Piera Sestini
Ciò che il traduttore deve conservare intatto, in questo breve
segmento narrativo, è la maestria con cui viene stigmatizzato un
atteggiamento sociale: si costruisce l’enunciato secondo una sorta
di crescendo o progressione ascendente, qualcosa di assimilabile
al climax, che poi declina nell’anticlimax.26 Si evoca una scena da
melodramma per un’azione di poco conto, a sottolineare l’ipocrisia, la finzione, la messa in scena operata dalla classe di appartenenza del personaggio, che sembra un poseur, un’attrice che
recita su di un palcoscenico. Ecco dunque che la traduzione deve
veicolare l’impronta caricaturale che ha questo ‘tipo’, questa sorta
di maschera. Immaginiamoci la scena: la Lady che si distende sul
sofà, posizionando ad arte il braccio, mentre l’atmosfera rievoca
lo scenario sonnolento della natura romantica, il ronzio delle api,
le farfalle che volteggiano, l’empatia con la natura… e lei che si
mette a ronfare (anticlimax). Due, in particolare, sono le irriducibili difficoltà traduttive: la riproduzione dei suoni allitteranti, la
paronomasia «sighed / snored», dove, in maniera davvero sapiente, il parallelismo fonico si riflette sul significato sottolineando il
rapporto tra le parole, e le rime interne «drowsy and heavy», ripetute due volte, sempre per collegare il suono al significato, l’aspetto
melodico a quello semantico.
Quattro delle traduzioni qui comparate, per non appesantire il
testo di arrivo, ricorrono, come fanno sovente i traduttori esperti,
all’utilizzo degli aggettivi (pesante / greve / e maestoso). Gambaccini ricorre invece alla locuzione «con passo lento e maestoso». Solo
Nadotti usa due avverbi («lentamente e maestosamente»), veicolando così anche il tratto prosodico, ovvero serbando la maggior
durata dei suoni che l’avverbio comporta. Se letto ad alta voce,
questo trasmette un’intonazione, un’intensità che sono qui imprescindibili per ironizzare sulla «greve» figura che sale «con incedere
maestoso» le scale. Inoltre, la pregnanza semantica dell’avverbio
26
Assai ironico il rimando alla poesia romantica, al suo linguaggio, alla sua
iconografia; fa parte della terminologia prettamente romantica, per esempio,
l’aggettivo «drowsy» (si veda a tal proposito Ode to a Nightingale di J. Keats,
1820), così come le immagini delle api e delle farfalle contenute nella similitudine.
64
L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf
«ponderously» è pressoché intraducibile, veicolando una cumulativa idea di pesantezza, goffaggine e lentezza.
Hugh Whitbread viene ad un certo punto descritto in termini
similari.
A magnificent figure he cut too, pausing for a moment (as the
sound of the half-hour died away) to look critically, magisterially, at socks and shoes; impeccable, substantial as if he beheld the
world from a certain eminence, and dressed to match […] (p. 113).
Procediamo alla comparazione:
-- A. Scalero: «Fermatosi un istante, mentre il rintocco della
mezza moriva, a scrutare calzini e scarpe con l’occhio critico
del conoscitore, egli appariva veramente una bella figura:
impeccabile, dignitoso, come se contemplasse il mondo
dall’alto; vestito in modo inappuntabile» (pp. 123-124).
-- N. Fusini: «Faceva proprio un’ottima figura, lì fermo (mentre
il rintocco della mezz’ora si spegneva) a guardare con sguardo
critico, da intenditore, scarpe e calzini; era impeccabile,
solido, come se contemplasse il mondo da una certa altezza,
sempre vestito con la consueta eleganza» (Mondadori, p. 95;
Feltrinelli, p. 92).
-- A. Nadotti: «Faceva anche una magnifica figura, lì fermo
(mentre il rintocco della mezz’ora si affievoliva) a scrutare
con occhio critico, da intenditore, calze e scarpe. Impeccabile, maestoso, come se contemplasse il mondo da una certa
altezza, e vestisse di conseguenza» (p. 103).
-- M. Sestito: «E poi faceva una gran bella figura, lì fermo per un
attimo (mentre il suono della mezz’ora si spegneva) a guardare
con l’autorevolezza dell’esperto scarpe e calzini; impeccabile, imponente, come se contemplasse il mondo da una certa
altezza» (p. 263).
-- B. Gambaccini: «Immobile, all’ultimo rintocco della mezza,
scrutava calzini e scarpe con l’occhio critico del conoscitore
ed appariva davvero bello, elegante, dignitoso, quasi fosse il
mondo intero ch’egli, nel suo impeccabile abito, contemplasse
dall’alto» ( p. 109).
65
Piera Sestini
Nel tradurre questo breve segmento va prestata estrema attenzione alla scelta delle parole e alla loro combinazione. È evidente come l’ordine delle parole iniziali esprima enfasi, una sorta di
elocutio esclamativa, iperbolica, esagerata, affettata, in relazione
alle circostanze del discorso (un uomo che guarda in una vetrina
calzini e scarpe). Nel leggere ad alta voce il passo, l’enfasi semantica si identificherebbe con un aumento di intensità della voce.
Questa sottolineatura espressiva per marcare il concetto si può
rendere nel testo di arrivo non dislocando diversamente l’ordine delle parole iniziali e mantenendo intatta la valenza iperbolica dell’aggettivo (Una magnifica figura egli faceva…). Nadotti e
Sestito si avvicinano più di tutti ad una traduzione orientata verso
il testo fonte, salvo che per aver effettuato un reordering, ricreando così una costruzione canonica che elide la marcata enfasi
della costruzione inglese, operazione qui inopportuna, in quanto
fa calare il tono della frase.
Al fine di non scalfire il coefficiente d’intensità, anche i due
avverbi, «critically» e «magisterially» dovrebbero avere come traducenti «criticamente» e «magistralmente», o al massimo «autorevolmente» (non «da intenditore» o «con l’occhio del conoscitore», né
«con l’autorevolezza dell’esperto»), altrimenti l’ironia svanisce. E
come fare con la punteggiatura, con quella virgola che crea una
piccola suspense prima di rivelare l’oggetto di cotanto autorevole
sguardo? Insomma, si mette in atto un falso crescendo, l’apparente costruzione del climax, che si esaurisce poi nella gradazione discendente dell’anticlimax (una magnifica figura egli faceva,
fermo a scrutare criticamente, magistralmente… scarpe e calzini).
Infine, vi è una unità polisemica, il sostantivo astratto «eminence»,
così evocativo e così difficile da tradurre: «come se contemplasse il mondo dall’alto/da una certa altezza» è ciò che riportano le
traduzioni in esame; va anche bene, questo è grezzamente il senso,
tutto sommato, ma «eminence» gioca sul duplice significato: da
una posizione elevata (fisicamente elevata) e da una posizione di
persona importante, quale Hugh crede di essere. Penso che qualunque traduzione (anche la meno addomesticata, come «posizione
eminente») decreti un residuo comunicativo e non sia all’altezza
dell’astratto eminence, che (se badiamo al co-testo) non può non
66
L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf
collegarsi alla size del personaggio, a cui si accenna in questo lungo
periodo dalla struttura prevalentemente ipotattica.
La questione di come tradurre i sostantivi astratti che funzionano egregiamente nella lingua di partenza, ma non trovano una
sinonimia secca in quella di arrivo, si pone in più parti del testo.
Esaminerò un breve passo a tal proposito per esemplificare ulteriormente una sorta di impasse traduttivo.
Assai densa di significato è l’immagine dell’auto misteriosa
che cela al suo interno qualche importante e non ben identificato personaggio; al passaggio di tale auto, che dopo aver percorso
Bond Street, scivola via oltre Piccadilly, «[…] well-dressed men
with their tail-coats […] perceived instinctively that greatness was
passing, and the pale light of the immortal presence fell upon
them as it had fallen upon Clarissa Dalloway» (pp. 19-20).
Come tradurre greatness?
-- A. Scalero: «[…] signori ben vestiti in tight […] istintivamente
percepirono che passava un alto personaggio e il pallido riflesso li investì […]» (p. 22).
-- N. Fusini: «[…] uomini ben vestiti, con tanto di tight […]
ebbero d’istinto la percezione che stava passando un grande, e
il pallido riflesso li investì […]» (Mondadori, p. 17; Feltrinelli,
p. 1).
-- A. Nadotti: «[…] uomini eleganti in tight […] intuirono che
stava passando una persona eminente, e il pallido riflesso
dell’immortale presenza li investì […]» ( p. 19).
-- M. Sestito: «[…] uomini ben vestiti in tight […] percepirono
istintivamente che stava passando la grandezza, e la fievole luce
della presenza immortale cadde su di loro […]» (pp. 78-79).
-- B. Gambaccini: «[…] uomini ben vestiti con tanto di tight
[…] ebbero d’istinto la percezione che stesse passando un
grande; e il pallido riflesso della presenza immortale li travolse
[…]» (p. 21).
Il narratore, ovviamente, si fa beffe dell’idea che la persona
misteriosa possa essere la personificazione della greatness (grandezza, nobiltà, elevatezza), una persona regale, forse la stessa sovrana
o un alto parlamentare (queste sono le congetture dei vari perso-
67
Piera Sestini
naggi), ma usare il termine astratto greatness è assai più efficace, e la
pregnanza semantica viene ribadita, anzi amplificata, definendo poi
tale figura una immortal presence. Attraverso l’ironia, corroborata
dall’iperbole, il narratore sta comunicando implicitamente al lettore
che è più probabile che la persona misteriosa sia molto comune
(per quanto titolata), come si rivela essere, in effetti, il Primo Ministro (il misterioso occupante dell’auto), che viene trattato con lo
stesso rispetto esagerato quando, verso la fine del romanzo, fa la
sua apparizione al party. Si attiva quindi una sorta di procedimento antifrastico: si vuole affermare l’esatto opposto di ciò che viene
detto (rispetto esagerato vs persona di poco conto). Alla fine di
questa analisi, ripropongo il quesito: come tradurre «greatness»?
Tra le versioni comparate, direi che «un grande» si avvicina abbastanza al prototesto, pur essendo un’espressione target oriented, ma
se lasciassimo l’astratto «la magnificenza», enfatizzandolo magari
con «la stessa», o, ancor più prossimo al testo fonte, «la grandezza
stessa»? Così ha fatto Sestito, in pratica. In tal modo ci discostiamo
meno dall’originale, ma certo non se ne ottiene il medesimo effetto:
i sostantivi astratti non hanno in italiano la stessa potenza evocativa e nel contempo la stessa concretezza, mi si perdoni l’ossimoro.
Di nuovo una perdita. Ed è un vero peccato che vi sia un residuo
comunicativo in riferimento all’immagine dell’auto, un essenziale
simbolo del potere e della posizione sociale, per esempio in relazione a Sir Bradshaw, e soprattutto un oggetto che, osservato o ‘udito’
(vedi scoppio del motore) dai personaggi più disparati (incluso il
folle Septimus), rappresenta un eccellente esempio di focalizzazione interna multipla e variabile nel contempo.
Concludo richiamando l’attenzione sul fatto che qui la protagonista viene indicata con nome e cognome, ma senza l’appellativo Mrs. Un lieve affrancamento dalle pastoie patriarcali in questa
passeggiata per Bond Street in cui di continuo Clarissa, sì, Clarissa,
vive la sua vita soggettiva, tuffandosi nel mare della vita e della
morte trasportata dai suoi flussi di coscienza.
68
Stefania Stefanelli
Dal portoghese all’italiano:
il caso di Eça de Queiroz*
Un’esperienza che ritengo abbastanza comune tra gli studiosi, ma anche tra gli appassionati di scrittori stranieri, è quella di
imbattersi a distanza di anni in traduzioni italiane del medesimo
testo, che offrono al lettore soluzioni stilistiche e linguistiche anche
notevolmente dissimili tra loro. I traduttori interpretano diversamente il testo? Oppure le differenze sono generate dai mutamenti che intervengono nel corso di alcuni decenni all’interno della
lingua italiana? E, in questo caso, in che misura incidono questi
mutamenti dell’italiano nella resa della prosa di un autore straniero? In realtà, non esistono risposte certe e univoche a queste
domande anche perché le diverse variabili possono liberamente
intrecciarsi tra loro e perché, comunque, la scelta di una variante
stilistica, fermo restando il rispetto sostanziale del testo originale, è
pur sempre nella facoltà del traduttore.
Sono, queste, le domande dalle quali ha preso le mosse anche
la mia analisi delle traduzioni italiane di un racconto del grande
scrittore portoghese José Maria Eça de Queiroz, e cioè «quel piccolo
capolavoro» (per dirla con le parole di Ugo Serani) che è José Matias.
Il testo portoghese del racconto al quale ho fatto riferimento è
incluso nella raccolta Contos, edita nel 1989 a cura di Luiz Fagundes
Duarte1. Le traduzioni italiane che ho esaminato sono le seguenti:
*
Un’altra versione di questo saggio è stata pubblicata con il titolo Traduzione
e variazione linguistica in M. Lupetti – V. Tocco (a cura di), Traduzione e auto­
traduzione. Un percorso attraverso i generi letterari, Edizioni ETS, Pisa 2013.
1
J.M.Eça de Queiroz, Contos, edição organizada por L. Fagundes Duarte,
Publicações Dom Quixote, Lisboa 1989, pp. 121-151.
STEFANIA STEFANELLI
-- Giuseppe Matias di Eça de Queiroz, traduzione di Luciana
Stegagno Picchio, in Mario Bonfantini (a cura di), Le più
belle novelle dell’Ottocento, Gherardo Casini Editore, Roma
1951, pp. 1175-1192.
-- José Mathias, in Eça de Queiroz, Una strana ragazza bionda,
a cura di Mario Puccini, vol. LXVIII, Universale Economica Serie Letteratura, Milano 1953, pp.107-135.
-- José Maria Eça de Queiroz, José Matias, a cura di Luciana
Stegagno Picchio, Tranchida Editori, Milano 1992.
-- José Matias, in José Maria Eça de Queiroz, Racconti, introduzione, traduzione e note di Davide Conrieri e Maria Abreu
Pinto, Rizzoli, Milano 2000, pp. 276-3022.
Uno degli elementi che salta agli occhi anche del lettore non
specialista è quello del differente trattamento dei toponimi. Nelle
traduzioni più antiche, i toponimi vengono tradotti in italiano
o in forme italianizzate all’interno di un’ampia oscillazione di
soluzioni possibili, mentre il mantenimento della forma originale nelle traduzioni più recenti può derivare dalla presupposizione del traduttore che il lettore medio non sia più così distante
e ignaro come un tempo da situazioni e culture di altri paesi.
Nella tabella sottostante è possibile vedere, a partire dall’originale
portoghese, come i toponimi siano trattati diversamente nelle
varie traduzioni:
Eça de
Stegagno
Puccini 1953 Stegagno
Conrieri –
Queiroz 1989 Picchio 1951
Picchio 1992 Pinto 2000
rua de S.
Bento
via San Bene- via São Bento rua São
detto
via San Bento Bento
via di São
Bento
via San Bento
2
Le traduzioni verranno da questo momento indicate nel testo con queste
abbreviazioni: Stegagno Picchio 1951; Puccini 1953; Stegagno Picchio 1992;
Conrieri – Pinto 2000, seguite dal numero di pagina. Quando le due traduzioni
della Stegagno, quella del 1951 e quella del 1992, sono identiche, cito soltanto
quella del 1992.
70
DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ
pela ponte e sul Ponte e
lungo il
sul Ponte e
sul ponte e
pelo Choupal nel Bosco dei Ponte e lungo nel Pioppeto nel Choupal
Pioppi
il Choupal
Cemitério
dos Prazeres
Cimitero dei Cimitero
Cimitero dei Cimitero dos
Piaceri
«dos Prazeres» Piaceri
Prazeres
Cimitero dei
Piaceri
Rossio
Rossio
Rociò
Rua do
Alecrim
via del
Rosmarino
via di Alecrim via del
Rosmarino
via Alecrim
Bairro Alto
Rione Alto
Barrio Alto
Bairro Alto
Bairro Alto
da Graça
della Grazia
di Graça
della Grazia
della Graça
Santa Isabel
Santa Isabella Santa Isabella Santa Isabella Santa Isabel
Rua do Ouro via dell’Oro
via dell’Oro
Rossio
via dell’Oro
Rossio
via do Ouro
Nella traduzione più recente, quella di Conrieri-Pinto del
2000, viene quasi sempre mantenuto il toponimo originale3,
traducendo soltanto il nome al quale il toponimo si riferisce (rua
‘via’, Cemitério ‘Cimitero’).
L’ipotesi secondo la quale le differenze fra traduzioni realizzate in tempi diversi possano derivare anche dai mutamenti interni
all’uso della lingua di arrivo ‒ in questo caso dell’italiano ‒ può
qui essere verificata confrontando le due traduzioni di José Matias
che Luciana Stegagno Picchio ha pubblicato a più di quarant’anni di distanza, rispettivamente nel 1951 e nel 1992. La revisione
operata dalla Stegagno sul testo della prima traduzione non introduce cambiamenti sostanziali; ci sono tuttavia mutamenti lessicali
che rivelano una correzione di tiro sul piano delle scelte stilistiche,
lasciando quasi inalterato il significato:
-----
eleganza discreta → eleganza sobria;
borghesia seria → borghesia austera;
mi ricordo nitidamente → ho ben chiaro il ricordo;
raffinatezze → finezze.
Fa eccezione soltanto la forma italianizzata «San Bento».
3
71
STEFANIA STEFANELLI
I fenomeni più significativi che emergono dal confronto tra le
due traduzioni sono:
-- la sostituzione di forme lessicali disusate con le corrispondenti forme in uso: s’inalzava → s’innalzava; fiso → fisso;
guernita → guarnita;
-- il passaggio sistematico egli → lui; essa, ella → lei;
-- il passaggio sistematico ed → e; ad → a (tranne che di fronte
a parole che iniziano per la stessa vocale);
-- l’eliminazione sistematica dell’apocope: attraversar → attraversare; fermar → fermare; esser → essere; quel che →
quello che; bicchier → bicchiere, ecc.
Gli ultimi tre fenomeni sono tra quelli indicati da Francesco
Sabatini4 come tipici del passaggio da un italiano letterario e scolastico a un italiano dell’uso medio che non è la lingua del parlato
informale, ma quella che viene impiegata in contesti più formali,
per esempio nella scrittura giornalistica. La traduttrice ha dunque
introdotto modifiche necessarie ad adeguare la lingua del racconto
all’italiano attuale accogliendone i tratti dell’uso e tuttavia mantenendo un registro coerente alla lingua scritta.
Nella traduzione di Mario Puccini5, anch’essa risalente ai primi
anni Cinquanta del Novecento, troviamo ancora numerosi segni
della persistenza di un linguaggio letterario oggi desueto, come
F. Sabatini, L’«italiano dell’uso medio»: una realtà tra le varietà linguistiche
italiane, in G. Holtus – E. Radtke (a cura di), Gesprochenes Italienisch in Geschichte
und Gegenwart, Narr, Tübingen 1985, pp. 154-184.
5
Nato a Senigallia nel 1887 e morto a Roma nel 1954, Mario Puccini fu
uno scrittore significativo del suo tempo. Ispirandosi al verismo verghiano che
contrapponeva alla prosa dannunziana, scrisse racconti e romanzi d’ambiente. Fu
ispanista e traduttore dallo spagnolo. Rimangono di lui anche pagine sparse di
traduzioni di Eça de Queiroz, con correzioni autografe. Vasco Pratolini lo definì
come «uno dei maestri a cui la letteratura italiana deve rendere giustizia». Dunque,
nei primissimi anni Cinquanta del Novecento, nel pieno fulgore del Neorealismo
e negli anni di Moravia, Calvino e Gadda, il linguaggio letterario della prima metà
del secolo costituiva ancora per alcuni scrittori un modello valido, soprattutto
per un letterato come Mario Puccini, ma influenzava anche una traduttrice più
giovane, come Luciana Stegagno Picchio.
4
72
DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ
l’uso di ‘egli’ ed ‘essa’ in posizione di soggetto o le elisioni della
vocale finale in «quand’era» (p. 108) e «quand’essa» (p. 122). La
regola del dittongo mobile, nella quale si ammettevano ambedue
le varianti di un dittongo (come in ‘foco’/‘fuoco’) ormai è stata
sostituita da serie lessicali fissate (per esempio: ‘arrotava’ e non
‘arruotava’, ‘fuoco’ e non ‘foco’): nella traduzione di Puccini troviamo invece forme legate alla norma grammaticale del tempo, come
«percoteva» (p. 117) e «moveva» (p. 118), o forme non più in uso,
come «veduto» (p. 113), «debbo» (p. 118), «egli è che» (per ‘il fatto
è che’, p. 135) o, ancora, toscanismi poco usati, come «cotesto»
(pp. 114 e 121) e «desinavano» (p. 112), fino ad arrivare a parole
davvero lontane, come «correggiòli» (per ‘staffe’, p. 110) e «favoriti» (per ‘basette’, p. 115).
Tuttavia, le variazioni più interessanti nella traduzione di
Puccini si individuano a livello testuale e riguardano le partizioni
del testo: il traduttore introduce infatti nel racconto una suddivisione in sei paragrafi numerati con numeri romani e ventiquattro
capoversi non presenti nel testo portoghese. Non sapendo a quale
edizione dei Contos si sia riferito Puccini, ho confrontato la sua
traduzione con la prima della Stegagno (1951) perché è probabile
che i due, a distanza pochissimi anni, si siano rifatti alla stessa
edizione portoghese. Nel testo della Stegagno, la suddivisione
in paragrafi è assente e i capoversi corrispondono nella maggior
parte dei casi a quelli presenti nell’edizione portoghese dei Contos;
è dunque da presumere che la partizione del testo presente nella
traduzione di Puccini sia stata introdotta dal traduttore stesso.
L’uso del capoverso e, a maggior ragione, la suddivisione di un
testo in paragrafi numerati, non è semplicemente un accorgimento
tipografico, ma entra nel vivo della concatenazione dei significati
comunicati dal testo; aggiungere o eliminare queste suddivisioni è
dunque una ‘interferenza’ del traduttore più forte di quanto non
appaia6. Eccone un esempio:
6
«Andare a capo significa […] avvertire il lettore che l’argomento cambia,
o che se ne affronta un aspetto nuovo e significativo. Rispetto al punto, lo spazio
bianco che contrassegna il capoverso […] sottolinea il passaggio a un distinto
blocco informativo o argomentativo», L. Serianni, Italiani scritti, Il Mulino,
Bologna 2003, p. 56. Per un quadro generale della linguistica testuale, vedi R.A.
73
STEFANIA STEFANELLI
[…] talvez debaixo daquela gordura e daquela literatura, ambas
tão sordidas, se abrigue uma alma compassiva. Agora é a nossa
tipóia… Quer que desça a vidraça? Um cigarro? Eu trago fosforos.
Por este José Matias foi um homem desconsolador para quem,
como eu, na vida ama a evolução logica […] (Eça de Queiroz
1989, p. 123).
[…] forse, sotto quel grasso e quella letteratura, ambedue così
sordide, si nasconde un’anima compassionevole. Adesso tocca alla
nostra carrozza… Vuole che apra i vetri? Una sigaretta?... I fiammiferi ce li ho io. Dunque questo Giuseppe Matias fu un uomo
sconfortante per chi, come me, nella vita ama l’evoluzione logica
[…] (Stegagno Picchio 1992, pp. 19-20).
[…] forse, sotto quella grassezza e quella letteratura ‒ l’una e l’altra
così sordide ‒ costui nasconderà un animo pietoso… Ecco, questa
è la nostra carrozza… Vuole che abbassi il vetro?...Un sigaro?... Sì,
ho anche i cerini…
Dunque, questo José Mathias fu un uomo sconcertante per chi,
come me, ama l’evoluzione logica […] (Puccini 1953, p. 109).
Nella traduzione di Puccini il capoverso (sottolineato dal rientro
del rigo successivo: «Dunque, questo José Matias…») interrompe
il flusso del parlato simulato marcato da allocuzioni dirette all’interlocutore; nel contesto discorsivo, queste rappresentano soltanto
brevi inserti che non spezzano (proprio come avviene nel parlato
spontaneo) l’unità del discorso. Ancora più intrusivo appare l’intervento che segmenta il testo in paragrafi numerati, introducendo
partizioni testuali non presenti nell’originale.
Ma l’elemento secondo me più significativo che emerge dal
confronto tra le traduzioni di José Matias è il trattamento che i
diversi traduttori riservano alla sintassi e allo stile di questo racconto, uno stile che viene perfettamente descritto in poche righe da
Ugo Serani, nella Introduzione alla raccolta da lui curata dal titolo
Racconti esemplari:
de Beaugrande – W.U. Dressler, Introduzione alla linguistica testuale, Il Mulino,
Bologna 1994.
74
DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ
Esemplari perché rappresentano alcune delle caratteristiche
migliori della sua scrittura, dove l’apparente ripetitività dona il
ritmo alla frase. La descrizione, che potrebbe sembrare superflua,
prolissa, slegata dalla narrazione, diviene il tema stesso del narrare.
Non sono i grandi avvenimenti a costituire la storia, piuttosto
sono i particolari del paesaggio, di un vestito, un tic, un vezzo,
il modo di camminare di un personaggio a raccontare la storia7.
Lo stile queiroziano si realizza mediante una sintassi che
integra prodigiosamente complessità e linearità. Il racconto José
Matias è composto da periodi lunghi e articolati, lontani però dal
modello della sintassi ciceroniana strutturata sulla concatenazione
delle subordinate alla principale; il periodo si struttura piuttosto
mediante la giustapposizione di frasi autonome e la geminazione
di subordinate che si coordinano tra loro:
O José Matias permanecia devotamente crente de que Elisa, na
profundidade da sua alma, nesse sagrado fundo espiritual onde
não entram as imposições das conveniências, nem as decisões
da razão pura, nem os ímpetos do orgulho, nem as emoções da
carne ‒ o amava, a ele, unicamente a ele, e com um amor que
não deperecera, não se alterara, floria em todo o seu viço, mesmo
sem ser regado ou tratado, como a antiga Rosa Mística (Eça de
Queiroz 1989, p. 137).
In questo lungo periodo, la frase principale («permanecia …
crente») è seguita immediatamente dalla congiunzione «de que»,
inducendo così nel lettore l’aspettativa della subordinata («o
amava») che viene collocata invece a notevole distanza dal verbo
reggente, dopo due complementi di luogo e una frase relativa
introdotta dall’avverbio di luogo «onde», frase anch’essa caratterizzata dall’ampia geminazione dei nomi con funzione di soggetto. La subordinata oggettiva, a sua volta, regge una triplice frase
relativa («que não deperecera, não se alterara, floria em todo o seu
viço») che regge una concessiva implicita («mesmo sem ser regado
7
U. Serani, Introduzione a J.M. Eça de Queirós, Racconti esemplari, a cura di
U. Serani, Liguori, Napoli 2000, p. 5.
75
STEFANIA STEFANELLI
ou tratado»). Ovviamente, questo tipo di sintassi persegue l’effetto
stilistico di una teatralizzazione del parlato: il volontario ritardo
con cui viene introdotta la frase oggettiva le dà un rilievo che
assomiglia all’uso di un tono alto della voce in una declamazione,
come anche al picco musicale in un brano melodico.
La traduzione di Conrieri e Pinto si attiene con grande fedeltà
alla struttura sintattica di questo periodo:
José Mathias rimaneva devotamente persuaso che Elisa, nella
profondità della sua anima, in quel sacro fondo spirituale dove
non entrano le imposizioni delle convenienze, né le decisioni
della ragion pura, né gli impeti dell’orgoglio, né le emozioni della
carne ‒ lo amava, lui, unicamente lui, e con un amore che non
era deperito, non si era alterato, fioriva in tutto il suo rigoglio,
anche senza essere annaffiato o curato, come l’antica Rosa Mistica!
(Conrieri – Pinto 2000, p. 290).
Per collegare tra loro le parti del periodo, sia Puccini che Stegagno fanno ricorso all’uso della ripetizione lessicale; Puccini, inoltre,
introduce anche un punto fermo, probabilmente per conferire
enfasi all’esclamazione finale:
José Mathias era devotamente persuaso che Elisa nella profondità
della sua anima, in cotesto sacro fondo spirituale dove non entrano
le imposizioni delle convenienze, né gli impeti dell’orgoglio, né le
emozioni della carne, era persuaso che Elisa amasse lui, solo lui, e
di un amore inestinguibile e inalterabile, fiorente ancora in tutto
il suo vigore, sebbene non annaffiato né curato. Come l’antica Rosa
Mistica!... (Puccini 1953, p. 121).
José Matias era ancora profondamente convinto che l’Elisa,
nell’intimo dell’anima sua, in quel sacro fondo spirituale in cui
non entrano né le imposizioni, né le convenienze, né le decisioni della pura ragione o gli impeti dell’orgoglio e nemmeno
le emozioni della carne, era convinto che in quell’intimo lei lo
amasse ancora, amasse lui, unicamente lui, e di un amore che non
era appassito, che non si era alterato e che fioriva in tutto il suo
rigoglio, anche senza essere innaffiato o curato, come l’antica Rosa
Mistica! (Stegagno Picchio 1992, p. 40).
76
DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ
Ma vediamo un altro esempio:
Então José Matias, com um soluço despedaçado, de transbordante
tormento, cambaleou, tão ansiadamente se agarrou à cortina que
a rasgou, e tombou desamparado nos braços que lhe estendi, e em
que o arrastei para a cadeira, pesadamente, como a um morto ou
a um bêbedo. (Eça de Queiroz 1989, p. 143).
Allora José Matias, con un singhiozzo rotto, di traboccante
tormento, barcollò, si afferrò alla tenda tanto ansiosamente che
la strappò, e cadde abbandonato nelle braccia che gli tesi, e nelle
quali lo trascinai alla sedia, pesantemente, come un morto o un
ubriaco (Conrieri – Pinto 2000, p. 295).
José Mathias, allora, con un singhiozzo disperato, di insopportabile tormento, vacillò, si afferrò alla tenda fino a strapparla, e
cadde privo di sensi tra le mie braccia che si tesero, pronte, verso
di lui. Lo trasportai faticosamente fino a una sedia, come un
morto o un ubriaco (Puccini 1953, p. 127).
Allora José Matias, con un singhiozzo spezzato, di un’indicibile
angoscia, barcollò e si afferrò tanto violentemente alla tenda che
la strappò; quindi, senza più sostegno, cadde fra le braccia che gli
tesi trascinandolo poi fino alla sedia come si trascina un morto o
un ubriaco (Stegagno Picchio 1992, p. 49).
Nella sua traduzione, Puccini trasforma il periodo unico originale in due periodi separati dal punto: il secondo periodo esprime
l’azione conclusiva. La Stegagno introduce una forma interpuntiva
più leggera, il punto e virgola, che comunque marca la separazione
tra la prima parte, che descrive lo stato di José Matias, e la seconda
che esprime l’azione conclusiva («trascinandolo»); inoltre, sostituisce una forma verbale implicita a una originariamente esplicita
(«em que o arrastei»). Da questi confronti si ricava la sensazione
che, nelle traduzioni più antiche, ci sia l’intenzione, più o meno
consapevole, di rendere più facilmente intelligibile al lettore medio
una prosa strutturalmente impeccabile ma complessa alla lettura,
spezzando i periodi per renderli più brevi.
Bisogna riconoscere che la prosa di José Matias, così ricca di
tratti di modernità, presenta indubbie difficoltà per il traduttore
77
STEFANIA STEFANELLI
italiano, e non tanto (o non solo) per le ovvie diversità linguistiche,
ma soprattutto a causa delle vicende storiche della nostra lingua
letteraria: gli scrittori italiani coevi a Eça ‒ persino i drammaturghi,
come nel caso di Pirandello ‒, nei decenni a cavallo tra Ottocento
e Novecento, erano ancora alla ricerca di una lingua unitaria che
rendesse sulla pagina le movenze del parlato; ma, per tutta la prima
metà del Novecento, la lingua scritta media era ancora improntata
alla norma grammaticale di impronta scolastica. Solo nella seconda
metà del secolo, una quantità sempre crescente di scrittori, sia pure
con esiti artistici anche molto diversi tra loro, ha dimostrato di
saper simulare efficacemente il parlato nella pagina narrativa8. In
questi stessi decenni, nell’ambito degli studi linguistici, si è assistito all’affrancamento di molti tratti dell’oralità dall’ostracismo delle
antiche grammatiche: nel 1997, Francesco Sabatini ha pubblicato un saggio nel quale ha dimostrato la correttezza dell’uso della
congiunzione ‘ma’ all’inizio di frase, sostituendo all’antica prospettiva strettamente frasale un’ottica testuale, all’interno della quale
questa congiunzione svolge il ruolo di connettivo tra i periodi
del testo9. In José Matias, cento anni prima del saggio di Sabatini, Eça usa normalmente la congiunzione ‘mas’ a inizio di frase
e qualche volta anche a inizio di capoverso: «Mas o meu amigo,
numa ocasião que o José Matias parou em Coimbra […]» (Eça de
Queiroz 1989, p. 121). Lo scrittore portoghese è andato oltre una
norma grammaticale troppo restrittiva e bisogna rendere ai suoi
traduttori italiani il merito di non avere, nella maggior parte dei
casi, censurato questa scelta.
Nella prosa di Eça c’è un altro tratto che oggi, in italiano, è
quasi il contrassegno del registro dell’uso medio; non a caso lo
stesso Sabatini ha dimostrato che è presente nella nostra lingua
fino dall’antichità e dunque, nonostante la condanna delle grammatiche normative, pienamente meritevole del diritto di cittadinanza: il ‘che’ polivalente. Si tratta di una congiunzione usata per
legare tra loro due frasi, in casi in cui un linguaggio più formale
Cfr. E. Testa, Lo stile semplice. Discorso e romanzo, Einaudi, Torino 1997.
Cfr. F. Sabatini, Pause e congiunzioni nel testo. Quel ma a inizio di frase in
Norma e lingua in Italia, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Milano 1997.
8
9
78
DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ
userebbe un pronome relativo o una congiunzione subordinante
esplicita, o un verbo a un modo finito.
[…] a dor presente, a dor real, era que eli amara sublimemente
uma mulher […] (Eça de Queiroz 1989, p. 138).
[…] il dolore presente, il dolore reale, era che lui aveva amato
sublimemente una donna […] (Conrieri – Pinto 2000, p. 291).
[…] il suo dolore presente e il suo dolore reale consistevano nell’aver
amato sublimemente una donna […] (Puccini 1953, p. 123).
[…] il dolore presente, il dolore reale, era dovuto al fatto che lui
aveva amato sublimemente una donna […] (Stegagno Picchio
1992, p. 42).
Anche in questo caso, in Puccini e Stegagno prevale l’intento
normalizzatore, in linea con il linguaggio letterario tradizionale.
Tuttavia, la modernità del linguaggio di José Matias non risiede
soltanto in tratti così specifici, anche se significativi, ma soprattutto nel suo stile complessivo improntato al dialogismo; l’io narrante si rivolge infatti a un interlocutore secondo varie modalità: il
testo è disseminato di vocativi, di frasi interrogative che simulano
domande retoriche che, in quanto tali, non attendono risposta e di
frasi esclamative che costituiscono talvolta la risposta che il parlante dà alla propria domanda. Una sorta di «parlato-scritto teatralizzato» (per riformulare la terminologia nencioniana)10 perché, per
quanto monologico, simula il dialogo e ne reca le tracce linguistiche, mettendolo ‘in scena’ sulla pagina. Forse per questo, ma anche
per la sua propensione alla speculazione filosofica, questa prosa
richiama il parlato teatrale di Pirandello:
E adivinha o meu amigo como ele gastava o dia? A espreitar, a
seguir, a farejar o apontador de Obras Públicas! Sim, meu amigo!
Uma curiosidade insaciada, frenética, atroz, por aquele homem
que Elisa escolhera!... (Eça de Queiroz 1989, p. 148).
10
Cfr. G. Nencioni, Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato, in G. N.,
Di scritto e di parlato. Discorsi linguistici, Zanichelli, Bologna 1983, pp. 126-79.
79
STEFANIA STEFANELLI
L’inserzione di modi del parlato nella tessitura di una prosa
letteraria richiede insomma l’uso di tratti linguistici specifici che
derivano dal linguaggio colloquiale: la scommessa artistica degli
scrittori che intendono percorrere questa via consiste nella capacità di intrecciare nello stesso testo trame dell’oralità e trame della
scrittura. Di fronte a tale complessità sintattica, anche il traduttore
viene messo a dura prova.
Tornando alle nostre traduzioni queiroziane, le frasi sintatticamente marcate, con dislocazione a destra o a sinistra del focus
informativo e la ripresa pronominale di questo elemento all’interno della frase, rappresentano un elemento tipico del parlato. La
prosa di José Matias ne è disseminata; ecco un esempio di dislocazione a destra con ripresa pronominale:
E dessa mesma janela do 214 o conheci eu também, o apontador!»
(Eça de Queiroz 1989, p. 145).
E da quella medesima finestra del 214 lo conobbi anch’io, il
sorvegliante! (Conrieri – Pinto 2000, p. 297).
E, dalla stessa finestra del 214 conobbi, a mia volta, l’assistente
(Puccini 1953, p. 129).
E da quella stessa finestra del 214 io pure conobbi l’assistente
(Stegagno Picchio 1992, p. 52).
Le traduzioni di Puccini e di Stegagno convertono la frase da
marcata in non marcata, eliminando anche il punto esclamativo. Un altro tratto tipico del dialogo simulato è la ripresa della
domanda dell’interlocutore (qui fittizio, come è noto) con una
frase interrogativa nominale:
O quê! Por causa das calças claras! (Eça de Queiroz 1989, p. 122).
Che? Per i pantaloni chiari? (Conrieri – Pinto 2000, p. 277).
Come? Non vorrebbe venire perché ha i pantaloni chiari? (Puccini
1953, p. 108).
Come? Per i calzoni chiari? (Stegagno Picchio 1992, p. 18-19).
80
DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ
O sujeito de óculos de ouro, dentro do coupé? (Eça de Queiroz
1989, pp. 122-123).
Il tipo con gli occhiali d’oro, nel coupé? (Conrieri – Pinto 2000,
p. 277).
Quel tipo con gli occhiali d’oro, nella berlina? (Stegagno Picchio
1951, p. 1176).
Quel tipo con gli occhiali d’oro, nel cupé? (Stegagno Picchio
1992, p. 19).
Chi è quel signore con gli occhiali d’oro, nel coupé?... (Puccini
1953, p. 108).
Ancora una volta, mentre la traduzione della Stegagno, ma
anche quella di Conrieri e Pinto, rispettano la forma sintattica
originale, quella di Puccini risponde al bisogno del traduttore di
procedere a una normalizzazione grammaticale che reintroduce il
verbo (sottinteso nel testo portoghese) nella frase, ma rischia in
questo modo di tradire la concisione tipica del dialogato.
«L’apparente ripetitività» che «dona il ritmo alla frase» di cui
parla Serani nel brano riportato sopra, si basa anche sulla ripetizione lessicale a contatto o a distanza ed è effettivamente uno dei
mezzi dei quali può servirsi la scrittura per creare sulla pagina un
ritmo che evochi quello della lingua orale, della parola detta:
O que o torturava, meu amigo, o que lhe cavara longas rugas em
curtos meses […] (Eça de Queiroz 1989, p. 137).
Quello che lo torturava, amico mio, quello che gli aveva scavato
lunghe rughe in corti mesi […] (Conrieri – Pinto 2000, p. 290).
Quello che ora lo torturava, amico mio, e gli aveva scavato lunghe
rughe nel viso […] (Puccini 1953, p. 121).
Quello che lo torturava, amico mio, quel che gli aveva scavato
profonde rughe in volto […] (Stegagno Picchio 1992, p. 40).
E percebe porquê, meu amigo?... Porquê Elisa já descobrira […]
(Eça de Queiroz 1989, p. 147).
81
STEFANIA STEFANELLI
E lo capisce perché, amico mio?... Perché Elisa ormai aveva
scoperto […] (Conrieri – Pinto 2000, p. 298).
E non indovina perché?... Perché Elisa aveva già scoperto […]
(Puccini 1953, p. 131).
E Lei capisce perché? Elisa aveva ormai scoperto […] (Stegagno
Picchio 1992, p. 55).
Oltre alla consueta fedeltà al testo originale di Conrieri e Pinto,
che anzi introducono opportunamente, nel secondo dei due
esempi, il pronome prolettico ‘lo’, nelle traduzioni di Puccini e
della Stegagno si alternano forme fedeli alla sintassi originale, ad
altre che eliminano la ripetizione.
«Poiché [l’interiezione] è un fenomeno che spesso ha luogo
nella catena sintagmatica, siamo tenuti, almeno come ipotesi
di lavoro, a supporre che abbia effetto su tale catena anche nei
testi scritti». Così introduceva Giovanni Nencioni il suo studio
dal titolo Natura e arte nel dialogo teatrale di Pirandello, individuando uno dei tratti salienti di quella che chiamava la «lingua
gesticolante» dello scrittore siciliano. La sua conclusione era che
l’interiezione «agisce sempre […] sulla modalità, sulla distribuzione dell’informazione e sulla connessa struttura tematica, attraverso la segmentazione della catena sintagmatica in unità o gruppi
melodici»11. Anche nella lingua di José Matias, ampiamente cosparsa di interiezioni, questo elemento grammaticale scandisce la prosa
e contribuisce alla distribuzione dell’informazione del discorso.
L’uso frequente dell’interiezione viene in gran parte rispettato nelle
traduzioni italiane, ma non mancano casi nei quali viene soppressa
o sostituita da locuzioni monorematiche come «nevvero», o polirematiche come «non è vero», «e pure»:
Enredado caso, hein, meu amigo? Ah! Muito filosofei […] (Eça de
Queiroz 1989, p. 138).
Caso intricato, eh, amico mio? Ah! Ci filosofai […] (ConrieriPinto 2000, p. 291).
Ivi, pp. 225-245.
11
82
DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ
Caso complesso, non è vero, amico mio? Eh, io vi ho filosofato
[…] (Puccini 1953, p. 123).
Un caso complicato, non è vero? Ah! Lei non può immaginare
[…] (Stegagno Picchio 1992, p. 42).
Situação picante, hein? (Eça de Queiroz 1989, p. 148).
Situazione piccante, eh? (Conrieri – Pinto 2000, p. 299).
Situazione piccante, eh? (Puccini 1953, p. 132).
Una situazione piccante, nevvero? (Stegagno Picchio 1992, p. 56).
Mas, oh, meu amigo, pensemos que certamente nunca ela pediria
[…] (Eça de Queiroz 1989, p. 150).
Ma, oh mio amico, diciamocelo: […] (Conrieri – Pinto 2000, p.
301).
E pure mai essa avrebbe chiesto […] (Puccini 1953, p. 134).
Ma mai essa avrebbe chiesto […] (Stegagno Picchio 1992, p. 60).
Per concludere, vorrei accennare a un tratto stilistico particolare che, anche secondo Ernesto Guerra da Cal12, è peculiare
della lingua di Eça e che infatti si ritrova anche nella prosa di José
Matias. È una particolare figura retorica, l’enallage dell’aggettivo,
in cui una qualità attribuibile al personaggio rappresentato diventa
attributo di un oggetto che fa parte della scena:
[…] enrolando um cigarro distraído (Eça de Queiroz 1989, p. 127).
[…] arrotolando una sigaretta distratta (Conrieri – Pinto 2000,
p. 281).
[…] e accendendo un sigaro con aria distratta (Puccini 1953, p. 112).
[…] e, distratto, si arrotolava una sigaretta (Stegagno Picchio
1992, p. 25).
12
Cfr. E. Guerra da Cal, Língua e estilo de Eça de Queiroz, Livraria Almedina,
Coimbra 1891.
83
STEFANIA STEFANELLI
[…] correndo em jorros desperados (Eça de Queiroz 1989, p.
141).
[…] scorrevano in getti disperati (Conrieri – Pinto 2000, p. 293).
[…] scorrevano a fiumi (Puccini 1953, p. 125).
[…] correvano disperatamente a rivoli (Stegagno Picchio 1992,
p. 46)
[…] uma barba rara, indecisa, suja (Eça de Queiroz 1989, p. 145).
[…] una barba rada, indecisa, sporca (Conrieri – Pinto 2000, p.
297).
[…] una barba rada, sudicia, giallognola (Puccini 1953, p. 130).
[…] una barba rada, indecisa, sporca (Stegagno Picchio 1992, p. 53).
In ognuno di questi tre casi l’aggettivo, riferito allo stato
d’animo nel quale l’io narrante sorprende il personaggio di José
Matias, si lega al nome di un oggetto che fa parte della scena: si
crea in questo modo un sintagma caratterizzato da una volontaria incongruenza semantica tra nome e aggettivo volta a generare
straniamento nel lettore. La difficoltà di tradurre queste forme in
italiano, sia pure cercando di rendere l’atmosfera che rappresentano, induce Puccini e Stegagno a interventi di normalizzazione
che possano, mediante avverbi modali o complementi di modo
(«disperatamente», «con aria distratta») ricollegare esplicitamente la qualità espressa dall’aggettivo al personaggio rappresentato;
Puccini tende addirittura alla soppressione di questa figura, come
nel secondo e nel terzo esempio. Soltanto la Stegagno nel terzo
esempio e Conrieri e Pinto in tutti e tre i casi, mantengono inalterata l’enallage dell’aggettivo. E, a proposito di questa modalità
stilistica non facilmente definibile e difficilmente traducibile, mi
piace concludere con le parole di Serani sulla prosa di Eça: «Le sue
pagine emanano odori, sapori, sensazioni tattili. La sinestesia non
è solo nella scrittura, ma anche nella lettura»13.
U. Serani, Introduzione, cit., p. 6.
13
84
DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ
Bibliografia
Testo e traduzioni:
Eça de Queiroz, J.M., José Matias, in Contos, edição organizada por Luiz
Fagundes Duarte, Publicações Dom Quixote, Lisboa 1989, pp. 12-51.
Eça de Queiroz, J.M., José Matias; trad. di L. Stegagno Picchio, Giuseppe
Matias di Eça de Queiroz, in Le più belle novelle dell’Ottocento, a cura di
M. Bonfantini, Gherardo Casini Editore, Roma 1951, pp. 1175-1192.
Eça de Queiroz, J.M., José Matias; trad. di M. Puccini, Una strana ragazza
bionda, vol. LXVIII, Universale Economica Serie Letteratura, Milano
1953, pp.107-135.
Eça de Queiroz, J.M., José Matias; trad. di L. Stegagno Picchio, José
Matias, Tranchida Editori, Milano 1992.
Eça de Queiroz, J.M., José Matias; trad. e note di D. Conrieri e M. Abreu
Pinto, Racconti, Rizzoli, Milano 2000, pp. 276-302.
Studi
de Beaugrande R.A. ‒ Dressler W.U., Introduzione alla linguistica testuale,
Il Mulino, Bologna 1994.
Guerra da Cal E., Língua e estilo de Eça de Queiroz, Livraria Almedina,
Coimbra 1891.
Nencioni G., Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato, in G. N., Di
scritto e di parlato. Discorsi linguistici, Zanichelli, Bologna 1983, pp.
126-179.
Nencioni G., Natura e arte nel dialogo teatrale di Pirandello, in G. N.,
Saggi e memorie, Scuola Normale Superiore, Pisa 2000, pp. 237-247.
Sabatini F., L’«italiano dell’uso medio»: una realtà tra le varietà linguistiche
italiane, in G. Holtus ‒ E. Radtke (a cura di), Gesprochenes Italienisch
in Geschichte und Gegenwart, Narr, Tübingen 1985, pp. 154-184.
Sabatini F., Pause e congiunzioni nel testo. Quel ma a inizio di frase, in
Norma e lingua in Italia, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere,
Milano1997.
Serani U., Introduzione a José Maria Eça de Queirós, Racconti esemplari,
a cura di U. Serani, Liguori, Napoli 2000.
Serianni L., Italiani scritti, Il Mulino, Bologna 2003.
Testa E., Lo stile semplice. Discorso e romanzo, Einaudi, Torino 1997.
85
Luisa Giannandrea
Un ‘singolare’ caso di traduzione teatrale.
Lo studente vagante in Paradiso
di Hans Sachs
1. Alcune premesse
Introdurre in Italia un personaggio come Hans Sachs,
comporta una certa dose di timore. Benché il suo sia tra i nomi
noti della Frühe Neuzeit, nel nostro Paese la ricerca è circoscritta
a un numero di studiosi ancora limitato1. La cosa, poi, si complica se il contesto del dibattito è la traduzione. È un dato di fatto
ma delle oltre seimila opere scritte in quaranta anni di attività, nella nostra lingua esistono solo due piccole pubblicazioni e
tutt’altro che recenti.
Nel 1916 il noto slavista Ettore Lo Gatto, con inizi da appassionato di letteratura tedesca, tradusse una piccola scelta di «canti
popolari»2. Il libretto, che intendeva lanciare «un primo sguardo»3
sul poeta e porlo sotto una luce nuova rispetto allo stereotipo
Hans Sachs (Norimberga, 1494-1576) era di professione un calzolaio ma
per passione maestro cantore e poeta. La sua biografia è nota a molti e la sua
fama di scrittore legata in primo luogo al lungo componimento poetico dedicato a
Martin Lutero, L’usignolo di Wittemberg (Die Wittenbergische Nachtigall, 1523), con
il quale Sachs dichiarò la sua adesione alla Riforma. È noto inoltre come autore di
farse carnascialesche ma pochi sanno che egli scrisse più di seimila componimenti,
fra i quali anche alcuni dialoghi, moltissimi Meisterlieder e Spruchgedichte (poesie
gnomiche), allegorie, salmi e più di centoventi drammi.
2
E. Lo Gatto, Poesie di Hans Sachs, Riccardo Ricciardi Editore, Napoli 1916,
pp. 7 ss. Si tratta di una scelta di Lieder, quella poesia cantata che in Germania
fu espressione migliore della cultura popolare urbana e che trovò nella città di
Norimberga uno dei suoi centri più vivaci e in Hans Sachs il suo più apprezzato
rappresentante.
3
Ivi, p. 14.
1
luisa giannandrea
wagneriano4, non trovò seguito in ambiti accademici, né lo stesso
Lo Gatto dedicò altro scritto al calzolaio.
Il secondo e ultimo caso di traduzione italiana è del 1959 e
nasce in un contesto assai lontano dal primo.
Non ambizione teatrale ci ha mosso a modificare e ad adattare al
gusto di una moderna rappresentazione la farsa di Hans Sachs, se
non il desiderio di tener viva una tradizione che usa da qualche
anno tra noi della Scuola Professionale Femminile e di Magistero di Salerno, di rappresentare un atto unico nel corso della gita
scolastica annuale5.
A scrivere queste righe è un professore di un istituto magistrale
di Salerno, tale Pier Donato Lauria che, nel proporre per una recita
studentesca un soggetto del «famoso Maestro Cantore», motiva
così la scelta:
Quest’anno ho pensato al lavoro del famoso Maestro Cantore di
Norimberga perché avremmo dovuto dare lo spettacolo anche
dinanzi ai giovani studenti di un altro Istituto.
Il Sachs ci offriva lo spunto di uno scontro con esito incerto tra
la poca sennatezza della moglie e quella del marito; noi abbiamo
voluto invece propendere un tantino di più a favore della prima,
non tanto per un omaggio sempre doveroso a Eva, quanto per
limare un poco proprio quello spuntone di preminenza e di
saggezza che si crede sempre di possedere da noi uomini6.
Certamente, sarebbe interessante chiedersi come mai l’unico
esempio italiano di testo drammatico sachsiano nasca non per
un interesse accademico o per il teatro professionista ma per una
4
La figura di Hans Sachs raggiunse l’apice di popolarità nell’opera Die
Meistersinger von Nürnberg del 1868. L’immagine che Wagner affidò al poetacalzolaio fu quella di uno spirito «bürgerlich» e naif, archetipo autentico di
germanicità e dominatore di una scena sulla quale prende forma l’idillio della
cittadina medievale fatta di vicoli, casette e torri pittoresche.
5
H. Sachs – P.D. Lauria, Lo studente in Paradiso, Edizioni Hermes, Salerno
1959, p. 7 (da ora in poi SL).
6
Ibidem.
88
lo studente in paradiso di Hans Sachs
rappresentazione scolastica. Questo non è il tema del presente
dibattito che, invece, permette di affrontare l’autore dall’importante e fino a questo momento mai considerata prospettiva della
traduzione e, in particolare, della traduzione teatrale. L’argomento
è ampio e richiede alcune premesse.
Pur rientrando tra le traduzioni letterarie, quella teatrale vive di
uno stato a po’ a sé. Secondo Mario Luzi7, diversamente dalla lirica
o dalla narrativa dove «il sottile duello» tra traduttore e autore «si
svolge tutto in segreto al cospetto di pochi principi che, evidentemente, solo una delle parti riconosce e la cui osservanza è rimessa
alla sua sola lealtà», in un testo teatrale il traduttore non è solo con
l’autore. «Qui la contesa non è sorda e appartata. C’è un testimone
che funge da pietra di paragone e sancisce, più che il lecito e l’illecito, l’utilità e l’efficacia del tentativo; li sancisce per di più con
un’immediata verifica». Il testimone di cui parla Luzi è il palcoscenico che rappresenta la vera «prova del fuoco» di ogni traduzione,
in grado persino di rivelare «quella capillare drammaturgia che un
testo di vera poesia drammatica nasconde alla lettura tra le sue
pieghe». Il linguaggio teatrale, che reca già in sé «il seme dell’azione», nel momento del passaggio obbliga immediatamente il
testo «all’attualità scenica [e] rivela fino a che punto l’azione gli sia
intrinseca in ogni parola». La traduzione deve dunque tener conto
della peculiarità della parola drammaturgica «che è una parolaazione»8. Alle suggestioni luziane di un palcoscenico testimone e
«prova del fuoco» costante fa eco la riflessione che la traduzione per
la scena ha per destinatari due soggetti diversi: l’attore e lo spettatore. Per Roberto Menin è necessario che il traduttore sia sempre
consapevole di dover fornire «al regista un testo che possa essere
agilmente recitato dagli attori e compreso con chiarezza e semplicità dal pubblico»9. Operazione non sempre scontata dal momento
M. Luzi, Sulla traduzione teatrale, in «Testo a fronte», 3 (1990), pp. 97-99.
La conclusione del breve saggio coincide con l’auspicio a suo parere
«indispensabile che il traduttore di poesia teatrale lavori di conserva con tutti
coloro che allestiscono lo spettacolo e prenda parte al vivo della sua preparazione».
Ivi, p. 98.
9
R. Menin, Il concetto di recitabilità e la sua applicazione nella traduzione
teatrale, in «Studi Germanici», 5 (2014), pp. 303-328, qui p. 303.
7
8
89
luisa giannandrea
che il passaggio di una pièce da una lingua all’altra implica spesso
anche un salto tra piani spaziali, temporali, geografici e culturali.
Situazione ideale, ma non sempre attuabile, sarebbe allora quella
in cui traduttore e regista collaborino in maniera stretta, impegnandosi in un lavoro di ripetute e reciproche negoziazioni10. Se
è vero che una traduzione può essere un’operazione più difficile
dello scrivere11, se inoltre una messinscena è, ogni volta, un atto
creativo (gli attori recitano per un pubblico sempre diverso e una
recita non è mai l’esatta replica di quella precedente), si comprende come entrambi siano più che mai il risultato di una serie ininterrotta di mediazioni.
Di quanto detto fino a ora molto sembra attenere al caso del
nostro testo. Quello che il professor Lauria propose per la recita
annuale era Lo studente vagante in Paradiso (Der fahrende Schüler
im Paradies, 1550)12, un Fastnachtspiel scritto quattrocento anni
prima in un panorama distante non solo dall’Italia degli anni
Cinquanta del Novecento ma anche da quella del secolo di Sachs.
2. Il testo di Sachs
I Fastnachtspiele erano delle brevi farse da recitare la sera del
martedì grasso. Atti unici e con pochi personaggi, non avevano né
cornice né suddivisione in scene13. Generalmente le messinscena
venivano allestite da piccole brigate che si spostavano di taverna in
taverna, talvolta anche all’interno di abitazioni private.
Ivi, p. 327.
A dirlo è Eugenio Montale che a proposito della sua attività di traduttore
scrive: «[t]radurre è difficile, in un certo senso più difficile che scrivere opere
originali. Si può diventare un grande scrittore in proprio usando poche centinaia
di parole; ma per tradurre occorre una vasta tastiera e una profonda conoscenza di
almeno due lingue (quella da cui e quella in cui si traduce) e dei possibili scambi,
delle possibili equivalenze delle due lingue in giuoco». E. Montale, Buon anno senza
perle ai traduttori mal pagati, in «Corriere d’Informazione», 28-29 dicembre 1949,
ora in E. M., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Mondadori
Milano, p. 886.
12
Il titolo originale è Der farendt Schuler im Paradeiß.
13
Vedi oltre, pp. 6-7 e in particolare nota 19.
10
11
90
lo studente in paradiso di Hans Sachs
La trama della farsa di Sachs ruota tutta attorno a un equivoco. Un giovane studente di rientro da Parigi, come quelli che si
spostavano da un’università all’altra chiedendo ospitalità lungo
il cammino, bussa alla porta di una casa di contadini. La donna,
moglie in seconde nozze di un uomo ricco ma avaro, fraintende
«Paris» (in italiano ‘Parigi’) con «Paradiß» (in italiano ‘paradiso’) e
da qui prende avvio tutto l’inganno. L’ingenua chiede allo studente
se per caso in «Paradiso» avesse mai incontrato il suo primo, caro e
defunto marito. Il giovane, intuita l’occasione di un buon imbroglio, riesce a farsi dare denaro e indumenti da portare al pover’uomo
al suo ritorno nel regno dei cieli. Il contadino, saputo dell’accaduto,
si mette furioso sulle tracce dello studente. Ma all’ingenuità della
moglie, dipinta con tutti i caratteri della donna stupida e credulona
quanto in fondo buona di cuore, non corrisponde una maggiore
assennatezza del marito. Tradito dalla tracotante sicurezza, rimane
a sua volta gabbato dal furfante che lo lascia a piedi senza cavallo. Il
testo si conclude con una morale: in fondo, le donne non sono così
stupide; anzi, contrariamente dai mariti uomini, esse sono buone
di animo. Nel matrimonio, quindi, regnino la comprensione e l’indulgenza. È questo l’augurio finale che Sachs, attraverso le parole di
un marito pentito, offre al suo pubblico.
3. Una prima differenza: la struttura
Stando alla terminologia della ricerca, lo Studente vagante
in paradiso è a tutti gli effetti un esempio di «traduzioneassimilazione»14. E lo si nota già partire dall’impianto drammaturgico, molto diverso in italiano.
14
Il concetto di «traduction-assimilation» è contraposto da J. Koustas a quello
di «traduire oui, mais sans traduire», laddove la prima è una traduzione che ha una
maggiore attenzione per la cultura di arrivo e la seconda, detta anche «conservativa»,
rispetta il testo di partenza anche a rischio di risultare incomprensibile per il
destinatario. J, Koustas, Traduire ou ne pas traduire le théâtre? L’approche sémiotique,
in «Traduction, Terminologie, Rédaction: Études sur le text et ses transformations»,
vol. I, 1 (1988), pp. 127-128, citato da B. Delli Castelli, Traduzione teatrale e codici
espressivi, in «Traduttologia», I (gennaio 2006), 2, pp. 55-70, qui p. 67.
91
luisa giannandrea
Dal passo citato in precedenza, si comprende come la necessità
di fornire informazioni su un autore così poco conosciuto debba
aver persuaso il professore salernitano a pensare un’introduzione,
utile anche a motivare la scelta del testo. Altro discorso riguarda l’epilogo; oltre a completare la cornice e forse a rispettare una
consuetudine legata a un preciso contesto (la recita scolastica), sulla
quale in mancanza di altre testimonianze possiamo solo congetturare15, aggiunge un ulteriore finale. Lo studente, che Lauria decide
evidentemente di punire, finisce per perdere tutto:
Io sono l’epilogo, un poco come la morale delle favole antiche.
[…] Costui [lo studente] infatti anche aveva detto che con tutta
quella roba carpita sarebbe riuscito a viverci più di un anno,
tornato sulla strada di Avignone […] fu privato del cavallo
dall’astuzia di una zingara.
Due giorni dopo, le arti di una savia ostessa, lo ripulirono al gioco
degli scacchi di tutto quanto gli restava.
Di tutte le scienze e le arti che possedeva lo studente non aveva
conosciuto quelle del gioco […]16.
Solo in ultima battuta riprende – molto liberamente – il senso
della morale sachsiana che in chiusura di farsa il poeta tedesco
aveva affidato, come detto, al contadino:
[…]
Das dem Mann auch entschlupfft ein fuß,
[…]
Das er auch nit weiß genug.
Denn zieh man scha gen achaden ab,
Darmit man friedt im Ehstandt hab
Und keyn uneinigkeyt auff wachs;
Das wünschet uns allen Hans Sachs17.
15
Il professore motiva la scelta della pubblicazione con la circostanza del
brutto tempo che impedì la messa in scena. Per non vanificare gli sforzi di docenti
e studenti nel preparare lo spettacolo, anche a futura memoria pensò bene di
conferirgli il meritato onore nella forma di libretto.
16
SL, p. 19.
17
SK, pp. 101-102.
92
lo studente in paradiso di Hans Sachs
[…] Diciamo solo che sbagliano le donne ma sbagliano anche gli
uomini e che, perciò, un’indulgenza reciproca sarebbe un guadagno per tutti18.
Oltre alle novità del prologo e dell’epilogo, Lauria introduce
una divisione in tre scene, assente nell’originale di Sachs. Il poeta,
così come tutto il teatro tedesco degli esordi, non ne conosceva
l’uso19. Tuttavia, nell’economia generale del testo, di questo come
degli altri, è facilmente intuibile l’esistenza di unità più piccole:
qui, ad esempio, è facile distinguere tre momenti del racconto cui
corrispondono tre diverse ambientazioni20. Il primo ha luogo nella
la casa dei contadini e ha come protagonisti prima la donna e lo
studente vagante e poi moglie e marito; il secondo presso la palude
dove avviene l’incontro tra l’uomo e il giovane non riconosciuto;
il terzo di nuovo in casa con il dialogo tra i due contadini e il
monologo conclusivo dell’uomo. Lauria, quindi, non fa altro che
indicare nel paratesto una divisione già in essere.
4. Versi e personaggi
L’adattamento italiano sceglie anche di abbandonare il verso
tradizionale sachsiano (il Knittelvers) e di optare per la più semplice prosa, aggirando in tal modo le difficoltà legate alla traduzione
«poetica» e portando l’opera teatrale su dei codici espressivi più
riconoscibili.
Il processo di «assimilazione» tocca anche i personaggi. Sachs li
chiama semplicemente «der Pawr» (‘il contadino’), «die Pewrin» (‘la
SL, p. 20.
La segnalazione della conclusione di una scena avveniva in genere con
l’uscita di tutti i personaggi. Questo accadeva anche nei drammi cosiddetti «seri»,
dei testi teatrali molto più lunghi che trattavano solo argomenti solenni e che, però,
erano divisi in Atti.
20
Così fa notare H. Kugler per il quale il testo «gliedert sich, obwohl keine
Akt- oder Szeneneinteilung angegeben ist, eindeutig in drei gleichgroße Drittel».
H. Kluger, Meisterliederdichtung als Auslegungskunst. Zur impliziten Poetik bei
Hans Sachs, in D. Klein, Vom Mittelalter zur Neuzeit. Festschrift für Horst Brunner,
Reichert, Wiesbaden 2000, pp. 541-557, qui p. 554.
18
19
93
luisa giannandrea
contadina’) e «der farent Schuler», (‘lo studente vagante’) mentre
in italiano diventano rispettivamente Giovanni, Irene e Pupetto.
Anche il defunto marito si guadagna il nome di Giacomino:
Die Pewrin geht ein und spricht:
Ach wie manchen seufftzen ich senck,
Wenn ich vergangner zeit gedenck,
Da noch Lebet mein erster Man,
Den ich ye lenger lieb gewan,
Dergleich er mich auch wiederumb,
Wann er war einfeltig und frumb.
Mit jm ist all mein frewt gestorben,
Wie wol mich hat ein andr geworben
Der ist meimb ersten gar ungleich […]21.
IRENE (entra in scena con uno straccio in mano, e coi gesti fa mostra
di spolverare e di rassettare; ogni tanto s’interrompe).
Ohimè quali sospiri mi tocca mandare, quando penso al mio
defunto marito, al quale io volevo sempre più bene, così come lui
mi ricambiava di un amore sempre più grande, perché egli era di
animo franco e pio.
Con lui è morta ogni mia gioia, benché ora mi abbia sposato un
altro.
Ma Giacomino era Giacomino!
Costui, invece, è troppo diverso dal mio primo marito [...]22.
Hans Sachs, in realtà, riflette la consuetudine di gran parte del
teatro della Frühe Neuzeit, nel quale i personaggi erano ancora
«tipi» e non «individui» e le loro azioni erano basate su stereotipi o
cliché riconoscibili. La scelta del traduttore si basa anche qui su una
negoziazione tra due modelli culturali. Gli anonimi tipi sachsiani rappresentati dal contadino, dalla contadina e dallo studente
sembrano guadagnare «individualità» se chiamati Giovanni, Irene
e Pupetto (e Giacomino). Tuttavia, essi restano dei personaggi
21
H. Sachs, Faßnacht spiel mit 3 Personen: Der farendt Schuler im Paradeiß, in
H. Sachs, Meisterlieder, Spruchgedichte, Fastnachtspiele, hrsg. v. H. Kugler, Reclam,
Stuttgart 2003, pp. 87-101, qui pp. 87-88 (da ora in poi SK).
22
SL, p. 12.
94
lo studente in paradiso di Hans Sachs
«piatti» (o statici), poiché, diversamente da quanto avviene in quelli
«a tutto tondo» (o dinamici), rimangono sempre uguali a se stessi23.
5. Le didascalie
Non si può procedere al confronto dei due testi senza affrontare la questione «didascalie». Molto andrebbe detto a riguardo; qui
basti solo ricordare che questo teatro, in generale, era assai parco in
fatto di indicazioni di regia poiché molto era affidato all’occasionalità della messinscena e all’iniziativa personale dell’attore che a sua
volta si basava su delle routines, dei codici recitativi standardizzati sui
diversi «tipi» teatrali. L’autore del testo, quindi, si limitava a indicare
l’entrata e il turno di parola del personaggio, e solo in qualche caso
aggiungeva un accenno all’espressione («piangendo», «a voce alta»,
«sottovoce», «a se medesimo», ecc.) e alla gestualità («con le mani al
cielo», «tenendosi per mano», «battendosi il petto», ecc.). E così, per
citare ancora l’esempio precedente, se a Hans Sachs bastava scrivere
che «la contadina entra in scena e dice», non deve sorprendere che
quattro secoli dopo, nella versione italiana, si legga che Irene «spolvera, rassetta» e «ogni tanto si interrompe» assorta nei pensieri.
Gli esempi si susseguono numerosi:
Der farendt Schuler gehet ein unnd spricht:
Ach liebe Mutter, ich kumb herein,
Bit, laß mich dir befohlen sein,
Mit deiner milten handt und gab
Wann ich gar viel der künste hab,
Die ich in Büchern hab gelesen.
Ich bin in Venus berg gewesen,
Da han ich gsehen manchen Buler;
Wiß, ich bin ein farender Schuler
Und fahr im Lande her und hin
Von Pariß ich erst kummen bin
Itzundt etwa vor dreien tagen24.
Cfr. E.M. Forster, Aspects of the Novel, Harcourt – Brace, New York 1927.
SK, p. 88.
23
24
95
luisa giannandrea
LO STUDENTE VAGANTE (Si affaccia, prima timido, sulla
porta, poi sempre più sicuro di sé)
– Buona gente! Oh salute, buona donna! Io sono uno studente,
uno (sillabando) stu-den-te e mi affido al vostro cuore generoso
perché mi aiutate offrendomi qualche cosa.
Devo andare lontano, a studiare sui libri, sui… (sillabando e
aprendo le braccia a significare una grossa pila di libri con senso di
misterioso stupore) li-bri, per apprendere tutte le scienze e le arti
che restano.
Le posseggo già quasi tutte.
Ora vengo fresco fresco da quel paradiso di Parigi e sono diretto
ad Avignone25.
Si noti, inoltre, che in italiano le indicazioni compaiono anche
dentro i turni di parola: nel passo appena riportato la didascalia
«sillabando» per due volte dà all’attore indicazioni sulla pronuncia.
Nell’adattamento italiano vi sono altri elementi che acquisiscono importanza: la mimica e la gestualità. Le didascalie inserite da Lauria sembrano dimostrarvi, infatti, una certa affezione
(«aprendo le braccia a significare una grossa pila di libri con senso
di misterioso stupore»). Di certo, in un contesto amatoriale di fine
anni Cinquanta sarebbe stato difficile pensare una recita senza un
adeguato paratesto didascalico. Eppure, la tendenza a rimarcare
l’effetto comico attraverso l’atto gestuale è da collegarsi, a mio
parere, a un opposto alleggerimento del registro verbale, che nell’originale sachsiano tende ad essere, per la natura stessa del genere
Fastnachtspiel, assai più volgare e in certi casi persino offensivo. Per
esempio, scompaiono del tutto alcune espressioni pesanti rivolte
al genere femminile, frequenti, a dire il vero, al tempo di Sachs.
Quando la contadina/Irene esce di scena per preparare qualcosa
da mandare al marito in Paradiso, lo studente la apostrofa con:
«Das ist ein recht einfeltig Viech», che in italiano risulterebbe più
o meno: «Questa è proprio un’oca scimunita». Nel testo italiano,
al medesimo posto, si legge: «Sì, ma fate presto! (a parte) prima
che non abbia a venire il marito e darmi altro che salame». L’offesa
alla donna è cancellata, i restanti sette versi si riducono nel breve a
SL, p. 12.
25
96
lo studente in paradiso di Hans Sachs
parte e l’effetto comico affidato sia all’immagine resa dallo studente, che si figura già malmenato dal contadino, sia al velato doppio
senso della frase «altro che salame!».
Anche il marito non risparmia offese alla moglie. Rientrando in
casa e non potendo fare a meno di notare la felicità della donna, le
dice: «Alta (‘vecchia’), wie das fröhlich bist»26, che Lauria traduce:
«– Olà, ma come sei allegra moglie mia!»27. E più avanti si sfoga
da solo:
Ach, Her Gott, wie hab ich ein Weib,
Die ist an Seel, Vernunft und leib
Ein Dildap, Stockfisch, halber Nar,
Jrs gleich ist nit in unser Pfarr
[…]
Und mein Weib wol mit feusten bern,
Des plobel geben umb die augen,
Das sie jr thorheit nit kün laugen!
Ach, ich bin halt mit jr verdorben!
Ach das ich hab umb sie geworben,
Daß muß mich rewen all mein tag,
Ich wolt, sie het Sanct Urban blag28.
L’italiano riporta:
GIOVANNI (solo). Che disgrazia! Che moglie ho avuto in sorte!
Sapevo che le donne sono oche ma questa è uno stoccafisso. Non
ce n’è una simile in tutta la parrocchia! E proprio a me doveva
toccare, proprio a me che sono stato sempre accorto e non me la
sono fatta fare mai da nessuno […]29.
I pesanti insulti personali («Die ist an Seel, vernunfft und leib /
Ein Dildap, Stockfisch, halber Nar», che tradotti alla lettera sarebbero: ‘È proprio tutta scema, nel capo e nel corpo, uno stoccafisso,
una mezza matta’) vengono ridotti al solo «stoccafisso», mentre la
SK, p. 93.
SL, p. 15.
28
SK, p. 95.
29
SL, p. 16.
26
27
97
luisa giannandrea
parte finale, dove l’uomo la vorrebbe «mit feusten bern» (‘picchiarla con le sue mani’), o ancora «Des plobel geben umb die augen»
(‘farle un occhio nero’), sperando che la colga la «Sanct Urban
blag» (‘il ballo di San Vito’), viene completamente eliminata.
6. Aspetti linguistici e culturali
Ma l’argomento traduzione implica infine, e non da ultimo,
delle riflessioni di carattere linguistico. Se è vero che la parola
drammatica è anzitutto azione30, è facile comprendere come il
passaggio da una lingua all’altra debba spesso fare i conti anche
con l’aspetto ‘fisico-morfologico’, e quindi con il suono. Lo studente in Paradiso ne è un esempio.
Sin dal titolo Hans Sachs, come detto, basa l’intreccio e l’effetto
comico sull’assonanza tra i termini ‘Paris’ e ‘Paradis’, e sul facile
malinteso che ne consegue. Per riproporre in italiano qualcosa di
ugualmente equivocabile (in italiano ‘Parigi’ e ‘paradiso’ da soli
non lo permetterebbero) Lauria si affida a una perifrasi. Così lo
studente è di rientro non semplicemente da «Parigi» ma da «quel
paradiso di Parigi»31, una soluzione che permette al traduttore di
lasciare intendere alla contadina solo la prima parte della frase.
Altre scelte, che si ripercuotono gioco forza anche sulla lingua,
riguardano più il problema della «lontananza» tra i due testi che,
come spiegato, non è solo una lontananza temporale ma anche e
soprattutto culturale. E questo, come detto dallo stesso Lauria, è il
filo rosso che segna tutto l’adattamento italiano.
A partire dal primo dialogo, ad esempio, dove scompare il
riferimento tedesco al «Venusberg», la montagna mitologica che
secondo la tradizione tedesca ospitava Venere, la dea dell’amore
con la quale Tannhäuser avrebbe vissuto un anno. L’analogia tra
la leggendaria figura del poeta-cavaliere e lo studente era immediata per il pubblico di Sachs, al contrario quasi impossibile per
quello di Lauria che sceglie, così, di menzionare la città di Avigno M. Luzi, Sulla traduzione teatrale, cit., p. 98.
Vedi citazione a p. 9. Il corsivo è mio.
30
31
98
lo studente in paradiso di Hans Sachs
ne, famosa nel Medioevo per la sua università. Oppure, un po’ più
avanti, quando a proposito del primo marito defunto, la contadina tedesca lo seppellisce con il solo lenzuolo bianco («leilach»),
mentre Irene, come si confà al nostro uso, con abito nero e scarpe:
Die Pewrin spricht
[…]
Er het ach auff ein plaben hut
Und ein leilach, zwar nit vast gut,
Darmit hat man zum grab besteht.
Kein ander kleidung er sunst het,
[…]32.
IRENE – […] aveva in testa un cappello turchino e indossava
un vestito nero, un poco macchiato, in verità, e con qualche
rattoppo. Anche le scarpe erano un po’ rotte, ma per il resto era in
ottime condizioni quando lo calarono nella fossa33.
Un cambiamento che, a mio parere, merita attenzione particolare si trova verso la fine della farsa e riguarda una frase del contadino che, volendo recuperare il denaro e il vestiario portati via dallo
studente, si imbatte proprio nel giovane e, senza riconoscerlo, gli
lascia in custodia il cavallo:
Mein liebs Menlein, schaw mir zum Roß,
So will ich zu fuß ubers moß
Dem böswicht nach eiln und jn blewen,
Das jn sein leben muß gerwen,
Es soll es keinem Pfaffen beichten34.
Potresti bravo giovane, darmi un’occhiata al cavallo per pochi
momenti? Eccoti, dammi quel bastone. E adesso ci vuole soltanto il prete! Lo ucciderò! 35.
SK, p. 89.
SL, p. 13
34
SK, p. 97. Il neretto è mio.
35
SL, p. 17. Il neretto è mio.
32
33
99
luisa giannandrea
La frase tedesca in questione (in neretto nel passo appena
riportato) che alla lettera si può tradurre con: «Questo dovrà farlo
pentire così tanto per la vita, che non dovrà neanche confessarlo al prete!», viene trasformata in: «E adesso ci vuole soltanto il
prete. Lo ucciderò!». Se il Sachs, convertitosi alla Riforma oramai
da diversi anni pensa bene che il castigo giusto per un peccatore
sia una sonora punizione terrena e la confessione del tutto inutile,
il traduttore italiano ricorda l’importanza del sacramento come
ultimo atto in questa vita.
7. Conclusioni
Il contesto di riferimento dello Studente vagante in Paradiso ha
sicuramente giocato un ruolo importante nel processo traduttivo
e, alla luce di ciò, sia permesso considerare questo come un tentativo di traduzione ‘singolare’ ma nel suo complesso valido. L’adattamento di Lauria conserva il carattere esilarante di una commedia
degli equivoci che, al di là dei numerosi interventi, non perde di
efficacia. La riuscita comica del testo è sostenuta anche da una
maggiore fluidità dei dialoghi, più interattivi rispetto a Sachs, e
dall’attenzione al paratesto.
L’analisi proposta, di certo, non esaurisce il vasto argomento
della traduzione teatrale; tuttavia, riesce a esemplificarne alcuni
aspetti. Come dovrebbe risultare chiaro dai tanti esempi riportati,
e soprattutto dalla stessa dichiarazione d’intenti di inizio prologo,
l’autore della traduzione di Der fahrende Schüler im Paradies sottopone il testo tedesco a una forte azione di «assimilazione». E lo fa
agendo su diversi livelli.
A livello dell’impianto drammaturgico, dove la piéce italiana
guadagna una cornice e la divisione in scene, verosimilmente per
favorire la comprensione da parte del pubblico di arrivo che molto
poco doveva sapere su Sachs e sul suo teatro. A livello di paratesto, dove la presenza massiccia delle didascalie serve al traduttoreregista a rimanere nella sua tradizione e, dunque, a fornire agli
attori delle indicazioni precise sulla recitazione, sulla mimica e
sulla gestualità. A livello di registro linguistico, che in italiano
100
lo studente in paradiso di Hans Sachs
viene sfrondato degli eccessi di volgarità caratteristici della farsa
carnascialesca del XVI secolo. Allo stesso tempo, la perdita di
carica comica sembra essere compensata proprio da una marcata
gestualità che il traduttore segnala costantemente nelle didascalie. Infine, a livello culturale. Ogni elemento legato alla tradizione di Sachs che non trova legami con quella dell’Italia di Lauria
viene «tradotto» in questa. Scompare così il difficile riferimento
al Venusberg e anche il lenzuolo bianco della sepoltura è sostitui­
to da abito nero e scarpe. Persino il sacramento della confessione non poteva conservare quell’atteggiamento di derisione che,
invece, il protestante Sachs non riusciva a nascondere.
101
María Gracia Torres Díaz
La traducción y la interpretación
consecutiva del cuento
1. La traducción del cuento
En los estudios de teoría de la traducción literaria, al analizar
los cuentos, con frecuencia se descuida el hecho de que la traducción literaria infantil difiere en gran medida de la destinada a un
público adulto. En la traducción literaria infantil se pone mucho
énfasis en las adaptaciones culturales y morales del texto original, y
por esto, entre otros motivos, algunos traductores se quejan de que
no exista una teoría de la traducción específica del cuento infantil,
pues más allá de las fuerzas de la manipulación de los mercados y
de los beneficios de los editores, al traductor se le plantean problemas relacionados con el proceso mismo de la traducción específicos de este contexto que no se le plantearían si estuviese traduciendo para un público adulto.
Al tener los niños una limitada experiencia, los traductores se
encuentran con conflictos al adaptar el texto, no solo al nivel de
conocimiento del niño, sino también a su entorno cultural específico. El nivel de conocimiento está relacionado con el nivel cognitivo del niño según su edad y éste además está supeditado a la cultura
que le educa. Un niño en el sistema educativo sueco comienza su
formación a los siete años, un niño británico a los cuatro. Las diferencias culturales entre el texto origen y el texto meta que puedan
ser objeto de censura también deben ser consideradas. Las versiones traducidas tienen que superar por un lado los requisitos de
los grupos intermediarios a los que también va dirigido el cuento
(los padres y los educadores), y por otro, los requisitos del niño.
María Gracia Torres Díaz
Un traductor de obras infantiles tendrá siempre menos libertad de
actuación, pues los requisitos de la edad, conocimiento de vocabulario y conocimiento del mundo, así como las fronteras que marca
la cultura en las que el texto meta se enclava, limitarán el ejercicio
del traductor mucho más que si tradujera para un lector adulto.
La mayoría de los cuentos infantiles que se traducen provienen de países culturalmente cercanos, entre otras razones porque
existen distintas nociones de infancia en las distintas culturas. Por
un lado, una traducción ofrece la posibilidad de enriquecer una
cultura determinada, pero también esa traducción puede provocar
rechazo. A veces, la traducción tiene éxito si el elemento cultural extraño permanece como reconociblemente extranjero, consiguiendo pasar así el primer filtro, el del educador y el del padre,
porque el niño, al leerlo en su lengua, y al estar todavía en la incipiente absorción de su propia cultura, no lo reconoce como extranjero. Con respecto a este punto Bell nos dice: «With each individual book, you must gauge the precise degree of foreignness, and
how far it is acceptable and can be preserved – for another thing
you don’t want to do is level out to such an inoffensive blandness
that the original atmosphere is lost»1.
Más aún, para algunos educadores, traductores y editores, el
producto final no debe evitar lo extranjero, porque si se mantiene,
el niño incrementa su comprensión del mundo. Como dice Carus:
«The earlier in life young children are exposed to one or several
foreign cultures, the more open-minded they will be later on»2. De
hecho, el objetivo en sí de la traducción es incrementar la visión
internacional, la experiencia emocional de entornos extranjeros y
otras culturas3. Los niños tienen que aprender a ver diferencias y
semejanzas con otros seres humanos, y así podrán entender que
personas de otras culturas tienen sus mismos problemas, y sentirán
1
A. Bell, Translator’s notebook: the naming of names, en «Signal», 46 (1985),
pp. 3-11.
2
M. Carus, Translation and Internationalism in Children’s Literature, en
«Children’s Literature in Education», 11 (4), 1980, p. 174.
3
Cfr. G. Klingberg, Children’s Fiction in the Hands of the Translators, in
«Studia Psychologica et Paedagogica». Series altera LXXXII. Bloms Boktryckeri
Ab, Lund, 1986, p. 10.
104
La traducción y la interpretación consecutiva del cuento
que ellos mismos no están solos, y que aunque existan diferencias
entre las culturas, el principio de la universalidad no entiende en sí
de diferencias culturales. «Take the children out of themselves into
entirely new worlds and let them find there children exactly like
themselves» – nos dice Burns, así como que el niño lector no tiene
que tener la impresión de que se encuentra ante una traducción,
sino ante un original4.
Aunque los cuentos traducidos provengan de culturas muy
cercanas a la nuestra, todos pasan por un proceso de adaptación.
El traductor adapta la obra en función de la cultura meta y de
la edad del niño a la que aquella se dirige. En teoría, esta adaptación no iría en detrimento del contenido, pero si se realiza no
solamente en aspectos relativamente pequeños sino de manera
global, puede haber tantas diferencias con respecto al producto
original que sea prácticamente irreconocible5. Estas adaptaciones, necesarias o no, o más política o religiosamente correctas,
afectan también a las ilustraciones que se cambian en función de
las expectativas culturales de la cultura meta o las características
intrínsecas de la lengua, como puede ser el género gramatical, que
cambia de lengua a lengua o no existe: por ejemplo, en español e
italiano, la luna es femenino y el sol masculino, mientras que en
alemán ocurre lo contrario.
Aunque la mayoría de las obras infantiles traducidas vayan dirigidas a otras zonas geográficas con otras culturas y lenguas distintas,
la traducción también puede aparecer en publicaciones bilingües
dirigidas a públicos biculturales en un mismo país. Así, encontramos publicaciones de este tipo en España en euskera/catalán/
gallego y castellano. En estos cuentos, el texto de cada una de las
lenguas aparece en secciones distintas, por ejemplo por encima y
por debajo de la ilustración, como es el caso del cuento de Cape4
M. Burns, The work of the translator, en L. Persson (ed.), Translations of
Children’s Books, Bibliotekstjänst, Lund 1962, p. 94 y pp. 68-94.
5
«Translations of literature are like children of their originals. They live in
another culture and, like children, they may well grow up to be quite different
from their parents and from one another». De Brian Harris, Fairy tales updates:
http://unprofessionaltranslation.blogspot.com.es/
105
María Gracia Torres Díaz
rucita Roja en inglés y galés6. En la cubierta se lee una nota que
explica el público al cual va dirigido: «This book has been produced
in Welsh and English so that it can be enjoyed by children coming
from both Welsh and English speaking homes. Welsh speaking
parents, and those learning Welsh, can read the Welsh version,
while English speaking parents can read the English version».
A veces, estas publicaciones no van dirigidas a zonas geográficas
bilingües, sino a niños bilingües en las distintas combinaciones
lingüísticas, y también nos encontramos con publicaciones bilingües que lo que intentan es hacer llegar una lengua extranjera que
se considere importante, como puede ser el inglés.
En otros países, encontramos incluso publicaciones multilingües de cuentos como la que aparece en la siguiente imagen:
Imagen de: Folktales from Australia’s Children of the World
La obra, publicada en Australia en 1979 (año internacional del
niño), recoge 33 cuentos, todos ellos traducidos al inglés, y en
su prólogo se resalta el valor formador de este libro para el niño
australiano: «Not only are children a catalyst in drawing together
all members of our society, but they are the future leaders and
builders of the richly varied society that Australia is becoming. In
6
H. Amery – S. Cartwright, Hugan Fach Goch-Little Red Riding Hood, Usborn
Publishing – Dref Wen, Cardiff 2009.
106
La traducción y la interpretación consecutiva del cuento
building our nation, an understanding and appreciation of each
other’s background is vital».
Y prosigue: «Australia’s children come from many different
lands – in fact, more than one hundred – with a rich variety of
childhood stories. My purpose is to have some of this rich heritage
brought together. By sharing in this way, through the eyes of our
children, we will be drawn closer together as people»7.
La importancia de transmitir otras culturas al niño en temprana edad hace que muchas editoriales se planteen la creación de
cuentos con temas por un lado dirigidos hacia la población infantil
proveniente de otras culturas, y por otro al niño autóctono que
desconoce esa cultura. El objetivo de estos trabajos es fomentar la
integración y favorecer la formación del alumno autóctono informándole de la existencia de otras maneras de entender el mundo.
Ponemos el ejemplo del cuento To the temple for arti, obra en la
que se relata una visita a un templo hindú en Inglaterra. En el
cuento aparecen ilustraciones por las que sabemos que la acción
transcurre en este país y no en la India, que describen una manera
de vestir distinta (en el caso de la madre), que muestran el templo
y a los personajes realizando rituales como el ofrecimiento de fruta
a los dioses, agitar las manos por encima de la lámpara encendida, descalzarse a la entrada del templo o sentarse a rezar en el
suelo sobre una alfombra. Las imágenes describen a unos niños
aparentemente occidentales, pero con unos gestos y expresiones de
candidez y obediencia más propias quizás de las ilustraciones de
un cuento hindú. Al final del cuento el autor aporta un glosario de
términos en hindi8.
En España, encontramos publicaciones en las que se presenta brevemente otra cultura al niño, como la colección de Caballo
Viajero (2007). Aunque no se especifica en la obra, la lista de culturas que ofrece la colección (Ecuador, Marruecos, China y Rusia)
parece tener que ver con la procedencia de muchos de los niños
extranjeros escolarizados en los centros educativos españoles. En la
P. Hamlyn, Folktales from Australia’s Children of the World, Ure Smith, Sydney
1979.
8
J. Jones, To the temple for arti, Blackie Schools, London 1987.
7
107
María Gracia Torres Díaz
contraportada de estos cuentos aparece la siguiente información:
«Caballo viajero es una colección que presenta los rasgos característicos de algunas culturas del mundo de la mano de la reina Trotamundos y su caballo viajero», y cada cuento acaba con una curiosa
frase – «Y si queréis saber más cosas sobre Ecuador, preguntad a
algún vecino que sea de allí si quiere ser amigo vuestro» –, que deja
entrever una realidad posible en España, o sea la de tener un vecino
del país hispanoamericano9.
En Francia, nos encontramos con cuentos en los que aparece un
personaje con otros orígenes. Ejemplo de esto es el cuento Mon papa
roulait les R (2008), dedicado a una primera generación de hijos de
emigrantes, basado quizás en la experiencia de su autora, Françoise
Legendre, francesa hija de padres rumanos. La portada del cuento
nos muestra a una niña de rasgos exóticos con un gran gorro de piel.
El cuento evoca la historia de esta niña que vive en Francia con su
padre extranjero que hace cosas propias del inmigrante en los años
sesenta: envía paquetes de medicinas y café a su familia y los telefonea por Navidad. La niña protagonista hace hincapié en el acento
de su padre, en sus amigos extranjeros y en las palabras que aprende
en otra lengua. En la contraportada del cuento aparece un sello de
Amnistía Internacional que dice: «Parce que les différences sont
encore trop souvent source de conflits dans le monde, cet álbum
rappelle combien la diversité est un enrichissement»10.
Otras colecciones infantiles francesas optan por un cuento en
un contexto foráneo, como puede ser la India, para presentar el día
a día de una niña hindú. El cuento también aporta un glosario con
términos hindúes explicados.
La necesidad de la transmisión de las realidades culturales de
otras culturas al receptor infantil es lo que hace que nos encontremos con estos tres evidentes sectores emisores dentro de la literatura infantil: la traducción, la creación bilingüe y el cuento que relata
una historia culturalmente distinta.
M. Ganges – P. Monserrat, La reina trotamundos en Ecuador, Combel
Editorial, Barcelona 2007.
10
F.Legendre – J. Gueyfier, Mon papa roulait les R, Sabarcane, Paris 2008.
9
108
La traducción y la interpretación consecutiva del cuento
2. La interpretación del cuento
La transmisión del cuento no acaba sin embargo en la obra
escrita. Ajena a la traducción del cuento y a su interpretación filológica y crítica, y compartiendo a su vez escenario con los tradicionales «cuentacuentos», la figura del intérprete que traduce a
otra lengua los cuentos que se leen en el aula se hace cada vez
más frecuente en zonas con alumnos inmigrantes. El objetivo que
persigue la interpretación del cuento, al igual que su traducción, es
favorecer al mismo tiempo la integración cultural del niño extranjero y la formación cultural del autóctono. Se leen tanto cuentos
autóctonos locales como universales, así como aquellos provenientes de la cultura del niño inmigrante.
La interpretación del cuento es un híbrido de la traducción literaria y de la interpretación social, porque tiene lugar en un contexto
público: el colegio. Desconocida por muchos, incluso dentro mismo
del ámbito de la interpretación, la interpretación literaria puede
darse en tres modalidades y en dos contextos distintos:
1. En la modalidad de simultánea: en el contexto de un teatro y
hacia el lenguaje de signos. Se realiza sobre todo en Estados
Unidos, Australia y el Reino Unido.
2. En la modalidad de consecutiva y también en la modalidad de
simultánea si se realiza la interpretación hacia el lenguaje de
signos: tiene lugar en colegios con alumnos inmigrantes que
todavía desconocen la lengua autóctona. Se hace sobre todo
en el Reino Unido, Canadá, Estados Unidos y Australia.
3. Utilizando un híbrido de la traducción y la interpretación: la
traducción a la vista.
Canadá, Estados Unidos, Australia y el Reino Unido son sin
duda países pioneros en cuanto a la interpretación social y la interpretación literaria. El ejercicio de interpretación lo realizan intérpretes acreditados como Educational Interpreters, Classroom Interpreters o Community Interpreters11. Estos especializados intérpretes
11
Sin embargo, en algunos colegios de Canadá, durante los años 90, la
interpretación la hacían niños no especialistas, como nos informan B. Harris y C.
109
María Gracia Torres Díaz
efectuarán también otras actividades dentro de este contexto,
como puede ser la matriculación de un alumno, la lección impartida por un profesor o la consulta padre-profesor12. El intérprete
puede incluso que alterne la actividad de traducción oral con la
escrita, traduciendo igualmente las notas que el profesor envía a
los padres de un alumno. Aunque el aprendizaje de la nueva lengua
sea rápido en el niño, mucho más que en el adulto, estos países
utilizan la figura comunicativa del intérprete en todo el ámbito
escolar, pues son conscientes de que si la comunicación no es efectiva, el progreso y desarrollo emocional del niño se verá afectado
negativamente13.
Como hemos mencionado ya, ajeno a la labor y las inquietudes de los traductores de cuentos, el intérprete de cuentos narra
una historia a uno o varios niños, sin la censura de intermediarios parentales y editoriales, sin recurrir a la adaptación cultural sino más bien a la explicación de lo extraño, pues en el caso
del niño foráneo, aunque sea desconocedor total o parcial de la
lengua autóctona, puede compartir sin embargo en algunos casos
el mismo entorno cultural y social que el niño autóctono.
3. Conclusión
A pesar de estar volcados en un mismo fin, la transmisión de un
mensaje a un público infantil, traductores e intérpretes de cuentos
no utilizan, como hemos visto, ni las mismas herramientas ni las
mismas estrategias para la comunicación efectiva del mensaje.
Sin embargo, ambas actividades comparten un lugar marginal en
algunos países como España, dentro de los campos que represenBullock en «School Children as Community Interpreters», en First International
Conference on Interpreting in the Legal, Health and Social Services Settings, Benjamins,
Amsterdam 1996.
12
M.G. Torres Díaz, La interpretación comunitaria y la modalidad de diálogo, e
M.S. Salaberri Ramiro – M.E. García Sánchez (eds.), Modelos de programación para
la enseñanza del inglés y materias afines en formación universitaria, Universidad de
Almería, Almería 2001, p. 47.
13
Cfr. O. Sacks, Seeing voices, Vintage books, New York 1989.
110
La traducción y la interpretación consecutiva del cuento
tan la traducción y la interpretación. La traducción de la literatura
infantil tiene un papel secundario y una posición marginal con
respecto a las otras traducciones literarias14. Igual ocurre con la
interpretación en colegios, que en cuanto a prestigio va muy por
detrás de la interpretación de conferencias, o de la social en otros
contextos como el médico o el jurídico. En muchos casos, tanto
la traducción como la interpretación en este sector la realizan no
profesionales.
14
Quizá contribuya a ello que la traducción se pague por palabras y que los
cuentos infantiles en general sean breves. Casi nadie parece reconocer la complejidad
de traducir estos textos, y de hecho en ninguno de los cuentos traducidos que he
consultado, españoles o extranjeros, aparecía el nombre del traductor.
111
Laurie Anderson
Leveraging pragmatics in the translation classroom:
Promoting active learning through
literary translation towards the ‘non-mother’ tongue
The present contribution illustrates how the use of literary
texts in the translation classroom can act as a catalyst for helping
students develop a metalinguistic awareness of differences between
linguistic systems and an ability to translate more successfully by
stimulating a pragmatic perspective on language use. Literature
possesses a unique power to transport the reader from his/her ordinary context into the world evoked by the text - in particular, those
modes of narrative that adopt techniques of internal focalization
to present the thoughts, experiences, and points of view of fictional characters. Drawing on action-research with three cohorts of
students who followed a bi-directional course in Italian-English/
English-Italian translation at a C1 level, I show how this potential
of literary texts can be harnessed pedagogically through a process
of «deictic re-anchoring», which guides learners to experientially engage with the fictional world of the text by shifting their
point of view on events to coincide with the temporal and spatial
localization of the «thinking/speaking subject». This technique is
illustrated through the discussion of a pedagogic design intended
to help students learn how to render the «future in the past», an
aspect particularly subject to negative interference in translating
between Italian and English. The paper highlights how a taskbased approach that involves students vicariously in the fictional
world of the text, supported by schematic representations of the
options available in the source and target language for expressing
degrees of epistemic certainty/uncertainty, can foster an awareness
of and ability to overcome syntactic interference due to hypo-dif-
Laurie anderson
ferentiation, i.e. a failure to recognize and employ in contextually
appropriate ways the full range of target structures that constitute
«translation equivalents» of a given structure. In closing, implications for the design and delivery of translation courses at the
university level are discussed1.
1.
Rethinking translating towards the ‘non-mother’ tongue
in the translation classroom
Traditionally, teaching students to translate towards their
‘non-mother’ tongue has been viewed with a certain suspicion.
The strong version of this view is that in order to guarantee the
production of top-quality translated texts, translators should work
solely towards their ‘native’2 language. This position is held by a
number of professional organisations and by various translation
theorists3. Both psycholinguistic and cultural reasons are typically
invoked: not only, it is claimed, do those translating towards their
This article is based on ongoing action-research carried out with three
cohorts of third year students of English (language majors) at the University of
Siena’s Arezzo campus between 2012 and 2015. Taking as a comparative sample
those students who demonstrated the possession of a C1 level of general English
in the same exam session (respectively June 2013, 2014, 2015), the percentage of
students who correctly translated all cases of reported thought/speech from Italian
to English (including cases of free indirect discourse) increased over the threeyear period. As in all non-experimental modes of educational research, there are a
number of other variables in addition to the shift in teaching strategies employed
that could have influenced this result; my colleagues and I feel, however, that at
least part of the effect can be attributed to the refinement of the teaching strategies
adopted.
2
In line with work on English as a Lingua Franca that problematizes the
concept of the «native speaker» in today’s increasingly mobile and heteroglossic
world, here and elsewhere the expressions «native/non-native speaker», «mothertongue» and «non-mother tongue» appear in inverted commas to highlight the
problematic status of the constructs in question.
3
For a discussion of the (often implicitly expressed) positions of several classic
theorists, including G. Steiner, P. Newmark, L. Venuti, see N.K. Pokorn, The pros
and cons of translating into a non-mother tongue: Theoretical bias and practical results,
in M. Grosman – M. Kadrić – I. Kovačič – M. Snell-Hornby (eds.), Translation
1
114
Leveraging pragmatics in the traslation classroom
‘native’ language have access to a broader repertoire of possible
translation variants; they also possess a greater sensitivity to the
collocational appropriacy of such variants thanks to their status as
cultural insiders. The weak version of this view accepts the production of «service translations» by ‘non-native’ speakers of the target
language, but draws the line at the translation of literary texts4.
Here the argumentative line presented by C. Dollerup is representative: «[i]n literature the shortcomings of the non-native translator are obvious, for reading literature is an aesthetic experience
which includes enjoyment of style and register, that is, of features
which can be conveyed only by native speakers».
A number of reasons call for a reconsideration of this position.
The first is that it underestimates the importance of other factors
that contribute to a successful translation, such as the more informed and in-depth understanding of the original text that a ‘native’
speaker of the source language often possesses. Where English is
concerned, both practical considerations and issues of fairness also
come into play: in today’s global marketplace the need for translations into English out of any one language greatly exceeds the
number required in the other direction and, to put it quite bluntly,
there is no reason why a privileged position should be reserved for
‘native’ English speakers. A final reason for rejecting the ‘nativesonly’ position, however, is that at least part of the premises upon
which it is based are probably wrong: given the status of English as
a lingua franca, the target readers of many translations into English
are international users of English, and there is growing evideninto non-mother tongues in professional practice and training, Staffenburg Verlag,
Tübingen 2000-2009, pp. 71-79.
4
Shifts over time from a «strong» to «weak» position on translating into
‘non-mother’ tongues can be discerned on the part of some well-known translation
scholars. P. Newmark, for instance, who dismissed «service translations» as
unacceptable in his 1988 book A textbook of translation (Prentice Hall, Hemel
Hempstead, 1988, p. 52), subsequently conceded that translation of what he called
«information text» could be carried out by ‘non-native’ translators, although he
recommended such texts be revised in any case by a ‘native’ speaker (P. Newmark,
Paragraphs on translation, Multilingual Matters, Clevedon, 1993, p. 55). See
discussion in J. Weatherby, Striving against literalist fidelity in L1-L2 translation
classes (Spanish-English), in M. Grosman et al., op.cit., pp. 193-203.
115
Laurie anderson
ce that fluent ‘non-native’ translators with bi- or multi-lingual
repertoires may be particularly well positioned to gauge how such
readers are likely to process and respond to translated texts5.
Should a reconsideration of translation towards the ‘nonmother’ tongue be extended to literary texts as well? Various cases
of successful literary translation from lesser-used languages into
English and other vehicular languages by ‘non-native’ English
translators have been documented6, but the practice is admittedly
an exception, and, considering the rather limited market for literary texts, it would be difficult to support a decision to teach literary translation towards the ‘non-native’ tongue on practical or
linguistic justice grounds. There is no need to do so, however, if
one starts from the premise – by now well-established in language teaching circles – that helping students achieve communicative
competence (in the present case, developing adequate translational
skills) does not necessarily mean proposing only tasks that will be
encountered in professional practice. Rather, as I will highlight in
what follows, what matters is engaging students in pedagogically
effective language use.
2.
Theoretical and practical underpinnings of the pedagogical
approach presented
Over the last thirty years or so, linguistic pragmatics has
clearly demonstrated that the locus of meaning-making is situated
language in use. This means that, while concepts like text type and
text function are undoubtedly useful in translator training, the unit
of analysis with which students ultimately need to engage is the
individual text/discourse. How broadly in translation theory and
practice one may wish to frame such engagement – rather restric5
S. Taviano (ed.), English as a lingua franca: Implications for translator and
interpreter education (Special issue of «The interpreter and translator trainer», 7,
2), Routledge, London, 2013.
6
See contributions in Grossman et al. (eds.), Translation into non-mother
tongues, cit.
116
Leveraging pragmatics in the traslation classroom
tively, as in text linguistic approaches, or in wider cultural-semiotic
terms – remains an open question7. Here, I would argue that for
pedagogic purposes an effective level of conceptualization is the
‘text-act’, which can conveniently be glossed, following Morini, as
«all the performative forces displayed by a text», «everything that a
text aims to do and/or does in the world»8.
A unique quality of literary texts, in particular fictional texts, is
their capacity to imaginatively evoke other situations and contexts.
This characteristic can be drawn on to help students problematize
and rework existing cognitive schemes and modes of text processing. In other words, literary texts have a place in the classroom as
‘pre-texts’ for building language awareness and an ability to apply
it in transposing text-acts from one language to another. One
important psycholinguistic obstacle that student translators need
to overcome are deeply-entrenched ways of linguistically representing degrees of epistemic certainty and the related possibility of
agentive action. The following pedagogic design, which my colleagues (Piera Sestini and Irene Loffredo) and I have employed and
gradually refined over several years of teaching translation courses
to upper-intermediate and advanced undergraduate language
majors, illustrates how translating literary texts can help Italian
students learn to flexibly and appropriately render in English
the so-called «future in the past», i.e. reported thought or speech
anchored in past time contexts. The broader aim of this design to
encourage them to assume a pragmalinguistic perspective on the
translation process, which we believe is an important component
of learning to translate into English as a ‘non-native’ language. But
first, a brief note on the translation problem in question.
7
For a useful overview of the issue, see B. Hatim, Teaching and researching
translation, Pearson Education, Harlow 2001.
8
The concept of text-act (first introduced by Hatim and Mason 1990) has
had a rather checkered history in translation studies, one that to a certain extent
mirrors the fortunes of speech act theory within pragmatics itself; for a recent
reproposal, see M. Morini, The pragmatic translator: An integral theory of translation,
Bloomsbury, London 2013.
117
Laurie anderson
3.
A knotty translation issue: rendering the «future in the past»
Italian learners of English often encounter difficulties in
acquiring a firm control of the ample range of means the language contains for expressing epistemic modality, i.e. the speaker’s/
writer’s degree of certainty/uncertainty about the existence or
future occurrence of given states or events. Even among highlycompetent speakers who employ English daily for professional
purposes, the use of the modal verbs and modalizing expressions
available to express fine-grained distinctions concerning possibility/probability may diverge in various ways from that of ‘native’
speakers in similar contexts9. Where reports about the epistemic
stance of other speakers/thinkers are involved, and particularly
where over the course of talk/discourse these states are in a state of
flux, these difficulties may be compounded. Translating narrative
texts containing reported thought or speech can therefore prove
particularly challenging, particularly where techniques such as free
indirect discourse are employed, for two reasons that I will briefly
detail below.
The first is that translating reported discourse requires an ability
to recognize (in reception) and render (in production) a deictic
system that exhibits properties of dual articulation. Person, time
and spatial reference need to simultaneously accommodate the
perspectives of both the narrator and the person(s) whose speech
or thoughts are being narrated, what Mortaro Garavelli and Calaresu refer to as, respectively, locutore hic et nunc (Lo) and locutore
citato (L1):
Nel discorso che riproduce al suo interno altri discorsi o parti di
altri discorsi in forma diretta, si osserva [...] il caso tipico di un
unico parlante che ricopre il ruolo di più locutori, o, in termini
più tecnici, di un Lo (locutore hic et nunc) che assume momentaneamente il ruolo di uno (o più) L1 (locutore citato). Nel caso
L. Bubani, L’espressione della modalità epistemica da parte di docenti italofoni
nell’inglese come lingua franca accademica, Tesi triennale, Corso di Laurea triennale
in Lingue per la Comunicazione Interculturale, Università di Siena, 2014.
9
118
Leveraging pragmatics in the traslation classroom
invece di un discorso in forma indiretta, Lo si limita a rievocare
un L1 o a ‘raccontare’ il discorso di L1 senza però metterlo in atto
direttamente ‘prestandogli’ la propria voce (come invece succede
in un discorso diretto)10.
As communicative acts between writers and readers, all texts are
characterized by deixis. As B. Richardson observes, this perspective
may pervade the text as a whole (Richardson gives the example of
a tourist text in Spanish for Spanish tourists in which the Iberian
peninsula is referred to as «nuestra peninsula») or it may change
dynamically as the text evolves. In his discussion of the implications of deictic shift theory for translation, Richardson observes
that narrative texts tend to contain a dual perspective: the so-called
«focalizing point of view», i.e. the position in terms of person,
time and space from which the story is presented to the reader,
and a so-called «focalized point of view» that brings the spatial,
temporal and personal coordinates of the narrated world into relief
as the narration progresses. The upshot is that «a mental model is
constructed at the moment of the reader’s reception of the text».
Quoting E.M. Segal, Richardson notes that:
[...] the reader tends to witness most events as they seem to
happen [...] The events tend to occur within the mental model
at the active space-time location to which the reader has been
directed by the syntax and the semantics of the text11.
Rendering this dynamic property of narrative texts in translation can be a challenge, whether the translator is working into or
from his/her ‘native’ language.
10
E. Calaresu, Testuali parole: La dimensione pragmatica e testuale del discorso
riportato, Franco Angeli, Milano 2004, p. 86. Also see B. Mortara Garavelli, La
parola d’altri, Sellerio, Palermo 1985 and B. Mortara Garavelli, Il discorso riportato,
in L. Renzi (a cura di), Grande grammatica italiana di consultazione, vol. III, Il
Mulino, Bologna 1995, pp. 426-468.
11
E.M. Segal, Narrative comprehension and the role of deictic shift theory,
Lawrence Erlbaum, Hillsdale 1995, p. 71, cited in B. Richardson, Deictic features
and the translator, in L. Hickey (ed.), The pragmatics of translation, Multilingual
Matters, Clevedon 1998, p. 132.
119
Laurie anderson
A second difficulty comes into play in particular when translating reported speech/thought from Italian to English: the verb
systems of the two languages diverge to some extent in mapping
epistemic states within this dually-articulated deictic space. The
following three examples, in which the conditions holding in each
situation of enunciation have been made artificially explicit, illustrate how the grammatical systems governing reported thought/
speech in Italian and English require writers/speakers in English to
be more explicit through the choice of the verb form used.
Condition (and realiza- Discorso riportato
tion in direct speech)
(Italian)
Reported speech/thought
(English)
Probability (I conditional): «Acquisterò un
appartamento se riceverò un aumento.»/ «I
will buy a flat if I get
a raise».
Disse che avrebbe
acquistato un appartamento se avesse ricevuto
un aumento, e poiché
era ottimista in merito
cominciò ad informarsi sui prezzi. (III type)
He said that he would
buy a flat if his pay
were raised, and since
he was optimistic
about it, he started
looking into prices. (II
type)
Improbability /unrea­
lity (II conditional):
«Acquisterei un appartamento se ricevessi un
aumento». / «I would
buy a flat if I got a raise».
Disse che avrebbe
acquistato un appartamento se avesse ricevuto un aumento, ma
non ci contava più di
tanto. (III type)
He said that he would
buy a flat if his pay
were raised, but that he
wasn’t really counting
on that happening. (II
type)
Impossibility /counter-factuality (III
conditional): «Avrei
acquistato un appartamento se avessi ricevuto un aumento». / «I
would have bought a
flat if I’d got a raise».
Disse che avrebbe
acquistato un appartamento se avesse
ricevuto un aumento,
ma purtroppo il suo
datore di lavoro aveva
rifiutato ogni tipo di
trattativa sindacale.
(III type)
He said that he would
have bought a flat if his
pay had been raised,
but unfortunately his
employer had refused
to negotiate with the
unions. (III type)
Table 1. «Future in the past»: example sentences in Italian and English, with conditions of enunciation artificially specified
120
Leveraging pragmatics in the traslation classroom
Talk about possible events/states operates along two axes: fulfilment/non-fulfilment (whether or not the event or state mentioned
is potentially realizable) and, in the case of potentially realizable
events/states, the speaker’s degree of relative optimism/pessimism about whether or not the event/state will actually take place.
While the verb systems of both Italian and English call for so-called
‘back-shifting’ in converting direct speech/thought into indirect speech/thought, the verb construction in reported speech in
English ‘cancels out’ any indication about the reported speaker’s/
thinker’s degree of optimism/pessimism regarding realizable events
while retaining the realizable/unrealizable distinction. In Italian,
instead, neither of these distinctions is obligatorily encoded.
Drawing on insights from contrastive analysis, the above
summary suggests that in translating reported thought/speech into
English, Italians may encounter syntactic interference (negative
transfer) in the rendering of verb tenses due to hypo-differentiation, i.e. a failure to recognize that a single realization in the source
language corresponds to more than one (in the case in point, two)
variants in the target language12. In what follows, I will highlight
how literary texts contain performative features that can be drawn
on in order to help student translators enter into the situation
evoked (so to speak) in medias res, a procedure that can help them
to overcome interference due to the above-mentioned morphosyntactic underdifferentiation of Italian with respect to English in the
encoding of reported thought/speech.
4.
A pedagogic design for learning to translate the «future in the past»
In literary texts the context of situation and speakers’ cognitive
and emotional states are usually not explicitly specified; indeed,
12
For a discussion the applicability of F. Weinreich’s notions of hyper- and
hypo-differentiation to curriculum design for interpreter/translator education,
see F. Santulli, The role of linguistics in the interpreter’s curriculum, in G. Garzone
– M. Viezzi (eds.), Interpreting in the 21st century: Challenges and opportunities,
Benjamins, Amsterdam 2002, pp. 257-266.
121
Laurie anderson
the effectiveness of such texts often depends on the blurring of
different levels of consciousness and subjectivity deriving from
narrative techniques such as free indirect discourse. In translating
reported speech/thought from Italian into English, translators
are thus faced with the uncomfortable task of having to ‘saturate’ the original text to a certain degree, by choosing a rendering
that frames the events described as realizable (possible or at least
probable) or unrealizable (impossible/counter-factual). Doing so
requires making inferences about presumed cognitive states that
may have been specified elsewhere in the original Italian text or
been deliberately left underspecified (vague), a procedure that in
turn involves a close reading of the original.
The following pedagogic sequence supports this inferencing
process by introducing an experiential component into the translation process. It involves a procedure of «deictic re-anchoring»
which helps students vicariously access such cognitive states and
make them their own13:
Guided observation of the original Italian text or text excerpt:
1. warmup task designed to help students identify the
temporal and spatial reference points to which the text
or text excerpt orients (questions or other task, e.g.
producing a map charting a character’s movements or
activities; filling out a chart in order to estimate how
much time has elapsed in the narrated fictional world
from the beginning to the end of the excerpt).
13
Within the broader framework of the course, before proposing this pedagogic
sequence we find it useful to carry out the following activities (not necessarily in
the same session in which the role-play sequence is proposed): (1) engage students
in guided observation of similar target-language texts (literary passages in English
containing reported thought/speech), eliciting brief impromptu translations of
relevant segments into Italian; (2) present a brief contrastive analysis of verb use in
direct and indirect speech in Italian and English, using a schematic representation
similar to the one presented in section 3.
122
Leveraging pragmatics in the traslation classroom
Preparation for role-play:
2. identification (in groups or collectively at class level) of
segments in reported speech/thought;
3. specification (again at group or class level) of who the
reported speech belongs to (‘original speaker’: locutore
citato (L1));
4. reflecting aloud on the presumed cognitive/emotional
state of the speaking/thinking subject (his/her degree
of certainty, degree of optimism/pessimism about the
future).
Role-play: entering vicariously (in medias res) into the situation
being reported, through:
1. production of direct discourse in Italian («what the
speaker/thinker would have said/thought»);
2. production of equivalent direct discourse in English14.
Post role-play phase:
1. reflexive observation of one’s own discourse production
(=‘metalinguistic labelling’ of the English utterance(s)
produ­ced, including any other shifts in deixis or register
appropriate in direct discourse in the context of situation evoked);
2. back-shifting of verb tenses in order to produce the
appropriate form of indirect discourse; re-reading/
discussion of the translation produced, in the light of
students’ accumulated experience of similar targetlanguage texts and/or one or more professional translations of the passage.
14
As I believe will have become obvious by now, what is being elicited from
students here is their best guess at what Koller (1979) would refer as äquivalenz at
the level of parole, i.e. of language use in real texts and utterances; see discussion in
B. Hatim, Teaching and researching translation, pp. 26-30.
123
Laurie anderson
The role-play phase can be carried orally, in writing, or both.
One strategy we find useful is to have students work in pairs with
worksheets that provide a visual representation of the process of
«deictic re-anchoring» proposed, i.e. the passage from indirect
speech to direct speech in the source language and vice versa
in the target language. Students tend to particularly appreciate
the use in this phase of graphic supports such as the ‘thought’ or
‘speech balloons’ typically found in comics and graphic novels.
The two examples in tables 2 and 3, containing segments respectively from D. Buzzati’s Il deserto dei tartari (1940) and C. Cassola’s
La ragazza di Bube (1960), illustrate this procedure. In proposing
the activity in the classroom, the balloons in columns 2 and 3
and the final rendition in column 4 are presented either blank or
in gapped form, according to the students’ level of proficiency15.
In the Buzzati passage, the narrator’s statement that Drago «si
sentiva nelle migliori condizioni di spirito» («felt in high spirits»)
supports the use of the first conditional in the direct speech renditions in Italian and English. In the Cassola passage, a close reading
of the surrounding co-text (not included here for reasons of space)
reveals that the protagonist continues to daydream and does not
actually go out; this circumstance suggests that the use of the
second conditional in the direct speech version is probably most
appropriate. As students begin to compare the various direct and
reported thought/speech renditions they have arrived at in translating a series of literary texts, they gradually build up a mental
representation of the different affordances the Italian and English
verb systems offer for expressing the «future in the past».
They also gradually acquire, my colleagues and I believe, a
better understanding of the importance of achieving a pragmatic
‘fit’ between individual translation choices and the ‘text-act’ as a
whole. Although the process of «deictic re-anchoring» required to
vicariously imagine themselves in the narrative context evoked can
be difficult for some students, generally speaking the pedagogic
The passages and translations proposed are taken from M.C. Cignatta,
Targets in translation: A practical guide for Italian university students of English,
CLUEB, Bologna 2000.
15
124
Ci fu in quel tempo
una grande festa da ballo
e Drogo, entrando nel
palazzo in compagnia dell’amico Vescovi, l’unico che
avesse ritrovato, si sentiva
nelle migliori condizioni di
spirito. (2) Benché fosse già
primavera, la notte sarebbe
stata lunga, uno spazio di
tempo pressoché illimitato;
prima dell’alba potevano
succedere tante cose, esattamente Drogo non era in
grado di specificarle, ma
certo lo attendevano parecchie ore di incondizionato
piacere. (3) Aveva infatti
cominciato a scherzare con
una ragazza vestita di viola
e non era ancora suonata
mezzanotte, forse prima
del giorno sarebbe sbocciato
l’amore [...].
125
Although spring has
already arrived, the
night will be long,
a virtually endless
time-span.
[…]
Maybe before day
breaks, love will
blossom.
Benché sia già
primavera, la notte
sarà lunga, uno
spazio di tempo
pressoché illimitato.
[…]
Forse prima del
giorno sboccerà
l’amore.
A grand ball was held
at that time and as Drogo
entered the hall in the
company of his friend
Vescovi, the only one he
had met up with again,
he felt in high spirits. (2)
Although spring had
already arrived, the night
would be long, a virtually
endless time-span; before
dawn, so many things
might happen, Drogo
could not even imagine
what, but one thing was
certain, he was in for
several hours of sheer
pleasure. (3) In fact, he
had begun flirting with
a girl dressed in purple,
and it had not yet struck
midnight, love might
blossom before the night
was out [...].
(1)
Table 2. Translating the «future in the past» through «deictic re-anchoring», example 1 (D. Buzzati, Il deserto dei tartari)
(1)
Leveraging pragmatics in the traslation classroom
Mara sbadigliò. (2) Era
una bella noia essere costretta a stare in casa per colpa
del fratello! (3) Le venne in
mente che avrebbe potuto
lo stesso andarsene fuori:
Vinicio si sarebbe messo a
strillare, e la sera lo avrebbe
raccontato alla madre; ma
lei avrebbe potuto sempre
dire che non era vero. (4) E,
dopo, gliele avrebbe anche
date, a Vinicio.
126
Potrei andarmene
fuori. Vinicio si
metterebbe a strillare, e stasera lo
racconterebbe alla
mamma. Ma potrei
sempre dire che
non è vero. E dopo,
gliele darei!
I could go out.
Vinicio would start
yelling, and this
evening he would
spill the beans. But
I could always deny
everything. And
afterwards I’d give
him a good hiding!
Mara yawned. (2) It was
really boring having to
stay in, all because of her
brother! (3) It occurred to
her that she could go out
just the same; Vinicio
would start yelling, then in
the evening he would spill
the beans, but she could
always deny everything.
(4)
And afterwards she
would give Vinicio a good
hiding.
(1)
Table 3. Translating the «future in the past» through «deictic re-anchoring», example 2 (C. Cassola, La ragazza di Bube)
(1)
Laurie anderson
Leveraging pragmatics in the traslation classroom
sequence proposed (or variants thereof, which likewise draw on the
performative opportunities offered by literary texts) proves useful
in the translation classroom because of its capacity to systematically leverage the pragmatic dimension of texts.
5.
Conclusions
This brief contribution has aimed to share with practitioners
(teachers of translation) and scholars (researchers in translation studies) a replicable heuristic that has proved successful in
the classroom for solving a well-known difficulty encountered
by novice translators: learning how to express the «future in the
past» in translating from Italian to English. It was also intended
to provide a concrete illustration of how the analytic tools of
linguistic pragmatics (in the present case, the notion of «deictic
re-anchoring») can be usefully incorporated into course design
in translation studies, thus contributing to bridging the theorypractice divide. The procedure proposed helps students grasp the
connection between morphosyntactic choices at the sentence/
utterance level and pragmatic characteristics of the ‘text-act’ (literary text or excerpt thereof ). More generally, it provides practice
in foreseeing and resolving translation difficulties traceable to a
mismatch between SL and TL language systems (in the present
case, different levels of explicitness in the encoding of epistemic
certainty in reported speech in Italian and English). My broader
aim in proposing this brief reflection has been to show how literary
translation can be used to develop students’ metalinguistic awareness, while at the same time introducing (albeit vicariously) an
‘experiential’ component into the teaching/learning process.
Constructivist approaches to classroom interaction have shown
that involving students more actively in their own construction of
meaning can facilitate more effective learning. Drawing on pragmatics to reconceptualise the use of literary texts in the translation
classroom is one way to achieve this goal.
127
Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez
La autotraducción literaria.
Una escritura postcolonial
1. Sobre la autotraducción
Hay quienes conciben la autotraducción como un campo
aislado dentro de los estudios sobre la traducción, basándose en la
falsa idea de que es un fenómeno poco usual o de que se relacionaría «más con el bilingüismo que con la propia traducción»1.
La autotraducción, sin embargo, tiene un papel importante dentro de la traductología y cuenta con una gran antigüedad
en la literatura: existe al menos desde el primer siglo de nuestra
era, cuando el historiador judío Flavio Josefo tradujo su obra del
arameo al griego. Desde entonces han sido muchos los autores que
han practicado la autotraducción, que se ha convertido así en un
fenómeno habitual2.
La autotraducción supone el proceso de traducir un autor su
obra original a otro idioma, sin que intervenga otra persona, ya
que será el mismo autor el que realice las tareas de crear, inter1
R. Grutman, Auto-translation, en M. Baker (ed.), Encyclopedia of Translation
Studies, Routledge, New York-London 1998, pp. 17-20; pp. 157-160; la cita en
la p. 17.
2
«No estamos ante raras excepciones, sino ante un corpus inmenso, cada
vez mayor, de textos traducidos por sus propios creadores. Lejos de ser un ‘caso
marginal’ […], la traducción de autor cuenta con una larga historia y es hoy
en día uno de los fenómenos culturales, lingüísticos y literarios más frecuentes
e importantes en nuestra aldea global, y desde luego merecedora de mucha más
atención de la que hasta ahora se le ha prestado». J.C. Santoyo, Autotraducciones:
Una perspectiva histórica, en «Meta: Translators’ Journal», 50 (2005), 3, pp.
858-867; la cita en la p. 866.
Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez
pretar y traducir. La traducción exige una lectura profunda y una
comprensión total del texto, y para Tanqueiro el autotraductor será
el lector ideal, un lector sui generis que entenderá el texto en sí
mismo y no necesitará leer y releer la obra ni, como haría otro
traductor, trabajar con el autor original, conocer su estilo e ideología. Se convertirá también en autor sui generis puesto que al trabajar en su propia obra en el Texto Original 2 (TO2), tendrá su voz
en lo que está traduciendo3.
La tarea principal del traductor es comprender el texto, captar
las intenciones del autor y hacer un trasvase cultural y lingüístico lo
más fiel posible al original. En este sentido el autotraductor gozará
de libertades únicas por ser el autor de su obra en otra lengua y a
la vez podrá garantizar que no se pierda su esencia. El bilingüismo
y la biculturalidad del autor, en los casos más afortunados, evitan
errores de comprensión o de expresión. Es prioritario comprender
a los destinatarios y sus expectativas en cada circunstancia4. Con
esto planteamos que la forma en la que se transmiten los mensajes
depende de los receptores: los autotraductores adaptan el mensaje
a unos nuevos receptores de culturas dispares con la intención de
transmitir el mensaje con la mayor exactitud. La traducción cultural, para Nida y Taber, es «aquella en que se cambia el contenido de
un mensaje para acomodarlo de algún modo a la cultura del receptor o en que se introduce una información que no está lingüísticamente implícita en el original»5.
En los estudios sobre la autotraducción muchos autores defienden el derecho a la libre creación: el autor en su propia traducción
puede modificar la obra sin ser acusado de traicionar el original.
Parcerisas sostiene que «si al traductor se le suele negar el principio
de autoridad y se le juzga como a alguien situado en una posición ancilar, al autotraductor no hay quien le enmiende la plana,
3
H. Tanqueiro, Un traductor privilegiado: el autotraductor, en «Quaderns.
Revista de Traducción», 3 (1999), pp. 19-27; la cita en pp. 20-22.
4
C. Nord, What do we know about the target-text receiver?, en A. Beeby – D.
Ensinger – M. Presas (eds.), Investigating Translation, John Benjamins, AmsterdamPhiladelphia 2000, pp. 195-212; la cita en la p. 195.
5
E.A. Nida – C.R. Taber, La traducción: Teoría y práctica, Cristiandad, Madrid
1986, p. 254.
130
La Autotraducción Literaria. Una Escritura Postcolonial
incluso cuando puede haber incurrido en errores de bulto que
hubiesen supuesto una censura grave para el mero traductor»6. El
autotraductor tiene autoridad sobre su obra, no obstante se rija por
el original y siga los criterios de la traducción. La escritora Carme
Riera siente que a la hora de traducir su propia novela se convierte
en «una lectora crítica de su propio texto»7 y esto la puede llevar a
corregir algunos aspectos para mejorar su obra. Esta idea de autocorregirse y mejorar la obra conlleva una posible traición, y así
lo creen algunos autores como Michelut, pues para ellos el texto
traducido debería ser lo más fiel posible al original8, mientras que
otros como Ferré piensan que los cambios que realiza el autotraductor son necesarios para mejorar la adaptación de la obra a otros
receptores y que el autor puede jugar con las dos culturas y dejarse
llevar por los diferentes recursos que le ofrece cada lengua9.
La autotraducción se entiende en ocasiones como la reescritura
del original en la que el mismo autor refleja todos los aspectos
lingüísticos así como su ideología, sus intenciones y aspectos culturales. En este sentido entra en juego la libre creación del autotraductor, y así no se puede hablar de infidelidad sino de un trasvase
del original con la mayor autenticidad posible. El autor no traicionará sus ideas ni hará interpretaciones erróneas –salvo en las excepciones a las que aludía Parcerisas–, y en cambio sí se beneficiará de
su posición para encontrar la mejor traducción con el fin de transmitir cada idea bien interpretada y sin influencias. Según Cotoner
Cerdó el autotraductor, aunque parta con todas las ventajas, no
debe desentenderse de los requisitos básicos de lo que se considera la traducción de un texto10, que podríamos resumir en tres
objetivos: mantener la información completa del Texto Original 1
6
F. Parcerisas, Sobre la autotraducción, en «Quimera: Revista de literatura»,
210 (2002), p. 13.
7
C. Riera, La autotraducción como ejercicio de recreación, en «Quimera: Revista
de literatura», 210 (2002), p. 12.
8
D. Michelut, Coming to Terms with the Mother Tongue, en «Tessera», 6
(1989), pp. 63-71.
9
R. Ferré, El coloquio de las perras, Cultural, Río Piedras (1990), pp. 67-82.
10
L. Cotoner Cerdó, Las autotraducciones al castellano de Carme Riera, en
«Quimera: Revista de literatura», 199 (2001), pp. 21-24; la cita en la p. 22.
131
Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez
(TO1); pretender la misma calidad estética del TO1: y conseguir
que el Texto Original 2 (TO2) se transmita con la misma fluidez,
‘naturalidad’, que el TO111.
El autotraductor crea una nueva versión de su obra para un
nuevo lector, realiza una aproximación en la que deberá decidir
si recurrir a la traducción palabra por palabra, si llegar a una
versión extranjerizante o a una adaptada a la cultura meta. Lawrence Venuti, siguiendo una línea que aprecia la traducción literal,
propone la extranjerización como método para respetar la esencia
de las diferencias de la lengua y la cultura de origen y llevar a una
«experiencia de lectura extranjera»12; no es extraño, pues, que
denomine como ‘domesticación’ el proceso de «aculturación de
texto de origen a texto de destino, trayendo al autor a casa»13.
Dentro de la tendencia a considerar que los autores que se autotraducen realizan ‘reescrituras’, se denominan así determinadas
obras como las autotraducciones de Beckett, de Joyce o de Borges.
Debemos plantearnos si el autotraductor actúa como traductor o
como autor de otro original, lo que significará que una autotraducción se considere una traducción, un original o una nueva versión.
Para Tanqueiro el autotraductor debe situarse más entre los traductores que entre los autores:
Aunque en su calidad de autores continuarían disponiendo de
unas libertades que no se pueden permitir los demás traductores
y se encuentran en una situación privilegiada por el acceso que
tienen a la «verdadera intención» del autor, en el momento en que
empiezan a traducir, el proceso de creación del universo ficcional
ya se encuentra acabado en la obra original y los lectores ideales
ya están definidos14.
Frente a estas palabras Cotoner Cerdó opina lo siguiente:
11
A. Ghignoli, Il transautore nella comunicazione letteraria tradotta, en «Testo a
Fronte – Teoria e pratica della traduzione letteraria», 50 (2014), pp. 31-47.
12
L. Venuti, The Translator’s Invisibility. A History of Translation, Routlegde,
New York-London 1995, p. 20.
13
Ivi, p. 20.
14
H. Tanqueiro, Un traductor privilegiado: el autotraductor, cit., p. 22.
132
La Autotraducción Literaria. Una Escritura Postcolonial
Ese disfrutar de antemano de esta doble ventaja hace que, para un
autor/a que se autotraduce, resulte fácil no sólo «colaborar» con el
autor/a del texto original como hace el traductor, sino suplantarse a
sí mismo proyectándose de nuevo como autor en otra lengua. Esta
autoproyección se asienta indudablemente sobre la base de considerar la traducción como un acto paralelo al de la creación literaria15.
La traducción de un texto realizada por su propio autor, según
algunos, produce segundos originales y no simples traducciones.
Si nos planteamos el propósito de los autores para autotraducirse podemos encontrar varias respuestas. Hay quienes justifican
su autotraducción por la desconfianza hacia otros traductores:
evitarían así posibles traducciones que no se correspondan con sus
intenciones. En estos casos suelen tener una implicación importante en su escrito. Otros autores se autotraducen por razones económicas y de prestigio, pues una obra publicada en otras lenguas
adquiere mayor valor en la literatura. A su vez, la autotraducción
permite igualar el texto original a la traducción, y pasar de una
lengua minoritaria a otra más extendida para poder abarcar un
público más amplio. Este tipo es el más común, aunque también se
practica en el sentido contrario: autotraducir de una lengua mayoritaria a una minoritaria, normalmente por cuestiones morales o
afectivas entre autores que deciden escribir en su lengua materna
para dirigirse a los lectores de su país de origen.
Entre los autores bilingües y biculturales encontramos muchos
que no quieren emprender la autotraducción. El ya citado Parcerisas observa a este respecto:
No es de extrañar que sean muchos los autores con verdaderos
conocimientos lingüísticos que hayan renunciado, a priori, a
autotraducirse. Prefieren no verse enzarzados en la valoración
que esta actividad implica, en la necesaria relectura y apreciación
crítica del original, y les resulta más satisfactorio dejar su traducción en manos de un buen profesional. Otros, por el contrario,
quieren certificar el valor inmutable e intocable del original
15
L. Cotoner Cerdó, Las autotraducciones al castellano de Carme Riera, cit.,
pp. 21-22.
133
Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez
produciendo ellos mismos las versiones de sus obras, aun a riesgo,
a menudo fatídico, de darnos traducciones rígidas, puros moldes
de yeso, que son copias estereotipadas en la lengua de llegada y
que, aunque no suelen servir para engrandecerles como traductores (más bien les convierten en injusto y plúmbeo flagelo de los
buenos traductores profesionales), pueden servir como referencia
utilísima para leer, casi como anotada al pie de página de la intencionalidad, su versión original.
Y continúa:
Unos terceros autotraductores, ya menos, gozan en la recreación
de los textos de partida, a veces cortando, añadiendo, sobreponiendo, dejándose llevar por las virtualidades de la nueva lengua
o, virtud imprescindible y necesaria, corrigiendo posibles errores
del original; éstos, en su doble apreciación de lo mismo y lo
distinto, constituyen un archivo inagotable de recursos y soluciones a los problemas culturales y lingüísticos de la traducción, a lo
que hay que explicitar y lo que se puede dar por descontado, a la
lista de guiños necesarios o superfluos al lector. Y todavía podríamos especular con un cuarto grupo, menos habitual, de autotraductores que hace de la autotraducción un verdadero banco de
pruebas para la elaboración de su obra: original y traducción se
escriben, en este caso, en paralelo, se complementan y modifican,
al extremo de identificar mal si fue primero el huevo o la gallina.
En este último grupo, sin embargo, debemos considerar que la
identidad que se otorga a la autoridad de ambas versiones es prácticamente igual y que, como mucho, se puede hablar de precedencia cronológica, más que de autoridad de un único original16.
Beaujour, por su parte, considera que para muchos autores
la autotraducción puede resultar un proceso difícil, sobre todo
cuando traducen de manera inversa, es decir de una L1 a una L2.
Hay en efecto autores que prefieren escribir directamente en la
segunda lengua a traducir su propia obra17.
F. Parcerisas, Sobre la autotraducción, cit., pp. 13-14.
E.K. Beaujour, Translation and Self-Translation, en V.E. Alexandrov (ed.)
The Garland Companion to Vladimir Nabokov, Garland, New York-London 1995,
p. 717.
16
17
134
La Autotraducción Literaria. Una Escritura Postcolonial
2. La autotraducción como identidad cultural
En la perspectiva de la literatura postcolonial, algunos estudios
consideran la autotraducción como una forma de «traducción in
mente» que permite la traducción entre culturas muy distintas. Las
traducciones in mente se dan en autores que piensan en su vida
cotidiana en una lengua y cultura diferentes de su lengua literaria,
autores que quieren dar a conocer un nuevo universo a un receptor que lo desconoce. Consideremos también que ciertas lenguas
minoritarias no tienen una escritura fijada, por lo que recurrir a
este tipo de autotraducción es necesario18.
En este proceso de traducción el autor emplea personajes ligados
a su cultura y lengua maternas para representar la realidad de su
universo: recurrirá a recuerdos y se inspirará en personas reales que
utilizan su lengua materna, realizando una autotraducción mental
para mostrar esos personajes en la lengua meta.
Muchos países que fueron colonizados han adoptado la lengua
metropolitana como oficial, por lo que en ellos se dan un bilingüismo y una doble cultura. Para Monique Viannay y Chantal Estran
hay tres categorías de autores bilingües: los que provienen de países
que fueron colonizados, los que por razones histórico-económicas
se han exiliado a países de lengua occidental en general y los que
han elegido dejar su país sin ninguna obligación19.
Los autores de estos países postcoloniales suelen escribir en la
lengua del colonizador, desean dar a conocer su obra al resto de la
humanidad y se benefician de sus dos lenguas para acceder a un
público más amplio. En esta proyección de una cultura autóctona
en otra lengua cobra importancia el papel de mediador cultural del
autor o traductor para poder dirigirse a receptores de culturas muy
diferentes y que estos receptores lleguen a entender la distancia
cultural que existe con el nuevo universo que se les presenta.
18
H. Tanqueiro, Sobre la autotraducción de referentes culturales en el texto
original: la autotraducción explícita y la autotraducción ‘in mente’, en X.M. Dasilva –
H. Tanqueiro (eds.), Aproximaciones a la autotraducción, Academia del Hispanismo,
Vigo 2011, pp. 245-259.
19
M. Viannay – C. Estran, Écrire, entre deux langues. Schreiben, zwischen zwei
Sprachen, en «Sirene», 8 (1991), pp. 10-31; la cita en la p. 20.
135
Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez
Los autores postcoloniales se caracterizan por el compromiso
con sus países de origen, lo que les lleva, en muchas ocasiones,
a rechazar la lengua colonizadora, que consideran una lengua
impuesta, por lo que escriben en sus lenguas autóctonas y piensan
que la autotraducción invisibilizaría aún más su lengua y cultura
originales. Según otros autores como Whyte «la autotraducción
es una imposición»20, no una decisión propia de los autores, cuya
causa principal es la falta de público, y esa imposición favorece la
marginación de la lengua autóctona.
Algunos autores bilingües, por ejemplo del ámbito francófono,
que dan voz a las lenguas africanas y que cultivan la literatura en
lenguas africanas, son Amadou Hampâté Ba, que escribe también
en fulfulde (lengua de África Occidental); Jean-Joseph Rabearivelo o Alexis Kagame, que escriben respectivamente en malgache
(lengua de Madagascar) y en kinyarwanda (lengua de Ruanda).
Una visión diferente es la de la escritora senegalesa Fatou Diome,
que publica sus obras en francés y piensa que si un autor obtiene
un reconocimiento internacional, no significa que haya abandonado su país sino que lo muestra con orgullo al resto del mundo; así
da a conocer al mundo la literatura senegalesa a la vez que destaca
la belleza de la lengua francesa.
Las estrategias de traducción que utiliza el autotraductor
tendrán consecuencias en el receptor y en las posibles traducciones posteriores a otras lenguas. Como afirma Tanqueiro, contar
con la autotraducción y el original es una suerte para poder traducir. De tal modo, es el propio autor el que delimita las referencias
extranjeras que quiere introducir en la cultura de destino y define
las estrategias de traducción para cubrir las distancias culturales,
suministrando una especie de modelo para otras traducciones.
Si un autor senegalés, por ejemplo, quiere que su obra escrita
en una lengua autóctona se publique en países como España, Italia
o el Reino Unido, contar con la obra en una lengua occidental
como el francés abrirá las posibilidades de traducción, puesto que
encontrar un traductor de una lengua minoritaria al español o al
20
C. Whyte, Against Self-Translation, en «Translation & Literature», 11
(2002), pp. 64-71; la cita en la p. 65.
136
La Autotraducción Literaria. Una Escritura Postcolonial
italiano no será tan fácil como encontrar un traductor del francés
a estos o a otros idiomas.
En la traducción de textos postcoloniales el término de ‘equivalencia’ pierde sentido, pues las equivalencias exactas «no existen
cuando se trata de transmitir las ideas y los valores de una cultura
determinada a otra»21. Christiane Nord afirma que «el mundo
textual está marcado como perteneciente a otra realidad cultural, el
lector comprende que existe una distancia cultural y acepta lo que
le explican y a veces relaciona aspectos de ese mundo con el que
conoce»22. Adejunmobi considera que una ‘traducción normalizada’
«busca transmitir el significado pero no el idioma del original»23, y
que la fluidez debe ser «la estrategia dominante en las traducciones
de textos en lenguas africanas a los idiomas europeos, incluso en los
casos en que estas traducciones sean realizadas por el autor»24.
En la traducción de la literatura postcolonial, pues, el autor
tiene la función de mediador lingüístico y mediador entre culturas –en la acepción de Newmark–25, y debe dominar en la medida
de lo posible los dos universos con los que trabaja. Destaca así en
este tipo de traducción la importancia de la relación entre cultura,
lenguaje y pensamiento.
Entendemos la implicación ideológica que tiene para el autor
postcolonial escribir en una u otra lengua y dirigirse a un público
o a otro. La intención de autotraducirse se debe a razones económicas, de prestigio y, por supuesto, para dar a conocer el mundo
de un país colonizado y la literatura de sus autores en Occiden21
A. López, Transformación social por medio de la autotraducción, en M.D.
Fernández de la Torre Madueño, A.M. Medina Guerra – L. Taillefer de Haya
(eds.), El sexismo en el lenguaje, Centro de Ediciones de la Diputación Provincial de
Málaga, Málaga 1999, vol. II, pp. 429-439; la cita en la p. 429.
22
C. Nord, Text Analysis in Translation, Rodopi, Amsterdam 1991, p. 176.
23
M. Adejunmobi, Translation and Postcolonial Identity: African Writing and
European Languages, en «The Translator. Studies in Intercultural Communication»,
4.2 (1998), pp. 163-181; la cita en la p. 170.
24
Ivi, p. 171.
25
«La cultura es el modo de vida propio de una comunidad que utiliza una
lengua particular como medio de expresión y las manifestaciones que ese modo de
vida implica». P. Newmark, Translation and culture, en A Textbook of Translation,
Prentice Hall, New York 1988, pp. 94-103; la cita en la p. 94.
137
Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez
te. Escribir en lengua minoritaria, además de razones afectivas,
muestra la confianza de los intelectuales en las posibilidades de
sus lenguas autóctonas, que son así potenciadas a la vez que les
permiten expresarse de una forma más cercana, escribir historias de
su pueblo para personas de su pueblo. El escritor de Kenia Ngũgĩ
wa Thiong’o defiende el uso de las lenguas vernáculas para la creación de sus obras porque cree que reflejan mejor las experiencias
vividas, pero a la vez es un escritor conocido por autotraducirse, es
consciente de la importancia del inglés y ha autotraducido varias
de sus obras en kikuyu a esa lengua. Críticos postcoloniales, como
Homi Bhabha, reflexionan sobre la traducción como supervivencia, toman la traducción como una forma de lucha y resistencia
que les ayuda a conocer su propia identidad cultural; la traducción se convierte para estos autores en una práctica necesaria para
encontrar y mostrar esa identidad.
3. Los estudios postcoloniales y la literatura comparada
La literatura colonizada se aborda como la literatura postcolonial y resulta un campo de interés para los estudios comparados. El análisis de los rasgos principales como el sufrimiento de la
colonización, la búsqueda de la identidad, el compromiso con la
cultura, representa un fenómeno de renovación para la literatura
comparada. En los países africanos intentan construir modelos de
estudios alternativos al modelo de los colonizadores. La literatura
comparada se presenta en los países africanos como una manera de
entender y estudiar la descolonización.
Lo que se necesita ahora es explorar los niveles subyacentes en los
que los sistemas de diferencias se cruzan para producir unidades
de significado. Llevar a cabo este programa requiere una reorganización de la investigación y de la enseñanza de la literatura
comparada de acuerdo con métodos diferenciales26.
G. Chaitin, Otredad. La literatura comparada y la diferencia, en M.J. Vega –
N. Carbonell (eds.), La literatura comparada: Principios y métodos, Gredos, Madrid
1998, pp. 145-165; la cita en la p. 157.
26
138
La Autotraducción Literaria. Una Escritura Postcolonial
La descolonización representa un hecho histórico reciente con
unas consecuencias notorias en la literatura. Un estudio comparado de la evolución entre culturas, historias y sociedades distintas podría ayudar a terminar con la idea eurocentrista de ver esta
literatura como exótica. Los autores africanos buscan el reconocimiento de sus obras dentro de la literatura central y no como una
literatura periférica. Sobre este planteamiento de centro y periferia
existen muchos estudios de literatura comparada, lo que revela la
presión e influencia del poder colonial. Even-Zohar añade que la
literatura dominante como literatura de origen «impone su lengua
y sus textos a una comunidad subyugada»27.
Lo que hoy constituye el objeto de investigación de la literatura
comparada son los contenidos mismos, por así decir, y los problemas comunes al nuevo orden mundial de los estudios literarios,
esto es: a) el proceso de descolonización cultural, cuyo verdadero
centro está en la literatura, b) el fenómeno mundial omnipresente
de la traducción; c) las comparaciones entre las diferentes culturas
por medio de sus tradiciones literarias, las únicas que están en
igualdad de condiciones con las tradiciones occidentales28.
Para comprender el vínculo entre lengua y cultura resulta inevitable el estudio, entre otras disciplinas, de la historia, la sociología y la antropología, que favorecerá la comprensión de cuestiones retóricas implícitas en la literatura postcolonial. Even-Zohar
habla de «integrar la investigación de la literatura en un marco más
amplio, concretamente en una disciplina de investigación de la
cultura, no a través de una reducción, sino totalmente al contrario:
subrayando la función más distintiva y manifiesta de la literatura
en la creación y en el mantenimiento de la sociedad a través de su
cultura»29. Análogamente, por último, señala Armando Gnisci que
27
I. Even-Zohar, La literatura como bienes y como herramientas, en A. Monegal –
E. Bou – D. Villanueva (eds.), Sin fronteras. Ensayos de Literatura Comparada en
homenaje a Claudio Guillén, Castalia, Madrid 1999, pp. 27-36.
28
A. Gnisci, La literatura comparada como disciplina de descolonización, en M.J.
Vega – N. Carbonell (eds.) La literatura comparada: Principios y métodos, Gredos,
Madrid 1998, pp. 188-194; la cita en la p. 190.
29
I. Even-Zohar, La literatura como bienes y como herramientas, cit., p. 35.
139
Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez
la literatura comparada es «el horizonte intercultural que permite a
los hombres de letras del mundo entero encontrarse a fin de compararse entre sí, en relación con problemas generales muy importantes
para toda la humanidad presente y futura»30.
4. Postcolonialismo y traducción
La colonización fue una experiencia dramática y la literatura podría jugar un papel importantísimo para la libertad de los
pueblos que la sufrieron:
La colonización no ha sido únicamente una transferencia de poder,
sino que ha exigido una transformación simbólica y cultural y una
profunda reordenación epistémica e intelectual. La literatura sería
un elemento muy relevante de ese proceso de reestructuración, ya
que puede convertirse en vehículo de la experiencia imperial y colonial (tanto del colono como del colonizado), en instrumento para
resistir los mitos de la superioridad e inferioridad racial, religiosa o
política o el tópos de la sumisión necesaria, en lugar de contestación
de las imágenes, temas y formas del discurso que sostienen y legitiman la colonización y el dominio metropolitano31.
Tras la descolonización, los intelectuales toman un papel
crucial para su propia literatura. En este momento viven en una
multiculturalidad y un plurilingüismo que les estimula a recuperar
su propia identidad en un nuevo universo. Este nuevo universo,
donde aparece la otredad, las diferencias marcadas, podría considerarse como un nuevo espacio cultural híbrido. Homi Bhabha32,
uno de los críticos postcoloniales más relevantes, propone la
noción de «Tercer Espacio» para este espacio híbrido que permite
acercarse a la propia identidad.
30
A. Gnisci, La literatura comparada como disciplina de descolonización, cit.,
p. 191.
31
M.J. Vega, Imperios de papel: Introducción a la crítica postcolonial, Cátedra,
Madrid 2003, p. 18.
32
H. Bhabha, How Newness Enters the World, en The Location of culture,
Routledge, New York-London 1994, pp. 212-235.
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La Autotraducción Literaria. Una Escritura Postcolonial
La clara jerarquización entre colonizadores y colonizados
estaba marcada por la imposición de las culturas dominantes,
que produce una cultura marginal. Esta cultura condicionó a los
pueblos colonizados a quienes les arrebataron su cultura natal, lo
que dificultaba el desarrollo de valores propios. A pesar de ello,
lograron convertirse en pueblos postcoloniales que defienden
su propia identidad y que destacan por la toma de consciencia
para dar a conocer la historia del continente, aceptar la situación
que viven tras la colonización y la búsqueda de unidad social
y política. No pocos escritores toman el papel de revolucionarios para mostrar la realidad de su pueblo, sus tradiciones y el
deseo de emancipación. De este modo, los escritores postcoloniales adquieren un papel de traductores como transmisores de
su cultura originaria expresada en la lengua del colonizador. La
historia de los pueblos africanos se remonta a la tradición oral, y el
escritor postcolonial desempeñará labores de traductor y creador
para expresar la historia por escrito en la lengua colonizadora.
Asimismo se convierten en traductores culturales para reescribir
la historia que había sido narrada por los colonizadores y de igual
forma cuentan las historias que no se conocían de las culturas
colonizadas bajo la dominación.
En la traducción en los países africanos Moradewun Adejunmobi distingue tres tipos principales: 1) compositional translations,
traducciones que se caracterizan por la «ausencia de versiones
originales de los textos indígenas»; 2) authorized traslations, «las
versiones en lenguas europeas de textos en lenguas africanas»; 3)
complex translations, traducciones que se caracterizan por la presencia de ambos idiomas en el texto33. La hibridación está, pues, en
la base de la literatura postcolonial. Algunos escritores moldean las
lenguas coloniales con el objetivo de mantener rasgos indígenas
en la lengua europea a la que traducen. Esta estrategia para transmitir la hibridación de la sociedad postcolonial a menudo lleva a
una mezcla entre la lengua colonizadora y la autóctona, y algunos
autores la toman como aceptación de las diferencias y otros la
utilizan con espíritu revolucionario, como una forma de rebeldía
M. Adejunmobi, Translation and Postcolonial Identity, cit., pp. 163-181.
33
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Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez
contra la dominación occidental. Todos los aspectos que aparecen
en la traducción postcolonial tienen un papel fundamental, por lo
que deberían estudiarse en una rama aparte dentro de los estudios
sobre la traducción literaria.
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