Mosaico - Bibliotheca Aretina
Transcript
Mosaico - Bibliotheca Aretina
Laurie Anderson Roberta Ascarelli Riccardo Castellana Alessandro Ghignoli Luisa Giannandrea Clemens-Carl Härle Estefanía Hernández Rodríguez Andrea Landolfi Piera Sestini Stefania Stefanelli María Gracia Torres Díaz Mosaico Sulla traduzione letteraria a cura di Daniele Corsi e Julio Perez-Ugena Partearroyo b A Questo volume è stato realizzato con il contributo del Dipartimento di Scienze della Formazione, Scienze Umane e della Comunicazione Interculturale, e del Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne dell’Università di Siena. © 2015 Bibliotheca Aretina ISBN 978-88-90573-85-9 www.bibliothecaaretina.it [email protected] work in progress Sommario PrefazioneVII Clemens-Carl Härle Malinconia del traduttore, vita delle lingue 1 Roberta Ascarelli Tradurre un titolo e realizzare un’utopia. Da Alneuland a Tel Aviv 9 Riccardo Castellana ‘Changeling’, ‘Wechselbalg’, ‘canciatu’. Tradurre il folklore passando per la letteratura 23 Andrea Landolfi Rivedersi dopo trent’anni. Appunti di un traduttore alle prese con se stesso 39 Piera Sestini L’(im)possibile necessità di tradurre Virginia Woolf: esempi e raffronti 51 Stefania Stefanelli Dal portoghese all’italiano. Il caso di Eça de Queiroz 69 Luisa Giannandrea Un ‘singolare’ caso di traduzione teatrale. Lo studente in Paradiso di Hans Sachs 87 María Gracia Torres Díaz La tradución y la interpretación consecutiva del cuento 103 Laurie Anderson Leveraging pragmatics in the translation classroom: Promoting active learning through literary translation towards the ‘non-mother’ tongue 113 Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez La autotraducción literaria. Una escritura postcolonial 129 Prefazione Gli studi sulla traduzione letteraria occupano un luogo significativo all’interno della critica e della teoria della letteratura, e centrale nella traduttologia e nella linguistica; sono quindi tesi a uno specialismo dal quale rendere manifesto il loro carattere determinante. Il dispiegamento della loro fecondità avviene tuttavia nell’ambito dei molteplici rapporti che essi intrecciano non solo con le discipline sopra citate ma anche con la filosofia, la teologia, la filologia, l’antropologia, la storia della cultura, la pedagogia, ecc. E così come non è pensabile proporre una teoria della traduzione letteraria senza coordinarla con una teoria della traduzione in senso lato e con una teoria del linguaggio, più umilmente non è pensabile in realtà neppure lo studio della traduzione letteraria senza una buona competenza in altre discipline. Il lettore potrà trovare nei saggi che seguono diverse attestazioni della ricchezza tematica e culturale alla quale conduce la riflessione su questo argomento: Clemens-Carl Härle sostiene, nel saggio di filosofia del linguaggio che apre il volume, che noi uomini siamo casualmente animali parlanti e che per qualsiasi atto linguistico dobbiamo adoperare la traduzione, che dunque risulta indispensabile per la stessa esistenza della lingua come factum loquendi, una lingua sempre di nuovo inaugurata ma sempre con una perdita insanabile dell’oggetto, che comporta un lutto nel traduttore-parlante, declinato in una creativa malinconia. L’articolo di Roberta Ascarelli, incentrato nell’«intraducibile» titolo del romanzo di Theodor Herzl, Altneuland, di cui lei stessa ci ha offerto un’elegante versione italiana, approfondisce le sue vaste risonanze nel segno della Scrittura, della storia e dell’utopia, prefazione attraverso lo studio delle sue traduzioni in diverse lingue, tra cui la più infedele – Tel Aviv, in ebraico, a cura di Nachum Sokolov, del 1902 – sarebbe anche la più interessante, nel suo accentuare l’aspetto profetico del testo. È normale che successive edizioni di testi, letterari e non, includano delle modifiche, ed è frequente che una medesima opera venga tradotta da diversi traduttori. Più raro è che un traduttore possa rivedere a distanza di trent’anni la propria traduzione: Andrea Landolfi narra e analizza questa circostanza ripercorrendo la vicenda delle due versioni che ha realizzato del romanzo La morte di mio fratello Abele, di Gregor von Rezzori: la prima, nel 1988, in collaborazione con l’autore, e la seconda nel 2016, da solo ma con un’approfondita conoscenza dell’opera di Rezzori e una maggiore esperienza, il che gli ha consentito di lavorare con un approccio vitale e creativo, come un ‘secondo autore’. Nello studio che Stefania Stefanelli dedica alle traduzioni italiane del racconto José Matias, di Eça de Queiroz, vengono prese in esame, tra le altre, due versioni di questo testo realizzate nel 1951 e nel 1992 da una stessa traduttrice, Luciana Stegagno Picchio. Alcune loro varianti, questa volta a distanza di quarantuno anni, sono in linea con alcune tra quelle introdotte da Landolfi nella sua revisione del 2016 di La morte di mio fratello Abele (come i pronomi ‘egli’, ‘essa’, che passano ad essere ‘lui’, ‘lei’), a conferma della coscienza dei traduttori della trasformazione dell’italiano e dell’invecchiamento fatale delle traduzioni. La Stefanelli, che analizza anche le versioni di Mario Puccini (1953) e di Davide Conrieri insieme a Maria Abreu Pinto (2000), conclude che la razionalizzazione e normalizzazione dello stile e la distanza dall’oralità nelle traduzioni del ’51 e del ’53 mostrano la sintonia non con Eça de Queiroz (18451900) ma con gli scrittori italiani a lui coevi, che erano ancora alla ricerca di una lingua unitaria che rendesse sulla pagina le movenze del parlato, e distanti dalla concisione e dalla freschezza dei dialoghi dello scrittore portoghese, che potranno essere letti in italiano molti anni dopo, soprattutto nella versione di Conrieri e Pinto. Interrogandosi sull’opportunità di tradurre o meno un appellativo femminile inglese, legato al cognome di un uomo che diventerà quello della donna-moglie, protagonista di uno dei più VIII prefazione importanti romanzi di Virginia Woolf, Mrs. Dalloway, Piera Sestini difende il senso la scelta prospettica di mantenerlo nella lingua originale, sia nel titolo sia nel corpo del testo, e mostra, in un confronto con sei traduzioni italiane, come si tratti di un emblema della prigione retorica, sociale e politica, che la scrittrice elabora sottilmente su più piani nelle pagine della sua opera, aspetto che i traduttori spesso non hanno saputo cogliere. Un termine inglese, changeling, che in altre lingue ha trovato un equivalente semantico perfetto (Wechselbalg in tedesco, skifting in danese, bortbyting in svedese, chanjon o changeon in antico francese), in italiano non ha un traducente adatto, e non l’ha perché il mito folklorico che denota, che ha avuto una presenza importante nella letteratura inglese o in quella tedesca, non ha attecchito nella penisola italiana (ma sì in Sicilia, dove si riscontrano i termini canciatu e canciateddu). Riccardo Castellana, in un saggio che sa mantenersi a cavallo tra traduzione, letterature comparate e antropologia, analizza le quasi sempre insoddisfacenti versioni italiane di changeling e di Wechselbalg in alcuni brani di Shakespeare, di John Gay, di E.T.A. Hoffmann, e scopre una soluzione accettabile non in una traduzione ma nel titolo di una novella del siciliano Pirandello: Il figlio cambiato. Hans Sachs è un prolifico e importante autore della letteratura tedesca ma in Italia esistono solo la traduzione di una breve antologia di «canti popolari» a cura di Ettore Lo Gatto del 1916, e la versione di una farsa, Lo studente vagante in Paradiso, che Pier Donato Lauria, professore di un istituto magistrale salernitano, ha realizzato per una recita scolastica nel 1959. Luisa Giannandrea analizza i significativi cambiamenti che il traduttore introduce nell’impianto drammaturgico, nei paratesti, nel registro linguistico e negli elementi culturali. Siamo in effetti davanti a una «traduzione-assimilazione» nella terminologia di Koustas, o a una «traduzione etnocentrica» secondo la terminologia di Berman. E di questa assimilazione, ha notato finemente Giannandrea, sarà vittima anche il protestantesimo di Hans Sachs, che nel 1523 aveva dedicato L’usignolo di Wittemberg a Martin Lutero. L’autotraduzione letteraria è un affascinante fenomeno di cui Alessandro Ghignoli e Estefanía Hernández Rodríguez ci presen- IX prefazione tano opinioni di diversi esperti, per poi esaminare il caso dell’autotraduzione nei paesi postcoloniali, con le ricadute antropologiche, culturali, sociali e politiche, che comporta la scelta di scrivere nelle lingue autoctone e/o nelle lingue dei colonizzatori. Le peculiarità della traduzione e dell’interpretazione della letteratura per l’infanzia sono analizzate da María Gracia Torres Díaz, che mette in primo piano l’esigenza dei traduttori di adattare il loro lavoro al livello di conoscenze del bambino e alla sua atmosfera culturale specifica, rivolgendosi ai bambini nonché a coloro che filtreranno o addirittura censureranno i testi, e cioè i genitori e gli educatori. Le società multiculturali richiedono un’attenzione sempre maggiore all’integrazione culturale dei bambini stranieri, senza che ne debba risentire la formazione culturale degli autoctoni, e così troviamo ad esempio dei racconti pubblicati in più lingue. L’interpretazione bilingue di racconti in aula, per ora diffusasi principalmente negli Stati Uniti, l’Australia, il Canada e la Gran Bretagna, è anche un mezzo prezioso per favorire l’integrazione culturale. I metodi per l’insegnamento delle lingue non sempre hanno guardato di buon occhio la traduzione, soprattutto se si trattava di testi letterari. Laurie Anderson difende in questo articolo l’utilità della traduzione di testi letterari in una lingua non materna al fine di apprenderla con la flessibilità e la proprietà necessarie. Nella fattispecie espone una sequenza metodicamente articolata, applicando nozioni della linguistica pragmatica, affinché gli studenti possano imparare la sintassi inglese del cosiddetto «future in the past» attraverso la traduzione di due brani di Buzzati e di Cassola. Daniele Corsi e Julio Pérez-Ugena X Clemens-Carl Härle Malinconia del traduttore, vita delle lingue per Lavinia, Hana, Zana, Neroli e Anita Possiamo distinguere una lingua – e i suoi elementi, le parole e le frasi – da ciò che non è una lingua. Possiamo distinguere una lingua da un’altra. Quando non comprendo le parole con cui qualcuno mi si rivolge, deduco che parla un’altra lingua. Una lingua esiste e prende forma in virtù di questa duplice differenza: quella che la separa dall’indistinto del semplice suono e quella che distingue le lingue fra loro. Il linguista francese Jean-Claude Milner chiama la prima differenza il factum linguae, «il fatto che ciò che un essere parlante parla merita il nome di lingua»1, e la seconda il factum linguarum, il fatto che le lingue sono diverse, anche se non è affatto semplice determinare ciò che costituisce l’unità di una lingua e, quindi, la natura della differenza fra le lingue. C’è però anche un terzo elemento che Milner prende in considerazione, il factum loquendi, «il fatto che ci sia gente che parla». Il factum loquendi evidenzia che c’è sempre una pluralità di locutori, che ogni locuzione è sempre anche un’interlocuzione. Il problema della traduzione sorge quando il factum loquendi, il fatto che qualcuno parla, s’interseca con il factum linguarum, con il fatto che esistono più lingue. Nella traduzione – che Quintiliano chiama conversio – un locutore è costretto a prendere atto della lingua del suo interlocutore, dell’affinità o della distanza che vige tra il suo idioma e quello del destinatario del discorso. E il 1 J.-C. Milner, Introduction à une science du langage, Seuil, Paris 1989, p. 44. clemens-carl Härle traduttore è colui che, di fronte all’esperienza che chi mi rivolge la parola o al quale io rivolgo la parola parla una lingua diversa dalla mia, non si ritrae né si sottrae, non rinuncia a interloquire. Egli scommette sul discorso, si sforza di continuarlo e cerca di superare il divario fra le lingue, accettando di saltare da una lingua all’altra. Osare sempre di nuovo questo salto, questo è in fondo ciò che Benjamin chiama il «compito del traduttore», la condizione che precede ogni singolo atto di traduzione. Definire il problema della traduzione in questo modo significa affermare che in nessuna situazione discorsiva un locutore può presupporre una lingua comune o affidarsi a una lingua a priori, condivisa da tutti i parlanti. Significa anche affermare – ma questa è solo una prima conseguenza – che la lingua madre è un semplice idioletto, un gergo che parlo senza averlo voluto e che ho imparato a parlare senza accorgermi di stare imparando una lingua. Più che in un mondo, siamo gettati – come dice Heidegger – in una lingua o addirittura in più lingue, perché ci sono bambini che fin dall’inizio sono immersi in diverse lingue e per i quali il compito di tradurre fa tutt’uno con l’ingresso in un mondo linguisticamente organizzato. «Lingua madre» è solo il nome del fatto che nell’idioma in cui ho avuto accesso alla parola c’è qualcosa che mi sfugge, qualcosa di perturbante, di «unheimlich» nel senso letterale del termine. Neanche nella lingua madre ci si sente veramente a casa propria, e la lingua madre è l’idioma che s’impone non appena apro bocca, prima ancora di ogni intenzione e di ogni riflessione. Non conosciamo mai completamente la lingua che parliamo, e non conosciamo la lingua dei nostri interlocutori. Conosciamo la nostra «propria» lingua solo grazie a un lavoro che non ha fine – questa è la prima esperienza che facciamo quando cerchiamo di tradurre – e possiamo eventualmente conoscere le lingue dei nostri interlocutori grazie a un lavoro che è anch’esso senza fine. Occorrerebbe a questo punto modificare la definizione dell’essere umano proposta da Aristotele: l’uomo non è lo zoon logon echon, l’animale che ha il linguaggio o la lingua. L’essere umano è piuttosto un animale cui capita di esprimersi linguisticamente. È un semplice caso, infatti, che gli esseri umani parlino una lingua determinata, ed è un semplice caso che parlino tout court. L’uomo 2 Malinconia del traduttore, vita delle lingue è un animale che si esprime, talvolta per mezzo di segni il cui senso è rigidamente codificato – e in questo senso si fa sentire linguisticamente –, talvolta attraverso gesti e suoni il cui senso è, nella maggior parte dei casi, indeterminato o indeterminabile. Come ogni lettore di Kafka sa bene, i confini dell’articolazione linguistica – del factum linguae – sono estremamente fragili, e a ciascuno può accadere ciò che accade a Gregor Samsa, cioè di dover sentire che alla propria voce «si univa un irreprimibile pigolio doloroso che solo in un primo momento lasciava integre le parole per distorcerle poi nella loro risonanza, sì che non si sapeva più se si era inteso bene»2. Schiavi di una sorta di soggettivismo idealista, riflettiamo troppo raramente sul fatto che ogni pensiero può diventare una realtà per chi parla o per chi ascolta – e anche per chi sta pensando in silenzio e in solitudine – soltanto nella misura in cui quel pensiero prende corpo in una traccia materiale, effimera o duratura: voce, scrittura, disegno, immagine, gesto, sguardo. La realtà di un pensiero è irrevocabilmente sospesa alla sua manifestazione contingente in un supporto contingente – e secondo un codice contingente, quando un tale codice esiste. L’idea di codice presuppone la rigida separazione tra significante e significato. Postulare la traducibilità di una frase da una lingua a un’altra presuppone – è una banalità dirlo – che la forma del significante sia arbitraria rispetto al suo significato o al suo concetto. Possono esistere, dunque, molteplici significanti per lo stesso significato che è posto come uno e identico, nonostante la molteplicità dei significanti o forse grazie a tale molteplicità. S’istaura così l’illusione, inevitabile o ‘trascendentale’, di un pensiero universale e identico per tutti i parlanti, di un pensiero che curiosamente, però, non può esprimersi, cioè essere accessibile ai parlanti, in modo univoco, attraverso una lingua unica o universale, come accade invece nel caso delle lingue artificiali e costruite a tavolino, che si fondano su un rapporto biunivoco tra significante e significato. Per diventare reale, cioè comprensibile al mio interlocutore, il mio pensiero deve 2 F. Kafka, La metamorfosi, in F. K., Nella colonia penale e altri racconti, trad. it. di F. Fortini, Einaudi, Torino 1986, p. 62. 3 clemens-carl Härle consegnarsi a una lingua determinata, che è per definizione incommensurabile con ogni altra lingua determinata. Tuttavia non posso non presupporre che, malgrado la loro diversità, i singoli significanti esprimano in qualche modo un medesimo pensiero. Porre la sostituibilità dei significanti materialmente diversi rispetto al significato è il presupposto – o almeno l’orizzonte – di ogni traduzione. Il suo correlato implicito è che io possa esprimere un pensiero che ritengo universalmente comprensibile solo in una lingua determinata e, dunque, contingente rispetto al pensiero espresso in una certa parola o in una certa frase. Parlando, pongo l’universalità del significato o del concetto e, allo stesso tempo, la singolarità irriducibile dell’idioma di cui sono costretto a «servirmi». La possibilità della traduzione richiede, quindi, due atteggiamenti profondamente opposti, una sorta di strabismo generalizzato. Richiede di porre l’equivalenza, l’identità o l’idealità del significato come orizzonte di ogni locuzione e, allo stesso tempo, richiede di abbandonarsi senza riserve alla diversità e alla singolarità degli idiomi. Il traduttore deve destreggiarsi fra queste due esigenze opposte, incompatibili e contraddittorie, che condannano in fondo ogni traduzione al fallimento. Se vuole salvare il senso, egli deve tradire l’idioma, se cerca di rimanere fedele all’idioma, rischia di perdersi nel nonsenso. La malinconia del traduttore nasce da questa condizione. Il termine, però, non va inteso nel senso di una vaga tristezza o di un’apatia rassegnata, ma nel senso – o almeno in uno dei sensi – che Freud gli ha conferito, nel senso, cioè, di un’insanabile perdita dell’oggetto3. Nessun lutto, nessun «lavoro interno» e nessuna sostituzione possono far dimenticare questa perdita, questa mancanza. Ciò che il traduttore ha perso è l’idea o l’ideale di una traduzione che possa soddisfare quei due requisiti opposti. E poiché ogni atto linguistico, ogni frase pronunciata è sempre sospesa al rischio che l’interlocutore non condivida l’idioma in cui mi è capitato di dovermi esprimere, questa perdita non è un evento occasionale, come il venir meno di una persona amata. L’esperienza di questa perdita s’impone sempre di nuovo, ogni 3 S. Freud, Lutto e melanconia, in Opere 1915-1917, Boringhieri, Torino 1976, pp. 102-118. 4 Malinconia del traduttore, vita delle lingue volta che apro la bocca per rivolgermi a qualcuno ed è, dunque, assolutamente incancellabile. Ma il termine malinconia fa venire in mente anche la famosa incisione di Dürer. La figura alata che tiene un libro chiuso sul grembo potrebbe essere interpretata come una rappresentazione allegorica del traduttore o della traduttrice, e gli oggetti e gli attrezzi sparsi che riempiono lo spazio dell’immagine – emblemi del rimuginare – potrebbero essere letti come degli analoga dei dizionari. Aby Warburg ha voluto riconoscere nell’incisione di Dürer la vittoria dello spirito melancolico sul destino della follia4. Lo studio o la traduzione riescono a resistere a questa minaccia. In effetti, occorre riconoscere nella malinconia una figura di conforto: a proposito delle traduzioni hölderliniane di Sofocle, Benjamin nota che in esse – che sono «archetipi della loro forma» perché il senso vi «resta sfiorato dalla lingua come un’arpa eolica dal vento» – abita, «più che in altre, il pericolo originario di ogni traduzione: che le porte di una lingua così estesa e dominata si chiudano – e chiudano il traduttore nel silenzio»5. Contro le osservazioni che ho fatto qui potrebbero essere sollevate due obiezioni. La prima si fonda sull’argomento di Wittgenstein contro l’esistenza di una lingua privata. Anche se su un piano completamente diverso, inoltre, le ipotesi della linguistica positiva sull’evoluzione diacronica delle lingue suggeriscono che una lingua è per definizione condivisa o condivisibile. Sostenere che il problema della traduzione nasce dal fatto che non si può presupporre che un interlocutore condivida l’idioma nel quale un locutore gli si rivolge e che ogni atto linguistico è esposto al compito della traduzione può apparire in quest’ottica come una forzatura perché tende a ridurre la lingua a un semplice idioletto o addirittura a un gergo. Ed effettivamente si tratta di una forzatura – euristica, se si vuole –, non arbitraria però, bensì motivata dal tentativo di separare la lingua da quel sostrato che generalmente vi viene associato, cioè 4 A. Warburg, Heidnisch-antike Weissagung in Wort und Bild zu Luthers Zeiten, in Id., Gesammelte Schriften, Erste Abteilung, Band I.2, Akademie Verlag, Berlin 1998, p. 527. 5 W. Benjamin, Il compito del traduttore, in W. B., Angelus novus, Einaudi, Torino 2001, p. 52. 5 clemens-carl Härle da quel corpo etnico, il popolo o la popolazione, che costituisce il vero fulcro della condivisione. Configurare il factum loquendi a partire da un’appartenenza etnica significa respingere la traduzione ai confini della comunità linguistica, per salvare l’intimità della lingua madre da quell’instabilità che la minaccia, non appena è esposta a una lingua straniera. In maniera analoga, il problema della traduzione viene accantonato dalle teorie della comunicazione che – con la loro visione puramente strumentale – presuppongono la condivisione del codice tra i parlanti e considerano la singolarità del significante come una sorta di «variante libera», irrilevante per definizione. In questo modo si presuppone di fatto qualcosa come una lingua maggioritaria o unica. Sostenere invece che il problema della traduzione è coestensivo con il fatto che siamo convocati a diventare esseri parlanti – proprio perché, come ho detto, non possediamo «per natura» o per essenza la lingua o una lingua – implica che in ultima istanza non solo non sappiamo a chi ci rivolgiamo quando parliamo, ma che non conosciamo neanche la lingua dei nostri interlocutori eventuali. È una condizione che solo la traduzione può affrontare, anche se non è in grado di risolverla. La seconda obiezione riguarda la distinzione tra la traduzione letteraria e la traduzione nell’ambito della cosiddetta comunicazione quotidiana. Definendo la traduzione letteraria come una forma artistica sui generis, Benjamin ha virtualmente equiparato la traduzione all’atto poetico da cui si distingue unicamente per la sua Nachträglichkeit o secondarietà costitutiva: pur essendo anch’essa un’opera, una traduzione non può – a differenza dell’originale – essere tradotta a sua volta. La nota differenza benjaminiana fra das Gemeinte e die Art des Meinens – tra il significato e la maniera in cui un’espressione di una determinata lingua allude al significato senza dirlo – va letta in questo senso. La traduzione letteraria – tale è secondo Benjamin il suo compito – cerca di cogliere il singolo modus significandi delle espressioni – la loro letteralità, se si vuole – facendo astrazione dal loro senso. Essa contribuisce così all’integrazione (Ergänzung) delle singole lingue: nella misura in cui è più della «mera comunicazione» di un contenuto determinato, la traduzione fa nascere in ogni lingua qualcosa che «non è a sua volta 6 Malinconia del traduttore, vita delle lingue traducibile», «l’eco dell’originale»6. Ogni traduzione tende, quindi, a ciò che Benjamin chiama la «lingua pura», la lingua nascosta nelle singole traduzioni, ma che affiora quando quell’eccesso indeterminabile che è la traduzione riesce a integrare le lingue, nonostante o forse proprio grazie alla loro estraneità e alla loro incommensurabilità. Situare la traduzione sul piano dell’interlocuzione non significa cancellare la specificità della traduzione letteraria, ma articolarla in maniera diversa. L’aporia della traduzione letteraria evocata da Benjamin si manifesta, infatti, in modo simile anche nell’ambito dell’interlocuzione. Pur essendo indifferente all’originale – anche se finisce per manifestarne, come sostiene Paul de Man, la fragilità essenziale7 –, la traduzione letteraria conferisce alle opere una «maturità postuma» (Nachreife) e con essa una «sopravvivenza» (Fortleben) singolare, propria solo delle opere, un «ultimo e più comprensivo dispiegamento». In questo senso, alla traduzione «tocca come compito specifico di avvertire e tener presente quella maturità della parola straniera, e i dolori di gestazione della propria»8. Il telos della traduzione nella sfera della semplice interlocuzione è diverso. Non essendo il suo oggetto un’opera d’arte, ma la parola tout court, essa afferma sempre di nuovo, attraverso il suo fallimento, la pluralità delle lingue e la loro radicale estraneità. Solo in virtù di questa diversità, infatti, può sorgere qualcosa come la lingua, non la lingua pura nel senso di Benjamin che è una sorta di proiezione teologica per proteggere il traduttore dall’abisso cui è esposto, non la lingua nel senso di un’universalità di un senso condivisibile, sia nella forma «dura» di un equivalente generale sia in quella «morbida» di una vaga conciliazione delle nazioni, ma la lingua intesa come factum loquendi, cioè come capacità di produrre blocchi di suoni più o meno articolati, «parole» e «frasi«, il cui Ivi, p. 45. P. de Man, Conclusions: Walter Benjamin’s “The Task of the Translator”, in P. d. M., The Resistance to Theory, Minnesota University Press, Minneapolis, 1986, p. 84. 8 W. Benjamin, Il compito del traduttore, cit., p. 43. 6 7 7 clemens-carl Härle significato non coincide mai, ma si ripercuote infinitamente nel risuonare dei blocchi di suoni. Se c’è una vita della lingua, essa consiste in questi suoni più o meno udibili, in questo senso più o meno distinto che si afferma e si perde in ogni atto di traduzione. Barthes ha dichiarato: «La bellezza si mostra e non si dice»9. Di fronte alla bellezza vige un silenzio. Forse quel silenzio è l’immagine infinitamente distante, ma allo stesso tempo quasi speculare di quel silenzio cui Benjamin allude a proposito delle traduzioni di Hölderlin nelle quali «il senso precipita di abisso in abisso, fino a rischiare di perdersi in profondità linguistiche senza fondo». «Trasformare» qualcosa che si mostra in qualcosa che si dice, una realtà non-linguistica in una lingua, costituisce forse una sorta di «archi-traduzione» – e dunque un «archi-tradimento» – che inaugura il factum loquendi. La lingua verrebbe inaugurata sempre di nuovo, ogni volta in cui non possiamo impedirci di rompere un silenzio, di violare la bellezza o il dolore. E non possiamo inaugurare la lingua senza esporci a quel double bind insanabile che è la traduzione. 9 R. Barthes, Sur des photographies de Daniel Boudinet, in Œuvres complètes, V, Seuil, Paris 2002, p. 326. 8 Roberta Ascarelli Tradurre un titolo e realizzare un’utopia: da Altneuland a Tel Aviv* La scelta del titolo del suo unico romanzo non fu facile per Theodor Herzl. Da qualche tempo lavoro a un’opera d’immensa grandezza – scrive nel luglio del 1895 –. Oggi non so ancora se riuscirò a realizzarla. Sembra un sogno potente. Pure da giorni e settimane mi pervade insinuandosi nell’inconscio, mi perseguita, si libra sui miei discorsi quotidiani, mi guarda altera nel mio lavoro giornalistico insolitamente modesto, mi disturba e mi cattura. È ancora presto per intuire cosa ne verrà fuori. Solo che la mia esperienza mi dice che si tratta di qualcosa di straordinario, già, come un sogno, e devo annotare tutto, se non per documentarlo all’umanità, almeno per mio futuro diletto o per mio piacere. E, probabilmente, la verità è nel mezzo: per la letteratura. Se il romanzo non si trasformerà in azione, allora l’azione si trasformerà in romanzo. Titolo: la Terra Promessa1. Quasi dieci anni dopo (nel 1902), il libro, ormai concluso, ha un titolo diverso: Herzl sceglie Altneuland ispirandosi al nome della più antica sinagoga europea, la Altneuschule di Praga che, secondo la leggenda, era stata costruita con le pietre del Tempio di Gerusalemme portate in volo dagli angeli fino al centro d’Europa. Ringrazio la collega e amica Anna Morpurgo per le traduzioni dalle lingue slave. 1 Th. Herzl, Briefe und Tagebücher, Bd. II: Zionistisches Tagebuch 1895-1899, bearb. v. S. Gelman – C. Harel – I. Rubin – J. Wachten, Propyläen, Frankfurt a.M.-Berlin 1983, p. 43. * roberta ascarelli Si tratta di un composto oppositivo, azzardato e seducente2, che non si limita a nominare il testo, ma possiede una evidente funzione comunicativa: vuole infatti contribuire a diffondere alcune parole d’ordine del movimento sionista3, in modo che esse «rimanessero conficcate nell’immaginario» di tutti coloro che il libro avrebbe raggiunto4. Il titolo, insegna Rothe5, getta un primo ponte tra il testo e il suo il lettore, ne attira la attenzione e lo informa su quello che troverà; ma non si limita a questo, vuole, infatti, anche annunciare una particolare estetica proponendo metafore, antitesi, ellissi, ambiguità: «una specie di apritisesamo che fa intravedere prospettive incantate»6 del libro. Ellittico e ambiguo sicuramente è questo titolo, anche se il richiamo centrale alla terra (Land) contiene un riferimento evidente e non contrattabile al gelobtes Land, la Terra promessa – 2 Da notare che alcune versioni del romanzo in tedesco scelgono una trascrizione del titolo che scioglie in parte il composto: sarà allora Alt-Neuland per i caratteri di Keren Hajessod (jüd. Palästinawerk, Berlin 1922); oppure AltNeuland (cfr. edd. Nordstedt 2004, Holzinger, Berlin 2014, Hoffenberg, Berlin 2015). 3 Si vuole fortemente caratterizzare in questo caso come un «sintomo di energia da cui scaturisce l’azione» (L. Valeriani, Dentro la trasfigurazione. Il dispositivo dell’arte, Meltemi, Roma 2004, p. 213). Nella prospettiva della «classica» Sprachtheorie di Bühler del 1934 il titolo scelto da Herzl possiede pienamente le tre classiche funzioni: Ausdrucksfunktion, Appellfunktion, Mitteilungsfunktion. Cfr. K. Bühler, Sprachtheorie. Die Darstellungsfunktion der Sprache, Stuttgart-New York 1982, ungekürzter Nachdruck der Ausgabe von 1934; sull’attualità di questo paradigma cfr. R. Bouchehri, Filmtitel im interkulturellen Transfer, Frank & Timm, Berlin 2008. 4 H. Weinrich, Sprache, das heißt Sprachen: mit einem vollständigen Schriftenverzeichnis, Gunter Narr Verlag, Tübingen 2006, pp. 109-113 (in part. i riferimenti riguardo «die memorielle Funktion»). Cfr. anche H. W., I titoli e i testi, in M. Prandi – P. Ramat (a cura di), Semiotica e linguistica. Per ricordare Maria Elisabeth Conte, Franco Angeli, Milano 2001, pp. 49-62. 5 A. Rothe, Der literarische Titel, Klostermann, Frankfurt a.M. 1986; la citazione è a p. 27; cfr. anche pp. 49-85; 90-95. 6 S. Brugnolo – G. Mozzi, Ricettario di scrittura creativa, Zanichelli, Bologna 2000, p. 234. 10 tradurre un titolo e realizzare un’utopia richiamo importante per gli ebrei e obiettivo strategico per il Sionismo. Originale e spiazzante è invece il composto aggettivale: non si tratta di una «terra libera», come titola Menachem Eisler il suo romanzo sionista del 1885, Freiland. Ein soziales Zukunftsbild (Terra della libertà. Un’immagine sociale per il futuro), una saga attraverso due generazioni e due mondi, dall’Europa alla Palestina, fino alla realizzazione di una dolce monarchia costituzionale nella Terra dei padri, e neppure di una interazione tra terra antica e uomini nuovi come propone Felix Salten in uno scritto del 1925 che a Herzl e al suo romanzo si ispira: Neue Menschen auf alter Erde 7 (Uomini nuovi su una terra antica). Attraverso una comunicazione in cui la funzione descrittiva non sia in contrasto con quella seduttiva Herzl vuole che, fin dal titolo, attraverso l’unificazione di ‘alt’ e ‘neu’, traspaia la promessa di una unione indissolubile tra vecchio e nuovo e si affermi che il ritorno nella terra dei padri (una terra antica, o meglio vecchia come segnala la preferenza data alla parola ‘alt’) coincida con un radicale rinnovamento sia della vita ebraica sia di quella terra che dagli ebrei aspetta da secoli la redenzione (‘neu’). Sul tema di questa «vecchianuova terra», su cosa significhi e cosa prometta, Herzl torna più volte nelle pagine del romanzo perché non vi siano dubbi sugli obiettivi del suo movimento e perché la prospettiva della Aliyah in una regione così amata, ma anche così lontana e inospitale, potesse essere idealizzabile per milioni di ebrei minacciati e oppressi. 7 F. Krobb, Gefühlszionismus und Zionsgefühle, Sentimente, Gefühle, Empfin dungen: zur Geschichte und Literatur des Zionismus, hrsg. v. A. Fuchs – S. Strümper-Krobb, Königshausen & Neumann, Würzburg 2003, pp. 149-165, qui p. 161. Da notare le differenze con il titolo di un altro romanzo utopico e sionista del 1893 di Max Ernst Osterberg Verakoffs, Das Reich Judäa im Jahre 6000 (edito da Druckerei und Verlagshaus, Stuttgart), in cui si pone con forza il legame tra terra e dinastia e in cui la distanza tra l’epoca di chi scrive e quella in cui l’utopia si realizza rende il racconto simile al sogno che Herzl voleva bandire dalla sua narrazione. 11 roberta ascarelli In questa situazione avevano solo due possibilità: diventare acerrimi nemici di una società così ingiusta oppure guardarci intorno in cerca di un luogo dove fuggire. L’abbiamo trovato, ed eccoci qua. Ci siamo salvati. «Una vecchia terra nuova!» mormorò Friedrich. «Sissignore, eccola» esclamò David Littwak serio e commosso. «Nella nostra cara vecchia terra abbiamo fondato una Nuova Società. Imparerete a conoscerla, signori miei» (p. 53)8. Anche il più importante tra i personaggi non ebrei che popolano il romanzo, il prussiano Kingscourt, un cittadino del mondo che, per caso e per affetto, diventa testimone della trasformazione della Palestina, ribadisce il valore di questo incontro felice tra tradizione e modernità: Non è necessario aspettare mille, cento, cinquant’anni. Oggi! Con le idee, le nozioni, i mezzi che oggi, il 31 dicembre del 1902, sono in possesso dell’umanità, si potrebbe cambiare in meglio la situazione. Non c’è bisogno della pietra filosofale né di un’aeronave maneggevole. Si ha già tutto quello che serve per rendere il mondo migliore. E lei sa, signore, chi può mostrare il cammino? Voi! Voi ebrei! Proprio perché state male. Voi non avete niente da perdere. Voi potete creare in questa terra un laboratorio per l’umanità; là, dove noi eravamo, sull’antica terra crearne una moderna. Una vecchia terra nuova (p. 41). Alla prospettiva nietzscheana del rinnovamento attraverso il dolore si unisce, nei riferimenti all’«Altneuland» disseminati nel testo, la dimensione progettuale che, con forti innesti positivistici9, 8 Qui e di seguito (con il numero di pagina tra parentesi nel testo) si cita la versione italiana di Altneuland, Vecchia terra nuova, a cura di R. Ascarelli, Bibliotheca Aretina, Roma 2012. 9 Herzl scrive: «I veri fondatori di questa terra così antica e così nuova – disse David – sono stati i tecnici che hanno realizzato gli impianti. La bonifica delle paludi, l’irrigazione dei terreni aridi e, inoltre, l’insieme delle centrali elettriche, queste sono le cose che hanno avuto davvero grande importanza» (p. 168). 12 tradurre un titolo e realizzare un’utopia testimonia la volontà di progresso del popolo ebraico, destinata a contagiare il mondo intero10: Eppure penso che questa terra così vecchia e così nuova non si possa comprendere se ci si limita a costatare che tutte le iniziative e le istituzioni che vi sono già vi erano quando noi abbiamo abbandonato il mondo civilizzato [...]. E da tutto questo si è sviluppato comunque qualcosa di nuovo. Questa vecchia terra nuova è qualcosa di più, deve essere qualcosa di più di una sintesi di tutti i progressi sociali e tecnici del passato (p. 194). Le traduzioni che accompagnarono nei paesi europei l’incerto successo di questo romanzo disorganico e commovente cercano un compromesso tra il valore progettuale del titolo e la difficoltà di rendere in modo sensato e, insieme, coinvolgente quella concatenazione di parole. La resa ‘militante’ di un titolo ‘militante’ in un romanzo-manifesto, come è Altneuland per il suo autore e per gran parte del movimento, diventa così oggetto di una «infedeltà programmata»11, più volte commessa dai traduttori - traduttori in genere sionisti - per garantirsi «un’azione sul pubblico», farlo avvicinare senza resistenze al libro e quindi spingerlo a condividerne gli obiettivi12. 10 Cfr. M. Buber, Israel und Palästina. Zur Geschichte einer Idee (1950), trad. it. di P. Gonnelli, Sion. Storia di un’idea, Marietti, Milano 1964, pp. 87-90. 11 G. Raboni, Giovanni Raboni (ovvero tradurre per amore), in A. Dolfi (a cura di), Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento, Bulzoni, Roma 2004, pp. 625-628, qui p. 627. 12 G. Genette, Soglie (1987), trad. it. Einaudi, Torino 1989, p. 4. Bisogna tener presente che in molti studi si rifiuta la parola «traduzione» quando si tratta di passare da un «source title» ad un «target title» e si preferisce parlare di «adattamento», «trasposizione» o sostituzione, nella prospettiva che ci debba essere comunque una equivalenza tra fonte e destinazione. Su questo aspetto si rimanda inoltre a C. Bucaria, What’s in a title? Transposing Black Comedy Titles for Italian Viewers, in C. Valero-Garcés (ed.), Dimensions of Humour. Explorations in Linguistics, Literature, Cultural Studies and Translation, PUV, Valencia 2010, pp. 333-359 e H. Levin, The Title as a Literary Genre, in «The Modern Language Review», 72, 4 (1977), pp. 23-36. 13 roberta ascarelli Con l’edizione russa del 1903, che segue di solo un anno l’uscita del volume in Germania per i caratteri di Seemann a Lipsia inizia una lunga serie di tradimenti descrittivi in cui le esigenze di propaganda e la personale adesione dei traduttori e degli editori al progetto herzliano (oltre all’esigenza di adeguarsi alle aspettative dei lettori, spesso diverse a seconda dei luoghi e delle culture della diaspora13) hanno la meglio sul rigore traduttivo. Obnovliennay strana (Altneuland), La terra rinata14 è il titolo scelto dall’anonimo traduttore di Kiev che sacrifica la filologia alla «accettabilità» e alla comprensibilità del messaggio15. Oltre all’infedeltà, vi è in questo caso una violazione della prospettiva teorica dell’autore, e cioè la convinzione che fosse possibile dar vita, nell’intreccio dei tempi, a una realtà che non avesse eguali nella storia del mondo. Si perde inoltre l’effetto originale di sorprendesa e di stupore, che Herzl aveva affidato al composto ‘altneu’ e ciò che rimane è solo una generica idea di rinnovamento. Se Baal-Makhshoves (ovvero Israel Isidor Eljaschoff) nel 1905 può esercitare nella versione jiddisch un assoluto rispetto per l’ori La trasformazione del titolo di un testo in traduzione è fenomeno largamente diffuso e ampliamente studiato: «The practice of book titles translation is often characterized by a lack of semantic equivalence….between the source title and the target title», scrive M. Viezzi in P. Kujamäki (et al. ed.), Beyond Borders: Translations Moving Languages, Literatures and Cultures, Frank & Timme, Berlin 2011, pp. 183-195, qui p. 183. Cfr. inoltre A. Rothe, Der literarische Titel, cit., p. 124. Inoltre sulle riflessioni sul carattere «kulturspezifisch» dei titoli si rimanda a C. Nord, Einführung in das funktionale Übersetzen: am Beispiel von Titeln und Überschriften, Franke, Tübingen-Basel 1993, in part. pp. 5, 28 e 131. Nord altrove afferma che la «information about the genre which in the source culture is given by the author’s name is shifted to the title in the target-language formulation» (C. Nord, Translation as a process of linguistic and cultural adaptation, in C. Dollerup – A. Lindegaard, Teaching Translation and Interpreting. Insights, Aims, Visions, John Benjamins, Amsterdam-Philadelphia 1994, 59-67, qui p. 64). 14 Pubblicato senza l’indicazione dell’editore e senza il nome del traduttore, Kiev 1903. 15 Cfr. B. Osimo, Traduzione e qualità, Hoepli, Milano 2004, p. 35. Come scrive Maiorino «interpretation begins with the title, which is the seed that contains the tree» (G. Maiorino, First Pages. A Poetics of Titles, The Pennsylvania State University Press, University Park PA 2008, p. 2). 13 14 tradurre un titolo e realizzare un’utopia ginale scegliendo un omogeneo Altneyland (anche se il traduttore sente l’esigenza di aggiungere un rematico Roman, seguito in questo da molti)16, è soprattutto grazie alla lingua di arrivo – lo jiddisch è infatti particolarmente generoso per storia e tradizione con i neologismi e le commistioni semantiche –, nelle altre versioni si predilige quanto più possibile la chiarezza e quando, invece, si rimane aderenti all’originale, si sceglie di spezzare ‘Altneuland’ preferendo, in genere, al banale vecchio/nuovo il più idealizzabile composto antico/nuovo. In Romania, nel 1916, Horia Carp scioglie così il composto ‘alt’ e ‘neu’ per garantire un’immediata appropriazione interpretativa da parte del lettore aggiungendo però, come spesso accade, anche il titolo originale: Ţară veche – nouă. Altneuland 17 (ancora di più prevale l’esigenza di chiarezza in una seconda edizione rumena dal titolo Ţară veche – Ţară nouă. Altneuland). Più creativo quello scelto invece nel 1919 dal traduttore olandese R.J. Spitz che, con spirito romantico, mette in ombra senza troppi rimpianti l’attivismo programmatico del romanzo di Herzl: Het land der droomen (Alt-Neuland)18, La terra dei sogni, per poi, citando il titolo originale, separare il composto. I titoli, come quello di Spitz, che accentuano la prospettiva utopica – proprio quella che Herzl esplicitamente negava19 – 16 Senza casa editrice, né luogo, né data[ma 1902]. Il testo viene ripubblicato a Berlino nel 1921 per i caratteri di B. Harz. 17 Ed. societății culturale Șaron, Bucarest 1916. Nel 1937 si sente l’esigenza di un titolo più esplicito (anche se l’originale rimane tra parentesi a garantire – come accade con una certa ricorrenza – il rispetto della volontà dell’autore e, quindi, la fedeltà del traduttore) Ţară veche – ţară nouă (Altneuland): roman, a cura di M. Moscovici – L.B. Wechsler, Editura Organizatiei sioniste din România Centrală culturală, Bucarest 1937. 18 «De Zonnebloem», Apeldoorn 1919. 19 Alla conclusione del romanzo che si apriva con un potente invito all’azione («Se lo volete non è un sogno», scrive Herzl) si leggono alcune frasi che espungono nettamente la prospettiva dell’utopia e della favola: «Adesso, dopo tre anni di lavoro, ci dobbiamo separare e cominciano i tuoi dolori, mio caro libro. Attraverso inimicizie e contrasti, quasi come attraverso un bosco oscuro, dovrai trovare la tua strada. Ma quando sarai arrivato da gente amichevole, salutala da parte mia che sono tuo padre. Tuo padre è convinto che sognare sia comunque il compimento del tempo che trascorriamo sulla terra. Il sogno non è così diverso dall’agire, come 15 roberta ascarelli sono segnali della crisi del movimento sionista che ha perso la sua concretezza politico-diplomatica e si interroga, invece, sul senso del Rinascimento ebraico, o sulle prospettive di vita socialista nella lontana Palestina, rimandando a un domani sempre più lontano l’organizzazione di un grande movimento di massa che riportasse gli ebrei nella Terra promessa. Non stupisce quindi che, alla fine degli anni Venti, nell’edizione polacca si aggiunga l’indicazione che si tratta di un romanzo utopico, mentre del titolo del 1902 non rimane praticamente nulla, al di là di una generica allusione a una ri-nascita tutta da realizzare: U wrót nowego zycia – (Altneuland): powiesc-utopja si legge sulla copertina (Alle porte di una nuova vita – (Altneuland): romanzo – utopia)20. Nel 1928, in una prima edizione francese, l’anonimo traduttore preferisce, con una scelta piuttosto libera per quanto riguarda la congruenza con l’originale21 (ma dal forte impatto propagandistico), il nome di uno dei protagonisti, il giovane sionista che ha contribuito a costruire con il suo lavoro e il suo impegno politico-sociale la ‘Nuova società’ (aggiungendo poi tra parentesi l’ormai consueto riferimento al titolo tedesco) David Littwak («Altneuland»)22. Le varie proposte dell’editoria francese sciolgono in vario modo, dopo il 1928, ma senza troppa creatività, il composto ‘vecchionuovo’ anche perché il titolo e il romanzo hanno ormai conquistato una loro convenzionalità anche nel mondo francofono: Terre nouvelle, terre ancienne appare nel 1931 per i caratteri di Rieder, quindi alcuni credono. Ogni azione degli uomini è stata un sogno e lo ridiventerà» (p. 211). 20 Freid, Warszawa [s.d. ma 1928]. Da notare che alcune versioni successive del romanzo in lingua tedesca aggiungono lo stesso sottotitolo definendolo un ‘romanzo utopico’ (ed. Nordstedt 2004, che presenta un titolo particolarmente ampliato: AltNeuland. Tel Aviv: Ein utopischer Roman; l’edizione pdf on line HaGalil; l’edizione Hoffenberg, Berlin 2015). 21 Cfr. A. Rothe, Der literarische Titel, cit., pp. 176-183. 22 Editions «L’Avenir Illustré», Casablanca 1928. 16 tradurre un titolo e realizzare un’utopia Nouveau pays ancien ad opera di L. Delau e J. Thursz23 e, infine, Pays ancien, pays nouveau (Altneuland): roman a cura di P. Giniewski24. Così in inglese sarà Old new Land nella traduzione di Lotta Levensohn per Bloch Publishing & Co. del 194125 e Old-new-land: novel a cura di Paula Arnold nel 196026. L’unica traduzione in spagnolo del romanzo, pubblicata nel 1944 a Buenos Aires, trasforma in un moderno «patria» la parola «terra», pur così ricca di echi nel mondo ebraico: Vieja y nueva patria. Altneuland 27, mentre per l’edizione italiana del 2012, si è deciso di sciogliere il composto «vecchio» – «nuovo», tentando però di restituire al titolo la sua originale increspatura letteraria e un po’ della sua eccentricità con un assemblamento inusuale: Vecchia terra nuova. Ma la più infedele delle traduzioni è anche la più interessante. Nell’anno della prima pubblicazione in Germania, il libro viene stampato anche in ebraico a cura di un noto intellettuale, Nachum Sokolow, che sarebbe diventato di lì a poco il segretario generale del congresso sionista, un giornalista di fama, redattore del quotidiano HaTzefira (oltre che di numerosi periodici ebraici di Varsavia) e tra i promotori della dichiarazione Balfour nel 1917. Il titolo scelto da Sokolow, che si inserisce autorevolmente con la sua formazione rabbinica e la sua visione del mondo nel processo traduttivo, accentua, nel distacco dall’originale, l’aspetto profetico 23 Degli stessi traduttori, ma per una nuova edizione, troviamo Terre ancienne, terre nouvelle Slatkine, Paris-Genève 1980. 24 Stock, Paris 1980. «Anche in questo caso, c’è alla base un fenomeno noto: i titoli tradotti nascono spesso non una, ma due o addirittura più volte. Anche quando la traduzione del libro rimane la stessa. I due motivi della rinascita sono, tipicamente, l’ammodernamento della lingua e, appunto, il ripristino di una fedeltà all’originale che si ritiene, a quel punto, dovuta» (M. Bricchi, Tradurre, re-inventare, ritradurre titoli, in S. Arduini – I. Carmignani, a cura di, Giornate della traduzione letteraria 2012, Marcos Y Marcos, Milano 2013, pp. 67-75, qui p. 73). 25 Ripubblicato con lo stesso titolo da M. Wiener, Princeton, N.J., 1997. 26 Haifa publishing company, Haifa 1960. 27 M. Gleizer, Buenos Aires 1944. 17 roberta ascarelli del testo. Invece di mettere in evidenza il rapporto tra tradizione e sviluppo così nodale nel testo herzliano, sceglie per i suoi lettori28 un titolo che colloca il romanzo e il suo progetto nella tradizione del Libro: è Tel Aviv, la collina di primavera alla quale si accenna in un passo di Ezechiele (3, 15). Non si tratta nella Scrittura di un luogo di rinascita e di rinnovamento – come suggerivano tante altre traduzioni di «Altneuland» – ma semmai di una terra di esilio nella quale Ezechiele profetizza la distruzione di Gerusalemme ad opera di Nabucodonosor come punizione di Dio verso la casa ribelle di Israele. 4 Poi egli mi disse: «Figlio dell’uomo, va», recati dagli Israeliti e riferisci loro le mie parole, 5 poiché io non ti mando a un popolo dal linguaggio astruso e di lingua barbara, ma agli Israeliti: 6 non a grandi popoli dal linguaggio astruso e di lingua barbara, dei quali tu non comprendi le parole: se a loro ti avessi inviato, ti avrebbero ascoltato; 7 ma gli Israeliti non vogliono ascoltar te, perché non vogliono ascoltar me: tutti gli Israeliti sono di dura cervice e di cuore ostinato. 8 Ecco io ti do una faccia tosta quanto la loro e una fronte dura quanto la loro fronte. 9 Come diamante, più dura della selce ho reso la tua fronte. Non li temere, non impaurirti davanti a loro; sono una genìa di ribelli». 10 Mi disse ancora: «Figlio dell’uomo, tutte le parole che ti dico accoglile nel cuore e ascoltale con gli orecchi: 11 poi va’. recati dai deportati, dai figli del tuo popolo, e parla loro. Dirai: Così dice il Signore, ascoltino o non ascoltino». 12 Allora uno spirito mi sollevò e dietro a me udii un grande fragore: «Benedetta la gloria del Signore dal luogo della sua dimora!». 13 Era il rumore delle ali degli esseri viventi che le battevano l’una contro l›altra e contemporaneamente il rumore delle ruote e il rumore di un grande frastuono. 14 Uno spirito dunque mi sollevò e mi portò via; io ritornai triste e con l›animo eccitato, mentre la mano del Signore pesava su di me. 15 Giunsi dai deportati di Tel-Avìv, che abitano lungo il Chebàr, dove Da notare che coloro che avrebbero preferito leggere il romanzo in ebraico piuttosto che in jiddisch o nelle lingue dei paesi di residenza potevano sicuramente vantare profonde competenze di studi ebraici. 28 18 tradurre un titolo e realizzare un’utopia hanno preso dimora, e rimasi in mezzo a loro sette giorni come stordito. Eccentrico rispetto alla visione del mondo di Herzl e distante dalla costellazione del Sionismo realizzato che Altneuland minuziosamente descrive, questo riferimento biblico – che l’autore non contesta pensando, probabilmente, al suo potere evocativo per il pubblico che avrebbe letto questa versione – poteva comunque essere oggetto di riflessione per i dotti che immaginavano il ritorno, anche a dispetto della durezza della profezia: che la «salvezza» annunciata nel romanzo si rivolgesse ad un popolo di esuli, minacciati e dal futuro incerto, crea un nesso evidente tra l’esilio babilonese e la moderna diaspora, insieme a un legame significativo tra l’antico e il nuovo «ritorno»29, l’antica e la nuova vicenda dell’ebraismo. Passato e presente si incontrano possenti nella voce del profeta, legati dalla forza della ripetizione e dalla abitudine a interrogare le pagine della Scrittura in cerca delle costanti della storia ebraica, secondo un procedimento che il romanzo herzliano dimostra di condividere30. Basteranno allora il riferimento metaforico alla primavera e alla consistenza materica di una collina per rappresentare l’incontro tra ciò che è immutabile e ciò che, invece, si trasforma secondo le leggi della natura, i diritti della vita e i voleri del Cielo. Si tratterebbe solo di un titolo tradotto avventurosamente se, nel 1910, i coloni che avevano realizzato un nuovo insediamento urbano alle porte di Jaffa non avessero deciso, dopo lunghe discussioni e su consiglio di Menachem Sheinkin, il coordinatore dell’uf29 Vi sono del resto degli interessanti rispecchiamenti tra l’antica e la nuova storia: il ritorno dall’esilio babilonese anticipa di poco la costruzione del Tempio che il Sionismo di Herzl voleva nuovamente edificare e solo parte degli ebrei decide nel 539 di ritornare nella Terra dei padri, così come solo una parte di ebrei della diaspora avrebbe deciso di andare, secondo Herzl, nella nuova Palestina. 30 Basta pensare al lungo capitolo dedicato nel romanzo di Herzl al Seder di Pesach che termina con il racconto del nuovo Esodo: la nuova ‘colonizzazione’ della Palestina 19 roberta ascarelli ficio immigrazione della città, di chiamare il quartiere con i suoi 600 abitanti proprio Tel Aviv31, la collina della primavera, con un riferimento entusiastico a quel romanzo e al suo autore troppo presto scomparso. All’inizio vi erano poche case ottocentesche tra le dune di sabbia a nord di Jaffa poi, nel 1909, sessanta famiglie, guidate da Meir Dizengoff, un intraprendente sionista moldavo, si erano riunite sulla spiaggia e avevano estratto a sorte il lotto di sabbia che spettava a ciascuna per costruirvi un nuovo nucleo abitativo. Il modello era mutuato idealmente dall’Inghilterra: si pensava a un quartiere con amministrazione indipendente di circa cento case, circondato da una cintura verde e dotato di molti servizi, con innesti ideali che, già evidenti nel progetto dell’architetto Wilhelm Stiassny e nel riferimento al romanzo di Herzl, definiva un agglomerato che, senza storia, potesse crescere nell’incontro con l’utopia. È la prima città moderna della nuova Palestina ed è anche l’unica a prendere il nome dal titolo di un libro32. Herzl, le prophète des boulevards, comme l’appellent, sans révérence, Jérôme et Jean Tharaud, avait vu, dans l’un de ses rêves, la première ville juive s’élever doucement des bords de la Méditerranée, et frapper les regards comme une colline printanière. Tel-Aviv ! la colline du Printemps, la voici!33. Se si leggono le pagine di Altneuland che descrivono gli insediamenti nella ‘vecchianuova’ terra appare chiaro che, al di là del nome, nella costruzione di Tel Aviv i coloni si sono lasciati guidare dalle suggestioni di quel romanzo: Mai nella storia sono state costruite delle città così in fretta e così bene come è avvenuto qui, perché mai gli uomini avevano avuto 31 Cfr. I. Meyboh, David Wolffsohn. Aufsteiger, Grenzgänger, Mediator: Eine biographische Annäherung an die Geschichte der frühen Zionistischen Organisation, Vandenhoek & Ruprecht, Göttingen 2013, p. 329. 32 J. Schlör, Tel Aviv. Vom Traum zur Stadt, Bleicher Verlag, Gerlingen 1996. 33 A. Londres, Le juif errant est arrivé (1929), ora in La Bibliothèque électronique du Québec, http://beq.ebooksgratuits.com/classiques/Londres-errant. pdf, p. 251. 20 tradurre un titolo e realizzare un’utopia a disposizione mezzi tecnici così avanzati. Nel mondo civilizzato alla fine del XIX secolo le potenzialità erano immense. È stato sufficiente utilizzare qui tutte le innovazioni (p. 48). E ancora: Davanti a loro vi era una grande piazza, circondata da edifici imponenti con portici ad arco. Nel centro, un palmeto recintato da una cancellata. Le palme, qui un albero comune, erano dappertutto: a destra, a sinistra e anche ai margini della strada che conduceva verso la piazza. Si intuiva subito che queste palme avevano una doppia funzione: di giorno, dispensavano ombra e, di notte, luce dai lampioni elettrici che pendevano dai loro rami simili a grandi frutti vitrei… La piazza si chiamava piazza del Popolo e, di fatto, lo era, non soltanto per suoi edifici, ma anche per la gran folla che vi era radunata (p. 50). E se Adamo ebbe la possibilità di dare il nome alle cose, nella moderna città, «creata» da un’opera letteraria, gli ebrei ebbero dopo lunghi secoli la possibilità di dare i nomi alle strade – ed erano i nomi della loro tradizione34. 34 «Et les Juives? Elles ont jeté leur perruque aux ordures, coupé leurs cheveux et mis leurs seins au vent! C’est une métamorphose. Avenue Herzl! Boulevard Edmond-de- Rothschild! Rue Max-Nordau! La synagogue, monument central, que l’on achève, semble tout dire. C’est le drapeau flottant sur le camp […]. D’abord vous avez pensé que Tel-Aviv, si jeune, ne pouvait être qu’un noyau de maisons, une petite cité dont un regard ferait aisément le tour. La surprise gagne peu à peu votre esprit. Où vous supposiez trouver le bout du monde naît un boulevard. Les haies de maisons succèdent aux haies de maisons. Un camp, peut-être, mais non un camp volant. Il y a des arbres! La colline du Printemps est tracée, sans monotonie. Rien des damiers américains. Les rues, les places, les boulevards, les avenues se rencontrent, avec fantaisie. C’est clair, large, ensoleillé, tout blanc. C’est gai. On y sent la volonté acharnée d’oublier le ghetto. Il est seulement surprenant de ne pas voir tous ces Juifs plantés sur les trottoirs, la bouche ouverte, et buvant amoureusement la liberté» (ivi, pp. 253-254). Cfr. inoltre E. Loewenthal, La nuvola nera, Feltrinelli, Milano 2009, p. 138. 21 Al sorteggio della terra (1909) Il progetto urbanistico di Wilhelm Stiassny (1909) Riccardo Castellana ‘Changeling’, ‘Wechselbalg’, ‘canciatu’. Tradurre il folklore passando per la letteratura 1. Un mito folklorico e i suoi riflessi letterari Grosso modo dai tempi di Spenser e di Shakespeare, la parola changeling (che in inglese vuol dire molte cose: ‘persona o cosa scambiata per qualcun altro o qualcos’altro’, ‘persona volubile e incostante’, ‘idiota’) ha assunto nella lingua scritta un significato specifico che, nei secoli a venire, avrà molta fortuna, sia in letteratura sia negli studi di antropologia culturale. Nella Faerie Queene (1590) come in A Midsummer Night’s Dream (1595), e nel folklore britannico cui tanto Spenser quanto Shakespeare devono tantissimo, un changeling è un «bambino segretamente sostituito in culla ad un altro», e in particolare «un bambino (di solito stupido e particolarmente brutto) che si suppone lasciato da esseri fatati in cambio di un altro bambino che loro stessi hanno rapito»1. Ho studiato altrove2 la rilevanza antropologico-letteraria di questo mito folklorico dai molti possibili significati: spiegazione «magica» della malattia e del ritardo mentale secondo l’antropologia positivista, a una lettura contemporanea più attenta alle dinamiche «emiche» e ai problemi dell’antropologia interpretativa offre soprattutto gli estremi per una riflessione sull’identità, e persino sul concetto di umanità, nelle società premoderne, dato che nel folk1 Cfr. Oxford English Dictionary (OED) ad vocem. Traduco dall’edizione on line (http://www.oed.com). 2 R. Castellana, Storie di figli cambiati. Fate, demoni e sostituzioni magiche tra letteratura e folklore, Pacini, Pisa 2014. riccardo castellana lore il «sostituto» è normalmente un folletto o un nano, una creatura fatata che per magia somiglia al bambino rapito, ma non è un bambino e soprattutto non è un essere umano. In questa sede vorrei ritornare, piuttosto, su alcuni problemi relativi alla traduzione del termine changeling. Problemi che non riguardano gli etnologi (i quali, indipendentemente dall’idioma in cui scrivono, sono legittimati ad adottare il termine inglese, ormai accreditato nella letteratura scientifica) ma che appaiono piuttosto interessanti per chi si occupi di traduzioni letterarie verso l’italiano. A differenza delle lingue del Nord Europa, che hanno (o hanno avuto) quasi tutte un equivalente semantico perfetto (si confronti il tedesco Wechselbalg, il danese skifting, lo svedese bortbyting, ma anche l’antico francese chanjon o changeon), la nostra lingua non possiede un traducente adatto e deve ricorrere a perifrasi che non sempre rendono trasparente quello che, a un lettore inglese o tedesco, è (o dovrebbe) apparire un immediato rinvio al mondo della fiaba, della leggenda e del folklore. Diversamente (per fare un esempio su cui nel libro insisto molto perché la critica hoffmaniana non vi ha prestato, a quanto ne so, alcuna attenzione), si capirà ben poco della figura dello sgraziato, stupido e minuto protagonista che in virtù di un incantesimo appare a tutti come un giovane brillante e di successo in Klein Zaches genannt Zinnober (1819) di E.T.A. Hoffmann. Quando, nell’esordio, la madre di Zaches dice: Diebe stahlen das Geld, Haus und Scheune brannten uns über dem Kopfe weg, das Getreide auf dem Acker zerschlug der Hagel, und um das Maß unseres Herzeleids vollzumachen bis über den Rand, strafte uns der Himmel noch mit diesem kleinen Wechselbalg, den ich zu Schand und Spott des ganzen Dorfs gebar. I ladri ci rubarono il denaro, la casa e il granaio s’incendiarono sopra di noi, il grano nel campo fu colpito dalla grandine e per colmare la misura delle nostre sventure il cielo ci punì con questo mostricciattolo che io misi al mondo a vergogna e ludibrio di tutto il villaggio3. E.T.A. Hoffmann, Klein Zaches genannt Zinnober. Ein Märchen, Reclam, Stuttgart 2004, pp. 5-6. La traduzione italiana che utilizzo (l’unica a non essere fuori catalogo nel momento in cui scrivo) è quella di Ervino Pocar (Il piccolo 3 24 tradurre il folklore passando per la letteratura è legittimo presumere che Hoffman avesse in mente la lettura, peraltro freschissima, delle Deutsche Sagen dei fratelli Grimm (1816-1818), le quali costituiscono lo sfondo culturale del suo romanzo ed offrono, soprattutto, un modello preciso al suo «Wechselbalg umoristico», come egli stesso definisce Zaches in una lettera4. Ma è chiaro che rendere la parola Wechselbalg con un generico ‘mostricciattolo’, come fa Ervino Pocar, non serve a molto: offre, certo, una soluzione pratica alle comprensibili esigenze del traduttore, ma non restituisce affatto la complessa risonanza folklorica del termine, che qui mi pare la cosa più importante. 2. Shakespeare e dintorni Nel decimo canto del Primo libro della Regina delle Fate (1590) di Edmund Spenser, la bella Una conduce il Cavaliere della Rossa Croce presso la casa della saggia matrona Celeste, madre di Fede, Speranza e Carissa. Qui, finalmente, il cavaliere errante conosce dalle parole di Contemplazione la sua vera l’identità: 65 For well I wot, thou springiest form ancient race Of Saxon kinges, that hate ith mighty hand And many bloody battailes fought in place High reared their royal throne in Britans land And vanquish them, viable to withstand: From thence a Faery thee vnweeting reft, There as thou slept in tender swadling band, And her base Elfin brood there for thee left. Such men do Chaungelings call, so chaungd by Faeries theft. 66 Thence she thee brought into this Faery lond, And in an heaped furrow did thee hyde, Zaches, detto Cinabro, in E.T.A. Hoffmann, Il vaso d’oro e altri racconti, introd. di C. Magris, Garzanti, Milano, 2006 [1a ed. 1969]). 4 R. Castellana, Storie di figli cambiati, pp. 116 ss. 25 riccardo castellana Where thee a Ploughman all vnweeting fond, As he his toilsome teem that way did guide, And brought thee vp in ploughmans state to byde, Whereof Georgos he thee gaue to name; Till prickt with courage, and thy forces pryde, To fary court thou cam’st to seeke for fame, And proue thy puissaunt armes, as seemes thee best became.5 La bella traduzione metrica di Izzo degli anni Cinquanta rende queste due stanze così: LXV Io so per certo che d’antico ceppo Tu nascesti di re sassoni, i quali, Vinta ogni vana resistenza opposta, Con salda mano e sanguinose lotte, Eressero in Britannia il loro trono. Mentre dormivi in bianche fasce avvolto, Fosti di lì rapito da una Fata, Che in tuo luogo lasciò un suo folletto: Di quelli che la gente chiama strambi, E usano le Fate in tali scambi. LXVI Ti condusse di poi in questa terra, E ti nascose in un profondo solco, Dove, guidando il faticoso aratro, Te ritrovò un bifolco, che, secondo Il suo stato allevando, a te di Giorgio Impose il nome dall’agreste suono. Il tuo cuore orgoglioso ti sospinse, Infine, a quella Corte, dove ambivi Spiegare il tuo stendardo di vittoria, E coprire le tue armi di gloria”.6 5 E. Spenser, The Faerie Qveene, ed. by A. C. Hamilton, Pearson Longman, Harlow 2007. 6 E. Spenser, La regina delle fate. Libro primo, versione col testo a fronte, introd. e note di C. Izzo, Sansoni, Firenze 1954, p. 403-405. 26 tradurre il folklore passando per la letteratura Il testo originale pone alcuni problemi di interpretazione letterale. Innanzi tutto: cosa significa esattamente il termine «Chaungeling», qui, e a chi (o cosa) è riferito? Due le risposte possibili, a seconda del contenuto che si vuole legare al pronome «such» (= ‘questi’), e di come si traduce l’ultimo verso della stanza 65: «Such men do Chaungelings call, so chaungd by Faeries theft». Izzo riferisce quel «such» ai folletti, e per ottenere la rima baciata con «scambi» traduce l’intraducibile «changelings» con «strambi». Nella sua recentissima versione in prosa, invece, Luca Manini attribuisce «such» a coloro che sono stati scambiati dalle fate, come San Giorgio: «trovatelli li chiamano gli uomini, questi bambini scambiati per furto di fata»7. Si noti l’aggiunta della parola ‘bambini’, implicita sia nel significato di changeling sia in quello di ‘trovatello’. Ma la resa di «Chaungelings» con ‘trovatelli’ appare quantomeno arbitraria, dato che solo nella stanza successiva Contemplazione dirà a San Giorgio che, quando era un bambino, era stato trovato dall’Aratore («Ploughman»). Prima della stanza 66 Giorgio è solo un changeling e non ancora (anche) un ‘trovatello’ (foundling). Volendo optare per una traduzione di servizio, si sarebbe forse potuto rendere il tutto, con una perifrasi un po’ pesante ma più chiara, così: «la gente (‘men’) chiama costoro (‘such’) changelings perché sono stati scambiati da bambini in conseguenza del furto operato dalle fate (‘so chaungd by Faeries theft’)». E però il problema di fondo resterebbe irrisolto anche così, perché la perifrasi non rende affatto le risonanze folkloriche dell’originale. Ricapitolando, per Izzo il changeling (lo ‘strambo’) è il folletto, per Manini San Giorgio bambino. La prima soluzione può tra l’altro poggiare sull’autorità dell’Oxford English Dictionary: «A child secretly substituted for another in infancy; esp. a child (usually stupid or ugly) supposed to have been left by fairies in exchange for one stolen» («Un bambino segretamente sostituito a un altro nella primissima infanzia; in particolare un bambino, di solito stupido o particolarmente brutto, che si crede sia stato lasciato dalle fate in cambio di un altro rapito»). L’OED elenca tra gli 7 E. Spenser, La regina delle fate, introd. di Th. P. Roche, trad., note e guida alla lettura di L. Manini, Bompiani, Milano 2012, p. 283. 27 riccardo castellana esempi esattamente il passo in questione di The Faerie Queene; ma aggiunge anche che nel Sogno di una notte di mezza estate (1595) il sostantivo è riferito «al bambino rapito e non a quello lasciato». E se tale uso è in Shakespeare, non è improbabile, a mio avviso, che lo sia stato pochi anni prima anche in Spenser. Il che significherebbe che nell’inglese del tardo Cinquecento il significato della parola non si era ancora stabilizzato e che il changeling poteva essere tanto il bambino rapito quanto il suo sostituto fatato, come è perfettamente possibile che sia anche nel passo spenseriano qui esaminato. E passiamo appunto a Shakespeare. Nel Sogno di una notte di mezza estate, come si sa, Oberon e Titania sono in lite tra loro per via di un fanciullo senza nome caro alla Regina delle Fate. È per distogliere costei dal pensiero dell’amato giovinetto che Oberon le fa somministrare da Puck il filtro d’amore che la farà invaghire di Bottom. Ma di tale misterioso personaggio, che stando alle didascalie non compare mai in scena e che nella commedia non ha nome né diritto di parola, si dice solo (II,1) che è un principino indiano, figlio di un re e di una vestale («votress») dell’ordine di Titania morta di parto; e che è per amore della sua adepta che Titania ha deciso di rapirlo, allevarlo e non separarsene mai («And for her sake do I rear up her boy / And for her sake I will not part with him»), nonostante, appunto, le insistite richieste di Oberon di averlo al suo seguito. Sul significato simbolico di questa figura nel contesto del play shakespeariano ho avanzato qualche ipotesi interpretativa in Storie di figli cambiati (pp. 98 ss.). Mi limito qui a riprendere la questione traduttoria. Dobbiamo anzitutto notare come Shakespare usi in modo inequivocabile il termine changeling per indicare il fanciullo rapito, sfruttando la duplicità semantica del termine ancora possibile in età elisabettiana, quando questo poteva designare tanto il sostituto magico (il changeling vero e proprio, come sarà di norma nei secoli successivi) quanto il bambino rapito. Puck: For Oberon is passing fell and wrath, Because that she [=Titania] as her attendant hath A lovely boy, stolen from an Indian king; She never had so sweet a changeling; 28 tradurre il folklore passando per la letteratura And jealous Oberon would have the child Knight of his train, to trace the forests wild; But she perforce withholds the loved boy, Crowns him with flowers and makes him all her joy. La traduzione in prosa di Gabriele Baldini (una delle più note e diffuse in Italia) rende il tutto come segue: ché Oberon è al colmo dell’ira: e tutto questo a causa d’un ragazzo bellissimo ch’ella ha rubato a un re indiano e che s’è presa come paggio. Non ne ha mai avuto uno più caro e l’invidioso Oberon vorrebbe averlo lui, invece, tutto per sé, fra i cavalieri del suo seguito, per batter la foresta selvaggia innanzi al suo passaggio. Ma essa trattiene a forza il bel ragazzo, lo incorona di fiori e vi concentra tutto il suo piacere8. Ora, Baldini non prova neppure a rendere changeling con un equivalente italiano e, anzi, lo ignora totalmente, ricorrendo a un partitivo («ne») che si ricongiunge tautologicamente a «paggio», eludendo il problema traduttorio. Né le cose vanno molto meglio nelle versioni italiane del Racconto d’inverno, dove la neonata Perdita è scambiata per un changeling dal pastore che la trova abbandonata accanto a una cassetta colma d’oro, e che così si rivolge al figlio incredulo: Take up, take up, boy; open it. So, let’s see. It was told me I should be rich by the fairies. This is some changeling. Open’t. What’s within, boy? […] This is fairy gold, boy, and ’twill prove so. Up with’t, keep it close. Perdita è dunque creduta un changeling, nel senso ambivalente che già conosciamo, e che è comune all’epoca elisabettiana, di «figlia delle fate» (e dunque di essere fatato ella stessa), oppure «di bambina (umana) rapita dalle fate». Si potrebbe, è vero, riferire W. Shakespeare, A Midsummer Night’s Dream, II,1, vv. 20-28; Sogno di una notte di mezza estate, trad. it. con testo a fronte di G. Baldini, Rizzoli, Milano 1981, p. 55. 8 29 riccardo castellana changeling non a Perdita, bensì alla cassa d’oro lasciata insieme alla bambina («This is some changeling. Open’t»), e in questo caso il termine assumerebbe il significato di «cosa surrettiziamente deposta in cambio di qualcuno o qualcos’altro», oppure quello astratto di ‘scambio’ (come in Hamlet V, ii, 54); e, tuttavia, sempre di intervento delle creature fatate si tratterebbe. Quanto di tutto ciò riesce a passare nelle traduzione italiane? Agostino Lombardo rende il passo così, saltando anche lui a piè pari, come Baldini nel Sogno, la difficoltà posta dal sostantivo: prendi su, prendi su, ragazzo – apri. Su, vediamo: mi hanno detto che le fate mi avrebbero fatto diventare ricco. Questa l’hanno lasciata loro – apri. Cosa c’è dentro, ragazzo? […] Questo è oro della fate, ragazzo, vedrai se non è vero. Su, e tieni la bocca chiusa9. E nell’unico altro passo del Winter’s Tale in cui occorre la parola changeling, la soluzione avanzata non è molto migliore. Quando infatti, sedici anni dopo, Perdita è diventata una bellissima fanciulla innamorata di Florizel, Polissene non gradisce le nozze segrete tra il figlio e quella che crede una semplice pastora. Ed è perciò che il fratellastro di Perdita si azzarda a suggerire al padre di dire la verità: «There is no way but to tell the King she’s a changeling and none of your flesh and blood». Anche in questo caso (esattamente come nella versione di Manini della Faerie Queene, che forse in questo caso si è basato proprio sulla soluzione adottata da Lombardo per il Racconto) la traduzione di changeling appare di gran lunga insoddisfacente: «Non c’è altra via che dire al re che è una trovatella, e in nessun modo vostra carne e sangue10». E stavolta è certamente a Perdita (e non alla cassa) che si riferisce la parola changeling, con un’allusione scoperta al presunto intervento delle fate che l’avreb9 W. Shakespeare, The Winter’s Tale, III,3; Il racconto d’inverno, trad. it. con testo a fronte di A. Lombardo, in W. Shakespeare, I drammi romanzeschi, «Teatro completo di W. Shakespeare», a cura di G. Melchiori, vol. VI, Mondadori, Milano 1981, p. 653. 10 W. Shakespeare, Il racconto d’inverno, IV,4, trad. it., cit., p. 721. 30 tradurre il folklore passando per la letteratura bero scambiata alla nascita. Ma la resa con «trovatella» appare poco fedele, perché la fanciulla non è, agli occhi del fratellastro e del patrigno, un semplice foundling ma qualcosa di più: è una creatura circondata di magia e di mistero, il frutto di uno scambio magico. 3. Una favola di John Gay John Gay è noto ai più, oggi, come l’autore della Beggar’s Opera, ma nel Settecento la sua opera più conosciuta in Europa erano le Fables, il cui primo volume apparve nel 1727 e il secondo, postumo, nel 1738. Il loro successo fu tale che prima della metà dell’Ottocento ne circolavano già 300 traduzioni, non solo nelle principali lingue europee, ma anche in idiomi esotici come l’Urdu e il Bengalese11. La prima versione italiana (della sola prima serie) realizzata dall’abate Giovanfrancesco Giorgetti apparve già nel 1767 a Venezia per il Graziosi. Su questa è esemplata l’edizione bilingue londinese del 177312, che comprende solo una selezione di 42 favole: 9 in meno rispetto alla stampa veneziana, e disposte in un ordine del tutto arbitrario. Tranne un’edizione ottocentesca, le Fables non saranno più tradotte in italiano. Ecco il testo per intero della favola n. 3, prima nell’originale poi negli sciolti di Giorgetti: The Mother, The Nurse, and the Fairy Give me a son! The blessing sent, Were ever parents more content? How partial are their doting eyes! No child is half so fair and wise. Waked to the morning’s pleasing care, The mother rose, and sought her heir. 5 11 J.E. Lewis, The English Fable. Aesop and Literary Culture (1651-1740), C.U.P., Cambridge 1996, p. 162. 12 Fables of Mr. John Gay, with An Italian Translation, by Gian Francesco Giorgetti, printed for T. Davies, in Russell Street, Covent-Garden, Bookseller to the Royal Academy, London 1773. 31 riccardo castellana She saw the nurse, like one possess’d, With wringing hands, and sobbing breast. «Sure some disaster hath befell: Speak, nurse; I hope the boy is well».10 «Dear madam, think not me to blame; Invisible the fairy came: Your precious babe is hence conveyed, And in the place a changeling laid. Where are the father’s mouth and nose, 15 The mother’s eyes, as black as sloes? See here a shocking awkward creature, That speaks a fool in every feature». «The woman’s blind», the mother cries; «I see wit sparkle in his eyes».20 «Lord! madam, what a squinting leer; No doubt the fairy hath been here». Just as she spoke, a pigmy sprite Pops through the key-hole, swift as light; Perched on the cradle’s top he stands, 25 And thus her folly reprimands: «Whence sprung the vain conceited lie, That we the world with fools supply? What! give our sprightly race away, For the dull helpless sons of clay! 30 Besides, by partial fondness shown, Like you we doat upon our own. Where yet was ever found a mother, Who’d give her booby for another? And should we change for human breed, 35 Well might we pass for fools indeed»13. La Madre, la Nutrice, e la Fata Quai caldi voti per avere un figlio Far soglion sempre li novelli Sposi? Ma poi che il Ciel cortese a lor concesse J. Gay, Fables, in Poetry and Prose, ed. by V.A. Dearing, Clarendon Press, Oxford 1974, vol. I, p. 305; Le nuove favole di Giovanni Gay tradotte dall’originale inglese, Graziosi, Venezia 1767, pp. 21-22. 13 32 tradurre il folklore passando per la letteratura Il sospirato bene, i lor desiri Son forse quindi più contenti, e paghi? Quanto mai son parziali gli amorosi Passionati lor sguardi! in tutto il Mondo Fanciul non v’ha del suo più bello, e saggio. Svegliata in su ’l mattin la Madre un giorno Dal letto alzossi, e al dolce uffizio intenta Sen gio trovare il caro Primogenito. Quand’ecco a lei s’appresenta la Balia, Ch’a guisa d’una pazza spiritata Torcea le mani, e dal profondo petto Fuor tramandava interrotti singhiozzi. Certo, la Madre prese a dir, n’avvenne Qualche sciagura; su via parla, o Balia: Sperar io voglio, che stia bene il figlio. Cara signora, quivi ella rispose, Io non ci ho colpa, e ben pregar vi voglio A non sgridarmi: una malvagia Fata Sen venne qui, sotto invisibil forme; E via portando il vostro amabil figlio, Ne pose un altro assai diverso in cambio. Ove mai son li paterni sembianti, La di lui bocca, e ’l naso? ove mai sono Gli occhi materni al par di prugna nere? Ecco quivi un fanciul defforme, e brutto, Ch’è un vero sciocco in tutti i suoi sembianti. Cieca che sei, la Madre esclama all’ora, Brillar lo spirto in que’ begli occhi i’ veggio. Buon Dio! Signora, deh mirate un poco, Rispose l’altra, come ha querci gli occhi: La Fata senza dubbio è qui venuta. Tacqu’ella a pena, quando ecco un Folletto Presto, e legger pel buco de la chiave Venuto entro a la stanza di repente, Poi che adagiossi de la culla in cima, Così lo stolto suo parlar riprese. E d’onde nacque mai quest’opinione Piena di falsitade, e di menzogna, Che noi qui al Mondo con le nostri fraudi Crescer facciamo de gli sciocchi il numero? 33 5 10 15 20 25 30 35 40 riccardo castellana Certo da noi sariasi assai bel cambio, Co’l dare altrui la nostra stirpe eletta, Sì spiritosa per gli inutil, sciocchi Figli di creta, che tra voi sì abbondano. Quindi per forza ancora di quell’affetto, Ch’a i propri parti dà la preferenza, Al par di voi ci tenghiam cari i nostri. E dove mai trovassi una tal madre, Che per l’altrui dar voglia il proprio figlio? Noi sì, volendo far un cambio eguale, Sciocchi saremmo a gran ragion creduti. 45 50 MORALITÀ L’appassionata tenerezza, e il soverchio biasimevole affetto, che hanno i Genitori verso i propri Figli, rende i medesimi quasi sempre insensibili, e ciechi ai loro sì Naturali, che Morali difetti. Tralascerò qui gli elementi caratterizzanti lo stile traduttorio di Giorgetti (come le lunghe perifrasi in luogo e lo spreco di aggettivazione, che fanno salire il componimento da 36 a ben 54 versi) per affrontare il problema che ci riguarda. Qui il riferimento al mito folklorico dei changelings è nelle parole della nutrice: «Invisible the fairy came: / Your precious babe is hence conveyed, / And in the place a changeling laid». Giorgetti: «una malvagia Fata / Sen venne qui, sotto invisibil forme; / E via portando il vostro amabil figlio, / Ne pose un altro assai diverso in cambio». Perifrasi in fondo accettabile, e che di estraneo all’originale ha solo l’aggettivo «malvagia» riferito alla «fata» (che traduce il più ampio sèma «fairy», ‘creatura fatata’). I due tratti maggiormente distintivi del changeling (la bruttezza e la scarsa intelligenza) sono comunque restituiti in modo abbastanza perspicuo: «See here a shocking awkward creature / That speaks a fool in every feature» diventa, rispettando una volta tanto l’unità metrica dell’originale, «Ecco quivi un fanciul defforme, e brutto, / Ch’è un vero sciocco in tutti i suoi sembianti». Anche la requisitoria finale del «folletto» («pigmy sprite», letteralmente ‘spirito pigmeo’), che seccato dai discorsi delle due donne spunta fuori dal buco della serratura e salta sulla culla, è resa 34 tradurre il folklore passando per la letteratura piuttosto efficacemente. Ed è dal suo appassionato discorso che si coglie la complessità del significato di The Mother, The Nurse, and the Fairy: non solo una facile satira dell’incapacità che i genitori hanno di vedere i difetti dei propri figli, ma anche, a veder bene, una critica alla superstizione popolare, che affida la spiegazione della malattia psichica o della deformità fisica a cause soprannaturali e magiche. Siamo, come si vede, agli antipodi della futura nobilitazione romantica del Volksgeist e dalla riscoperta del folklore da parte dei fratelli Grimm con i quali avevamo iniziato il nostro discorso. 4. Una proposta (per concludere): Pirandello e il «figlio cambiato» Il compito della traduttologia non è solo quello di evidenziare i problemi o di sottolineare, quando è necessario, errori (e omissioni) ma anche, e forse soprattutto, proporre alternative valide e utili. Nel nostro caso il problema è essenzialmente quello di individuare un traducente che non si limiti a spiegare la natura del referente, ma che possa suggerire al lettore anche una vaga idea delle connotazioni semantiche (folkloriche e letterarie) in gioco. Ora, della difficoltà di tradurre un concetto del tutto estraneo alla tradizione popolare italiana (o diciamo meglio: peninsulare), era ben conscio uno scrittore attento alla lingua e ai dialetti come Luigi Pirandello, che più o meno un secolo fa, dovendo rendere in italiano il termine dialettale canciatu, scelse la perifrasi «figlio cambiato». Sui motivi (ancora oggi piuttosto oscuri) per cui la Sicilia sia stata una delle poche isole linguistiche d’Italia dove una leggenda così tipicamente «nordeuropea» risulti ben attestata nel folklore non dirò nulla, rinviando il lettore curioso al mio libro. Per noi, adesso, è più importante sottolineare (al netto delle ovvie considerazioni ecotipiche sugli elementi che caratterizzano la credenza in area siciliana) come canciatu, e ancor più canciateddu14, siano 14 G. Pitré, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol. IV, Libreria Pedone Lauriel, Palermo, 889, pp. 153-177. 35 riccardo castellana equivalenti semantici pressoché perfetti di changeling, dei quali condivide la radice mentre il suffisso -ing ha l’identico valore diminutivo (come in duckling, ‘anatroccolo’, o foundling, ‘trovatello’) dell’italiano -ello. Ma mantenere il termine dialettale (magari in corsivo, come fa Verga, a volte, nei Malavoglia) in un testo narrativo in lingua avrebbe comportato grossi equivoci, rinviando a un orizzonte di tipo naturalista che era molto lontano dalle concezioni estetiche del modernista Pirandello. E allora, quando nel 1923 riscrive una vecchia novella di vent’anni prima intitolata Le nonne (1902), ne muta il titolo in Il figlio cambiato, così da tematizzare non più l’agente (le nonne, o donne, vale a dire i «donni di fuora», cioè le fate della tradizione folklorica siciliana), ma l’oggetto della sostituzione magica, quel bambino brutto e malato che Sara Longo crede, appunto, frutto di uno scambio magico. Quelle brave comari erano ancora cosi tutte accorate e atterrite, che del mio sbalordimento e della mia indignazione s’offesero. Mi gridarono in faccia, come se volessero aggredirmi, che esse, alle urla, erano accorse alla casa della Longo, mezz’ignude come si trovavano, e avevano visto, visto coi loro occhi il bambino cambiato, ancora là sul mattonato della stanza, ai piedi del letto. Quello della Longo era bianco come il latte, biondo come l’oro, un Gesù Bambino; e questo invece, nero, nero come il fegato e brutto, più brutto d’uno scimmiotto. E avevano saputo il fatto, com’era stato, dalla stessa madre, che se ne strappava ancora i capelli: cioè, che aveva sentito come un pianto nel sonno e s’era svegliata; aveva steso un braccio sul letto in cerca del figlio e non l’aveva trovato; s’era allora precipitata dal letto, e acceso il lume, aveva veduto là per terra, invece del suo bambino, quel mostriciattolo, che l’orrore e il ribrezzo le avevano perfino impedito di toccare. […] Era dunque chiaro che le «Donne» erano entrate in casa della Longo, nella notte, e le avevano cambiato il figlio, prendendosi il bambino bello e lasciandogliene uno brutto per farle dispetto15. 15 L. Pirandello, Il figlio cambiato, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, vol. II, tomo 1, Mondadori, Milano 1987, pp. 496-501. 36 tradurre il folklore passando per la letteratura A questo punto si sarà capito cosa voglio proporre ai futuri traduttori di Spenser, di Shakespeare, di Gay e di Hoffman. L’espressione «figlio cambiato» offre più di un vantaggio rispetto a «trovatello», «mostriciattolo» e simili: traduce perfettamente il termine tecnico changeling; possiede un certo grado di ambiguità semantica, di cui probabilmente Pirandello era consapevole e che arricchisce le armoniche del testo letterario («cambiato» non significa ovviamente solo ‘scambiato’ ma anche ‘mutato nel tempo’); gode dell’autorità di un grande autore moderno e, per finire, mantiene sufficientemente visibile, per il tramite della novella e del dramma che ne sarà tratto nel 1933 (La favola del figlio cambiato), il filo che collega quell’espressione all’immaginario popolare. 37 Andrea Landolfi Rivedersi dopo trent’anni. Appunti di un traduttore alle prese con se stesso L’eterno dibattito sul tradurre, sulle ragioni e sui modi di questa pratica, negli ultimi decenni va assumendo toni vagamente surreali. Se da una parte, infatti, gli studi vòlti ad attribuire alla traduzione uno statuto scientifico, elevandola a disciplina accademica, sono entrati nel sentire comune1, dall’altra sembra sempre più allontanarsi, fuori dagli ambiti specialistici, il riconoscimento del traduttore letterario non dico come co-autore dell’opera, ma anche, più modestamente, come artefice di un prodotto dotato di un valore culturale oltre che commerciale. Questa mancata considerazione credo dipenda in buona parte da un atteggiamento che, ormai diffuso ovunque, nel nostro Paese ha assunto una valenza ulteriore che definirei efficientistico-mediatica – molto simile a quella, per intenderci, che in questi anni vediamo all’opera nella direzione e nell’indirizzo delle nostre università. Parlo del malinteso per cui il prodotto, qualsiasi prodotto, per «vendere bene» debba essere facile da usare, pratico e soprattutto economicamente remunerativo a brevissimo termine. Più proni di altri a questa grande mistificazione, gli editori italiani, sempre più frettolosi nel trattare il prodotto libro, considerato ormai residuale rispetto ad altri media più redditizi, da una parte ripropongono vecchie traduzioni presenti in catalogo senza minimamente curarsi della loro «tenuta» a distanza di trenta, quaranta o addirittura cinquant’anni; dall’altra tendono sempre più a «denaturare» le nuove traduzioni, privilegiando e sostenendo, rispetto a quelle d’autore, quelle «redazionali», ovvero quelle sottoposte, dall’editor e non solo, 1 Si pensi alla vasta diffusione dei lavori di A. Berman, L. Venuti, U. Eco, G. Steiner, ecc. andrea landolfi a un pervicace processo di adattamento e normalizzazione al fine di garantirne la fruibilità da parte di un pubblico sempre meno avvezzo alla complessità. Senza entrare nel merito dell’evidente circolo vizioso che viene così a crearsi, per il quale proprio perché sempre meno esercitato il lettore perde progressivamente il gusto e la capacità di misurarsi con testi non necessariamente piani e scorrevoli, potrà essere forse di qualche interesse in questo contesto il resoconto di un’esperienza personale che costituisce, mi pare, una felice eccezione a una prassi editoriale che sta tristemente diventando regola. Nel 2014 cadeva il centenario di Gregor von Rezzori, lo scrittore che Claudio Magris, nel suo celebre libro sul mito absburgico, ha consacrato come l’ultimo esponente di quella grande stagione della letteratura mitteleuropea. Per celebrare la ricorrenza qui in Italia, dove Rezzori aveva trascorso felicemente gli ultimi trent’anni della sua lunga vita (è morto nel 1998 a Donnini, a pochi chilometri da Firenze), l’attivissima vedova, Beatrice Monti della Corte, che in sua memoria ha fondato e dirige il «Premio Gregor von Rezzori – Città di Firenze», propose a Bompiani di ripubblicare il romanzo più ambizioso e imponente dello scrittore, La morte di mio fratello Abele, pubblicato per la prima volta in Germania nel 1976 e qui da noi nel 1988, dalle Edizioni Studio Tesi, nella mia traduzione2. La grande casa milanese ha dunque riacquistato i diritti di pubblicazione e si è rivolta a me per la cessione dei diritti di traduzione, che nel frattempo, trascorsi vent’anni, erano tornati di mia proprietà. Di là dall’esiguità dell’offerta economica, il dato più sconcertante di quella proposta è stato la totale noncuranza con cui l’editore si apprestava a ripubblicare il testo così com’era, salvo mie correzioni, da apportare direttamente in bozza, di eventuali refusi. È stata necessaria una lunga e difficile trattativa per convincere i miei referenti di una verità che per noi traduttori è un luogo comune, e per un editore dovrebbe essere una regola aurea: e cioè che le traduzioni invecchiano, e che dopo quasi trent’anni era impensabile riproporre 2 Ci si riferisce rispettivamente a: C. Magris, Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, Einaudi, Torino 1963, in particolare le pp. 317-328; G. von Rezzori, Der Tod meines Bruders Abel, Bertelsmann, München 1976 e Heyne, München 1983; G. v. R., La morte di mio fratello Abele, trad. it. di A. Landolfi, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1988 e, recentemente, Bompiani, Milano 2014. 40 appunti di un traduttore alle prese con se stesso la traduzione di un’opera – tra l’altro, come si vedrà, estremamente complessa – senza sottoporla a un minuzioso lavoro di revisione. Alla fine ho spuntato dalla Bompiani tre mesi di tempo, il vecchio testo riversato in word, l’assistenza di un bravissimo redattore, Marco Piani, e un compenso poco più che simbolico. Ha avuto inizio così un’esperienza traduttiva che forse vale la pena raccontare per almeno tre ordini di motivi: 1. La morte di mio fratello Abele è un’opera per sua stessa natura, oltre che per volontà del suo autore, estremamente «aperta», e quindi suscettibile di interventi anche da parte del traduttore; 2. La versione del 1988 è stata condotta dal traduttore in stretto contatto con l’autore; 3. Il traduttore di cui rivedo l’opera dopo trent’anni sono io stesso. Scritto sulla base di una massa eterogenea di appunti che hanno accompagnato l’autore per decenni, Der Tod meines Bruders Abel narra la storia di uno scrittore che nel 1968, a Parigi, vorrebbe scrivere il romanzo della sua generazione – anche lui sulla base di una massa eterogenea di appunti che lo accompagnano da decenni –, ne è continuamente distolto dalla inafferrabilità e incontenibilità del mondo uscito dalla tragedia delle due guerre mondiali, e proprio nel dar voce alla propria impotenza scrive, di fatto, il romanzo che andiamo leggendo. Lungo un arco temporale che va dal 1918 al 1968 la storia e le storie del protagonista si dipanano sfiorando e incrociando persone, eventi e città che hanno costituito l’essenza dell’Europa al tramonto, quell’attimo immobile prima del sacrificio della sua aura e della sua forma a ciò che Rezzori chiama il moderno americanismo. Di questa perdita, sentita e sofferta come irrimediabile tanto dall’autore quanto dal suo protagonista, il romanzo accetta di farsi carico, riflettendola in sé nella contaminazione degli stili e nella frantumazione della forma. Sostanzialmente ignorato in Germania a causa di un antico pregiudizio della critica di lingua tedesca nei confronti dello scrittore e dell’uomo Rezzori, il romanzo ha avuto una vicenda editoriale che dice molto, oltre che sul suo autore, sulla natura stessa del libro. Nella postfazione all’edizione Bompiani del 2014 io stesso ho scritto: Del romanzo esistono infatti almeno quattro «prove d’autore»: oltre alla prima edizione tedesca, del 1976, vi è quella del 1983, 41 andrea landolfi profondamente modificata rispetto alla prima e già – come risulta da appunti inediti – «pensata» per la futura versione italiana; segue, nel 1985, la traduzione americana, che l’autore ha personalmente rivisto, tagliando e spostando frasi e blocchi di testo. Nel 1986, infine, ha inizio il mio lavoro sulla versione italiana, che culmina, nell’estate 1988, in un lavoro di revisione, condotto assieme all’autore, che oltre alla mia traduzione finisce per coinvolgere lo stesso originale, in un confronto serrato tra autore e traduttore vòlto ad adattare il testo al pubblico italiano ma anche a ripensarlo continuamente e, insomma, a considerarlo un organismo vivo, suscettibile di continue modificazioni3. Poter lavorare in stretto contatto con l’autore che si sta traducendo è il sogno di ogni traduttore. Per me l’estate del 1988, trascorsa con Rezzori a rileggere le settecento e più pagine della mia traduzione e spesso dello stesso originale, ha rappresentato un’esperienza formativa di prim’ordine, che, tuttavia, è giusto oggi analizzare in tutte le sue implicazioni. Rezzori parlava un bellissimo italiano costellato di piccole imprecisioni, alcune volute (‘politicante’ invece di ‘politico’, ‘credulente’, con chiaro richiamo a ‘credulone’, invece di ‘credente’, ecc.), altre no; viceversa non scriveva bene nella nostra lingua, cosa che gli dispiaceva. Era comunque perfettamente in grado di «sentire» l’italiano di una traduzione, e di verificarne passo passo la tenuta, la qualità della resa, il nitore o viceversa l’oscurità nel rendere un passaggio scabroso. Il traduttore, allora molto giovane, ha accolto correzioni e rilievi sacrosanti, e spesso, per soggezione, anche interventi errati, dovuti ora a difetto di conoscenza dell’italiano, ora a decisioni estemporanee («sì, la traduzione è corretta, ma io in realtà qui volevo dire un’altra cosa…»), a capricci, a idiosincrasie (ricordo la dura battaglia, vinta in quel caso, per mantenere il termine ‘agnizione’). Ma è anche capitato, l’ho raccontato altrove, che si sia discusso animatamente su una frase e sull’interpretazione da darle, e che la traduzione, a tutta prima rifiutata, sia stata poi dall’autore recuperata e Cfr. A. Landolfi, Novecento mon amour. Rezzori, l’Abele e la forma impazzita, in G. von Rezzori, La morte di mio fratello Abele, a cura di A. Landolfi, Bompiani, Milano 2014, p. 744. 3 42 appunti di un traduttore alle prese con se stesso accolta come «più autentica» rispetto allo stesso originale… Già da questi pochi accenni mi sembrano segnalarsi alcuni aspetti importanti: l’estrema apertura dell’autore nei confronti di sollecitazioni, suggerimenti e addirittura correzioni proposte dal traduttore; la mancanza di qualsiasi «gelosia» autoriale, per cui il testo non è stabilito una volta per tutte ma è suscettibile di interventi vari in funzione del contesto di arrivo (i vari paesi di destinazione) e non solo; la collaborazione fruttuosa tra autore e traduttore, ma anche, di converso, la «debolezza» del giovane, una certa sua sopravvalutazione delle cognizioni dello scrittore anche in ambiti a costui non familiari (la lingua italiana e i suoi usi grafici, la preparazione storico-politica, storicoartistica, filosofico-letteraria del lettore italiano, la sua capacità di orientarsi nel patrimonio mitologicofiabesco dell’Europa centrale di sessant’anni prima, ecc.). Trascorrono ventisei anni. In questo tempo chi scrive compie un suo percorso di docente universitario e di traduttore, si volge ovviamente ad altri autori ma continua a tradurre e curare diverse opere dell’amico scrittore, alcune ancora con il conforto dell’autore, altre, la maggior parte, dopo la sua morte. Il ritorno all’Abele, alla prima traduzione «importante», oltre a innescare una riflessione, come si è visto, abbastanza sconsolata sul tradurre, come direbbe Hölderlin, «in dürftiger Zeit», in tempi di privazione, induce nel revisore di se stesso un curioso processo di sdoppiamento e di pseudoidentificazione: da una parte, infatti, egli si appresta a rivedere le pagine del se stesso trentenne con un certo sussiego da traduttore e germanista esperto, pronto a cassare ogni incertezza, ogni ingenuità del giovane; dall’altra ritrova l’autore, allora non molto più vecchio di quanto non sia lui stesso oggi, ed entra con lui in una sintonia tutt’affatto diversa da quella, all’insegna della devozione, di ventisei anni prima. Oggi gli sembra di comprendere il suo autore molto meglio di prima, di intrattenere con lui un rapporto finalmente paritario, da uomo maturo a uomo maturo, da intellettuale a intellettuale, anzi: da studioso ritiene ormai di conoscere lo scrittore Gregor von Rezzori molto più dello stesso Rezzori. Così il traduttore-revisore-di-se-stesso si pone al lavoro tenendo ben presenti alcuni punti, per così dire, preliminari, e cioè: 43 andrea landolfi 1. Autonomia. Con l’età ha acquisito maggiore esperienza, più alta consapevolezza linguistica, più coraggio. Questo comporta, per prima cosa, una radicale revisione della punteggiatura: trattini, due punti, a capo, parentesi, ecc., che nell’edizione del 1988 avevano seguito pedissequamente i «criteri» (spesso dovuti a ghiribizzi estemporanei dell’autore, non di rado diversi da un’edizione all’altra, a volte dovuti evidentemente a interventi redazionali imprecisi e arbitrari, ecc.) dell’originale tedesco, vengono decisamente normalizzati e orientati sugli usi italiani. Ma maggiore libertà consente anche di poter tornare sui propri passi nella traduzione di un termine squisitamente rezzoriano, che non pochi grattacapi ha causato a traduttori, lettori e interpreti: Epochenverschleppung. Il termine significa, letteralmente, l’atto di trascinare faticosamente con sé, verschleppen, le epoche trascorse; secondo la definizione che ne ha dato il suo creatore, si tratta della «anacronistica sovrapposizione di elementi di realtà, che appartengono specificamente a un’epoca trascorsa, in quella successiva»4; in un primo tempo il giovane traduttore aveva tradotto il termine con la locuzione «differimento epocale», ma si era scontrato con uno dei pochissimi veti imposti dallo scrittore, al quale l’espressione ricordava irresistibilmente il differenziale, un dispositivo delle automobili che credo oggi non esista più. Alla fine si era optato per il più neutro «strascico del passato», accettato dal traduttore a malincuore e con il sottaciuto proponimento di ripristinare la propria versione non appena se ne fosse data l’occasione. E l’occasione si diede anni dopo, morto ormai l’autore, quando si trattò di tradurre il termine in altre sue opere e di analizzarlo in alcuni lavori scientifici. Sarebbe stato dunque naturale che, rivedendo l’Abele, io ripristinassi anche lì quel mio «differimento epocale» ormai entrato a pieno titolo, in Italia, nella terminologia rezzoriana. Sennonché, rileggendo e rivedendo, quel termine mi suonava sempre più estraneo e artificioso, così poco vitale, così freddo e teorico. Alla fine ho lasciato, con Rezzori, «strascico del passato», concedendomi soltanto di alleggerire la traduzione di Epochenverschlepper, ‘strascinatore del passato’, 4 Cfr. G. von Rezzori, Sulle mie tracce, a cura di A. Landolfi, Guanda, Parma 2008, p. 14. 44 appunti di un traduttore alle prese con se stesso sostituendola con l’assai più colloquiale ‘strascicapassato’, che al Nostro sarebbe certamente piaciuto. 2. Rapporto con l’autore. Il traduttore-revisore non può più confrontarsi con l’autore in carne e ossa, ma a torto o a ragione è convinto di operare nello spirito e nei modi di lui, anche perché, in questi anni, ha avuto l’occasione di ordinarne il lascito, e quindi di compulsare l’immensa mole di appunti relativi al romanzo e alla sua continuazione5. Questa conoscenza diretta e pressoché esclusiva dei materiali gli dà agio di ‘tradire’ qua e là il testo alleggerendo la traduzione ogniqualvolta abbia la sensazione che lo scrittore, per noncuranza o stanchezza, si stia ripetendo o, peggio ancora, perdendo. Filologicamente esecrabile, questa pratica il revisore l’ha appresa, a suo tempo, dallo stesso autore, che lo incoraggiava a suggerire lui stesso piccoli tagli, ma anche inserti, funzionali all’edizione italiana. Nel corso della revisione, tuttavia, non ho operato dei veri e propri tagli, limitandomi a eliminare non più di una trentina di ridondanze6; in alcuni casi, poi, giovandomi della regola aurea del mettere e levare, mi sono permesso qualche piccolo aggiustamento7, sempre, va da sé, attingendo al patrimonio lessicale dell’autore, mentre solo Prima di morire Rezzori stava lavorando alacremente a una sorta di «continuazione» dell’Abele : pubblicato postumo con il titolo Kain. Das letzte Manuskript (Bertelsmann, München 2001) l’interessantissimo torso si connota in realtà più come una variazione che non come una continuazione del grande romanzo; la versione italiana, a cura di chi scrive, uscirà da Bompiani nella primavera del 2016. 6 Già nella versione del 1988 avevo sfoltito, se così si può dire, una forte tendenza dell’autore alla formularità: nel brano riportato più avanti avevo per esempio eliminato, sembrandomi fuori luogo in quel punto, un tic del protagonista che quasi sempre, rivolgendosi al suo interlocutore americano, in modo caricaturale pronuncia Parigi «Pèrris» (in tedesco è Paris, pronunciato «Parìs»), e allo stesso modo avevo evitato di ripetere l’immagine vagamente ossessiva dello zio Ferdinand come «un gigantesco gallo». Nella revisione del 2014 ho ulteriormente «asciugato» il testo, consapevole che la lingua italiana tollera assai meno della tedesca le ripetizioni. 7 Ne è un esempio il passaggio, circa alla metà del brano riportato più avanti, che recita: «quel corredo di vita piccoloborghese», divenuto nella nuova edizione: «il loro trepido corredo piccoloborghese»; nell’originale si parlava, letteralmente, di «dote (Morgengabe) dell’animato (beseelt, qui nel senso di ‘pieno di anima’) mondo dei borghesucci». Il mio ‘trepido’ è dunque il risultato di un recupero di beseelt unito a una piccola forzatura del suo significato. 5 45 andrea landolfi a lavoro ultimato mi sono accorto di avere smussato alcune espressioni «forti» che pure a suo tempo erano piaciute a Rezzori ma che effettivamente non corrispondono ai termini usati nell’originale (il volgare ‘coglioni’ l’ho sostituito con il più neutro ‘palle’, il dialettale ‘torzo’ con l’italiano ‘gonzo’, ecc.). 3. Rapporto con l’opera. Proprio perché il romanzo si pone, di fatto, come una struttura «aperta», più e più volte modificata dal suo autore (da solo e/o con i vari editor, redattori, traduttori, revisori, ecc.) e suscettibile di ulteriori interventi (da parte di analoghe figure), il revisore ha dovuto tenere conto dell’evoluzione della lingua e ha dovuto, di conseguenza, «aggiornare» il proprio testo, oltre che normalizzandolo (eliminazione della d eufonica, riduzione drastica del soggetto pronominale, ecc.), sostituendo locuzioni divenute desuete con altre più attuali (così la ‘stazione di servizio’ è diventata ‘area di servizio’, molti ‘uomini’ si sono mutati in ‘maschi’, parecchi ‘egli’ in ‘lui’, ‘essa’ in ‘lei’, ‘essi’ in ‘loro’, ecc.). Ho dovuto, insomma, fare il contrario di quel che facevano un tempo i traduttori: invece di tentare di dare al testo una pàtina anni Settanta, sono ricorso senza paura a espressioni della nostra attualità, nel segno di quel procedimento in progress che ha permesso a Rezzori di andare oltre il vincolo del copyright prima ancora dell’avvento della cosiddetta èra digitale. Infine, vorrei aggiungere ancora un’ultima riflessione sul tema della revisione. Rivedere una traduzione, propria o altrui, può essere un lavoro ingrato (economicamente lo è comunque), ma può rivelarsi anche una stimolante occasione di conoscenza e di approfondimento. Così come i Karamazov dei diciassett’anni sono gli stessi e insieme sono completamente diversi da quelli dei trenta e poi dei cinquant’anni, anche le traduzioni e i traduttori hanno i loro tempi, le loro occasioni, le loro storie irripetibili. Accanto al rigore e alla precisione credo dunque sia necessaria, per ben rivedere, un’attitudine rispettosa e indulgente, aperta all’ascolto del testo e dei suoi richiami, alle sue – non sempre immediatamente riconoscibili – ragioni profonde. È bene che una parte della devozione dovuta all’originale il revisore la dirotti sulla traduzione. Perché – noi lo sappiamo – anche il traduttore è autore dell’opera. 46 appunti di un traduttore alle prese con se stesso La morte di mio fratello Abele * [1988] … Di nuovo non ho che da ricorrere a qualche dozzina di lettere, e lui già guizza sulla lustra superficie convessa del samovar, si ritira nella strozzatura al di sotto della pancia di esso, si allunga come un telescopio sulle sue gambette sottilissime, è catturato e orribilmente compresso dall’anello posto al di sopra del piede del samovar, vi corre intorno, sfinato come un serpente, e si versa, come divenuto liquido, sulla base del fornelletto – e si allontana dal tavolino da tè: ha arraffato il suo panino al crescione il pasticcio di funghi la torta di ribes il sandwich al cetriolo e di nuovo cammina impettito per i giorni della mia infanzia – e nell’argenteria del tavolino da tè, come la sua ombra si allontana, torna a sbocciare cento volte, in cento stelle splendenti, la primavera, che fuori dalla finestra aleggia nell’aria, azzurra e piena di promesse tormentose. È la luce primaverile della dolce essenza della mia metà perduta. Nem- meno gli anni della mia formazione a Vienna presso zio Helmuth [2014] … Di nuovo non ho che da ricorrere a qualche dozzina di lettere, e lui già guizza sulla lustra superficie convessa del samovar, si ritira nella strozzatura al di sotto della pancia, si allunga come un telescopio sulle gambette sottilissime, è catturato e orribilmente compresso dall’anello posto subito al di sopra della base, vi corre intorno, sfinato come un serpente, e infine si versa, come divenuto liquido, sulla base del fornelletto. Ora si allontana dal tavolino da tè: ha arraffato il suo panino al crescione il pasticcio di funghi la torta di ribes il sandwich al cetriolo e di nuovo cammina impettito per i giorni della mia infanzia; non appena la sua ombra si allontana, nell’argenteria del tavolino da tè torna a sbocciare cento volte, in cento stelle splendenti, la primavera, che fuori dalla finestra aleggia nell’aria, azzurra e piena di promesse tormentose: è la luce primaverile della dolce essenza della mia metà perduta. Nemmeno gli anni della mia formazione a Vienna presso zio * La breve sezione di testo che si è scelto di offrire a margine di questo intervento vale come esempio del metodo di lavoro adottato e descritto in queste pagine. Si è ricorso al neretto per aiutare il lettore nell’individuazione delle differenze tra la versione del 1988 e quella del 2014, e sempre per comodità di chi legge si è deciso di porre il testo originale a seguire. 47 andrea landolfi zia Hertha zia Selma più il cugino Wolfgang, quel corredo di vita piccoloborghese, sono riusciti a spegnerla. Il grigio cupo di quei quattordici anni fu ancora tutto foderato di essa – come la nebbia di ieri (o l’altro ieri? O quante notti e giorni fa?), nella quale ho camminato da Place des Ternes fino a «Calvet» sul Boulevard Saint Germain, per incontrarLa. Non mi prenda per un matto da ricoverare se Le ripeto in modo maniacale che era la luce della vecchia Europa – dietro la nebbia, anche qui, a Parigi, nell’anno 1968. Trent’anni fa, nel marzo 1938, a Vienna, Austria, in un giorno di solstizio, quella stessa luce mi si è ghiacciata. La prima fase dell’èra glaciale si era iniziata. Anche la seconda è ormai passata da tempo. Ma il ghiaccio sembra non essersi ancora sciolto del tutto. Quanto ci vorrà ancora perché le nebbie si dissolvano? E sarà davvero la vecchia luce quella che finalmente risplenderà? Lei che crede? Helmuth zia Hertha zia Selma più il cugino Wolfgang, con tutto il loro trepido corredo piccoloborghese, sono riusciti a spegnerla. Il grigio cupo di quei quattordici anni fu ancora tutto foderato di lei – come la nebbia di ieri (o l’altro ieri? O quante notti e giorni fa?), nella quale ho camminato da Place des Ternes fino a ‘Calvet’ sul Boulevard Saint Germain, per incontrarLa. Non mi prenda per un matto da ricoverare se Le ripeto in modo maniacale che anche qui, a Parigi, nell’anno 1968, quella che trapelava da dietro la nebbia era la luce della vecchia Europa. Trent’anni fa, nel marzo 1938, a Vienna, Austria, in un giorno di solstizio, quella stessa luce mi si è ghiacciata. La prima fase dell’èra glaciale si era iniziata. Anche la seconda è ormai passata da tempo. Ma il ghiaccio sembra non essersi ancora sciolto del tutto. Quanto ci vorrà ancora perché le nebbie si dissolvano? E sarà davvero la vecchia luce quella che finalmente risplenderà? Lei che crede? G. von Rezzori, La morte di mio fratello Abele, trad. it. di A. Landolfi, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1988, pp. 280 s. G. von Rezzori, La morte di mio fratello Abele, a cura di A. Landolfi, Bompiani, Milano 2014, pp. 302 s. 48 appunti di un traduttore alle prese con se stesso Der Tod meines Bruders Abel … Ich brauche wieder nur einige Dutzend Buchstaben, und er huscht über die spiegelblanke Wölbung des Samowars, zieht sich in der Schnürung unter dessen Bauch zurück, schiebt sich dabei wie ein Teleskop in sein spindeldürres Beingestell ein, wird vom Ring über dem Samowarfuß aufgefangen und entsetzlich breitgezerrt, läuft, zur Schlange ausgezogen, flink darum herum und ergießt sich wie flüßig geworden in die Kegelbasis über der Flamme des Rechauds – und tritt vom Teetisch zurück: er hat sein Kressebrötchen Champignonpastetchen Johannisbeertörtchen oder Gurkensandwich ergattert und stolzt wieder als ein riesenhafter Gockel durch meinen Kindheitstag – und im Silber auf dem Teetisch geht, wie sein Schatten davon fortzieht, hundertmal in hundert Strahlensternen der Frühling wieder auf, der draußen vor dem Fenster blau und voll bedrängender Verheißung in den Lüften weht. Es ist das Frühlingslicht des süßen Kerns meiner verlorenen Lebenshälfte. Selbst meine Wiener Bildungsjahre bei Onkel Helmuth Tante Hertha Tante Selma plus Vetter Wolfgang als eine Morgengabe der beseelten Spießerwelt haben es nicht ausgelöscht. Das trübe Grau jener vierzehn Jahre war noch damit ausgefüttert – wie der Nebel gestern (vorgestern? oder vor wievielen Nächten und Tagen?), durch den ich von der Place des Ternes bis zu Calvet auf dem Boulevard Saint Germain gegangen bin, um Sie zu treffen. Halten Sie mich nicht für klinikreif verrückt, wenn ich manisch wiederhole, daß es das Licht des alten Europa war – hinter dem Nebel auch noch hier, in Pärris, Franx, im Jahre 1968. Vor dreißig Jahren, im März 1938, ist es mir in Wien, Austria, an einem Tag des Solstitiums eingefroren. Die erste Phase der Eiszeit hatte eingesetzt. Auch deren zweite ist nun längst vorüber. Aber das Eis scheint noch nicht gänzlich weggetaut zu sein. Wie lange dauert’s noch, bis die Dämpfe sich verzogen haben? Und wird’s dann wieder ganz das alte Licht sein, das endlich wieder durchbricht? Was glauben Sie? G. von Rezzori, Der Tod meines Bruders Abel, Heyne, München 1983, pp. 246 s. 49 Piera Sestini L’(im)possibile necessità di tradurre Virginia Woolf: esempi e raffronti Allo scopo di privilegiare la dimensione pragmatica del presente studio, delimiterò il campo di indagine a un solo romanzo, Mrs Dalloway, per esplorare così, attraverso esempi significativi, e mettendo a confronto sei trasposizioni di traduttrici italiane, alcuni nodi traduttivi. Si tratta di nodi che, talora, è pressoché impossibile sciogliere, talaltra, si possono districare solo ponendo estrema attenzione a contesto e co-testo. Difatti, prima di azzardare qualsiasi ipotesi interpretativa di un testo pluri-isotopo quale è quello letterario, sotteso da vari livelli di codificazione coimplicati, è bene possederne almeno una visione d’insieme1. Sappiamo tutti che per quanto riguarda la traduzione interlinguistica una sinonimia secca non esiste, e quindi nemmeno una reversibilità ideale, a meno che non si stia lavorando a un testo chiuso, ma non è certo questo il caso dell’opera letteraria2. È pertanto essenziale attuare una propria strategia traduttiva, nella quale vengano individuate una o più dominanti del corpus prescelto, in modo da stabilire quali aspetti siano da evidenziare e quali invece debbano confluire nella perdita di informazione, o residuo comunicativo3. Questa pratica è assai ragionevole, specialmente se il testo fonte è un romanzo complesso come quello che propon1 Per una specifica disamina del tema della letteralità nel tradurre, cfr. A. Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, Quodlibet, Macerata 2003. 2 Cfr. U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano 2003, p. 35 ss. 3 Cfr. B. Osimo, Manuale del traduttore, Hoepli, Milano 2004, p. 106. Piera Sestini go; sarebbe un obiettivo decisamente presuntuoso quello di voler riuscire a tradurre l’intera totalità del prototesto, senza tralasciarne la benché minima parte. A questo proposito, ci viene in aiuto anche Umberto Eco, laddove parla di traduzione come negoziazione, ovvero di traduzione vista come un procedimento che si basa su diverse congetture tra le quali verrà scelta quella più adatta «in quel contesto e in quel mondo possibile»4. Ora, in riferimento a Mrs Dalloway, vorrei mostrare come siano molti i segmenti del testo che non devono essere troppo addomesticati, per non interrompere la fitta rete di nuclei metaforicosimbolici che l’autrice tesse con grande maestria e che costituisce un’indicazione isotopica attraverso tutto il testo. Torniamo quindi al punto di partenza, all’imperativo imprescindibile: mai tradurre Virginia Woolf (ma non solo) senza operare prima l’analisi interna dell’opera, atta a evidenziare «come essa è fatta», il funzionamento e il significato degli elementi, la loro globale intratestualità. L’analisi intratestuale deve essere ovviamente sorretta e/o completata sia dall’intertestualità (mi riferisco soprattutto ad una intertestualità interna, incentrata fra un testo e altri testi della stessa autrice), sia dal riferimento degli elementi testuali ad adeguati codici storicoletterari; insomma, soltanto una complessa ricognizione del testo è in grado di decifrarlo, di farne emergere il senso globale e, quindi, di «aprirlo» alla traduzione. Veniamo dunque a quella dimensione pragmatica cui accennavo, esplicando tre punti, selezionati tra tanti altri, che possono anche sembrare a prima vista minimi, ma che sono invece un passpartout per una idonea decrittazione del testo fonte. Innanzitutto vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che ho usato, per riferirmi all’opera, la versione inglese del titolo, Mrs Dalloway, non La signora Dalloway – pur parlando di traduzione –, dal momento che ritengo errato tradurre il titolo con quella che sembrerebbe una sinonimia secca, ma non lo è; la stessa cosa vale per l’uso dell’appellativo Mrs nel corpo della traduzione5. Opterei U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, cit., p. 45. È infatti essenziale intraprendere quel «giuoco a informazione completa» in cui ogni mossa è strettamente correlata sia a quella precedente sia a quella successiva. 4 5 52 L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf quindi per l’uso reiterato di «Mrs Dalloway», attuando così una semplice trascrizione. Perché? Non sono dell’avviso che si debba agire sempre in questo modo, anzi esorto in genere i miei studenti a tradurre gli appellativi che hanno un equivalente nella lingua di arrivo (quindi sì per Mr, Mrs, Miss, no per Sir, Lord, ecc.). Diverso è il caso di Mrs Dalloway. Non tradurre questo titolo e i successivi utilizzi che vengono fatti dell’appellativo Mrs in riferimento al personaggio di Clarissa aiuta il lettore a comprendere l’universo linguistico e culturale del testo di origine6. Una delle istanze genetiche profonde di questo testo woolfiano è sicuramente la critica al sistema sociale, come palesano le parole che la stessa autrice annotò nel suo diario il 19 giugno 1923: «In this book I have almost too many ideas: I want to give life and death, sanity and insanity. I want to criticise the social system and to show it at work, at its most intense»7. Strettamente correlata alla critica al sistema sociale è la questione della posizione della donna nella società, un problema che coinvolse molto Virginia Woolf, la quale collaborò attivamente nel 1910 con le suffragette, allo scopo di eliminare, anche a livello politico, il ruolo subalterno della donna, una outsider in una società patriarcale. Alla luce di quanto detto sarà più facile comprendere che il titolo preannuncia uno dei temi centrali del romanzo. Nella comunicazione letteraria il titolo appartiene infatti, a pieno diritto, alla semantica del testo ed esercita un’azione orientativa sul lettore, indirizzandone le aspettative verso alcune sceneggiature o trame possibili8. In effetti, Mrs Dalloway è un titolo che costituisce una sorta di informazione cataforica o condensativa dell’intero messaggio che anticipa e al quale rinvia, richiamando anche illustri anteCfr. J. Levy (1967), La traduzione come processo decisionale, in S. Nergaard (a cura di), Teorie contemporanee della traduzione, Bompiani, Milano 1995. 6 In questo caso, inoltre, la decisione di non tradurre l’appellativo Mrs non ostacola la lettura al fruitore del testo, trattandosi di un elemento noto anche ai parlanti italofoni. 7 V. Woolf, The Diary, ed. by A.O. Bell, vol. II, Harcourt Brace & Company, New York-London 1978, p. 248. 8 Ovviamente, il testo può rovesciare le attese più ovvie ingenerate dal titolo, per esempio, evadendo dagli aspetti tradizionali del genere, o innovandolo, ecc. 53 Piera Sestini nati come Madame Bovary9. Mrs Dalloway sarà la storia di una donna marchiata con il solo cognome del marito, scontenta della propria vita, anzi depauperata della sua esistenza a favore di quella del marito? Sì, è in parte così (solo in parte, perché opera e protagonista sono pervase da una diffusa ambiguità), ma il lettore (e il traduttore) lo comprendono solo andando avanti con la lettura. Il personaggio entra in scena con il solo cognome, Mrs Dalloway. Sono queste le prime due parole che leggiamo nell’incipit, poi nel secondo paragrafo compare il nome, Clarissa, ma sempre accompagnato dal cognome del marito, Dalloway, che ricorre molto spesso nel testo. Il solo Clarissa è presente soprattutto quando il personaggio si perde nel suo flusso di coscienza e nel suo tempo interiore, acquisendo così questo segno, in relazione al referente, un valore supplementare, allusivo, evocativo, un sovrappiù di senso. Ma il momento davvero rivelatore, il moment of being che illumina non solo il personaggio ma anche chi legge (e chi traduce), arriva nelle prime pagine con un flusso di coscienza che esplicita appieno il senso cataforico del titolo. She had the oddest sense of being herself invisible; unseen; unknown; […] only this astonishing and rather solemn progress with the rest of them, up Bond Street, this being Mrs Dalloway; not even Clarissa any more; this being Mrs Richard Dalloway10. L’ultima parte dell’enunciato, «questo essere Mrs Dalloway; nemmeno più Clarissa; questo essere Mrs Richard Dalloway», non può che indurre il traduttore a serbare intatto l’appellativo inglese, rappresentando l’espressione «Mrs Richard Dalloway» quello che si definisce un elemento culturo-specifico. La signora Dalloway è, secondo l’uso inglese, la signora Richard (il nome del marito) Dalloway11. Il coefficiente d’intensità qui veicolato viene pertanto Titolo a volte tradotto con La signora Bovary. Virgina Woolf, Mrs Dalloway, Penguin Books, London 1992, p. 11. D’ora in poi tutte le citazioni si intendono tratte da questa edizione. Pertanto, il numero della pagina sarà indicato tra parentesi, a fianco della citazione medesima. 11 Per attivare un contatto che risulti davvero efficiente, il traduttore deve principalmente assicurarsi di «parlare la stessa lingua» dell’autore del testo di 9 10 54 L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf totalmente eliso nelle seguenti traduzioni (le sei versioni prese a campione sono messe a confronto senza voler eleggere la traduzione più fedele o la migliore, concetti scomparsi dalla traduttologia. Le traduzioni sono elencate in ordine di anno di pubblicazione)12: - A. Scalero: «essere la signora Dalloway, neppur più Clarissa; solo la moglie del signor Richard Dalloway» (Mondadori, 1946, riproposta senza modifiche nella collana «Meridiani», Mondadori, Milano 1989, p. 12). - N. Fusini: «e questo era essere la signora Dalloway, non più Clarissa, ma la moglie di Richard Dalloway» («Oscar Classici», Mondadori, Milano 2011, p. 10). -- N. Fusini: «e questo era essere la signora Dalloway, non più Clarissa, solo la signora Dalloway» (Feltrinelli, Milano 2013, p. 8) - A. Nadotti: «questo essere la signora Dalloway, neppure più Clarissa, solo la moglie di Richard Dalloway» (Einaudi, Torino 2012, p. 11). - M. Sestito: «questo essere la signora Dalloway; neanche più Clarissa; questo essere la moglie di Richard Dalloway» (Marsilio, Venezia 2012, p. 61). - B. Gambaccini: «e questo significava essere la signora Dalloway, non più Clarissa, ma semplicemente la moglie di Richard Dalloway» (Ed. Clandestine, Massa 2014, p.13) Si perde in queste versioni target-oriented la forte valenza ideologica e culturale della locuzione «this being Mrs Richard Dalloway», che colpisce personaggio e lettore (e il buon traduttore) come una sferzata. Inoltre, Scalero elimina del tutto l’enfasi espressa dall’iteratio del deittico this, attenuata da tutti gli altri, tranne, giustamenpartenza, in maniera tale da legittimare il proprio lavoro, oltre che rispettare un mondo che soltanto temporaneamente farà suo. Cfr. C. Taylor, Language to Language, CUP, Cambridge 1988, p. 41. 12 Segnalo che il titolo della traduzione a cura di P.F. Paolini (Newton Classici, Roma 2010) rimane immutato, come ritengo che debba essere, però in tutto il romanzo l’appellativo «Mrs Dalloway» viene tradotto con «la signora Dalloway», perdendo così il titolo la sua valenza di anticipazione fondamentale di un’importante istanza tematica. Difatti, il segmento in oggetto viene tradotto come segue: «poiché lei era la signora Dalloway, neppure più Clarissa, bensì la moglie di Richard Dalloway». 55 Piera Sestini te, Sestito; è infatti una sorta di epanalessi volta a meglio ‘situare’ l’enunciato, come a marcare ulteriormente la condizione privativa che opprime la donna. A questo proposito, «il lavoro di Marisa Sestito opta [sempre] per una resa decisamente orientata verso il testo di partenza della deissi»13, di contro all’italiano ‘quello’, che molti traduttori utilizzano «per privilegiare il fatto che la situazione dell’enunciazione è lontana dal lettore»14. Ma è opportuno scegliere l’autonomia del testo di arrivo, quando questo significa sacrificare la resa della cifra emblematica della tecnica modernista? Tornando al segmento del testo in oggetto, esso si volge dunque indietro, riprendendo unità intratestuali, ovvero elementi antecedenti, in primis il titolo, e assumendo così una netta valenza anaforica. Il rincorrersi di elementi anaforici e cataforici dà coerenza semantica al discorso, e crea sin da subito, dal titolo, una co-testualità diffusa che va messa in relazione con il contesto situazionale (vedi la situazione sociostorica dell’Inghilterra del primo dopoguerra e la posizione femminile), con altri testi dell’autrice, ecc., per avere un codice di riferimento su cui proiettare l’elemento da analizzare e tradurre. La critica al sistema patriarcale espressa in queste riflessioni viene sottolineata da E. Showalter nell’introduzione all’edizione Penguin di Mrs Dalloway del 1992, proprio ponendo in evidenza la ripresa dell’appellativo Mrs. Furthermore Mrs Dalloway demands our judgment of its heroine from the moment we encounter its eponymal title. By her emphatic use of «Mrs», Woolf draws our attention to the way in which the central woman character is socially defined by her marriage and masked by her marital signature15. Antonella Anedda, nella sua introduzione all’edizione Einaudi della versione italiana di Mrs Dalloway a cura di Anna Nadotti (2012), dilata la riflessione del personaggio: 13 M.G. Tonetto, Recensione a Virginia Woolf, La signora Dalloway, trad. it. M. Sestito, Marsilio Editori, Venezia 2012, in «Status Quaestionis», 3 (2012), p. 205. 14 Ivi, p. 206 15 E. Showalter, Introduction, in V. Woolf, Mrs Dalloway, Penguin Books, London 1992, pp. xi-xii 56 L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf Tuttavia quando Clarissa prova la «bizzarra sensazione di essere invisibile» credo che parli a nome di tutti, uomini, donne, perché considera noi, e lei per prima, degli spettri. La sua riflessione è ironica. Prende di mira non tanto il patriarcato e la soggezione femminile quanto l’inconsistenza dei nomi, la loro volatilità, il loro essere semplici suoni. Il nostro essere nulla16. In realtà, in più parti del testo la donna è, implicitamente o esplicitamente, presentata come appendice del marito, quasi senza identità. È questo il caso di Lady Bradshaw, un personaggio che sembra esistere solo per suffragare la teoria femminista secondo cui «The name of the husband is one of the strongest insignia of patriarcal power»17. Insomma, è evidente che il titolo e la continua ripresa anaforica del cognome costruiscono un personaggio intrappolato in un matrimonio convenzionale e nelle convenzioni sociali. Nulla toglie che vi sia in queste righe anche l’ironico ammiccamento a cui si riferisce A. Anedda, considerate la complessità e la ipersemantizzazione dei segni letterari18, ma di certo non possiamo ignorare o minimizzare gli indizi che rinviano alla critica relativa alla posizione femminile, se costruiamo una puntuale mappa di unità co-testuali, contestuali e intertestuali. Paradigmatico, in una sezione del testo che segue l’enunciato in questione, il lungo flusso di coscienza di Elizabeth Dalloway, la quale rifiuta la madre come modello femminile, sentendo che sarebbe infelice nel ruolo tradizionale della donna della sua classe, con le aspirazioni limitate al matrimonio, ai figli, ai party. È una donna moderna influenzata da alcuni mutamenti in atto nella società inglese postbellica. Questa unità co-testuale dà una chiave di lettura inequivocabile di Mrs Dalloway, suggerendo che le limitazioni della sua vita derivano da presupposti generali e da convenzioni sociali: la società (e quindi la donna) è mutata solo dopo la guerra. 16 A. Anedda, Che cos’è la realtà? E chi sono i giudici della realtà? in V. Woolf, La signora Dalloway, Einaudi, Torino 2012, p. VIII 17 J. Rose, The Haunting of Sylvia Plath, Virago, London 1991, p. 112. 18 Cfr. W. Empson, Sette tipi di ambiguità, Einaudi, Torino 1965. 57 Piera Sestini Per comprendere appieno la necessità di optare per una mera trascrizione del titolo, occorre infine ricordare che, come annotò la Woolf nel suo diario, esso fu scelto tra molte altre ipotesi, The Party, At Home, e The Hours, quest’ultimo molto significativo, vista l’importanza del tempo (o dei tempi) nel romanzo. Passiamo al secondo elemento che intendo esaminare a fini traduttivi, la ricorrenza dell’immagine del mare nel testo19. Già l’incipit contiene un riferimento al mare nella quarta frase: «And then, thought Clarissa Dalloway, what a morning – fresh as if issued to children on a beach». Questo pensiero fa scattare nella consciousness di Clarissa un moto interiore, un sentimento quasi infantile: «What a lark! What a plunge!» Seguono poi similitudini poetiche che insistono sui dati sensoriali dai quali parte il processo memoriale in maniera proustiana (mi riferisco alle immagini sinestetiche «like the flap of a wave»; «the kiss of a wave»). Ma è l’enfatica esclamazione «What a plunge» = «che tuffo», a meritare una particolare attenzione per non tradurre in maniera inappropriata alcuni segmenti essenziali del romanzo. Prima di tutto, vediamo come quelle versioni in cui non è ridotta al minimo la mediazione del traduttore non abbiano colto nel segno, cioè non abbiano fatto quello che un’analisi traduttologica corretta deve fare: costruire i modelli delle varie isotopie che caratterizzano il testo, in questo caso sul piano del contenuto (isotopie semantiche): -- A. Scalero: «Che voglia matta di saltare!» (p. 3)20. -- N. Fusini: «Che emozione! Che tuffo al cuore!» (Mondadori, p. 3). -- N. Fusini: «Che gioia! Che terrore!» (Feltrinelli, p. 1). -- A. Nadotti: «Che allegria! Che tuffo!» (p. 4). 19 V. Woolf e J. Joyce sono in effetti considerati dei veri e propri eredi della tradizione derivante dalla poesia simbolista francese. Il romanzo della Woolf in cui è maggiormente attivato il livello simbolico è sicuramente The Waves, ma anche in Mrs Dalloway ricorrono vari simboli, siano essi tropi convenzionali, interpretazioni figurali o comunque connotazioni metaforiche che dipendono da particolari sottocodici dell’autrice. 20 Si noti la drastica e infelice riduzione: le due esclamazioni del testo di partenza sono racchiuse in una sola nel testo di arrivo. 58 L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf -- M. Sestito: «Che bellezza! Che tuffo!» (p. 45). -- B. Gambaccini: «Quale emozione! Che batticuore!» (p. 5). Questa espressione emotiva, «Che tufffo», sottolineata dall’intonazione (segno diacritico dell’esclamazione) ha un valore prolettico, riferendosi a un significato più profondo che si appalesa a poco a poco nella lettura (intratestualità globale). Bisogna insomma, anche in questo caso, riconoscere un codice di riferimento e la pertinenza del rapporto tra questo elemento e quelli che seguono (co-testo, appunto). Le versioni di Nadotti e Sestito contengono l’esatta traduzione secondo la mia ipotesi interpretativa. Sappiamo infatti che il testo letterario comporta l’attuazione di un costante circolo ermeneutico fatto di congetture e verifiche. Secondo Greimas due o più elementi costituiscono un’indicazione isotopica quando sono semanticamente omogenei21. Ebbene, nella fattispecie l’iterazione di certe parole o locuzioni rinvia, come detto, al medesimo referente, il mare. Le immagini del mare diventano anche un mezzo attraverso il quale la protagonista, Mrs Dalloway, e il deuteragonista, Septimus Warren Smith, sono correlati. Il critico americano J. Hillis Miller ha suggerito che i due movimenti opposti del romanzo, il movimento ascendente (che culmina nel party) e il movimento discendente (che culmina, o meglio che declina, nella morte di Septimus), sono già implicitamente indicati attraverso le due esclamazioni «What a lark!» e «What a plunge!»22. Questa felice intuizione di Miller trova conferma se effettuiamo un’attenta analisi intratestuale. Prendiamo, a titolo esemplificativo, questo segmento del testo: «But this young man who had killed himself – had he plunged holding his treasure?» (p. 202). È evidente che il verbo to plunge che compare in questo pensiero di Mrs Dalloway formulato in stile indiretto libero vada tradotto alla lettera con il verbo tuffarsi. 21 Cfr. A.J. Greimas, Del Senso, Bompiani, Milano 1974, e, dello stesso autore, Del Senso 2: narrativa, modalità, passioni, Bompiani, Milano 1985. 22 J. Hillis Miller, Mrs Dalloway. Repetition as the Raising of the Dead, in Fiction and Repetition. Seven English Novels, Harvard University Press, Cambridge/ Massachusetts 1982, p. 183. 59 Piera Sestini Vediamo ora le traduzioni prese come campione per una valutazione comparativa: -- A. Scalero: «Ma quel giovane che si era ucciso - aveva fatto il gran passo tenendo stretti a sé i suoi tesori?» (p. 224). -- N. Fusini: «Ma quell’uomo giovane che s’era ucciso – s’era buttato tenendo stretto il suo tesoro?» (Mondadori, p. 170). -- N. Fusini: «Sì, quell’uomo giovane s’era ucciso – ma s’era buttato tenendo stretto il suo tesoro?» (Feltrinelli, pp.167168). -- A. Nadotti: «Ma quel giovane uomo che si era ucciso - si era buttato stringendo a sé il suo tesoro? » (p. 184). -- M. Sestito: «Ma questo giovane uomo che si era ucciso – si era buttato tenendo stretto il suo tesoro?» (p. 441). -- B. Gambaccini: «Ma quando quel giovane si era suicidato, aveva tenuto stretto a sé il suo tesoro?»23 (p. 196). Nessuna delle versioni italiane qui citate riporta il verbo «tuffarsi», che invece acquisisce grande pregnanza semantica in questo specifico contesto, tant’è che poche righe sopra, quando Mrs Dalloway riflette sul fatto che i Bradshaw hanno portato la morte nel suo party raccontando del giovane che si è ucciso, ricorda ciò che costoro hanno detto «He had thrown himself from a window». To throw oneself from è il verbo neutro che ode Mrs Dalloway quando viene descritto il suicidio di Septimus, ma non è quello che balena poi nella sua consciousness (to plunge, ecco ribadito il valore simbolico del mare, ed anche il link – uno dei link – tra Clarissa e Septimus). Poco più avanti, il punto focale è sempre Mrs Dalloway, che pone se stessa a confronto con Septimus; qui la morte è vista come l’annegare [in mare] = to sink: « Somehow it was her disaster – her disgrace. It was her punishment to see sink and disappear here a man, there a woman, in this profound darkness, and she forced to stand here in her evening dress» (p. 203). Anche in questo caso il segno linguistico che rinvia alla valenza simbolica del mare è stato tradotto con verbi che attenuano tale Si noti l’ellissi totale del verbo to plunge. 23 60 L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf rimando anaforico (e quello cataforico degli elementi precedenti, come il verbo to plunge o altri segmenti del testo), indebolendo la coerenza semantica del discorso. Queste le traduzioni: -- A. Scalero: «[…] veder scomparire qui un uomo, là una donna come ingoiati dalle tenebre […] » (p. 225). -- N. Fusini: «[...] veder sprofondare e scomparire in quel buio profondo ora un uomo, ora una donna […]» (Mondadori, p. 171; Feltrinelli, p. 168). -- A. Nadotti: «[…] veder sprofondare e sparire ora un uomo, ora una donna, in quelle tenebre fitte […]» (p. 185). -- M. Sestito: «[…] veder affondare e sparire qui un uomo, lì una donna, in questa profonda oscurità […]» (pp.442-443). -- B. Gambaccini: «[…] veder scomparire nelle tenebre ora un uomo, ora una donna […]» (p. 197). Il verbo annegare avrebbe rimandato inequivocabilmente al mare come simbolo di morte, al pari del testo fonte. A conferma della ripresa di elementi cataforici attraverso segni linguistici che sono, in una diffusa co-testualità, nel contempo anaforici e cataforici, si può notare che ancor prima Septimus stesso si vede come un marinaio che si espone al mare e affoga: «But he himself remained high on his rock, like a drowned sailor on a rock. I leant over the edge of the boat and fell down, he thought. I went under the sea» (p. 75). Le traduzioni comparate usano in questo caso i giusti traducenti, ma dati i mancati rimandi antecedenti e successivi, essi non acquisiscono la pregnanza che hanno le espressioni originali nel testo fonte. Il mare, dicevo, assume grande rilevanza simbolica in questo romanzo e, come tutti i simboli, è plurivalente: si associa ora alla morte (gli enunciati fin qui esaminati ne sono un chiaro esempio), ora alla vita, con il suo flusso e riflusso. Paradigmatico a questo riguardo il punto di vista di Peter Walsh, che vede il movimento della gente che si affaccenda per Londra come una Londra che si imbarca. Quindi il mare che simboleggia la vita frenetica della metropoli. E la Woolf utilizza per questa estesa similitudine 61 Piera Sestini termini marinari che le traduzioni esaminate riportano con varianti minime. Questo ci conferma che la ricorrenza di parole o locuzioni afferenti al campo semantico del mare non deve essere ignorata al momento della traduzione. Ne è ulteriore esempio l’utilizzo di termini correlati al mare per indicare l’assoggettamento di Lady Bradshaw alla volontà del marito: «[…] only the slow sinking, waterlogged, of her will into his» (p. 110). -- A. Scalero: «null’altro che il lento sommergere, quasi di una barca che fa acqua, entro la volontà del marito» (p. 120). -- N. Fusini: «solo l’affondare lento della volontà di lei in quella del marito, come fa una barca che si carica d’acqua» (Mondadori, p. 93; Feltrinelli, p.90). -- A. Nadotti: «solo un lento affondare, naufragare, della sua volontà in quella di lui» (p. 100). -- M. Sestito: «solo il lento affondare, imbarcando acqua, della sua volontà in quella di lui» (p. 257). -- B. Gambaccini: «il suo animo si era lentamente adagiato e sottomesso, quasi si trattasse di una barca su cui una falla lasciava lentamente entrare acqua, alla volontà del coniuge» (p. 106). Solo Fusini, Nadotti e Sestito traducono il verbo to sink senza addomesticamenti, con il diretto affondare (usato in altre parti del testo = ulteriore segno di una co-testualità ad ampio raggio). Proporrei: «solo il lento affondare della volontà di lei in quella di lui, come una nave che imbarca acqua», oppure la versione di Sestito, che evita una similitudine e un allungamento del testo fonte, contenente un’espressione ‘abbreviata’, una sorta di ben più incisiva descrizione metaforica. Questa immagine tragicomica che connota la posizione subalterna della donna ci riporta a quanto già detto a proposito del significato veicolato dall’alta ricorrenza dell’appellativo Mrs, quasi a intervalli regolari, a mo’ di martellante refrain, al pari dei rintocchi del Big Ben, seppur in altro ambito isotopico. Il terzo elemento che mi sembra possa illustrare in maniera inequivocabile l’(im)possibile necessità di tradurre Mrs Dalloway attiene in un certo senso al genere, o meglio alla prossimità dei generi. Azzarderei un’ipotesi interpretativa secondo cui la «fedeltà 62 L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf al ‘qui, ora’, che manifesta il tratto distintivo delle poetiche avanguardiste del Novecento: la questione del presente»24 include anche, ad un altro livello di analisi, l’individuazione di una mescolanza di comico-realistico. E allora, Mrs Dalloway non è anche una commedia sociale, dove la commedia e la tragedia si fondono e si mescolano con le relative codificazioni tematico-stilistiche, una sorta di satira che ha come oggetto la rappresentazione della realtà quotidiana (del presente, appunto) in uno dei suoi molti aspetti, ripeto, serio-comici?25 Ho già parlato della critica al sistema sociale che serpeggia nel testo woolfiano in riferimento alla posizione della donna, del suo nome che si disperde nel nome dell’altro, ma l’intento dell’autrice va oltre. A proposito di figure rappresentanti a vario titolo dello establishment decadente (per lo più uomini) la Woolf fa ricorso a sottili e composite strategie retorico-narrative, all’arma infallibile dell’ironia, esprimendo un concetto oltre i limiti della verosimiglianza. Ecco dunque il proliferare di aggettivi iperbolici quali majestic, magnificent e simili, declinati anche nella forma di avverbi, veri e propri stilemi attraverso cui la Woolf tratteggia tronfi personaggi. Paradigmatica a tal riguardo è la caratterizzazione di Lady Bruton, che, dopo quello che per lei è l’evento della giornata, ovvero scrivere un’insulsa lettera al Times con l’aiuto di Hugh Whitbread, deve ritirarsi nella sua stanza, distendersi sul sofà, sospirando assonnata e, epilogo inatteso, russando fragorosamente. And Lady Bruton went ponderously, majestically, up to her room, lay, one arm extended, on the sofa. She sighed, she snored, not that she was asleep, only drowsy and heavy, drowsy and heavy, like a field of clover in the sunshine this hot June day, with the bees going round and about and the yellow butterflies (p.122). M.G. Tonetto, Recensione, cit., p. 205. Assai significativo è l’atteggiamento snob della stessa Mrs Dalloway, cui è riservato nel testo un trattamento ironico da parte del narratore, come rivela il linguaggio affettato che ella adotta al party con persone dell’alta società quali Lord Gayton e Nancy Blow, due giovani tratteggiati in modo tale da apparire persone dotate di scarso acume. 24 25 63 Piera Sestini Ciò che il traduttore deve conservare intatto, in questo breve segmento narrativo, è la maestria con cui viene stigmatizzato un atteggiamento sociale: si costruisce l’enunciato secondo una sorta di crescendo o progressione ascendente, qualcosa di assimilabile al climax, che poi declina nell’anticlimax.26 Si evoca una scena da melodramma per un’azione di poco conto, a sottolineare l’ipocrisia, la finzione, la messa in scena operata dalla classe di appartenenza del personaggio, che sembra un poseur, un’attrice che recita su di un palcoscenico. Ecco dunque che la traduzione deve veicolare l’impronta caricaturale che ha questo ‘tipo’, questa sorta di maschera. Immaginiamoci la scena: la Lady che si distende sul sofà, posizionando ad arte il braccio, mentre l’atmosfera rievoca lo scenario sonnolento della natura romantica, il ronzio delle api, le farfalle che volteggiano, l’empatia con la natura… e lei che si mette a ronfare (anticlimax). Due, in particolare, sono le irriducibili difficoltà traduttive: la riproduzione dei suoni allitteranti, la paronomasia «sighed / snored», dove, in maniera davvero sapiente, il parallelismo fonico si riflette sul significato sottolineando il rapporto tra le parole, e le rime interne «drowsy and heavy», ripetute due volte, sempre per collegare il suono al significato, l’aspetto melodico a quello semantico. Quattro delle traduzioni qui comparate, per non appesantire il testo di arrivo, ricorrono, come fanno sovente i traduttori esperti, all’utilizzo degli aggettivi (pesante / greve / e maestoso). Gambaccini ricorre invece alla locuzione «con passo lento e maestoso». Solo Nadotti usa due avverbi («lentamente e maestosamente»), veicolando così anche il tratto prosodico, ovvero serbando la maggior durata dei suoni che l’avverbio comporta. Se letto ad alta voce, questo trasmette un’intonazione, un’intensità che sono qui imprescindibili per ironizzare sulla «greve» figura che sale «con incedere maestoso» le scale. Inoltre, la pregnanza semantica dell’avverbio 26 Assai ironico il rimando alla poesia romantica, al suo linguaggio, alla sua iconografia; fa parte della terminologia prettamente romantica, per esempio, l’aggettivo «drowsy» (si veda a tal proposito Ode to a Nightingale di J. Keats, 1820), così come le immagini delle api e delle farfalle contenute nella similitudine. 64 L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf «ponderously» è pressoché intraducibile, veicolando una cumulativa idea di pesantezza, goffaggine e lentezza. Hugh Whitbread viene ad un certo punto descritto in termini similari. A magnificent figure he cut too, pausing for a moment (as the sound of the half-hour died away) to look critically, magisterially, at socks and shoes; impeccable, substantial as if he beheld the world from a certain eminence, and dressed to match […] (p. 113). Procediamo alla comparazione: -- A. Scalero: «Fermatosi un istante, mentre il rintocco della mezza moriva, a scrutare calzini e scarpe con l’occhio critico del conoscitore, egli appariva veramente una bella figura: impeccabile, dignitoso, come se contemplasse il mondo dall’alto; vestito in modo inappuntabile» (pp. 123-124). -- N. Fusini: «Faceva proprio un’ottima figura, lì fermo (mentre il rintocco della mezz’ora si spegneva) a guardare con sguardo critico, da intenditore, scarpe e calzini; era impeccabile, solido, come se contemplasse il mondo da una certa altezza, sempre vestito con la consueta eleganza» (Mondadori, p. 95; Feltrinelli, p. 92). -- A. Nadotti: «Faceva anche una magnifica figura, lì fermo (mentre il rintocco della mezz’ora si affievoliva) a scrutare con occhio critico, da intenditore, calze e scarpe. Impeccabile, maestoso, come se contemplasse il mondo da una certa altezza, e vestisse di conseguenza» (p. 103). -- M. Sestito: «E poi faceva una gran bella figura, lì fermo per un attimo (mentre il suono della mezz’ora si spegneva) a guardare con l’autorevolezza dell’esperto scarpe e calzini; impeccabile, imponente, come se contemplasse il mondo da una certa altezza» (p. 263). -- B. Gambaccini: «Immobile, all’ultimo rintocco della mezza, scrutava calzini e scarpe con l’occhio critico del conoscitore ed appariva davvero bello, elegante, dignitoso, quasi fosse il mondo intero ch’egli, nel suo impeccabile abito, contemplasse dall’alto» ( p. 109). 65 Piera Sestini Nel tradurre questo breve segmento va prestata estrema attenzione alla scelta delle parole e alla loro combinazione. È evidente come l’ordine delle parole iniziali esprima enfasi, una sorta di elocutio esclamativa, iperbolica, esagerata, affettata, in relazione alle circostanze del discorso (un uomo che guarda in una vetrina calzini e scarpe). Nel leggere ad alta voce il passo, l’enfasi semantica si identificherebbe con un aumento di intensità della voce. Questa sottolineatura espressiva per marcare il concetto si può rendere nel testo di arrivo non dislocando diversamente l’ordine delle parole iniziali e mantenendo intatta la valenza iperbolica dell’aggettivo (Una magnifica figura egli faceva…). Nadotti e Sestito si avvicinano più di tutti ad una traduzione orientata verso il testo fonte, salvo che per aver effettuato un reordering, ricreando così una costruzione canonica che elide la marcata enfasi della costruzione inglese, operazione qui inopportuna, in quanto fa calare il tono della frase. Al fine di non scalfire il coefficiente d’intensità, anche i due avverbi, «critically» e «magisterially» dovrebbero avere come traducenti «criticamente» e «magistralmente», o al massimo «autorevolmente» (non «da intenditore» o «con l’occhio del conoscitore», né «con l’autorevolezza dell’esperto»), altrimenti l’ironia svanisce. E come fare con la punteggiatura, con quella virgola che crea una piccola suspense prima di rivelare l’oggetto di cotanto autorevole sguardo? Insomma, si mette in atto un falso crescendo, l’apparente costruzione del climax, che si esaurisce poi nella gradazione discendente dell’anticlimax (una magnifica figura egli faceva, fermo a scrutare criticamente, magistralmente… scarpe e calzini). Infine, vi è una unità polisemica, il sostantivo astratto «eminence», così evocativo e così difficile da tradurre: «come se contemplasse il mondo dall’alto/da una certa altezza» è ciò che riportano le traduzioni in esame; va anche bene, questo è grezzamente il senso, tutto sommato, ma «eminence» gioca sul duplice significato: da una posizione elevata (fisicamente elevata) e da una posizione di persona importante, quale Hugh crede di essere. Penso che qualunque traduzione (anche la meno addomesticata, come «posizione eminente») decreti un residuo comunicativo e non sia all’altezza dell’astratto eminence, che (se badiamo al co-testo) non può non 66 L’(im)possibile necessitÀ di tradurre virginia Woolf collegarsi alla size del personaggio, a cui si accenna in questo lungo periodo dalla struttura prevalentemente ipotattica. La questione di come tradurre i sostantivi astratti che funzionano egregiamente nella lingua di partenza, ma non trovano una sinonimia secca in quella di arrivo, si pone in più parti del testo. Esaminerò un breve passo a tal proposito per esemplificare ulteriormente una sorta di impasse traduttivo. Assai densa di significato è l’immagine dell’auto misteriosa che cela al suo interno qualche importante e non ben identificato personaggio; al passaggio di tale auto, che dopo aver percorso Bond Street, scivola via oltre Piccadilly, «[…] well-dressed men with their tail-coats […] perceived instinctively that greatness was passing, and the pale light of the immortal presence fell upon them as it had fallen upon Clarissa Dalloway» (pp. 19-20). Come tradurre greatness? -- A. Scalero: «[…] signori ben vestiti in tight […] istintivamente percepirono che passava un alto personaggio e il pallido riflesso li investì […]» (p. 22). -- N. Fusini: «[…] uomini ben vestiti, con tanto di tight […] ebbero d’istinto la percezione che stava passando un grande, e il pallido riflesso li investì […]» (Mondadori, p. 17; Feltrinelli, p. 1). -- A. Nadotti: «[…] uomini eleganti in tight […] intuirono che stava passando una persona eminente, e il pallido riflesso dell’immortale presenza li investì […]» ( p. 19). -- M. Sestito: «[…] uomini ben vestiti in tight […] percepirono istintivamente che stava passando la grandezza, e la fievole luce della presenza immortale cadde su di loro […]» (pp. 78-79). -- B. Gambaccini: «[…] uomini ben vestiti con tanto di tight […] ebbero d’istinto la percezione che stesse passando un grande; e il pallido riflesso della presenza immortale li travolse […]» (p. 21). Il narratore, ovviamente, si fa beffe dell’idea che la persona misteriosa possa essere la personificazione della greatness (grandezza, nobiltà, elevatezza), una persona regale, forse la stessa sovrana o un alto parlamentare (queste sono le congetture dei vari perso- 67 Piera Sestini naggi), ma usare il termine astratto greatness è assai più efficace, e la pregnanza semantica viene ribadita, anzi amplificata, definendo poi tale figura una immortal presence. Attraverso l’ironia, corroborata dall’iperbole, il narratore sta comunicando implicitamente al lettore che è più probabile che la persona misteriosa sia molto comune (per quanto titolata), come si rivela essere, in effetti, il Primo Ministro (il misterioso occupante dell’auto), che viene trattato con lo stesso rispetto esagerato quando, verso la fine del romanzo, fa la sua apparizione al party. Si attiva quindi una sorta di procedimento antifrastico: si vuole affermare l’esatto opposto di ciò che viene detto (rispetto esagerato vs persona di poco conto). Alla fine di questa analisi, ripropongo il quesito: come tradurre «greatness»? Tra le versioni comparate, direi che «un grande» si avvicina abbastanza al prototesto, pur essendo un’espressione target oriented, ma se lasciassimo l’astratto «la magnificenza», enfatizzandolo magari con «la stessa», o, ancor più prossimo al testo fonte, «la grandezza stessa»? Così ha fatto Sestito, in pratica. In tal modo ci discostiamo meno dall’originale, ma certo non se ne ottiene il medesimo effetto: i sostantivi astratti non hanno in italiano la stessa potenza evocativa e nel contempo la stessa concretezza, mi si perdoni l’ossimoro. Di nuovo una perdita. Ed è un vero peccato che vi sia un residuo comunicativo in riferimento all’immagine dell’auto, un essenziale simbolo del potere e della posizione sociale, per esempio in relazione a Sir Bradshaw, e soprattutto un oggetto che, osservato o ‘udito’ (vedi scoppio del motore) dai personaggi più disparati (incluso il folle Septimus), rappresenta un eccellente esempio di focalizzazione interna multipla e variabile nel contempo. Concludo richiamando l’attenzione sul fatto che qui la protagonista viene indicata con nome e cognome, ma senza l’appellativo Mrs. Un lieve affrancamento dalle pastoie patriarcali in questa passeggiata per Bond Street in cui di continuo Clarissa, sì, Clarissa, vive la sua vita soggettiva, tuffandosi nel mare della vita e della morte trasportata dai suoi flussi di coscienza. 68 Stefania Stefanelli Dal portoghese all’italiano: il caso di Eça de Queiroz* Un’esperienza che ritengo abbastanza comune tra gli studiosi, ma anche tra gli appassionati di scrittori stranieri, è quella di imbattersi a distanza di anni in traduzioni italiane del medesimo testo, che offrono al lettore soluzioni stilistiche e linguistiche anche notevolmente dissimili tra loro. I traduttori interpretano diversamente il testo? Oppure le differenze sono generate dai mutamenti che intervengono nel corso di alcuni decenni all’interno della lingua italiana? E, in questo caso, in che misura incidono questi mutamenti dell’italiano nella resa della prosa di un autore straniero? In realtà, non esistono risposte certe e univoche a queste domande anche perché le diverse variabili possono liberamente intrecciarsi tra loro e perché, comunque, la scelta di una variante stilistica, fermo restando il rispetto sostanziale del testo originale, è pur sempre nella facoltà del traduttore. Sono, queste, le domande dalle quali ha preso le mosse anche la mia analisi delle traduzioni italiane di un racconto del grande scrittore portoghese José Maria Eça de Queiroz, e cioè «quel piccolo capolavoro» (per dirla con le parole di Ugo Serani) che è José Matias. Il testo portoghese del racconto al quale ho fatto riferimento è incluso nella raccolta Contos, edita nel 1989 a cura di Luiz Fagundes Duarte1. Le traduzioni italiane che ho esaminato sono le seguenti: * Un’altra versione di questo saggio è stata pubblicata con il titolo Traduzione e variazione linguistica in M. Lupetti – V. Tocco (a cura di), Traduzione e auto traduzione. Un percorso attraverso i generi letterari, Edizioni ETS, Pisa 2013. 1 J.M.Eça de Queiroz, Contos, edição organizada por L. Fagundes Duarte, Publicações Dom Quixote, Lisboa 1989, pp. 121-151. STEFANIA STEFANELLI -- Giuseppe Matias di Eça de Queiroz, traduzione di Luciana Stegagno Picchio, in Mario Bonfantini (a cura di), Le più belle novelle dell’Ottocento, Gherardo Casini Editore, Roma 1951, pp. 1175-1192. -- José Mathias, in Eça de Queiroz, Una strana ragazza bionda, a cura di Mario Puccini, vol. LXVIII, Universale Economica Serie Letteratura, Milano 1953, pp.107-135. -- José Maria Eça de Queiroz, José Matias, a cura di Luciana Stegagno Picchio, Tranchida Editori, Milano 1992. -- José Matias, in José Maria Eça de Queiroz, Racconti, introduzione, traduzione e note di Davide Conrieri e Maria Abreu Pinto, Rizzoli, Milano 2000, pp. 276-3022. Uno degli elementi che salta agli occhi anche del lettore non specialista è quello del differente trattamento dei toponimi. Nelle traduzioni più antiche, i toponimi vengono tradotti in italiano o in forme italianizzate all’interno di un’ampia oscillazione di soluzioni possibili, mentre il mantenimento della forma originale nelle traduzioni più recenti può derivare dalla presupposizione del traduttore che il lettore medio non sia più così distante e ignaro come un tempo da situazioni e culture di altri paesi. Nella tabella sottostante è possibile vedere, a partire dall’originale portoghese, come i toponimi siano trattati diversamente nelle varie traduzioni: Eça de Stegagno Puccini 1953 Stegagno Conrieri – Queiroz 1989 Picchio 1951 Picchio 1992 Pinto 2000 rua de S. Bento via San Bene- via São Bento rua São detto via San Bento Bento via di São Bento via San Bento 2 Le traduzioni verranno da questo momento indicate nel testo con queste abbreviazioni: Stegagno Picchio 1951; Puccini 1953; Stegagno Picchio 1992; Conrieri – Pinto 2000, seguite dal numero di pagina. Quando le due traduzioni della Stegagno, quella del 1951 e quella del 1992, sono identiche, cito soltanto quella del 1992. 70 DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ pela ponte e sul Ponte e lungo il sul Ponte e sul ponte e pelo Choupal nel Bosco dei Ponte e lungo nel Pioppeto nel Choupal Pioppi il Choupal Cemitério dos Prazeres Cimitero dei Cimitero Cimitero dei Cimitero dos Piaceri «dos Prazeres» Piaceri Prazeres Cimitero dei Piaceri Rossio Rossio Rociò Rua do Alecrim via del Rosmarino via di Alecrim via del Rosmarino via Alecrim Bairro Alto Rione Alto Barrio Alto Bairro Alto Bairro Alto da Graça della Grazia di Graça della Grazia della Graça Santa Isabel Santa Isabella Santa Isabella Santa Isabella Santa Isabel Rua do Ouro via dell’Oro via dell’Oro Rossio via dell’Oro Rossio via do Ouro Nella traduzione più recente, quella di Conrieri-Pinto del 2000, viene quasi sempre mantenuto il toponimo originale3, traducendo soltanto il nome al quale il toponimo si riferisce (rua ‘via’, Cemitério ‘Cimitero’). L’ipotesi secondo la quale le differenze fra traduzioni realizzate in tempi diversi possano derivare anche dai mutamenti interni all’uso della lingua di arrivo ‒ in questo caso dell’italiano ‒ può qui essere verificata confrontando le due traduzioni di José Matias che Luciana Stegagno Picchio ha pubblicato a più di quarant’anni di distanza, rispettivamente nel 1951 e nel 1992. La revisione operata dalla Stegagno sul testo della prima traduzione non introduce cambiamenti sostanziali; ci sono tuttavia mutamenti lessicali che rivelano una correzione di tiro sul piano delle scelte stilistiche, lasciando quasi inalterato il significato: ----- eleganza discreta → eleganza sobria; borghesia seria → borghesia austera; mi ricordo nitidamente → ho ben chiaro il ricordo; raffinatezze → finezze. Fa eccezione soltanto la forma italianizzata «San Bento». 3 71 STEFANIA STEFANELLI I fenomeni più significativi che emergono dal confronto tra le due traduzioni sono: -- la sostituzione di forme lessicali disusate con le corrispondenti forme in uso: s’inalzava → s’innalzava; fiso → fisso; guernita → guarnita; -- il passaggio sistematico egli → lui; essa, ella → lei; -- il passaggio sistematico ed → e; ad → a (tranne che di fronte a parole che iniziano per la stessa vocale); -- l’eliminazione sistematica dell’apocope: attraversar → attraversare; fermar → fermare; esser → essere; quel che → quello che; bicchier → bicchiere, ecc. Gli ultimi tre fenomeni sono tra quelli indicati da Francesco Sabatini4 come tipici del passaggio da un italiano letterario e scolastico a un italiano dell’uso medio che non è la lingua del parlato informale, ma quella che viene impiegata in contesti più formali, per esempio nella scrittura giornalistica. La traduttrice ha dunque introdotto modifiche necessarie ad adeguare la lingua del racconto all’italiano attuale accogliendone i tratti dell’uso e tuttavia mantenendo un registro coerente alla lingua scritta. Nella traduzione di Mario Puccini5, anch’essa risalente ai primi anni Cinquanta del Novecento, troviamo ancora numerosi segni della persistenza di un linguaggio letterario oggi desueto, come F. Sabatini, L’«italiano dell’uso medio»: una realtà tra le varietà linguistiche italiane, in G. Holtus – E. Radtke (a cura di), Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, Narr, Tübingen 1985, pp. 154-184. 5 Nato a Senigallia nel 1887 e morto a Roma nel 1954, Mario Puccini fu uno scrittore significativo del suo tempo. Ispirandosi al verismo verghiano che contrapponeva alla prosa dannunziana, scrisse racconti e romanzi d’ambiente. Fu ispanista e traduttore dallo spagnolo. Rimangono di lui anche pagine sparse di traduzioni di Eça de Queiroz, con correzioni autografe. Vasco Pratolini lo definì come «uno dei maestri a cui la letteratura italiana deve rendere giustizia». Dunque, nei primissimi anni Cinquanta del Novecento, nel pieno fulgore del Neorealismo e negli anni di Moravia, Calvino e Gadda, il linguaggio letterario della prima metà del secolo costituiva ancora per alcuni scrittori un modello valido, soprattutto per un letterato come Mario Puccini, ma influenzava anche una traduttrice più giovane, come Luciana Stegagno Picchio. 4 72 DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ l’uso di ‘egli’ ed ‘essa’ in posizione di soggetto o le elisioni della vocale finale in «quand’era» (p. 108) e «quand’essa» (p. 122). La regola del dittongo mobile, nella quale si ammettevano ambedue le varianti di un dittongo (come in ‘foco’/‘fuoco’) ormai è stata sostituita da serie lessicali fissate (per esempio: ‘arrotava’ e non ‘arruotava’, ‘fuoco’ e non ‘foco’): nella traduzione di Puccini troviamo invece forme legate alla norma grammaticale del tempo, come «percoteva» (p. 117) e «moveva» (p. 118), o forme non più in uso, come «veduto» (p. 113), «debbo» (p. 118), «egli è che» (per ‘il fatto è che’, p. 135) o, ancora, toscanismi poco usati, come «cotesto» (pp. 114 e 121) e «desinavano» (p. 112), fino ad arrivare a parole davvero lontane, come «correggiòli» (per ‘staffe’, p. 110) e «favoriti» (per ‘basette’, p. 115). Tuttavia, le variazioni più interessanti nella traduzione di Puccini si individuano a livello testuale e riguardano le partizioni del testo: il traduttore introduce infatti nel racconto una suddivisione in sei paragrafi numerati con numeri romani e ventiquattro capoversi non presenti nel testo portoghese. Non sapendo a quale edizione dei Contos si sia riferito Puccini, ho confrontato la sua traduzione con la prima della Stegagno (1951) perché è probabile che i due, a distanza pochissimi anni, si siano rifatti alla stessa edizione portoghese. Nel testo della Stegagno, la suddivisione in paragrafi è assente e i capoversi corrispondono nella maggior parte dei casi a quelli presenti nell’edizione portoghese dei Contos; è dunque da presumere che la partizione del testo presente nella traduzione di Puccini sia stata introdotta dal traduttore stesso. L’uso del capoverso e, a maggior ragione, la suddivisione di un testo in paragrafi numerati, non è semplicemente un accorgimento tipografico, ma entra nel vivo della concatenazione dei significati comunicati dal testo; aggiungere o eliminare queste suddivisioni è dunque una ‘interferenza’ del traduttore più forte di quanto non appaia6. Eccone un esempio: 6 «Andare a capo significa […] avvertire il lettore che l’argomento cambia, o che se ne affronta un aspetto nuovo e significativo. Rispetto al punto, lo spazio bianco che contrassegna il capoverso […] sottolinea il passaggio a un distinto blocco informativo o argomentativo», L. Serianni, Italiani scritti, Il Mulino, Bologna 2003, p. 56. Per un quadro generale della linguistica testuale, vedi R.A. 73 STEFANIA STEFANELLI […] talvez debaixo daquela gordura e daquela literatura, ambas tão sordidas, se abrigue uma alma compassiva. Agora é a nossa tipóia… Quer que desça a vidraça? Um cigarro? Eu trago fosforos. Por este José Matias foi um homem desconsolador para quem, como eu, na vida ama a evolução logica […] (Eça de Queiroz 1989, p. 123). […] forse, sotto quel grasso e quella letteratura, ambedue così sordide, si nasconde un’anima compassionevole. Adesso tocca alla nostra carrozza… Vuole che apra i vetri? Una sigaretta?... I fiammiferi ce li ho io. Dunque questo Giuseppe Matias fu un uomo sconfortante per chi, come me, nella vita ama l’evoluzione logica […] (Stegagno Picchio 1992, pp. 19-20). […] forse, sotto quella grassezza e quella letteratura ‒ l’una e l’altra così sordide ‒ costui nasconderà un animo pietoso… Ecco, questa è la nostra carrozza… Vuole che abbassi il vetro?...Un sigaro?... Sì, ho anche i cerini… Dunque, questo José Mathias fu un uomo sconcertante per chi, come me, ama l’evoluzione logica […] (Puccini 1953, p. 109). Nella traduzione di Puccini il capoverso (sottolineato dal rientro del rigo successivo: «Dunque, questo José Matias…») interrompe il flusso del parlato simulato marcato da allocuzioni dirette all’interlocutore; nel contesto discorsivo, queste rappresentano soltanto brevi inserti che non spezzano (proprio come avviene nel parlato spontaneo) l’unità del discorso. Ancora più intrusivo appare l’intervento che segmenta il testo in paragrafi numerati, introducendo partizioni testuali non presenti nell’originale. Ma l’elemento secondo me più significativo che emerge dal confronto tra le traduzioni di José Matias è il trattamento che i diversi traduttori riservano alla sintassi e allo stile di questo racconto, uno stile che viene perfettamente descritto in poche righe da Ugo Serani, nella Introduzione alla raccolta da lui curata dal titolo Racconti esemplari: de Beaugrande – W.U. Dressler, Introduzione alla linguistica testuale, Il Mulino, Bologna 1994. 74 DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ Esemplari perché rappresentano alcune delle caratteristiche migliori della sua scrittura, dove l’apparente ripetitività dona il ritmo alla frase. La descrizione, che potrebbe sembrare superflua, prolissa, slegata dalla narrazione, diviene il tema stesso del narrare. Non sono i grandi avvenimenti a costituire la storia, piuttosto sono i particolari del paesaggio, di un vestito, un tic, un vezzo, il modo di camminare di un personaggio a raccontare la storia7. Lo stile queiroziano si realizza mediante una sintassi che integra prodigiosamente complessità e linearità. Il racconto José Matias è composto da periodi lunghi e articolati, lontani però dal modello della sintassi ciceroniana strutturata sulla concatenazione delle subordinate alla principale; il periodo si struttura piuttosto mediante la giustapposizione di frasi autonome e la geminazione di subordinate che si coordinano tra loro: O José Matias permanecia devotamente crente de que Elisa, na profundidade da sua alma, nesse sagrado fundo espiritual onde não entram as imposições das conveniências, nem as decisões da razão pura, nem os ímpetos do orgulho, nem as emoções da carne ‒ o amava, a ele, unicamente a ele, e com um amor que não deperecera, não se alterara, floria em todo o seu viço, mesmo sem ser regado ou tratado, como a antiga Rosa Mística (Eça de Queiroz 1989, p. 137). In questo lungo periodo, la frase principale («permanecia … crente») è seguita immediatamente dalla congiunzione «de que», inducendo così nel lettore l’aspettativa della subordinata («o amava») che viene collocata invece a notevole distanza dal verbo reggente, dopo due complementi di luogo e una frase relativa introdotta dall’avverbio di luogo «onde», frase anch’essa caratterizzata dall’ampia geminazione dei nomi con funzione di soggetto. La subordinata oggettiva, a sua volta, regge una triplice frase relativa («que não deperecera, não se alterara, floria em todo o seu viço») che regge una concessiva implicita («mesmo sem ser regado 7 U. Serani, Introduzione a J.M. Eça de Queirós, Racconti esemplari, a cura di U. Serani, Liguori, Napoli 2000, p. 5. 75 STEFANIA STEFANELLI ou tratado»). Ovviamente, questo tipo di sintassi persegue l’effetto stilistico di una teatralizzazione del parlato: il volontario ritardo con cui viene introdotta la frase oggettiva le dà un rilievo che assomiglia all’uso di un tono alto della voce in una declamazione, come anche al picco musicale in un brano melodico. La traduzione di Conrieri e Pinto si attiene con grande fedeltà alla struttura sintattica di questo periodo: José Mathias rimaneva devotamente persuaso che Elisa, nella profondità della sua anima, in quel sacro fondo spirituale dove non entrano le imposizioni delle convenienze, né le decisioni della ragion pura, né gli impeti dell’orgoglio, né le emozioni della carne ‒ lo amava, lui, unicamente lui, e con un amore che non era deperito, non si era alterato, fioriva in tutto il suo rigoglio, anche senza essere annaffiato o curato, come l’antica Rosa Mistica! (Conrieri – Pinto 2000, p. 290). Per collegare tra loro le parti del periodo, sia Puccini che Stegagno fanno ricorso all’uso della ripetizione lessicale; Puccini, inoltre, introduce anche un punto fermo, probabilmente per conferire enfasi all’esclamazione finale: José Mathias era devotamente persuaso che Elisa nella profondità della sua anima, in cotesto sacro fondo spirituale dove non entrano le imposizioni delle convenienze, né gli impeti dell’orgoglio, né le emozioni della carne, era persuaso che Elisa amasse lui, solo lui, e di un amore inestinguibile e inalterabile, fiorente ancora in tutto il suo vigore, sebbene non annaffiato né curato. Come l’antica Rosa Mistica!... (Puccini 1953, p. 121). José Matias era ancora profondamente convinto che l’Elisa, nell’intimo dell’anima sua, in quel sacro fondo spirituale in cui non entrano né le imposizioni, né le convenienze, né le decisioni della pura ragione o gli impeti dell’orgoglio e nemmeno le emozioni della carne, era convinto che in quell’intimo lei lo amasse ancora, amasse lui, unicamente lui, e di un amore che non era appassito, che non si era alterato e che fioriva in tutto il suo rigoglio, anche senza essere innaffiato o curato, come l’antica Rosa Mistica! (Stegagno Picchio 1992, p. 40). 76 DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ Ma vediamo un altro esempio: Então José Matias, com um soluço despedaçado, de transbordante tormento, cambaleou, tão ansiadamente se agarrou à cortina que a rasgou, e tombou desamparado nos braços que lhe estendi, e em que o arrastei para a cadeira, pesadamente, como a um morto ou a um bêbedo. (Eça de Queiroz 1989, p. 143). Allora José Matias, con un singhiozzo rotto, di traboccante tormento, barcollò, si afferrò alla tenda tanto ansiosamente che la strappò, e cadde abbandonato nelle braccia che gli tesi, e nelle quali lo trascinai alla sedia, pesantemente, come un morto o un ubriaco (Conrieri – Pinto 2000, p. 295). José Mathias, allora, con un singhiozzo disperato, di insopportabile tormento, vacillò, si afferrò alla tenda fino a strapparla, e cadde privo di sensi tra le mie braccia che si tesero, pronte, verso di lui. Lo trasportai faticosamente fino a una sedia, come un morto o un ubriaco (Puccini 1953, p. 127). Allora José Matias, con un singhiozzo spezzato, di un’indicibile angoscia, barcollò e si afferrò tanto violentemente alla tenda che la strappò; quindi, senza più sostegno, cadde fra le braccia che gli tesi trascinandolo poi fino alla sedia come si trascina un morto o un ubriaco (Stegagno Picchio 1992, p. 49). Nella sua traduzione, Puccini trasforma il periodo unico originale in due periodi separati dal punto: il secondo periodo esprime l’azione conclusiva. La Stegagno introduce una forma interpuntiva più leggera, il punto e virgola, che comunque marca la separazione tra la prima parte, che descrive lo stato di José Matias, e la seconda che esprime l’azione conclusiva («trascinandolo»); inoltre, sostituisce una forma verbale implicita a una originariamente esplicita («em que o arrastei»). Da questi confronti si ricava la sensazione che, nelle traduzioni più antiche, ci sia l’intenzione, più o meno consapevole, di rendere più facilmente intelligibile al lettore medio una prosa strutturalmente impeccabile ma complessa alla lettura, spezzando i periodi per renderli più brevi. Bisogna riconoscere che la prosa di José Matias, così ricca di tratti di modernità, presenta indubbie difficoltà per il traduttore 77 STEFANIA STEFANELLI italiano, e non tanto (o non solo) per le ovvie diversità linguistiche, ma soprattutto a causa delle vicende storiche della nostra lingua letteraria: gli scrittori italiani coevi a Eça ‒ persino i drammaturghi, come nel caso di Pirandello ‒, nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento, erano ancora alla ricerca di una lingua unitaria che rendesse sulla pagina le movenze del parlato; ma, per tutta la prima metà del Novecento, la lingua scritta media era ancora improntata alla norma grammaticale di impronta scolastica. Solo nella seconda metà del secolo, una quantità sempre crescente di scrittori, sia pure con esiti artistici anche molto diversi tra loro, ha dimostrato di saper simulare efficacemente il parlato nella pagina narrativa8. In questi stessi decenni, nell’ambito degli studi linguistici, si è assistito all’affrancamento di molti tratti dell’oralità dall’ostracismo delle antiche grammatiche: nel 1997, Francesco Sabatini ha pubblicato un saggio nel quale ha dimostrato la correttezza dell’uso della congiunzione ‘ma’ all’inizio di frase, sostituendo all’antica prospettiva strettamente frasale un’ottica testuale, all’interno della quale questa congiunzione svolge il ruolo di connettivo tra i periodi del testo9. In José Matias, cento anni prima del saggio di Sabatini, Eça usa normalmente la congiunzione ‘mas’ a inizio di frase e qualche volta anche a inizio di capoverso: «Mas o meu amigo, numa ocasião que o José Matias parou em Coimbra […]» (Eça de Queiroz 1989, p. 121). Lo scrittore portoghese è andato oltre una norma grammaticale troppo restrittiva e bisogna rendere ai suoi traduttori italiani il merito di non avere, nella maggior parte dei casi, censurato questa scelta. Nella prosa di Eça c’è un altro tratto che oggi, in italiano, è quasi il contrassegno del registro dell’uso medio; non a caso lo stesso Sabatini ha dimostrato che è presente nella nostra lingua fino dall’antichità e dunque, nonostante la condanna delle grammatiche normative, pienamente meritevole del diritto di cittadinanza: il ‘che’ polivalente. Si tratta di una congiunzione usata per legare tra loro due frasi, in casi in cui un linguaggio più formale Cfr. E. Testa, Lo stile semplice. Discorso e romanzo, Einaudi, Torino 1997. Cfr. F. Sabatini, Pause e congiunzioni nel testo. Quel ma a inizio di frase in Norma e lingua in Italia, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Milano 1997. 8 9 78 DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ userebbe un pronome relativo o una congiunzione subordinante esplicita, o un verbo a un modo finito. […] a dor presente, a dor real, era que eli amara sublimemente uma mulher […] (Eça de Queiroz 1989, p. 138). […] il dolore presente, il dolore reale, era che lui aveva amato sublimemente una donna […] (Conrieri – Pinto 2000, p. 291). […] il suo dolore presente e il suo dolore reale consistevano nell’aver amato sublimemente una donna […] (Puccini 1953, p. 123). […] il dolore presente, il dolore reale, era dovuto al fatto che lui aveva amato sublimemente una donna […] (Stegagno Picchio 1992, p. 42). Anche in questo caso, in Puccini e Stegagno prevale l’intento normalizzatore, in linea con il linguaggio letterario tradizionale. Tuttavia, la modernità del linguaggio di José Matias non risiede soltanto in tratti così specifici, anche se significativi, ma soprattutto nel suo stile complessivo improntato al dialogismo; l’io narrante si rivolge infatti a un interlocutore secondo varie modalità: il testo è disseminato di vocativi, di frasi interrogative che simulano domande retoriche che, in quanto tali, non attendono risposta e di frasi esclamative che costituiscono talvolta la risposta che il parlante dà alla propria domanda. Una sorta di «parlato-scritto teatralizzato» (per riformulare la terminologia nencioniana)10 perché, per quanto monologico, simula il dialogo e ne reca le tracce linguistiche, mettendolo ‘in scena’ sulla pagina. Forse per questo, ma anche per la sua propensione alla speculazione filosofica, questa prosa richiama il parlato teatrale di Pirandello: E adivinha o meu amigo como ele gastava o dia? A espreitar, a seguir, a farejar o apontador de Obras Públicas! Sim, meu amigo! Uma curiosidade insaciada, frenética, atroz, por aquele homem que Elisa escolhera!... (Eça de Queiroz 1989, p. 148). 10 Cfr. G. Nencioni, Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato, in G. N., Di scritto e di parlato. Discorsi linguistici, Zanichelli, Bologna 1983, pp. 126-79. 79 STEFANIA STEFANELLI L’inserzione di modi del parlato nella tessitura di una prosa letteraria richiede insomma l’uso di tratti linguistici specifici che derivano dal linguaggio colloquiale: la scommessa artistica degli scrittori che intendono percorrere questa via consiste nella capacità di intrecciare nello stesso testo trame dell’oralità e trame della scrittura. Di fronte a tale complessità sintattica, anche il traduttore viene messo a dura prova. Tornando alle nostre traduzioni queiroziane, le frasi sintatticamente marcate, con dislocazione a destra o a sinistra del focus informativo e la ripresa pronominale di questo elemento all’interno della frase, rappresentano un elemento tipico del parlato. La prosa di José Matias ne è disseminata; ecco un esempio di dislocazione a destra con ripresa pronominale: E dessa mesma janela do 214 o conheci eu também, o apontador!» (Eça de Queiroz 1989, p. 145). E da quella medesima finestra del 214 lo conobbi anch’io, il sorvegliante! (Conrieri – Pinto 2000, p. 297). E, dalla stessa finestra del 214 conobbi, a mia volta, l’assistente (Puccini 1953, p. 129). E da quella stessa finestra del 214 io pure conobbi l’assistente (Stegagno Picchio 1992, p. 52). Le traduzioni di Puccini e di Stegagno convertono la frase da marcata in non marcata, eliminando anche il punto esclamativo. Un altro tratto tipico del dialogo simulato è la ripresa della domanda dell’interlocutore (qui fittizio, come è noto) con una frase interrogativa nominale: O quê! Por causa das calças claras! (Eça de Queiroz 1989, p. 122). Che? Per i pantaloni chiari? (Conrieri – Pinto 2000, p. 277). Come? Non vorrebbe venire perché ha i pantaloni chiari? (Puccini 1953, p. 108). Come? Per i calzoni chiari? (Stegagno Picchio 1992, p. 18-19). 80 DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ O sujeito de óculos de ouro, dentro do coupé? (Eça de Queiroz 1989, pp. 122-123). Il tipo con gli occhiali d’oro, nel coupé? (Conrieri – Pinto 2000, p. 277). Quel tipo con gli occhiali d’oro, nella berlina? (Stegagno Picchio 1951, p. 1176). Quel tipo con gli occhiali d’oro, nel cupé? (Stegagno Picchio 1992, p. 19). Chi è quel signore con gli occhiali d’oro, nel coupé?... (Puccini 1953, p. 108). Ancora una volta, mentre la traduzione della Stegagno, ma anche quella di Conrieri e Pinto, rispettano la forma sintattica originale, quella di Puccini risponde al bisogno del traduttore di procedere a una normalizzazione grammaticale che reintroduce il verbo (sottinteso nel testo portoghese) nella frase, ma rischia in questo modo di tradire la concisione tipica del dialogato. «L’apparente ripetitività» che «dona il ritmo alla frase» di cui parla Serani nel brano riportato sopra, si basa anche sulla ripetizione lessicale a contatto o a distanza ed è effettivamente uno dei mezzi dei quali può servirsi la scrittura per creare sulla pagina un ritmo che evochi quello della lingua orale, della parola detta: O que o torturava, meu amigo, o que lhe cavara longas rugas em curtos meses […] (Eça de Queiroz 1989, p. 137). Quello che lo torturava, amico mio, quello che gli aveva scavato lunghe rughe in corti mesi […] (Conrieri – Pinto 2000, p. 290). Quello che ora lo torturava, amico mio, e gli aveva scavato lunghe rughe nel viso […] (Puccini 1953, p. 121). Quello che lo torturava, amico mio, quel che gli aveva scavato profonde rughe in volto […] (Stegagno Picchio 1992, p. 40). E percebe porquê, meu amigo?... Porquê Elisa já descobrira […] (Eça de Queiroz 1989, p. 147). 81 STEFANIA STEFANELLI E lo capisce perché, amico mio?... Perché Elisa ormai aveva scoperto […] (Conrieri – Pinto 2000, p. 298). E non indovina perché?... Perché Elisa aveva già scoperto […] (Puccini 1953, p. 131). E Lei capisce perché? Elisa aveva ormai scoperto […] (Stegagno Picchio 1992, p. 55). Oltre alla consueta fedeltà al testo originale di Conrieri e Pinto, che anzi introducono opportunamente, nel secondo dei due esempi, il pronome prolettico ‘lo’, nelle traduzioni di Puccini e della Stegagno si alternano forme fedeli alla sintassi originale, ad altre che eliminano la ripetizione. «Poiché [l’interiezione] è un fenomeno che spesso ha luogo nella catena sintagmatica, siamo tenuti, almeno come ipotesi di lavoro, a supporre che abbia effetto su tale catena anche nei testi scritti». Così introduceva Giovanni Nencioni il suo studio dal titolo Natura e arte nel dialogo teatrale di Pirandello, individuando uno dei tratti salienti di quella che chiamava la «lingua gesticolante» dello scrittore siciliano. La sua conclusione era che l’interiezione «agisce sempre […] sulla modalità, sulla distribuzione dell’informazione e sulla connessa struttura tematica, attraverso la segmentazione della catena sintagmatica in unità o gruppi melodici»11. Anche nella lingua di José Matias, ampiamente cosparsa di interiezioni, questo elemento grammaticale scandisce la prosa e contribuisce alla distribuzione dell’informazione del discorso. L’uso frequente dell’interiezione viene in gran parte rispettato nelle traduzioni italiane, ma non mancano casi nei quali viene soppressa o sostituita da locuzioni monorematiche come «nevvero», o polirematiche come «non è vero», «e pure»: Enredado caso, hein, meu amigo? Ah! Muito filosofei […] (Eça de Queiroz 1989, p. 138). Caso intricato, eh, amico mio? Ah! Ci filosofai […] (ConrieriPinto 2000, p. 291). Ivi, pp. 225-245. 11 82 DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ Caso complesso, non è vero, amico mio? Eh, io vi ho filosofato […] (Puccini 1953, p. 123). Un caso complicato, non è vero? Ah! Lei non può immaginare […] (Stegagno Picchio 1992, p. 42). Situação picante, hein? (Eça de Queiroz 1989, p. 148). Situazione piccante, eh? (Conrieri – Pinto 2000, p. 299). Situazione piccante, eh? (Puccini 1953, p. 132). Una situazione piccante, nevvero? (Stegagno Picchio 1992, p. 56). Mas, oh, meu amigo, pensemos que certamente nunca ela pediria […] (Eça de Queiroz 1989, p. 150). Ma, oh mio amico, diciamocelo: […] (Conrieri – Pinto 2000, p. 301). E pure mai essa avrebbe chiesto […] (Puccini 1953, p. 134). Ma mai essa avrebbe chiesto […] (Stegagno Picchio 1992, p. 60). Per concludere, vorrei accennare a un tratto stilistico particolare che, anche secondo Ernesto Guerra da Cal12, è peculiare della lingua di Eça e che infatti si ritrova anche nella prosa di José Matias. È una particolare figura retorica, l’enallage dell’aggettivo, in cui una qualità attribuibile al personaggio rappresentato diventa attributo di un oggetto che fa parte della scena: […] enrolando um cigarro distraído (Eça de Queiroz 1989, p. 127). […] arrotolando una sigaretta distratta (Conrieri – Pinto 2000, p. 281). […] e accendendo un sigaro con aria distratta (Puccini 1953, p. 112). […] e, distratto, si arrotolava una sigaretta (Stegagno Picchio 1992, p. 25). 12 Cfr. E. Guerra da Cal, Língua e estilo de Eça de Queiroz, Livraria Almedina, Coimbra 1891. 83 STEFANIA STEFANELLI […] correndo em jorros desperados (Eça de Queiroz 1989, p. 141). […] scorrevano in getti disperati (Conrieri – Pinto 2000, p. 293). […] scorrevano a fiumi (Puccini 1953, p. 125). […] correvano disperatamente a rivoli (Stegagno Picchio 1992, p. 46) […] uma barba rara, indecisa, suja (Eça de Queiroz 1989, p. 145). […] una barba rada, indecisa, sporca (Conrieri – Pinto 2000, p. 297). […] una barba rada, sudicia, giallognola (Puccini 1953, p. 130). […] una barba rada, indecisa, sporca (Stegagno Picchio 1992, p. 53). In ognuno di questi tre casi l’aggettivo, riferito allo stato d’animo nel quale l’io narrante sorprende il personaggio di José Matias, si lega al nome di un oggetto che fa parte della scena: si crea in questo modo un sintagma caratterizzato da una volontaria incongruenza semantica tra nome e aggettivo volta a generare straniamento nel lettore. La difficoltà di tradurre queste forme in italiano, sia pure cercando di rendere l’atmosfera che rappresentano, induce Puccini e Stegagno a interventi di normalizzazione che possano, mediante avverbi modali o complementi di modo («disperatamente», «con aria distratta») ricollegare esplicitamente la qualità espressa dall’aggettivo al personaggio rappresentato; Puccini tende addirittura alla soppressione di questa figura, come nel secondo e nel terzo esempio. Soltanto la Stegagno nel terzo esempio e Conrieri e Pinto in tutti e tre i casi, mantengono inalterata l’enallage dell’aggettivo. E, a proposito di questa modalità stilistica non facilmente definibile e difficilmente traducibile, mi piace concludere con le parole di Serani sulla prosa di Eça: «Le sue pagine emanano odori, sapori, sensazioni tattili. La sinestesia non è solo nella scrittura, ma anche nella lettura»13. U. Serani, Introduzione, cit., p. 6. 13 84 DAL PORTOGHESE ALL'ITALIANO: IL CASO DI EçA DE QUEIROZ Bibliografia Testo e traduzioni: Eça de Queiroz, J.M., José Matias, in Contos, edição organizada por Luiz Fagundes Duarte, Publicações Dom Quixote, Lisboa 1989, pp. 12-51. Eça de Queiroz, J.M., José Matias; trad. di L. Stegagno Picchio, Giuseppe Matias di Eça de Queiroz, in Le più belle novelle dell’Ottocento, a cura di M. Bonfantini, Gherardo Casini Editore, Roma 1951, pp. 1175-1192. Eça de Queiroz, J.M., José Matias; trad. di M. Puccini, Una strana ragazza bionda, vol. LXVIII, Universale Economica Serie Letteratura, Milano 1953, pp.107-135. Eça de Queiroz, J.M., José Matias; trad. di L. Stegagno Picchio, José Matias, Tranchida Editori, Milano 1992. Eça de Queiroz, J.M., José Matias; trad. e note di D. Conrieri e M. Abreu Pinto, Racconti, Rizzoli, Milano 2000, pp. 276-302. Studi de Beaugrande R.A. ‒ Dressler W.U., Introduzione alla linguistica testuale, Il Mulino, Bologna 1994. Guerra da Cal E., Língua e estilo de Eça de Queiroz, Livraria Almedina, Coimbra 1891. Nencioni G., Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato, in G. N., Di scritto e di parlato. Discorsi linguistici, Zanichelli, Bologna 1983, pp. 126-179. Nencioni G., Natura e arte nel dialogo teatrale di Pirandello, in G. N., Saggi e memorie, Scuola Normale Superiore, Pisa 2000, pp. 237-247. Sabatini F., L’«italiano dell’uso medio»: una realtà tra le varietà linguistiche italiane, in G. Holtus ‒ E. Radtke (a cura di), Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, Narr, Tübingen 1985, pp. 154-184. Sabatini F., Pause e congiunzioni nel testo. Quel ma a inizio di frase, in Norma e lingua in Italia, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Milano1997. Serani U., Introduzione a José Maria Eça de Queirós, Racconti esemplari, a cura di U. Serani, Liguori, Napoli 2000. Serianni L., Italiani scritti, Il Mulino, Bologna 2003. Testa E., Lo stile semplice. Discorso e romanzo, Einaudi, Torino 1997. 85 Luisa Giannandrea Un ‘singolare’ caso di traduzione teatrale. Lo studente vagante in Paradiso di Hans Sachs 1. Alcune premesse Introdurre in Italia un personaggio come Hans Sachs, comporta una certa dose di timore. Benché il suo sia tra i nomi noti della Frühe Neuzeit, nel nostro Paese la ricerca è circoscritta a un numero di studiosi ancora limitato1. La cosa, poi, si complica se il contesto del dibattito è la traduzione. È un dato di fatto ma delle oltre seimila opere scritte in quaranta anni di attività, nella nostra lingua esistono solo due piccole pubblicazioni e tutt’altro che recenti. Nel 1916 il noto slavista Ettore Lo Gatto, con inizi da appassionato di letteratura tedesca, tradusse una piccola scelta di «canti popolari»2. Il libretto, che intendeva lanciare «un primo sguardo»3 sul poeta e porlo sotto una luce nuova rispetto allo stereotipo Hans Sachs (Norimberga, 1494-1576) era di professione un calzolaio ma per passione maestro cantore e poeta. La sua biografia è nota a molti e la sua fama di scrittore legata in primo luogo al lungo componimento poetico dedicato a Martin Lutero, L’usignolo di Wittemberg (Die Wittenbergische Nachtigall, 1523), con il quale Sachs dichiarò la sua adesione alla Riforma. È noto inoltre come autore di farse carnascialesche ma pochi sanno che egli scrisse più di seimila componimenti, fra i quali anche alcuni dialoghi, moltissimi Meisterlieder e Spruchgedichte (poesie gnomiche), allegorie, salmi e più di centoventi drammi. 2 E. Lo Gatto, Poesie di Hans Sachs, Riccardo Ricciardi Editore, Napoli 1916, pp. 7 ss. Si tratta di una scelta di Lieder, quella poesia cantata che in Germania fu espressione migliore della cultura popolare urbana e che trovò nella città di Norimberga uno dei suoi centri più vivaci e in Hans Sachs il suo più apprezzato rappresentante. 3 Ivi, p. 14. 1 luisa giannandrea wagneriano4, non trovò seguito in ambiti accademici, né lo stesso Lo Gatto dedicò altro scritto al calzolaio. Il secondo e ultimo caso di traduzione italiana è del 1959 e nasce in un contesto assai lontano dal primo. Non ambizione teatrale ci ha mosso a modificare e ad adattare al gusto di una moderna rappresentazione la farsa di Hans Sachs, se non il desiderio di tener viva una tradizione che usa da qualche anno tra noi della Scuola Professionale Femminile e di Magistero di Salerno, di rappresentare un atto unico nel corso della gita scolastica annuale5. A scrivere queste righe è un professore di un istituto magistrale di Salerno, tale Pier Donato Lauria che, nel proporre per una recita studentesca un soggetto del «famoso Maestro Cantore», motiva così la scelta: Quest’anno ho pensato al lavoro del famoso Maestro Cantore di Norimberga perché avremmo dovuto dare lo spettacolo anche dinanzi ai giovani studenti di un altro Istituto. Il Sachs ci offriva lo spunto di uno scontro con esito incerto tra la poca sennatezza della moglie e quella del marito; noi abbiamo voluto invece propendere un tantino di più a favore della prima, non tanto per un omaggio sempre doveroso a Eva, quanto per limare un poco proprio quello spuntone di preminenza e di saggezza che si crede sempre di possedere da noi uomini6. Certamente, sarebbe interessante chiedersi come mai l’unico esempio italiano di testo drammatico sachsiano nasca non per un interesse accademico o per il teatro professionista ma per una 4 La figura di Hans Sachs raggiunse l’apice di popolarità nell’opera Die Meistersinger von Nürnberg del 1868. L’immagine che Wagner affidò al poetacalzolaio fu quella di uno spirito «bürgerlich» e naif, archetipo autentico di germanicità e dominatore di una scena sulla quale prende forma l’idillio della cittadina medievale fatta di vicoli, casette e torri pittoresche. 5 H. Sachs – P.D. Lauria, Lo studente in Paradiso, Edizioni Hermes, Salerno 1959, p. 7 (da ora in poi SL). 6 Ibidem. 88 lo studente in paradiso di Hans Sachs rappresentazione scolastica. Questo non è il tema del presente dibattito che, invece, permette di affrontare l’autore dall’importante e fino a questo momento mai considerata prospettiva della traduzione e, in particolare, della traduzione teatrale. L’argomento è ampio e richiede alcune premesse. Pur rientrando tra le traduzioni letterarie, quella teatrale vive di uno stato a po’ a sé. Secondo Mario Luzi7, diversamente dalla lirica o dalla narrativa dove «il sottile duello» tra traduttore e autore «si svolge tutto in segreto al cospetto di pochi principi che, evidentemente, solo una delle parti riconosce e la cui osservanza è rimessa alla sua sola lealtà», in un testo teatrale il traduttore non è solo con l’autore. «Qui la contesa non è sorda e appartata. C’è un testimone che funge da pietra di paragone e sancisce, più che il lecito e l’illecito, l’utilità e l’efficacia del tentativo; li sancisce per di più con un’immediata verifica». Il testimone di cui parla Luzi è il palcoscenico che rappresenta la vera «prova del fuoco» di ogni traduzione, in grado persino di rivelare «quella capillare drammaturgia che un testo di vera poesia drammatica nasconde alla lettura tra le sue pieghe». Il linguaggio teatrale, che reca già in sé «il seme dell’azione», nel momento del passaggio obbliga immediatamente il testo «all’attualità scenica [e] rivela fino a che punto l’azione gli sia intrinseca in ogni parola». La traduzione deve dunque tener conto della peculiarità della parola drammaturgica «che è una parolaazione»8. Alle suggestioni luziane di un palcoscenico testimone e «prova del fuoco» costante fa eco la riflessione che la traduzione per la scena ha per destinatari due soggetti diversi: l’attore e lo spettatore. Per Roberto Menin è necessario che il traduttore sia sempre consapevole di dover fornire «al regista un testo che possa essere agilmente recitato dagli attori e compreso con chiarezza e semplicità dal pubblico»9. Operazione non sempre scontata dal momento M. Luzi, Sulla traduzione teatrale, in «Testo a fronte», 3 (1990), pp. 97-99. La conclusione del breve saggio coincide con l’auspicio a suo parere «indispensabile che il traduttore di poesia teatrale lavori di conserva con tutti coloro che allestiscono lo spettacolo e prenda parte al vivo della sua preparazione». Ivi, p. 98. 9 R. Menin, Il concetto di recitabilità e la sua applicazione nella traduzione teatrale, in «Studi Germanici», 5 (2014), pp. 303-328, qui p. 303. 7 8 89 luisa giannandrea che il passaggio di una pièce da una lingua all’altra implica spesso anche un salto tra piani spaziali, temporali, geografici e culturali. Situazione ideale, ma non sempre attuabile, sarebbe allora quella in cui traduttore e regista collaborino in maniera stretta, impegnandosi in un lavoro di ripetute e reciproche negoziazioni10. Se è vero che una traduzione può essere un’operazione più difficile dello scrivere11, se inoltre una messinscena è, ogni volta, un atto creativo (gli attori recitano per un pubblico sempre diverso e una recita non è mai l’esatta replica di quella precedente), si comprende come entrambi siano più che mai il risultato di una serie ininterrotta di mediazioni. Di quanto detto fino a ora molto sembra attenere al caso del nostro testo. Quello che il professor Lauria propose per la recita annuale era Lo studente vagante in Paradiso (Der fahrende Schüler im Paradies, 1550)12, un Fastnachtspiel scritto quattrocento anni prima in un panorama distante non solo dall’Italia degli anni Cinquanta del Novecento ma anche da quella del secolo di Sachs. 2. Il testo di Sachs I Fastnachtspiele erano delle brevi farse da recitare la sera del martedì grasso. Atti unici e con pochi personaggi, non avevano né cornice né suddivisione in scene13. Generalmente le messinscena venivano allestite da piccole brigate che si spostavano di taverna in taverna, talvolta anche all’interno di abitazioni private. Ivi, p. 327. A dirlo è Eugenio Montale che a proposito della sua attività di traduttore scrive: «[t]radurre è difficile, in un certo senso più difficile che scrivere opere originali. Si può diventare un grande scrittore in proprio usando poche centinaia di parole; ma per tradurre occorre una vasta tastiera e una profonda conoscenza di almeno due lingue (quella da cui e quella in cui si traduce) e dei possibili scambi, delle possibili equivalenze delle due lingue in giuoco». E. Montale, Buon anno senza perle ai traduttori mal pagati, in «Corriere d’Informazione», 28-29 dicembre 1949, ora in E. M., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Mondadori Milano, p. 886. 12 Il titolo originale è Der farendt Schuler im Paradeiß. 13 Vedi oltre, pp. 6-7 e in particolare nota 19. 10 11 90 lo studente in paradiso di Hans Sachs La trama della farsa di Sachs ruota tutta attorno a un equivoco. Un giovane studente di rientro da Parigi, come quelli che si spostavano da un’università all’altra chiedendo ospitalità lungo il cammino, bussa alla porta di una casa di contadini. La donna, moglie in seconde nozze di un uomo ricco ma avaro, fraintende «Paris» (in italiano ‘Parigi’) con «Paradiß» (in italiano ‘paradiso’) e da qui prende avvio tutto l’inganno. L’ingenua chiede allo studente se per caso in «Paradiso» avesse mai incontrato il suo primo, caro e defunto marito. Il giovane, intuita l’occasione di un buon imbroglio, riesce a farsi dare denaro e indumenti da portare al pover’uomo al suo ritorno nel regno dei cieli. Il contadino, saputo dell’accaduto, si mette furioso sulle tracce dello studente. Ma all’ingenuità della moglie, dipinta con tutti i caratteri della donna stupida e credulona quanto in fondo buona di cuore, non corrisponde una maggiore assennatezza del marito. Tradito dalla tracotante sicurezza, rimane a sua volta gabbato dal furfante che lo lascia a piedi senza cavallo. Il testo si conclude con una morale: in fondo, le donne non sono così stupide; anzi, contrariamente dai mariti uomini, esse sono buone di animo. Nel matrimonio, quindi, regnino la comprensione e l’indulgenza. È questo l’augurio finale che Sachs, attraverso le parole di un marito pentito, offre al suo pubblico. 3. Una prima differenza: la struttura Stando alla terminologia della ricerca, lo Studente vagante in paradiso è a tutti gli effetti un esempio di «traduzioneassimilazione»14. E lo si nota già partire dall’impianto drammaturgico, molto diverso in italiano. 14 Il concetto di «traduction-assimilation» è contraposto da J. Koustas a quello di «traduire oui, mais sans traduire», laddove la prima è una traduzione che ha una maggiore attenzione per la cultura di arrivo e la seconda, detta anche «conservativa», rispetta il testo di partenza anche a rischio di risultare incomprensibile per il destinatario. J, Koustas, Traduire ou ne pas traduire le théâtre? L’approche sémiotique, in «Traduction, Terminologie, Rédaction: Études sur le text et ses transformations», vol. I, 1 (1988), pp. 127-128, citato da B. Delli Castelli, Traduzione teatrale e codici espressivi, in «Traduttologia», I (gennaio 2006), 2, pp. 55-70, qui p. 67. 91 luisa giannandrea Dal passo citato in precedenza, si comprende come la necessità di fornire informazioni su un autore così poco conosciuto debba aver persuaso il professore salernitano a pensare un’introduzione, utile anche a motivare la scelta del testo. Altro discorso riguarda l’epilogo; oltre a completare la cornice e forse a rispettare una consuetudine legata a un preciso contesto (la recita scolastica), sulla quale in mancanza di altre testimonianze possiamo solo congetturare15, aggiunge un ulteriore finale. Lo studente, che Lauria decide evidentemente di punire, finisce per perdere tutto: Io sono l’epilogo, un poco come la morale delle favole antiche. […] Costui [lo studente] infatti anche aveva detto che con tutta quella roba carpita sarebbe riuscito a viverci più di un anno, tornato sulla strada di Avignone […] fu privato del cavallo dall’astuzia di una zingara. Due giorni dopo, le arti di una savia ostessa, lo ripulirono al gioco degli scacchi di tutto quanto gli restava. Di tutte le scienze e le arti che possedeva lo studente non aveva conosciuto quelle del gioco […]16. Solo in ultima battuta riprende – molto liberamente – il senso della morale sachsiana che in chiusura di farsa il poeta tedesco aveva affidato, come detto, al contadino: […] Das dem Mann auch entschlupfft ein fuß, […] Das er auch nit weiß genug. Denn zieh man scha gen achaden ab, Darmit man friedt im Ehstandt hab Und keyn uneinigkeyt auff wachs; Das wünschet uns allen Hans Sachs17. 15 Il professore motiva la scelta della pubblicazione con la circostanza del brutto tempo che impedì la messa in scena. Per non vanificare gli sforzi di docenti e studenti nel preparare lo spettacolo, anche a futura memoria pensò bene di conferirgli il meritato onore nella forma di libretto. 16 SL, p. 19. 17 SK, pp. 101-102. 92 lo studente in paradiso di Hans Sachs […] Diciamo solo che sbagliano le donne ma sbagliano anche gli uomini e che, perciò, un’indulgenza reciproca sarebbe un guadagno per tutti18. Oltre alle novità del prologo e dell’epilogo, Lauria introduce una divisione in tre scene, assente nell’originale di Sachs. Il poeta, così come tutto il teatro tedesco degli esordi, non ne conosceva l’uso19. Tuttavia, nell’economia generale del testo, di questo come degli altri, è facilmente intuibile l’esistenza di unità più piccole: qui, ad esempio, è facile distinguere tre momenti del racconto cui corrispondono tre diverse ambientazioni20. Il primo ha luogo nella la casa dei contadini e ha come protagonisti prima la donna e lo studente vagante e poi moglie e marito; il secondo presso la palude dove avviene l’incontro tra l’uomo e il giovane non riconosciuto; il terzo di nuovo in casa con il dialogo tra i due contadini e il monologo conclusivo dell’uomo. Lauria, quindi, non fa altro che indicare nel paratesto una divisione già in essere. 4. Versi e personaggi L’adattamento italiano sceglie anche di abbandonare il verso tradizionale sachsiano (il Knittelvers) e di optare per la più semplice prosa, aggirando in tal modo le difficoltà legate alla traduzione «poetica» e portando l’opera teatrale su dei codici espressivi più riconoscibili. Il processo di «assimilazione» tocca anche i personaggi. Sachs li chiama semplicemente «der Pawr» (‘il contadino’), «die Pewrin» (‘la SL, p. 20. La segnalazione della conclusione di una scena avveniva in genere con l’uscita di tutti i personaggi. Questo accadeva anche nei drammi cosiddetti «seri», dei testi teatrali molto più lunghi che trattavano solo argomenti solenni e che, però, erano divisi in Atti. 20 Così fa notare H. Kugler per il quale il testo «gliedert sich, obwohl keine Akt- oder Szeneneinteilung angegeben ist, eindeutig in drei gleichgroße Drittel». H. Kluger, Meisterliederdichtung als Auslegungskunst. Zur impliziten Poetik bei Hans Sachs, in D. Klein, Vom Mittelalter zur Neuzeit. Festschrift für Horst Brunner, Reichert, Wiesbaden 2000, pp. 541-557, qui p. 554. 18 19 93 luisa giannandrea contadina’) e «der farent Schuler», (‘lo studente vagante’) mentre in italiano diventano rispettivamente Giovanni, Irene e Pupetto. Anche il defunto marito si guadagna il nome di Giacomino: Die Pewrin geht ein und spricht: Ach wie manchen seufftzen ich senck, Wenn ich vergangner zeit gedenck, Da noch Lebet mein erster Man, Den ich ye lenger lieb gewan, Dergleich er mich auch wiederumb, Wann er war einfeltig und frumb. Mit jm ist all mein frewt gestorben, Wie wol mich hat ein andr geworben Der ist meimb ersten gar ungleich […]21. IRENE (entra in scena con uno straccio in mano, e coi gesti fa mostra di spolverare e di rassettare; ogni tanto s’interrompe). Ohimè quali sospiri mi tocca mandare, quando penso al mio defunto marito, al quale io volevo sempre più bene, così come lui mi ricambiava di un amore sempre più grande, perché egli era di animo franco e pio. Con lui è morta ogni mia gioia, benché ora mi abbia sposato un altro. Ma Giacomino era Giacomino! Costui, invece, è troppo diverso dal mio primo marito [...]22. Hans Sachs, in realtà, riflette la consuetudine di gran parte del teatro della Frühe Neuzeit, nel quale i personaggi erano ancora «tipi» e non «individui» e le loro azioni erano basate su stereotipi o cliché riconoscibili. La scelta del traduttore si basa anche qui su una negoziazione tra due modelli culturali. Gli anonimi tipi sachsiani rappresentati dal contadino, dalla contadina e dallo studente sembrano guadagnare «individualità» se chiamati Giovanni, Irene e Pupetto (e Giacomino). Tuttavia, essi restano dei personaggi 21 H. Sachs, Faßnacht spiel mit 3 Personen: Der farendt Schuler im Paradeiß, in H. Sachs, Meisterlieder, Spruchgedichte, Fastnachtspiele, hrsg. v. H. Kugler, Reclam, Stuttgart 2003, pp. 87-101, qui pp. 87-88 (da ora in poi SK). 22 SL, p. 12. 94 lo studente in paradiso di Hans Sachs «piatti» (o statici), poiché, diversamente da quanto avviene in quelli «a tutto tondo» (o dinamici), rimangono sempre uguali a se stessi23. 5. Le didascalie Non si può procedere al confronto dei due testi senza affrontare la questione «didascalie». Molto andrebbe detto a riguardo; qui basti solo ricordare che questo teatro, in generale, era assai parco in fatto di indicazioni di regia poiché molto era affidato all’occasionalità della messinscena e all’iniziativa personale dell’attore che a sua volta si basava su delle routines, dei codici recitativi standardizzati sui diversi «tipi» teatrali. L’autore del testo, quindi, si limitava a indicare l’entrata e il turno di parola del personaggio, e solo in qualche caso aggiungeva un accenno all’espressione («piangendo», «a voce alta», «sottovoce», «a se medesimo», ecc.) e alla gestualità («con le mani al cielo», «tenendosi per mano», «battendosi il petto», ecc.). E così, per citare ancora l’esempio precedente, se a Hans Sachs bastava scrivere che «la contadina entra in scena e dice», non deve sorprendere che quattro secoli dopo, nella versione italiana, si legga che Irene «spolvera, rassetta» e «ogni tanto si interrompe» assorta nei pensieri. Gli esempi si susseguono numerosi: Der farendt Schuler gehet ein unnd spricht: Ach liebe Mutter, ich kumb herein, Bit, laß mich dir befohlen sein, Mit deiner milten handt und gab Wann ich gar viel der künste hab, Die ich in Büchern hab gelesen. Ich bin in Venus berg gewesen, Da han ich gsehen manchen Buler; Wiß, ich bin ein farender Schuler Und fahr im Lande her und hin Von Pariß ich erst kummen bin Itzundt etwa vor dreien tagen24. Cfr. E.M. Forster, Aspects of the Novel, Harcourt – Brace, New York 1927. SK, p. 88. 23 24 95 luisa giannandrea LO STUDENTE VAGANTE (Si affaccia, prima timido, sulla porta, poi sempre più sicuro di sé) – Buona gente! Oh salute, buona donna! Io sono uno studente, uno (sillabando) stu-den-te e mi affido al vostro cuore generoso perché mi aiutate offrendomi qualche cosa. Devo andare lontano, a studiare sui libri, sui… (sillabando e aprendo le braccia a significare una grossa pila di libri con senso di misterioso stupore) li-bri, per apprendere tutte le scienze e le arti che restano. Le posseggo già quasi tutte. Ora vengo fresco fresco da quel paradiso di Parigi e sono diretto ad Avignone25. Si noti, inoltre, che in italiano le indicazioni compaiono anche dentro i turni di parola: nel passo appena riportato la didascalia «sillabando» per due volte dà all’attore indicazioni sulla pronuncia. Nell’adattamento italiano vi sono altri elementi che acquisiscono importanza: la mimica e la gestualità. Le didascalie inserite da Lauria sembrano dimostrarvi, infatti, una certa affezione («aprendo le braccia a significare una grossa pila di libri con senso di misterioso stupore»). Di certo, in un contesto amatoriale di fine anni Cinquanta sarebbe stato difficile pensare una recita senza un adeguato paratesto didascalico. Eppure, la tendenza a rimarcare l’effetto comico attraverso l’atto gestuale è da collegarsi, a mio parere, a un opposto alleggerimento del registro verbale, che nell’originale sachsiano tende ad essere, per la natura stessa del genere Fastnachtspiel, assai più volgare e in certi casi persino offensivo. Per esempio, scompaiono del tutto alcune espressioni pesanti rivolte al genere femminile, frequenti, a dire il vero, al tempo di Sachs. Quando la contadina/Irene esce di scena per preparare qualcosa da mandare al marito in Paradiso, lo studente la apostrofa con: «Das ist ein recht einfeltig Viech», che in italiano risulterebbe più o meno: «Questa è proprio un’oca scimunita». Nel testo italiano, al medesimo posto, si legge: «Sì, ma fate presto! (a parte) prima che non abbia a venire il marito e darmi altro che salame». L’offesa alla donna è cancellata, i restanti sette versi si riducono nel breve a SL, p. 12. 25 96 lo studente in paradiso di Hans Sachs parte e l’effetto comico affidato sia all’immagine resa dallo studente, che si figura già malmenato dal contadino, sia al velato doppio senso della frase «altro che salame!». Anche il marito non risparmia offese alla moglie. Rientrando in casa e non potendo fare a meno di notare la felicità della donna, le dice: «Alta (‘vecchia’), wie das fröhlich bist»26, che Lauria traduce: «– Olà, ma come sei allegra moglie mia!»27. E più avanti si sfoga da solo: Ach, Her Gott, wie hab ich ein Weib, Die ist an Seel, Vernunft und leib Ein Dildap, Stockfisch, halber Nar, Jrs gleich ist nit in unser Pfarr […] Und mein Weib wol mit feusten bern, Des plobel geben umb die augen, Das sie jr thorheit nit kün laugen! Ach, ich bin halt mit jr verdorben! Ach das ich hab umb sie geworben, Daß muß mich rewen all mein tag, Ich wolt, sie het Sanct Urban blag28. L’italiano riporta: GIOVANNI (solo). Che disgrazia! Che moglie ho avuto in sorte! Sapevo che le donne sono oche ma questa è uno stoccafisso. Non ce n’è una simile in tutta la parrocchia! E proprio a me doveva toccare, proprio a me che sono stato sempre accorto e non me la sono fatta fare mai da nessuno […]29. I pesanti insulti personali («Die ist an Seel, vernunfft und leib / Ein Dildap, Stockfisch, halber Nar», che tradotti alla lettera sarebbero: ‘È proprio tutta scema, nel capo e nel corpo, uno stoccafisso, una mezza matta’) vengono ridotti al solo «stoccafisso», mentre la SK, p. 93. SL, p. 15. 28 SK, p. 95. 29 SL, p. 16. 26 27 97 luisa giannandrea parte finale, dove l’uomo la vorrebbe «mit feusten bern» (‘picchiarla con le sue mani’), o ancora «Des plobel geben umb die augen» (‘farle un occhio nero’), sperando che la colga la «Sanct Urban blag» (‘il ballo di San Vito’), viene completamente eliminata. 6. Aspetti linguistici e culturali Ma l’argomento traduzione implica infine, e non da ultimo, delle riflessioni di carattere linguistico. Se è vero che la parola drammatica è anzitutto azione30, è facile comprendere come il passaggio da una lingua all’altra debba spesso fare i conti anche con l’aspetto ‘fisico-morfologico’, e quindi con il suono. Lo studente in Paradiso ne è un esempio. Sin dal titolo Hans Sachs, come detto, basa l’intreccio e l’effetto comico sull’assonanza tra i termini ‘Paris’ e ‘Paradis’, e sul facile malinteso che ne consegue. Per riproporre in italiano qualcosa di ugualmente equivocabile (in italiano ‘Parigi’ e ‘paradiso’ da soli non lo permetterebbero) Lauria si affida a una perifrasi. Così lo studente è di rientro non semplicemente da «Parigi» ma da «quel paradiso di Parigi»31, una soluzione che permette al traduttore di lasciare intendere alla contadina solo la prima parte della frase. Altre scelte, che si ripercuotono gioco forza anche sulla lingua, riguardano più il problema della «lontananza» tra i due testi che, come spiegato, non è solo una lontananza temporale ma anche e soprattutto culturale. E questo, come detto dallo stesso Lauria, è il filo rosso che segna tutto l’adattamento italiano. A partire dal primo dialogo, ad esempio, dove scompare il riferimento tedesco al «Venusberg», la montagna mitologica che secondo la tradizione tedesca ospitava Venere, la dea dell’amore con la quale Tannhäuser avrebbe vissuto un anno. L’analogia tra la leggendaria figura del poeta-cavaliere e lo studente era immediata per il pubblico di Sachs, al contrario quasi impossibile per quello di Lauria che sceglie, così, di menzionare la città di Avigno M. Luzi, Sulla traduzione teatrale, cit., p. 98. Vedi citazione a p. 9. Il corsivo è mio. 30 31 98 lo studente in paradiso di Hans Sachs ne, famosa nel Medioevo per la sua università. Oppure, un po’ più avanti, quando a proposito del primo marito defunto, la contadina tedesca lo seppellisce con il solo lenzuolo bianco («leilach»), mentre Irene, come si confà al nostro uso, con abito nero e scarpe: Die Pewrin spricht […] Er het ach auff ein plaben hut Und ein leilach, zwar nit vast gut, Darmit hat man zum grab besteht. Kein ander kleidung er sunst het, […]32. IRENE – […] aveva in testa un cappello turchino e indossava un vestito nero, un poco macchiato, in verità, e con qualche rattoppo. Anche le scarpe erano un po’ rotte, ma per il resto era in ottime condizioni quando lo calarono nella fossa33. Un cambiamento che, a mio parere, merita attenzione particolare si trova verso la fine della farsa e riguarda una frase del contadino che, volendo recuperare il denaro e il vestiario portati via dallo studente, si imbatte proprio nel giovane e, senza riconoscerlo, gli lascia in custodia il cavallo: Mein liebs Menlein, schaw mir zum Roß, So will ich zu fuß ubers moß Dem böswicht nach eiln und jn blewen, Das jn sein leben muß gerwen, Es soll es keinem Pfaffen beichten34. Potresti bravo giovane, darmi un’occhiata al cavallo per pochi momenti? Eccoti, dammi quel bastone. E adesso ci vuole soltanto il prete! Lo ucciderò! 35. SK, p. 89. SL, p. 13 34 SK, p. 97. Il neretto è mio. 35 SL, p. 17. Il neretto è mio. 32 33 99 luisa giannandrea La frase tedesca in questione (in neretto nel passo appena riportato) che alla lettera si può tradurre con: «Questo dovrà farlo pentire così tanto per la vita, che non dovrà neanche confessarlo al prete!», viene trasformata in: «E adesso ci vuole soltanto il prete. Lo ucciderò!». Se il Sachs, convertitosi alla Riforma oramai da diversi anni pensa bene che il castigo giusto per un peccatore sia una sonora punizione terrena e la confessione del tutto inutile, il traduttore italiano ricorda l’importanza del sacramento come ultimo atto in questa vita. 7. Conclusioni Il contesto di riferimento dello Studente vagante in Paradiso ha sicuramente giocato un ruolo importante nel processo traduttivo e, alla luce di ciò, sia permesso considerare questo come un tentativo di traduzione ‘singolare’ ma nel suo complesso valido. L’adattamento di Lauria conserva il carattere esilarante di una commedia degli equivoci che, al di là dei numerosi interventi, non perde di efficacia. La riuscita comica del testo è sostenuta anche da una maggiore fluidità dei dialoghi, più interattivi rispetto a Sachs, e dall’attenzione al paratesto. L’analisi proposta, di certo, non esaurisce il vasto argomento della traduzione teatrale; tuttavia, riesce a esemplificarne alcuni aspetti. Come dovrebbe risultare chiaro dai tanti esempi riportati, e soprattutto dalla stessa dichiarazione d’intenti di inizio prologo, l’autore della traduzione di Der fahrende Schüler im Paradies sottopone il testo tedesco a una forte azione di «assimilazione». E lo fa agendo su diversi livelli. A livello dell’impianto drammaturgico, dove la piéce italiana guadagna una cornice e la divisione in scene, verosimilmente per favorire la comprensione da parte del pubblico di arrivo che molto poco doveva sapere su Sachs e sul suo teatro. A livello di paratesto, dove la presenza massiccia delle didascalie serve al traduttoreregista a rimanere nella sua tradizione e, dunque, a fornire agli attori delle indicazioni precise sulla recitazione, sulla mimica e sulla gestualità. A livello di registro linguistico, che in italiano 100 lo studente in paradiso di Hans Sachs viene sfrondato degli eccessi di volgarità caratteristici della farsa carnascialesca del XVI secolo. Allo stesso tempo, la perdita di carica comica sembra essere compensata proprio da una marcata gestualità che il traduttore segnala costantemente nelle didascalie. Infine, a livello culturale. Ogni elemento legato alla tradizione di Sachs che non trova legami con quella dell’Italia di Lauria viene «tradotto» in questa. Scompare così il difficile riferimento al Venusberg e anche il lenzuolo bianco della sepoltura è sostitui to da abito nero e scarpe. Persino il sacramento della confessione non poteva conservare quell’atteggiamento di derisione che, invece, il protestante Sachs non riusciva a nascondere. 101 María Gracia Torres Díaz La traducción y la interpretación consecutiva del cuento 1. La traducción del cuento En los estudios de teoría de la traducción literaria, al analizar los cuentos, con frecuencia se descuida el hecho de que la traducción literaria infantil difiere en gran medida de la destinada a un público adulto. En la traducción literaria infantil se pone mucho énfasis en las adaptaciones culturales y morales del texto original, y por esto, entre otros motivos, algunos traductores se quejan de que no exista una teoría de la traducción específica del cuento infantil, pues más allá de las fuerzas de la manipulación de los mercados y de los beneficios de los editores, al traductor se le plantean problemas relacionados con el proceso mismo de la traducción específicos de este contexto que no se le plantearían si estuviese traduciendo para un público adulto. Al tener los niños una limitada experiencia, los traductores se encuentran con conflictos al adaptar el texto, no solo al nivel de conocimiento del niño, sino también a su entorno cultural específico. El nivel de conocimiento está relacionado con el nivel cognitivo del niño según su edad y éste además está supeditado a la cultura que le educa. Un niño en el sistema educativo sueco comienza su formación a los siete años, un niño británico a los cuatro. Las diferencias culturales entre el texto origen y el texto meta que puedan ser objeto de censura también deben ser consideradas. Las versiones traducidas tienen que superar por un lado los requisitos de los grupos intermediarios a los que también va dirigido el cuento (los padres y los educadores), y por otro, los requisitos del niño. María Gracia Torres Díaz Un traductor de obras infantiles tendrá siempre menos libertad de actuación, pues los requisitos de la edad, conocimiento de vocabulario y conocimiento del mundo, así como las fronteras que marca la cultura en las que el texto meta se enclava, limitarán el ejercicio del traductor mucho más que si tradujera para un lector adulto. La mayoría de los cuentos infantiles que se traducen provienen de países culturalmente cercanos, entre otras razones porque existen distintas nociones de infancia en las distintas culturas. Por un lado, una traducción ofrece la posibilidad de enriquecer una cultura determinada, pero también esa traducción puede provocar rechazo. A veces, la traducción tiene éxito si el elemento cultural extraño permanece como reconociblemente extranjero, consiguiendo pasar así el primer filtro, el del educador y el del padre, porque el niño, al leerlo en su lengua, y al estar todavía en la incipiente absorción de su propia cultura, no lo reconoce como extranjero. Con respecto a este punto Bell nos dice: «With each individual book, you must gauge the precise degree of foreignness, and how far it is acceptable and can be preserved – for another thing you don’t want to do is level out to such an inoffensive blandness that the original atmosphere is lost»1. Más aún, para algunos educadores, traductores y editores, el producto final no debe evitar lo extranjero, porque si se mantiene, el niño incrementa su comprensión del mundo. Como dice Carus: «The earlier in life young children are exposed to one or several foreign cultures, the more open-minded they will be later on»2. De hecho, el objetivo en sí de la traducción es incrementar la visión internacional, la experiencia emocional de entornos extranjeros y otras culturas3. Los niños tienen que aprender a ver diferencias y semejanzas con otros seres humanos, y así podrán entender que personas de otras culturas tienen sus mismos problemas, y sentirán 1 A. Bell, Translator’s notebook: the naming of names, en «Signal», 46 (1985), pp. 3-11. 2 M. Carus, Translation and Internationalism in Children’s Literature, en «Children’s Literature in Education», 11 (4), 1980, p. 174. 3 Cfr. G. Klingberg, Children’s Fiction in the Hands of the Translators, in «Studia Psychologica et Paedagogica». Series altera LXXXII. Bloms Boktryckeri Ab, Lund, 1986, p. 10. 104 La traducción y la interpretación consecutiva del cuento que ellos mismos no están solos, y que aunque existan diferencias entre las culturas, el principio de la universalidad no entiende en sí de diferencias culturales. «Take the children out of themselves into entirely new worlds and let them find there children exactly like themselves» – nos dice Burns, así como que el niño lector no tiene que tener la impresión de que se encuentra ante una traducción, sino ante un original4. Aunque los cuentos traducidos provengan de culturas muy cercanas a la nuestra, todos pasan por un proceso de adaptación. El traductor adapta la obra en función de la cultura meta y de la edad del niño a la que aquella se dirige. En teoría, esta adaptación no iría en detrimento del contenido, pero si se realiza no solamente en aspectos relativamente pequeños sino de manera global, puede haber tantas diferencias con respecto al producto original que sea prácticamente irreconocible5. Estas adaptaciones, necesarias o no, o más política o religiosamente correctas, afectan también a las ilustraciones que se cambian en función de las expectativas culturales de la cultura meta o las características intrínsecas de la lengua, como puede ser el género gramatical, que cambia de lengua a lengua o no existe: por ejemplo, en español e italiano, la luna es femenino y el sol masculino, mientras que en alemán ocurre lo contrario. Aunque la mayoría de las obras infantiles traducidas vayan dirigidas a otras zonas geográficas con otras culturas y lenguas distintas, la traducción también puede aparecer en publicaciones bilingües dirigidas a públicos biculturales en un mismo país. Así, encontramos publicaciones de este tipo en España en euskera/catalán/ gallego y castellano. En estos cuentos, el texto de cada una de las lenguas aparece en secciones distintas, por ejemplo por encima y por debajo de la ilustración, como es el caso del cuento de Cape4 M. Burns, The work of the translator, en L. Persson (ed.), Translations of Children’s Books, Bibliotekstjänst, Lund 1962, p. 94 y pp. 68-94. 5 «Translations of literature are like children of their originals. They live in another culture and, like children, they may well grow up to be quite different from their parents and from one another». De Brian Harris, Fairy tales updates: http://unprofessionaltranslation.blogspot.com.es/ 105 María Gracia Torres Díaz rucita Roja en inglés y galés6. En la cubierta se lee una nota que explica el público al cual va dirigido: «This book has been produced in Welsh and English so that it can be enjoyed by children coming from both Welsh and English speaking homes. Welsh speaking parents, and those learning Welsh, can read the Welsh version, while English speaking parents can read the English version». A veces, estas publicaciones no van dirigidas a zonas geográficas bilingües, sino a niños bilingües en las distintas combinaciones lingüísticas, y también nos encontramos con publicaciones bilingües que lo que intentan es hacer llegar una lengua extranjera que se considere importante, como puede ser el inglés. En otros países, encontramos incluso publicaciones multilingües de cuentos como la que aparece en la siguiente imagen: Imagen de: Folktales from Australia’s Children of the World La obra, publicada en Australia en 1979 (año internacional del niño), recoge 33 cuentos, todos ellos traducidos al inglés, y en su prólogo se resalta el valor formador de este libro para el niño australiano: «Not only are children a catalyst in drawing together all members of our society, but they are the future leaders and builders of the richly varied society that Australia is becoming. In 6 H. Amery – S. Cartwright, Hugan Fach Goch-Little Red Riding Hood, Usborn Publishing – Dref Wen, Cardiff 2009. 106 La traducción y la interpretación consecutiva del cuento building our nation, an understanding and appreciation of each other’s background is vital». Y prosigue: «Australia’s children come from many different lands – in fact, more than one hundred – with a rich variety of childhood stories. My purpose is to have some of this rich heritage brought together. By sharing in this way, through the eyes of our children, we will be drawn closer together as people»7. La importancia de transmitir otras culturas al niño en temprana edad hace que muchas editoriales se planteen la creación de cuentos con temas por un lado dirigidos hacia la población infantil proveniente de otras culturas, y por otro al niño autóctono que desconoce esa cultura. El objetivo de estos trabajos es fomentar la integración y favorecer la formación del alumno autóctono informándole de la existencia de otras maneras de entender el mundo. Ponemos el ejemplo del cuento To the temple for arti, obra en la que se relata una visita a un templo hindú en Inglaterra. En el cuento aparecen ilustraciones por las que sabemos que la acción transcurre en este país y no en la India, que describen una manera de vestir distinta (en el caso de la madre), que muestran el templo y a los personajes realizando rituales como el ofrecimiento de fruta a los dioses, agitar las manos por encima de la lámpara encendida, descalzarse a la entrada del templo o sentarse a rezar en el suelo sobre una alfombra. Las imágenes describen a unos niños aparentemente occidentales, pero con unos gestos y expresiones de candidez y obediencia más propias quizás de las ilustraciones de un cuento hindú. Al final del cuento el autor aporta un glosario de términos en hindi8. En España, encontramos publicaciones en las que se presenta brevemente otra cultura al niño, como la colección de Caballo Viajero (2007). Aunque no se especifica en la obra, la lista de culturas que ofrece la colección (Ecuador, Marruecos, China y Rusia) parece tener que ver con la procedencia de muchos de los niños extranjeros escolarizados en los centros educativos españoles. En la P. Hamlyn, Folktales from Australia’s Children of the World, Ure Smith, Sydney 1979. 8 J. Jones, To the temple for arti, Blackie Schools, London 1987. 7 107 María Gracia Torres Díaz contraportada de estos cuentos aparece la siguiente información: «Caballo viajero es una colección que presenta los rasgos característicos de algunas culturas del mundo de la mano de la reina Trotamundos y su caballo viajero», y cada cuento acaba con una curiosa frase – «Y si queréis saber más cosas sobre Ecuador, preguntad a algún vecino que sea de allí si quiere ser amigo vuestro» –, que deja entrever una realidad posible en España, o sea la de tener un vecino del país hispanoamericano9. En Francia, nos encontramos con cuentos en los que aparece un personaje con otros orígenes. Ejemplo de esto es el cuento Mon papa roulait les R (2008), dedicado a una primera generación de hijos de emigrantes, basado quizás en la experiencia de su autora, Françoise Legendre, francesa hija de padres rumanos. La portada del cuento nos muestra a una niña de rasgos exóticos con un gran gorro de piel. El cuento evoca la historia de esta niña que vive en Francia con su padre extranjero que hace cosas propias del inmigrante en los años sesenta: envía paquetes de medicinas y café a su familia y los telefonea por Navidad. La niña protagonista hace hincapié en el acento de su padre, en sus amigos extranjeros y en las palabras que aprende en otra lengua. En la contraportada del cuento aparece un sello de Amnistía Internacional que dice: «Parce que les différences sont encore trop souvent source de conflits dans le monde, cet álbum rappelle combien la diversité est un enrichissement»10. Otras colecciones infantiles francesas optan por un cuento en un contexto foráneo, como puede ser la India, para presentar el día a día de una niña hindú. El cuento también aporta un glosario con términos hindúes explicados. La necesidad de la transmisión de las realidades culturales de otras culturas al receptor infantil es lo que hace que nos encontremos con estos tres evidentes sectores emisores dentro de la literatura infantil: la traducción, la creación bilingüe y el cuento que relata una historia culturalmente distinta. M. Ganges – P. Monserrat, La reina trotamundos en Ecuador, Combel Editorial, Barcelona 2007. 10 F.Legendre – J. Gueyfier, Mon papa roulait les R, Sabarcane, Paris 2008. 9 108 La traducción y la interpretación consecutiva del cuento 2. La interpretación del cuento La transmisión del cuento no acaba sin embargo en la obra escrita. Ajena a la traducción del cuento y a su interpretación filológica y crítica, y compartiendo a su vez escenario con los tradicionales «cuentacuentos», la figura del intérprete que traduce a otra lengua los cuentos que se leen en el aula se hace cada vez más frecuente en zonas con alumnos inmigrantes. El objetivo que persigue la interpretación del cuento, al igual que su traducción, es favorecer al mismo tiempo la integración cultural del niño extranjero y la formación cultural del autóctono. Se leen tanto cuentos autóctonos locales como universales, así como aquellos provenientes de la cultura del niño inmigrante. La interpretación del cuento es un híbrido de la traducción literaria y de la interpretación social, porque tiene lugar en un contexto público: el colegio. Desconocida por muchos, incluso dentro mismo del ámbito de la interpretación, la interpretación literaria puede darse en tres modalidades y en dos contextos distintos: 1. En la modalidad de simultánea: en el contexto de un teatro y hacia el lenguaje de signos. Se realiza sobre todo en Estados Unidos, Australia y el Reino Unido. 2. En la modalidad de consecutiva y también en la modalidad de simultánea si se realiza la interpretación hacia el lenguaje de signos: tiene lugar en colegios con alumnos inmigrantes que todavía desconocen la lengua autóctona. Se hace sobre todo en el Reino Unido, Canadá, Estados Unidos y Australia. 3. Utilizando un híbrido de la traducción y la interpretación: la traducción a la vista. Canadá, Estados Unidos, Australia y el Reino Unido son sin duda países pioneros en cuanto a la interpretación social y la interpretación literaria. El ejercicio de interpretación lo realizan intérpretes acreditados como Educational Interpreters, Classroom Interpreters o Community Interpreters11. Estos especializados intérpretes 11 Sin embargo, en algunos colegios de Canadá, durante los años 90, la interpretación la hacían niños no especialistas, como nos informan B. Harris y C. 109 María Gracia Torres Díaz efectuarán también otras actividades dentro de este contexto, como puede ser la matriculación de un alumno, la lección impartida por un profesor o la consulta padre-profesor12. El intérprete puede incluso que alterne la actividad de traducción oral con la escrita, traduciendo igualmente las notas que el profesor envía a los padres de un alumno. Aunque el aprendizaje de la nueva lengua sea rápido en el niño, mucho más que en el adulto, estos países utilizan la figura comunicativa del intérprete en todo el ámbito escolar, pues son conscientes de que si la comunicación no es efectiva, el progreso y desarrollo emocional del niño se verá afectado negativamente13. Como hemos mencionado ya, ajeno a la labor y las inquietudes de los traductores de cuentos, el intérprete de cuentos narra una historia a uno o varios niños, sin la censura de intermediarios parentales y editoriales, sin recurrir a la adaptación cultural sino más bien a la explicación de lo extraño, pues en el caso del niño foráneo, aunque sea desconocedor total o parcial de la lengua autóctona, puede compartir sin embargo en algunos casos el mismo entorno cultural y social que el niño autóctono. 3. Conclusión A pesar de estar volcados en un mismo fin, la transmisión de un mensaje a un público infantil, traductores e intérpretes de cuentos no utilizan, como hemos visto, ni las mismas herramientas ni las mismas estrategias para la comunicación efectiva del mensaje. Sin embargo, ambas actividades comparten un lugar marginal en algunos países como España, dentro de los campos que represenBullock en «School Children as Community Interpreters», en First International Conference on Interpreting in the Legal, Health and Social Services Settings, Benjamins, Amsterdam 1996. 12 M.G. Torres Díaz, La interpretación comunitaria y la modalidad de diálogo, e M.S. Salaberri Ramiro – M.E. García Sánchez (eds.), Modelos de programación para la enseñanza del inglés y materias afines en formación universitaria, Universidad de Almería, Almería 2001, p. 47. 13 Cfr. O. Sacks, Seeing voices, Vintage books, New York 1989. 110 La traducción y la interpretación consecutiva del cuento tan la traducción y la interpretación. La traducción de la literatura infantil tiene un papel secundario y una posición marginal con respecto a las otras traducciones literarias14. Igual ocurre con la interpretación en colegios, que en cuanto a prestigio va muy por detrás de la interpretación de conferencias, o de la social en otros contextos como el médico o el jurídico. En muchos casos, tanto la traducción como la interpretación en este sector la realizan no profesionales. 14 Quizá contribuya a ello que la traducción se pague por palabras y que los cuentos infantiles en general sean breves. Casi nadie parece reconocer la complejidad de traducir estos textos, y de hecho en ninguno de los cuentos traducidos que he consultado, españoles o extranjeros, aparecía el nombre del traductor. 111 Laurie Anderson Leveraging pragmatics in the translation classroom: Promoting active learning through literary translation towards the ‘non-mother’ tongue The present contribution illustrates how the use of literary texts in the translation classroom can act as a catalyst for helping students develop a metalinguistic awareness of differences between linguistic systems and an ability to translate more successfully by stimulating a pragmatic perspective on language use. Literature possesses a unique power to transport the reader from his/her ordinary context into the world evoked by the text - in particular, those modes of narrative that adopt techniques of internal focalization to present the thoughts, experiences, and points of view of fictional characters. Drawing on action-research with three cohorts of students who followed a bi-directional course in Italian-English/ English-Italian translation at a C1 level, I show how this potential of literary texts can be harnessed pedagogically through a process of «deictic re-anchoring», which guides learners to experientially engage with the fictional world of the text by shifting their point of view on events to coincide with the temporal and spatial localization of the «thinking/speaking subject». This technique is illustrated through the discussion of a pedagogic design intended to help students learn how to render the «future in the past», an aspect particularly subject to negative interference in translating between Italian and English. The paper highlights how a taskbased approach that involves students vicariously in the fictional world of the text, supported by schematic representations of the options available in the source and target language for expressing degrees of epistemic certainty/uncertainty, can foster an awareness of and ability to overcome syntactic interference due to hypo-dif- Laurie anderson ferentiation, i.e. a failure to recognize and employ in contextually appropriate ways the full range of target structures that constitute «translation equivalents» of a given structure. In closing, implications for the design and delivery of translation courses at the university level are discussed1. 1. Rethinking translating towards the ‘non-mother’ tongue in the translation classroom Traditionally, teaching students to translate towards their ‘non-mother’ tongue has been viewed with a certain suspicion. The strong version of this view is that in order to guarantee the production of top-quality translated texts, translators should work solely towards their ‘native’2 language. This position is held by a number of professional organisations and by various translation theorists3. Both psycholinguistic and cultural reasons are typically invoked: not only, it is claimed, do those translating towards their This article is based on ongoing action-research carried out with three cohorts of third year students of English (language majors) at the University of Siena’s Arezzo campus between 2012 and 2015. Taking as a comparative sample those students who demonstrated the possession of a C1 level of general English in the same exam session (respectively June 2013, 2014, 2015), the percentage of students who correctly translated all cases of reported thought/speech from Italian to English (including cases of free indirect discourse) increased over the threeyear period. As in all non-experimental modes of educational research, there are a number of other variables in addition to the shift in teaching strategies employed that could have influenced this result; my colleagues and I feel, however, that at least part of the effect can be attributed to the refinement of the teaching strategies adopted. 2 In line with work on English as a Lingua Franca that problematizes the concept of the «native speaker» in today’s increasingly mobile and heteroglossic world, here and elsewhere the expressions «native/non-native speaker», «mothertongue» and «non-mother tongue» appear in inverted commas to highlight the problematic status of the constructs in question. 3 For a discussion of the (often implicitly expressed) positions of several classic theorists, including G. Steiner, P. Newmark, L. Venuti, see N.K. Pokorn, The pros and cons of translating into a non-mother tongue: Theoretical bias and practical results, in M. Grosman – M. Kadrić – I. Kovačič – M. Snell-Hornby (eds.), Translation 1 114 Leveraging pragmatics in the traslation classroom ‘native’ language have access to a broader repertoire of possible translation variants; they also possess a greater sensitivity to the collocational appropriacy of such variants thanks to their status as cultural insiders. The weak version of this view accepts the production of «service translations» by ‘non-native’ speakers of the target language, but draws the line at the translation of literary texts4. Here the argumentative line presented by C. Dollerup is representative: «[i]n literature the shortcomings of the non-native translator are obvious, for reading literature is an aesthetic experience which includes enjoyment of style and register, that is, of features which can be conveyed only by native speakers». A number of reasons call for a reconsideration of this position. The first is that it underestimates the importance of other factors that contribute to a successful translation, such as the more informed and in-depth understanding of the original text that a ‘native’ speaker of the source language often possesses. Where English is concerned, both practical considerations and issues of fairness also come into play: in today’s global marketplace the need for translations into English out of any one language greatly exceeds the number required in the other direction and, to put it quite bluntly, there is no reason why a privileged position should be reserved for ‘native’ English speakers. A final reason for rejecting the ‘nativesonly’ position, however, is that at least part of the premises upon which it is based are probably wrong: given the status of English as a lingua franca, the target readers of many translations into English are international users of English, and there is growing evideninto non-mother tongues in professional practice and training, Staffenburg Verlag, Tübingen 2000-2009, pp. 71-79. 4 Shifts over time from a «strong» to «weak» position on translating into ‘non-mother’ tongues can be discerned on the part of some well-known translation scholars. P. Newmark, for instance, who dismissed «service translations» as unacceptable in his 1988 book A textbook of translation (Prentice Hall, Hemel Hempstead, 1988, p. 52), subsequently conceded that translation of what he called «information text» could be carried out by ‘non-native’ translators, although he recommended such texts be revised in any case by a ‘native’ speaker (P. Newmark, Paragraphs on translation, Multilingual Matters, Clevedon, 1993, p. 55). See discussion in J. Weatherby, Striving against literalist fidelity in L1-L2 translation classes (Spanish-English), in M. Grosman et al., op.cit., pp. 193-203. 115 Laurie anderson ce that fluent ‘non-native’ translators with bi- or multi-lingual repertoires may be particularly well positioned to gauge how such readers are likely to process and respond to translated texts5. Should a reconsideration of translation towards the ‘nonmother’ tongue be extended to literary texts as well? Various cases of successful literary translation from lesser-used languages into English and other vehicular languages by ‘non-native’ English translators have been documented6, but the practice is admittedly an exception, and, considering the rather limited market for literary texts, it would be difficult to support a decision to teach literary translation towards the ‘non-native’ tongue on practical or linguistic justice grounds. There is no need to do so, however, if one starts from the premise – by now well-established in language teaching circles – that helping students achieve communicative competence (in the present case, developing adequate translational skills) does not necessarily mean proposing only tasks that will be encountered in professional practice. Rather, as I will highlight in what follows, what matters is engaging students in pedagogically effective language use. 2. Theoretical and practical underpinnings of the pedagogical approach presented Over the last thirty years or so, linguistic pragmatics has clearly demonstrated that the locus of meaning-making is situated language in use. This means that, while concepts like text type and text function are undoubtedly useful in translator training, the unit of analysis with which students ultimately need to engage is the individual text/discourse. How broadly in translation theory and practice one may wish to frame such engagement – rather restric5 S. Taviano (ed.), English as a lingua franca: Implications for translator and interpreter education (Special issue of «The interpreter and translator trainer», 7, 2), Routledge, London, 2013. 6 See contributions in Grossman et al. (eds.), Translation into non-mother tongues, cit. 116 Leveraging pragmatics in the traslation classroom tively, as in text linguistic approaches, or in wider cultural-semiotic terms – remains an open question7. Here, I would argue that for pedagogic purposes an effective level of conceptualization is the ‘text-act’, which can conveniently be glossed, following Morini, as «all the performative forces displayed by a text», «everything that a text aims to do and/or does in the world»8. A unique quality of literary texts, in particular fictional texts, is their capacity to imaginatively evoke other situations and contexts. This characteristic can be drawn on to help students problematize and rework existing cognitive schemes and modes of text processing. In other words, literary texts have a place in the classroom as ‘pre-texts’ for building language awareness and an ability to apply it in transposing text-acts from one language to another. One important psycholinguistic obstacle that student translators need to overcome are deeply-entrenched ways of linguistically representing degrees of epistemic certainty and the related possibility of agentive action. The following pedagogic design, which my colleagues (Piera Sestini and Irene Loffredo) and I have employed and gradually refined over several years of teaching translation courses to upper-intermediate and advanced undergraduate language majors, illustrates how translating literary texts can help Italian students learn to flexibly and appropriately render in English the so-called «future in the past», i.e. reported thought or speech anchored in past time contexts. The broader aim of this design to encourage them to assume a pragmalinguistic perspective on the translation process, which we believe is an important component of learning to translate into English as a ‘non-native’ language. But first, a brief note on the translation problem in question. 7 For a useful overview of the issue, see B. Hatim, Teaching and researching translation, Pearson Education, Harlow 2001. 8 The concept of text-act (first introduced by Hatim and Mason 1990) has had a rather checkered history in translation studies, one that to a certain extent mirrors the fortunes of speech act theory within pragmatics itself; for a recent reproposal, see M. Morini, The pragmatic translator: An integral theory of translation, Bloomsbury, London 2013. 117 Laurie anderson 3. A knotty translation issue: rendering the «future in the past» Italian learners of English often encounter difficulties in acquiring a firm control of the ample range of means the language contains for expressing epistemic modality, i.e. the speaker’s/ writer’s degree of certainty/uncertainty about the existence or future occurrence of given states or events. Even among highlycompetent speakers who employ English daily for professional purposes, the use of the modal verbs and modalizing expressions available to express fine-grained distinctions concerning possibility/probability may diverge in various ways from that of ‘native’ speakers in similar contexts9. Where reports about the epistemic stance of other speakers/thinkers are involved, and particularly where over the course of talk/discourse these states are in a state of flux, these difficulties may be compounded. Translating narrative texts containing reported thought or speech can therefore prove particularly challenging, particularly where techniques such as free indirect discourse are employed, for two reasons that I will briefly detail below. The first is that translating reported discourse requires an ability to recognize (in reception) and render (in production) a deictic system that exhibits properties of dual articulation. Person, time and spatial reference need to simultaneously accommodate the perspectives of both the narrator and the person(s) whose speech or thoughts are being narrated, what Mortaro Garavelli and Calaresu refer to as, respectively, locutore hic et nunc (Lo) and locutore citato (L1): Nel discorso che riproduce al suo interno altri discorsi o parti di altri discorsi in forma diretta, si osserva [...] il caso tipico di un unico parlante che ricopre il ruolo di più locutori, o, in termini più tecnici, di un Lo (locutore hic et nunc) che assume momentaneamente il ruolo di uno (o più) L1 (locutore citato). Nel caso L. Bubani, L’espressione della modalità epistemica da parte di docenti italofoni nell’inglese come lingua franca accademica, Tesi triennale, Corso di Laurea triennale in Lingue per la Comunicazione Interculturale, Università di Siena, 2014. 9 118 Leveraging pragmatics in the traslation classroom invece di un discorso in forma indiretta, Lo si limita a rievocare un L1 o a ‘raccontare’ il discorso di L1 senza però metterlo in atto direttamente ‘prestandogli’ la propria voce (come invece succede in un discorso diretto)10. As communicative acts between writers and readers, all texts are characterized by deixis. As B. Richardson observes, this perspective may pervade the text as a whole (Richardson gives the example of a tourist text in Spanish for Spanish tourists in which the Iberian peninsula is referred to as «nuestra peninsula») or it may change dynamically as the text evolves. In his discussion of the implications of deictic shift theory for translation, Richardson observes that narrative texts tend to contain a dual perspective: the so-called «focalizing point of view», i.e. the position in terms of person, time and space from which the story is presented to the reader, and a so-called «focalized point of view» that brings the spatial, temporal and personal coordinates of the narrated world into relief as the narration progresses. The upshot is that «a mental model is constructed at the moment of the reader’s reception of the text». Quoting E.M. Segal, Richardson notes that: [...] the reader tends to witness most events as they seem to happen [...] The events tend to occur within the mental model at the active space-time location to which the reader has been directed by the syntax and the semantics of the text11. Rendering this dynamic property of narrative texts in translation can be a challenge, whether the translator is working into or from his/her ‘native’ language. 10 E. Calaresu, Testuali parole: La dimensione pragmatica e testuale del discorso riportato, Franco Angeli, Milano 2004, p. 86. Also see B. Mortara Garavelli, La parola d’altri, Sellerio, Palermo 1985 and B. Mortara Garavelli, Il discorso riportato, in L. Renzi (a cura di), Grande grammatica italiana di consultazione, vol. III, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 426-468. 11 E.M. Segal, Narrative comprehension and the role of deictic shift theory, Lawrence Erlbaum, Hillsdale 1995, p. 71, cited in B. Richardson, Deictic features and the translator, in L. Hickey (ed.), The pragmatics of translation, Multilingual Matters, Clevedon 1998, p. 132. 119 Laurie anderson A second difficulty comes into play in particular when translating reported speech/thought from Italian to English: the verb systems of the two languages diverge to some extent in mapping epistemic states within this dually-articulated deictic space. The following three examples, in which the conditions holding in each situation of enunciation have been made artificially explicit, illustrate how the grammatical systems governing reported thought/ speech in Italian and English require writers/speakers in English to be more explicit through the choice of the verb form used. Condition (and realiza- Discorso riportato tion in direct speech) (Italian) Reported speech/thought (English) Probability (I conditional): «Acquisterò un appartamento se riceverò un aumento.»/ «I will buy a flat if I get a raise». Disse che avrebbe acquistato un appartamento se avesse ricevuto un aumento, e poiché era ottimista in merito cominciò ad informarsi sui prezzi. (III type) He said that he would buy a flat if his pay were raised, and since he was optimistic about it, he started looking into prices. (II type) Improbability /unrea lity (II conditional): «Acquisterei un appartamento se ricevessi un aumento». / «I would buy a flat if I got a raise». Disse che avrebbe acquistato un appartamento se avesse ricevuto un aumento, ma non ci contava più di tanto. (III type) He said that he would buy a flat if his pay were raised, but that he wasn’t really counting on that happening. (II type) Impossibility /counter-factuality (III conditional): «Avrei acquistato un appartamento se avessi ricevuto un aumento». / «I would have bought a flat if I’d got a raise». Disse che avrebbe acquistato un appartamento se avesse ricevuto un aumento, ma purtroppo il suo datore di lavoro aveva rifiutato ogni tipo di trattativa sindacale. (III type) He said that he would have bought a flat if his pay had been raised, but unfortunately his employer had refused to negotiate with the unions. (III type) Table 1. «Future in the past»: example sentences in Italian and English, with conditions of enunciation artificially specified 120 Leveraging pragmatics in the traslation classroom Talk about possible events/states operates along two axes: fulfilment/non-fulfilment (whether or not the event or state mentioned is potentially realizable) and, in the case of potentially realizable events/states, the speaker’s degree of relative optimism/pessimism about whether or not the event/state will actually take place. While the verb systems of both Italian and English call for so-called ‘back-shifting’ in converting direct speech/thought into indirect speech/thought, the verb construction in reported speech in English ‘cancels out’ any indication about the reported speaker’s/ thinker’s degree of optimism/pessimism regarding realizable events while retaining the realizable/unrealizable distinction. In Italian, instead, neither of these distinctions is obligatorily encoded. Drawing on insights from contrastive analysis, the above summary suggests that in translating reported thought/speech into English, Italians may encounter syntactic interference (negative transfer) in the rendering of verb tenses due to hypo-differentiation, i.e. a failure to recognize that a single realization in the source language corresponds to more than one (in the case in point, two) variants in the target language12. In what follows, I will highlight how literary texts contain performative features that can be drawn on in order to help student translators enter into the situation evoked (so to speak) in medias res, a procedure that can help them to overcome interference due to the above-mentioned morphosyntactic underdifferentiation of Italian with respect to English in the encoding of reported thought/speech. 4. A pedagogic design for learning to translate the «future in the past» In literary texts the context of situation and speakers’ cognitive and emotional states are usually not explicitly specified; indeed, 12 For a discussion the applicability of F. Weinreich’s notions of hyper- and hypo-differentiation to curriculum design for interpreter/translator education, see F. Santulli, The role of linguistics in the interpreter’s curriculum, in G. Garzone – M. Viezzi (eds.), Interpreting in the 21st century: Challenges and opportunities, Benjamins, Amsterdam 2002, pp. 257-266. 121 Laurie anderson the effectiveness of such texts often depends on the blurring of different levels of consciousness and subjectivity deriving from narrative techniques such as free indirect discourse. In translating reported speech/thought from Italian into English, translators are thus faced with the uncomfortable task of having to ‘saturate’ the original text to a certain degree, by choosing a rendering that frames the events described as realizable (possible or at least probable) or unrealizable (impossible/counter-factual). Doing so requires making inferences about presumed cognitive states that may have been specified elsewhere in the original Italian text or been deliberately left underspecified (vague), a procedure that in turn involves a close reading of the original. The following pedagogic sequence supports this inferencing process by introducing an experiential component into the translation process. It involves a procedure of «deictic re-anchoring» which helps students vicariously access such cognitive states and make them their own13: Guided observation of the original Italian text or text excerpt: 1. warmup task designed to help students identify the temporal and spatial reference points to which the text or text excerpt orients (questions or other task, e.g. producing a map charting a character’s movements or activities; filling out a chart in order to estimate how much time has elapsed in the narrated fictional world from the beginning to the end of the excerpt). 13 Within the broader framework of the course, before proposing this pedagogic sequence we find it useful to carry out the following activities (not necessarily in the same session in which the role-play sequence is proposed): (1) engage students in guided observation of similar target-language texts (literary passages in English containing reported thought/speech), eliciting brief impromptu translations of relevant segments into Italian; (2) present a brief contrastive analysis of verb use in direct and indirect speech in Italian and English, using a schematic representation similar to the one presented in section 3. 122 Leveraging pragmatics in the traslation classroom Preparation for role-play: 2. identification (in groups or collectively at class level) of segments in reported speech/thought; 3. specification (again at group or class level) of who the reported speech belongs to (‘original speaker’: locutore citato (L1)); 4. reflecting aloud on the presumed cognitive/emotional state of the speaking/thinking subject (his/her degree of certainty, degree of optimism/pessimism about the future). Role-play: entering vicariously (in medias res) into the situation being reported, through: 1. production of direct discourse in Italian («what the speaker/thinker would have said/thought»); 2. production of equivalent direct discourse in English14. Post role-play phase: 1. reflexive observation of one’s own discourse production (=‘metalinguistic labelling’ of the English utterance(s) produced, including any other shifts in deixis or register appropriate in direct discourse in the context of situation evoked); 2. back-shifting of verb tenses in order to produce the appropriate form of indirect discourse; re-reading/ discussion of the translation produced, in the light of students’ accumulated experience of similar targetlanguage texts and/or one or more professional translations of the passage. 14 As I believe will have become obvious by now, what is being elicited from students here is their best guess at what Koller (1979) would refer as äquivalenz at the level of parole, i.e. of language use in real texts and utterances; see discussion in B. Hatim, Teaching and researching translation, pp. 26-30. 123 Laurie anderson The role-play phase can be carried orally, in writing, or both. One strategy we find useful is to have students work in pairs with worksheets that provide a visual representation of the process of «deictic re-anchoring» proposed, i.e. the passage from indirect speech to direct speech in the source language and vice versa in the target language. Students tend to particularly appreciate the use in this phase of graphic supports such as the ‘thought’ or ‘speech balloons’ typically found in comics and graphic novels. The two examples in tables 2 and 3, containing segments respectively from D. Buzzati’s Il deserto dei tartari (1940) and C. Cassola’s La ragazza di Bube (1960), illustrate this procedure. In proposing the activity in the classroom, the balloons in columns 2 and 3 and the final rendition in column 4 are presented either blank or in gapped form, according to the students’ level of proficiency15. In the Buzzati passage, the narrator’s statement that Drago «si sentiva nelle migliori condizioni di spirito» («felt in high spirits») supports the use of the first conditional in the direct speech renditions in Italian and English. In the Cassola passage, a close reading of the surrounding co-text (not included here for reasons of space) reveals that the protagonist continues to daydream and does not actually go out; this circumstance suggests that the use of the second conditional in the direct speech version is probably most appropriate. As students begin to compare the various direct and reported thought/speech renditions they have arrived at in translating a series of literary texts, they gradually build up a mental representation of the different affordances the Italian and English verb systems offer for expressing the «future in the past». They also gradually acquire, my colleagues and I believe, a better understanding of the importance of achieving a pragmatic ‘fit’ between individual translation choices and the ‘text-act’ as a whole. Although the process of «deictic re-anchoring» required to vicariously imagine themselves in the narrative context evoked can be difficult for some students, generally speaking the pedagogic The passages and translations proposed are taken from M.C. Cignatta, Targets in translation: A practical guide for Italian university students of English, CLUEB, Bologna 2000. 15 124 Ci fu in quel tempo una grande festa da ballo e Drogo, entrando nel palazzo in compagnia dell’amico Vescovi, l’unico che avesse ritrovato, si sentiva nelle migliori condizioni di spirito. (2) Benché fosse già primavera, la notte sarebbe stata lunga, uno spazio di tempo pressoché illimitato; prima dell’alba potevano succedere tante cose, esattamente Drogo non era in grado di specificarle, ma certo lo attendevano parecchie ore di incondizionato piacere. (3) Aveva infatti cominciato a scherzare con una ragazza vestita di viola e non era ancora suonata mezzanotte, forse prima del giorno sarebbe sbocciato l’amore [...]. 125 Although spring has already arrived, the night will be long, a virtually endless time-span. […] Maybe before day breaks, love will blossom. Benché sia già primavera, la notte sarà lunga, uno spazio di tempo pressoché illimitato. […] Forse prima del giorno sboccerà l’amore. A grand ball was held at that time and as Drogo entered the hall in the company of his friend Vescovi, the only one he had met up with again, he felt in high spirits. (2) Although spring had already arrived, the night would be long, a virtually endless time-span; before dawn, so many things might happen, Drogo could not even imagine what, but one thing was certain, he was in for several hours of sheer pleasure. (3) In fact, he had begun flirting with a girl dressed in purple, and it had not yet struck midnight, love might blossom before the night was out [...]. (1) Table 2. Translating the «future in the past» through «deictic re-anchoring», example 1 (D. Buzzati, Il deserto dei tartari) (1) Leveraging pragmatics in the traslation classroom Mara sbadigliò. (2) Era una bella noia essere costretta a stare in casa per colpa del fratello! (3) Le venne in mente che avrebbe potuto lo stesso andarsene fuori: Vinicio si sarebbe messo a strillare, e la sera lo avrebbe raccontato alla madre; ma lei avrebbe potuto sempre dire che non era vero. (4) E, dopo, gliele avrebbe anche date, a Vinicio. 126 Potrei andarmene fuori. Vinicio si metterebbe a strillare, e stasera lo racconterebbe alla mamma. Ma potrei sempre dire che non è vero. E dopo, gliele darei! I could go out. Vinicio would start yelling, and this evening he would spill the beans. But I could always deny everything. And afterwards I’d give him a good hiding! Mara yawned. (2) It was really boring having to stay in, all because of her brother! (3) It occurred to her that she could go out just the same; Vinicio would start yelling, then in the evening he would spill the beans, but she could always deny everything. (4) And afterwards she would give Vinicio a good hiding. (1) Table 3. Translating the «future in the past» through «deictic re-anchoring», example 2 (C. Cassola, La ragazza di Bube) (1) Laurie anderson Leveraging pragmatics in the traslation classroom sequence proposed (or variants thereof, which likewise draw on the performative opportunities offered by literary texts) proves useful in the translation classroom because of its capacity to systematically leverage the pragmatic dimension of texts. 5. Conclusions This brief contribution has aimed to share with practitioners (teachers of translation) and scholars (researchers in translation studies) a replicable heuristic that has proved successful in the classroom for solving a well-known difficulty encountered by novice translators: learning how to express the «future in the past» in translating from Italian to English. It was also intended to provide a concrete illustration of how the analytic tools of linguistic pragmatics (in the present case, the notion of «deictic re-anchoring») can be usefully incorporated into course design in translation studies, thus contributing to bridging the theorypractice divide. The procedure proposed helps students grasp the connection between morphosyntactic choices at the sentence/ utterance level and pragmatic characteristics of the ‘text-act’ (literary text or excerpt thereof ). More generally, it provides practice in foreseeing and resolving translation difficulties traceable to a mismatch between SL and TL language systems (in the present case, different levels of explicitness in the encoding of epistemic certainty in reported speech in Italian and English). My broader aim in proposing this brief reflection has been to show how literary translation can be used to develop students’ metalinguistic awareness, while at the same time introducing (albeit vicariously) an ‘experiential’ component into the teaching/learning process. Constructivist approaches to classroom interaction have shown that involving students more actively in their own construction of meaning can facilitate more effective learning. Drawing on pragmatics to reconceptualise the use of literary texts in the translation classroom is one way to achieve this goal. 127 Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez La autotraducción literaria. Una escritura postcolonial 1. Sobre la autotraducción Hay quienes conciben la autotraducción como un campo aislado dentro de los estudios sobre la traducción, basándose en la falsa idea de que es un fenómeno poco usual o de que se relacionaría «más con el bilingüismo que con la propia traducción»1. La autotraducción, sin embargo, tiene un papel importante dentro de la traductología y cuenta con una gran antigüedad en la literatura: existe al menos desde el primer siglo de nuestra era, cuando el historiador judío Flavio Josefo tradujo su obra del arameo al griego. Desde entonces han sido muchos los autores que han practicado la autotraducción, que se ha convertido así en un fenómeno habitual2. La autotraducción supone el proceso de traducir un autor su obra original a otro idioma, sin que intervenga otra persona, ya que será el mismo autor el que realice las tareas de crear, inter1 R. Grutman, Auto-translation, en M. Baker (ed.), Encyclopedia of Translation Studies, Routledge, New York-London 1998, pp. 17-20; pp. 157-160; la cita en la p. 17. 2 «No estamos ante raras excepciones, sino ante un corpus inmenso, cada vez mayor, de textos traducidos por sus propios creadores. Lejos de ser un ‘caso marginal’ […], la traducción de autor cuenta con una larga historia y es hoy en día uno de los fenómenos culturales, lingüísticos y literarios más frecuentes e importantes en nuestra aldea global, y desde luego merecedora de mucha más atención de la que hasta ahora se le ha prestado». J.C. Santoyo, Autotraducciones: Una perspectiva histórica, en «Meta: Translators’ Journal», 50 (2005), 3, pp. 858-867; la cita en la p. 866. Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez pretar y traducir. La traducción exige una lectura profunda y una comprensión total del texto, y para Tanqueiro el autotraductor será el lector ideal, un lector sui generis que entenderá el texto en sí mismo y no necesitará leer y releer la obra ni, como haría otro traductor, trabajar con el autor original, conocer su estilo e ideología. Se convertirá también en autor sui generis puesto que al trabajar en su propia obra en el Texto Original 2 (TO2), tendrá su voz en lo que está traduciendo3. La tarea principal del traductor es comprender el texto, captar las intenciones del autor y hacer un trasvase cultural y lingüístico lo más fiel posible al original. En este sentido el autotraductor gozará de libertades únicas por ser el autor de su obra en otra lengua y a la vez podrá garantizar que no se pierda su esencia. El bilingüismo y la biculturalidad del autor, en los casos más afortunados, evitan errores de comprensión o de expresión. Es prioritario comprender a los destinatarios y sus expectativas en cada circunstancia4. Con esto planteamos que la forma en la que se transmiten los mensajes depende de los receptores: los autotraductores adaptan el mensaje a unos nuevos receptores de culturas dispares con la intención de transmitir el mensaje con la mayor exactitud. La traducción cultural, para Nida y Taber, es «aquella en que se cambia el contenido de un mensaje para acomodarlo de algún modo a la cultura del receptor o en que se introduce una información que no está lingüísticamente implícita en el original»5. En los estudios sobre la autotraducción muchos autores defienden el derecho a la libre creación: el autor en su propia traducción puede modificar la obra sin ser acusado de traicionar el original. Parcerisas sostiene que «si al traductor se le suele negar el principio de autoridad y se le juzga como a alguien situado en una posición ancilar, al autotraductor no hay quien le enmiende la plana, 3 H. Tanqueiro, Un traductor privilegiado: el autotraductor, en «Quaderns. Revista de Traducción», 3 (1999), pp. 19-27; la cita en pp. 20-22. 4 C. Nord, What do we know about the target-text receiver?, en A. Beeby – D. Ensinger – M. Presas (eds.), Investigating Translation, John Benjamins, AmsterdamPhiladelphia 2000, pp. 195-212; la cita en la p. 195. 5 E.A. Nida – C.R. Taber, La traducción: Teoría y práctica, Cristiandad, Madrid 1986, p. 254. 130 La Autotraducción Literaria. Una Escritura Postcolonial incluso cuando puede haber incurrido en errores de bulto que hubiesen supuesto una censura grave para el mero traductor»6. El autotraductor tiene autoridad sobre su obra, no obstante se rija por el original y siga los criterios de la traducción. La escritora Carme Riera siente que a la hora de traducir su propia novela se convierte en «una lectora crítica de su propio texto»7 y esto la puede llevar a corregir algunos aspectos para mejorar su obra. Esta idea de autocorregirse y mejorar la obra conlleva una posible traición, y así lo creen algunos autores como Michelut, pues para ellos el texto traducido debería ser lo más fiel posible al original8, mientras que otros como Ferré piensan que los cambios que realiza el autotraductor son necesarios para mejorar la adaptación de la obra a otros receptores y que el autor puede jugar con las dos culturas y dejarse llevar por los diferentes recursos que le ofrece cada lengua9. La autotraducción se entiende en ocasiones como la reescritura del original en la que el mismo autor refleja todos los aspectos lingüísticos así como su ideología, sus intenciones y aspectos culturales. En este sentido entra en juego la libre creación del autotraductor, y así no se puede hablar de infidelidad sino de un trasvase del original con la mayor autenticidad posible. El autor no traicionará sus ideas ni hará interpretaciones erróneas –salvo en las excepciones a las que aludía Parcerisas–, y en cambio sí se beneficiará de su posición para encontrar la mejor traducción con el fin de transmitir cada idea bien interpretada y sin influencias. Según Cotoner Cerdó el autotraductor, aunque parta con todas las ventajas, no debe desentenderse de los requisitos básicos de lo que se considera la traducción de un texto10, que podríamos resumir en tres objetivos: mantener la información completa del Texto Original 1 6 F. Parcerisas, Sobre la autotraducción, en «Quimera: Revista de literatura», 210 (2002), p. 13. 7 C. Riera, La autotraducción como ejercicio de recreación, en «Quimera: Revista de literatura», 210 (2002), p. 12. 8 D. Michelut, Coming to Terms with the Mother Tongue, en «Tessera», 6 (1989), pp. 63-71. 9 R. Ferré, El coloquio de las perras, Cultural, Río Piedras (1990), pp. 67-82. 10 L. Cotoner Cerdó, Las autotraducciones al castellano de Carme Riera, en «Quimera: Revista de literatura», 199 (2001), pp. 21-24; la cita en la p. 22. 131 Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez (TO1); pretender la misma calidad estética del TO1: y conseguir que el Texto Original 2 (TO2) se transmita con la misma fluidez, ‘naturalidad’, que el TO111. El autotraductor crea una nueva versión de su obra para un nuevo lector, realiza una aproximación en la que deberá decidir si recurrir a la traducción palabra por palabra, si llegar a una versión extranjerizante o a una adaptada a la cultura meta. Lawrence Venuti, siguiendo una línea que aprecia la traducción literal, propone la extranjerización como método para respetar la esencia de las diferencias de la lengua y la cultura de origen y llevar a una «experiencia de lectura extranjera»12; no es extraño, pues, que denomine como ‘domesticación’ el proceso de «aculturación de texto de origen a texto de destino, trayendo al autor a casa»13. Dentro de la tendencia a considerar que los autores que se autotraducen realizan ‘reescrituras’, se denominan así determinadas obras como las autotraducciones de Beckett, de Joyce o de Borges. Debemos plantearnos si el autotraductor actúa como traductor o como autor de otro original, lo que significará que una autotraducción se considere una traducción, un original o una nueva versión. Para Tanqueiro el autotraductor debe situarse más entre los traductores que entre los autores: Aunque en su calidad de autores continuarían disponiendo de unas libertades que no se pueden permitir los demás traductores y se encuentran en una situación privilegiada por el acceso que tienen a la «verdadera intención» del autor, en el momento en que empiezan a traducir, el proceso de creación del universo ficcional ya se encuentra acabado en la obra original y los lectores ideales ya están definidos14. Frente a estas palabras Cotoner Cerdó opina lo siguiente: 11 A. Ghignoli, Il transautore nella comunicazione letteraria tradotta, en «Testo a Fronte – Teoria e pratica della traduzione letteraria», 50 (2014), pp. 31-47. 12 L. Venuti, The Translator’s Invisibility. A History of Translation, Routlegde, New York-London 1995, p. 20. 13 Ivi, p. 20. 14 H. Tanqueiro, Un traductor privilegiado: el autotraductor, cit., p. 22. 132 La Autotraducción Literaria. Una Escritura Postcolonial Ese disfrutar de antemano de esta doble ventaja hace que, para un autor/a que se autotraduce, resulte fácil no sólo «colaborar» con el autor/a del texto original como hace el traductor, sino suplantarse a sí mismo proyectándose de nuevo como autor en otra lengua. Esta autoproyección se asienta indudablemente sobre la base de considerar la traducción como un acto paralelo al de la creación literaria15. La traducción de un texto realizada por su propio autor, según algunos, produce segundos originales y no simples traducciones. Si nos planteamos el propósito de los autores para autotraducirse podemos encontrar varias respuestas. Hay quienes justifican su autotraducción por la desconfianza hacia otros traductores: evitarían así posibles traducciones que no se correspondan con sus intenciones. En estos casos suelen tener una implicación importante en su escrito. Otros autores se autotraducen por razones económicas y de prestigio, pues una obra publicada en otras lenguas adquiere mayor valor en la literatura. A su vez, la autotraducción permite igualar el texto original a la traducción, y pasar de una lengua minoritaria a otra más extendida para poder abarcar un público más amplio. Este tipo es el más común, aunque también se practica en el sentido contrario: autotraducir de una lengua mayoritaria a una minoritaria, normalmente por cuestiones morales o afectivas entre autores que deciden escribir en su lengua materna para dirigirse a los lectores de su país de origen. Entre los autores bilingües y biculturales encontramos muchos que no quieren emprender la autotraducción. El ya citado Parcerisas observa a este respecto: No es de extrañar que sean muchos los autores con verdaderos conocimientos lingüísticos que hayan renunciado, a priori, a autotraducirse. Prefieren no verse enzarzados en la valoración que esta actividad implica, en la necesaria relectura y apreciación crítica del original, y les resulta más satisfactorio dejar su traducción en manos de un buen profesional. Otros, por el contrario, quieren certificar el valor inmutable e intocable del original 15 L. Cotoner Cerdó, Las autotraducciones al castellano de Carme Riera, cit., pp. 21-22. 133 Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez produciendo ellos mismos las versiones de sus obras, aun a riesgo, a menudo fatídico, de darnos traducciones rígidas, puros moldes de yeso, que son copias estereotipadas en la lengua de llegada y que, aunque no suelen servir para engrandecerles como traductores (más bien les convierten en injusto y plúmbeo flagelo de los buenos traductores profesionales), pueden servir como referencia utilísima para leer, casi como anotada al pie de página de la intencionalidad, su versión original. Y continúa: Unos terceros autotraductores, ya menos, gozan en la recreación de los textos de partida, a veces cortando, añadiendo, sobreponiendo, dejándose llevar por las virtualidades de la nueva lengua o, virtud imprescindible y necesaria, corrigiendo posibles errores del original; éstos, en su doble apreciación de lo mismo y lo distinto, constituyen un archivo inagotable de recursos y soluciones a los problemas culturales y lingüísticos de la traducción, a lo que hay que explicitar y lo que se puede dar por descontado, a la lista de guiños necesarios o superfluos al lector. Y todavía podríamos especular con un cuarto grupo, menos habitual, de autotraductores que hace de la autotraducción un verdadero banco de pruebas para la elaboración de su obra: original y traducción se escriben, en este caso, en paralelo, se complementan y modifican, al extremo de identificar mal si fue primero el huevo o la gallina. En este último grupo, sin embargo, debemos considerar que la identidad que se otorga a la autoridad de ambas versiones es prácticamente igual y que, como mucho, se puede hablar de precedencia cronológica, más que de autoridad de un único original16. Beaujour, por su parte, considera que para muchos autores la autotraducción puede resultar un proceso difícil, sobre todo cuando traducen de manera inversa, es decir de una L1 a una L2. Hay en efecto autores que prefieren escribir directamente en la segunda lengua a traducir su propia obra17. F. Parcerisas, Sobre la autotraducción, cit., pp. 13-14. E.K. Beaujour, Translation and Self-Translation, en V.E. Alexandrov (ed.) The Garland Companion to Vladimir Nabokov, Garland, New York-London 1995, p. 717. 16 17 134 La Autotraducción Literaria. Una Escritura Postcolonial 2. La autotraducción como identidad cultural En la perspectiva de la literatura postcolonial, algunos estudios consideran la autotraducción como una forma de «traducción in mente» que permite la traducción entre culturas muy distintas. Las traducciones in mente se dan en autores que piensan en su vida cotidiana en una lengua y cultura diferentes de su lengua literaria, autores que quieren dar a conocer un nuevo universo a un receptor que lo desconoce. Consideremos también que ciertas lenguas minoritarias no tienen una escritura fijada, por lo que recurrir a este tipo de autotraducción es necesario18. En este proceso de traducción el autor emplea personajes ligados a su cultura y lengua maternas para representar la realidad de su universo: recurrirá a recuerdos y se inspirará en personas reales que utilizan su lengua materna, realizando una autotraducción mental para mostrar esos personajes en la lengua meta. Muchos países que fueron colonizados han adoptado la lengua metropolitana como oficial, por lo que en ellos se dan un bilingüismo y una doble cultura. Para Monique Viannay y Chantal Estran hay tres categorías de autores bilingües: los que provienen de países que fueron colonizados, los que por razones histórico-económicas se han exiliado a países de lengua occidental en general y los que han elegido dejar su país sin ninguna obligación19. Los autores de estos países postcoloniales suelen escribir en la lengua del colonizador, desean dar a conocer su obra al resto de la humanidad y se benefician de sus dos lenguas para acceder a un público más amplio. En esta proyección de una cultura autóctona en otra lengua cobra importancia el papel de mediador cultural del autor o traductor para poder dirigirse a receptores de culturas muy diferentes y que estos receptores lleguen a entender la distancia cultural que existe con el nuevo universo que se les presenta. 18 H. Tanqueiro, Sobre la autotraducción de referentes culturales en el texto original: la autotraducción explícita y la autotraducción ‘in mente’, en X.M. Dasilva – H. Tanqueiro (eds.), Aproximaciones a la autotraducción, Academia del Hispanismo, Vigo 2011, pp. 245-259. 19 M. Viannay – C. Estran, Écrire, entre deux langues. Schreiben, zwischen zwei Sprachen, en «Sirene», 8 (1991), pp. 10-31; la cita en la p. 20. 135 Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez Los autores postcoloniales se caracterizan por el compromiso con sus países de origen, lo que les lleva, en muchas ocasiones, a rechazar la lengua colonizadora, que consideran una lengua impuesta, por lo que escriben en sus lenguas autóctonas y piensan que la autotraducción invisibilizaría aún más su lengua y cultura originales. Según otros autores como Whyte «la autotraducción es una imposición»20, no una decisión propia de los autores, cuya causa principal es la falta de público, y esa imposición favorece la marginación de la lengua autóctona. Algunos autores bilingües, por ejemplo del ámbito francófono, que dan voz a las lenguas africanas y que cultivan la literatura en lenguas africanas, son Amadou Hampâté Ba, que escribe también en fulfulde (lengua de África Occidental); Jean-Joseph Rabearivelo o Alexis Kagame, que escriben respectivamente en malgache (lengua de Madagascar) y en kinyarwanda (lengua de Ruanda). Una visión diferente es la de la escritora senegalesa Fatou Diome, que publica sus obras en francés y piensa que si un autor obtiene un reconocimiento internacional, no significa que haya abandonado su país sino que lo muestra con orgullo al resto del mundo; así da a conocer al mundo la literatura senegalesa a la vez que destaca la belleza de la lengua francesa. Las estrategias de traducción que utiliza el autotraductor tendrán consecuencias en el receptor y en las posibles traducciones posteriores a otras lenguas. Como afirma Tanqueiro, contar con la autotraducción y el original es una suerte para poder traducir. De tal modo, es el propio autor el que delimita las referencias extranjeras que quiere introducir en la cultura de destino y define las estrategias de traducción para cubrir las distancias culturales, suministrando una especie de modelo para otras traducciones. Si un autor senegalés, por ejemplo, quiere que su obra escrita en una lengua autóctona se publique en países como España, Italia o el Reino Unido, contar con la obra en una lengua occidental como el francés abrirá las posibilidades de traducción, puesto que encontrar un traductor de una lengua minoritaria al español o al 20 C. Whyte, Against Self-Translation, en «Translation & Literature», 11 (2002), pp. 64-71; la cita en la p. 65. 136 La Autotraducción Literaria. Una Escritura Postcolonial italiano no será tan fácil como encontrar un traductor del francés a estos o a otros idiomas. En la traducción de textos postcoloniales el término de ‘equivalencia’ pierde sentido, pues las equivalencias exactas «no existen cuando se trata de transmitir las ideas y los valores de una cultura determinada a otra»21. Christiane Nord afirma que «el mundo textual está marcado como perteneciente a otra realidad cultural, el lector comprende que existe una distancia cultural y acepta lo que le explican y a veces relaciona aspectos de ese mundo con el que conoce»22. Adejunmobi considera que una ‘traducción normalizada’ «busca transmitir el significado pero no el idioma del original»23, y que la fluidez debe ser «la estrategia dominante en las traducciones de textos en lenguas africanas a los idiomas europeos, incluso en los casos en que estas traducciones sean realizadas por el autor»24. En la traducción de la literatura postcolonial, pues, el autor tiene la función de mediador lingüístico y mediador entre culturas –en la acepción de Newmark–25, y debe dominar en la medida de lo posible los dos universos con los que trabaja. Destaca así en este tipo de traducción la importancia de la relación entre cultura, lenguaje y pensamiento. Entendemos la implicación ideológica que tiene para el autor postcolonial escribir en una u otra lengua y dirigirse a un público o a otro. La intención de autotraducirse se debe a razones económicas, de prestigio y, por supuesto, para dar a conocer el mundo de un país colonizado y la literatura de sus autores en Occiden21 A. López, Transformación social por medio de la autotraducción, en M.D. Fernández de la Torre Madueño, A.M. Medina Guerra – L. Taillefer de Haya (eds.), El sexismo en el lenguaje, Centro de Ediciones de la Diputación Provincial de Málaga, Málaga 1999, vol. II, pp. 429-439; la cita en la p. 429. 22 C. Nord, Text Analysis in Translation, Rodopi, Amsterdam 1991, p. 176. 23 M. Adejunmobi, Translation and Postcolonial Identity: African Writing and European Languages, en «The Translator. Studies in Intercultural Communication», 4.2 (1998), pp. 163-181; la cita en la p. 170. 24 Ivi, p. 171. 25 «La cultura es el modo de vida propio de una comunidad que utiliza una lengua particular como medio de expresión y las manifestaciones que ese modo de vida implica». P. Newmark, Translation and culture, en A Textbook of Translation, Prentice Hall, New York 1988, pp. 94-103; la cita en la p. 94. 137 Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez te. Escribir en lengua minoritaria, además de razones afectivas, muestra la confianza de los intelectuales en las posibilidades de sus lenguas autóctonas, que son así potenciadas a la vez que les permiten expresarse de una forma más cercana, escribir historias de su pueblo para personas de su pueblo. El escritor de Kenia Ngũgĩ wa Thiong’o defiende el uso de las lenguas vernáculas para la creación de sus obras porque cree que reflejan mejor las experiencias vividas, pero a la vez es un escritor conocido por autotraducirse, es consciente de la importancia del inglés y ha autotraducido varias de sus obras en kikuyu a esa lengua. Críticos postcoloniales, como Homi Bhabha, reflexionan sobre la traducción como supervivencia, toman la traducción como una forma de lucha y resistencia que les ayuda a conocer su propia identidad cultural; la traducción se convierte para estos autores en una práctica necesaria para encontrar y mostrar esa identidad. 3. Los estudios postcoloniales y la literatura comparada La literatura colonizada se aborda como la literatura postcolonial y resulta un campo de interés para los estudios comparados. El análisis de los rasgos principales como el sufrimiento de la colonización, la búsqueda de la identidad, el compromiso con la cultura, representa un fenómeno de renovación para la literatura comparada. En los países africanos intentan construir modelos de estudios alternativos al modelo de los colonizadores. La literatura comparada se presenta en los países africanos como una manera de entender y estudiar la descolonización. Lo que se necesita ahora es explorar los niveles subyacentes en los que los sistemas de diferencias se cruzan para producir unidades de significado. Llevar a cabo este programa requiere una reorganización de la investigación y de la enseñanza de la literatura comparada de acuerdo con métodos diferenciales26. G. Chaitin, Otredad. La literatura comparada y la diferencia, en M.J. Vega – N. Carbonell (eds.), La literatura comparada: Principios y métodos, Gredos, Madrid 1998, pp. 145-165; la cita en la p. 157. 26 138 La Autotraducción Literaria. Una Escritura Postcolonial La descolonización representa un hecho histórico reciente con unas consecuencias notorias en la literatura. Un estudio comparado de la evolución entre culturas, historias y sociedades distintas podría ayudar a terminar con la idea eurocentrista de ver esta literatura como exótica. Los autores africanos buscan el reconocimiento de sus obras dentro de la literatura central y no como una literatura periférica. Sobre este planteamiento de centro y periferia existen muchos estudios de literatura comparada, lo que revela la presión e influencia del poder colonial. Even-Zohar añade que la literatura dominante como literatura de origen «impone su lengua y sus textos a una comunidad subyugada»27. Lo que hoy constituye el objeto de investigación de la literatura comparada son los contenidos mismos, por así decir, y los problemas comunes al nuevo orden mundial de los estudios literarios, esto es: a) el proceso de descolonización cultural, cuyo verdadero centro está en la literatura, b) el fenómeno mundial omnipresente de la traducción; c) las comparaciones entre las diferentes culturas por medio de sus tradiciones literarias, las únicas que están en igualdad de condiciones con las tradiciones occidentales28. Para comprender el vínculo entre lengua y cultura resulta inevitable el estudio, entre otras disciplinas, de la historia, la sociología y la antropología, que favorecerá la comprensión de cuestiones retóricas implícitas en la literatura postcolonial. Even-Zohar habla de «integrar la investigación de la literatura en un marco más amplio, concretamente en una disciplina de investigación de la cultura, no a través de una reducción, sino totalmente al contrario: subrayando la función más distintiva y manifiesta de la literatura en la creación y en el mantenimiento de la sociedad a través de su cultura»29. Análogamente, por último, señala Armando Gnisci que 27 I. Even-Zohar, La literatura como bienes y como herramientas, en A. Monegal – E. Bou – D. Villanueva (eds.), Sin fronteras. Ensayos de Literatura Comparada en homenaje a Claudio Guillén, Castalia, Madrid 1999, pp. 27-36. 28 A. Gnisci, La literatura comparada como disciplina de descolonización, en M.J. Vega – N. Carbonell (eds.) La literatura comparada: Principios y métodos, Gredos, Madrid 1998, pp. 188-194; la cita en la p. 190. 29 I. Even-Zohar, La literatura como bienes y como herramientas, cit., p. 35. 139 Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez la literatura comparada es «el horizonte intercultural que permite a los hombres de letras del mundo entero encontrarse a fin de compararse entre sí, en relación con problemas generales muy importantes para toda la humanidad presente y futura»30. 4. Postcolonialismo y traducción La colonización fue una experiencia dramática y la literatura podría jugar un papel importantísimo para la libertad de los pueblos que la sufrieron: La colonización no ha sido únicamente una transferencia de poder, sino que ha exigido una transformación simbólica y cultural y una profunda reordenación epistémica e intelectual. La literatura sería un elemento muy relevante de ese proceso de reestructuración, ya que puede convertirse en vehículo de la experiencia imperial y colonial (tanto del colono como del colonizado), en instrumento para resistir los mitos de la superioridad e inferioridad racial, religiosa o política o el tópos de la sumisión necesaria, en lugar de contestación de las imágenes, temas y formas del discurso que sostienen y legitiman la colonización y el dominio metropolitano31. Tras la descolonización, los intelectuales toman un papel crucial para su propia literatura. En este momento viven en una multiculturalidad y un plurilingüismo que les estimula a recuperar su propia identidad en un nuevo universo. Este nuevo universo, donde aparece la otredad, las diferencias marcadas, podría considerarse como un nuevo espacio cultural híbrido. Homi Bhabha32, uno de los críticos postcoloniales más relevantes, propone la noción de «Tercer Espacio» para este espacio híbrido que permite acercarse a la propia identidad. 30 A. Gnisci, La literatura comparada como disciplina de descolonización, cit., p. 191. 31 M.J. Vega, Imperios de papel: Introducción a la crítica postcolonial, Cátedra, Madrid 2003, p. 18. 32 H. Bhabha, How Newness Enters the World, en The Location of culture, Routledge, New York-London 1994, pp. 212-235. 140 La Autotraducción Literaria. Una Escritura Postcolonial La clara jerarquización entre colonizadores y colonizados estaba marcada por la imposición de las culturas dominantes, que produce una cultura marginal. Esta cultura condicionó a los pueblos colonizados a quienes les arrebataron su cultura natal, lo que dificultaba el desarrollo de valores propios. A pesar de ello, lograron convertirse en pueblos postcoloniales que defienden su propia identidad y que destacan por la toma de consciencia para dar a conocer la historia del continente, aceptar la situación que viven tras la colonización y la búsqueda de unidad social y política. No pocos escritores toman el papel de revolucionarios para mostrar la realidad de su pueblo, sus tradiciones y el deseo de emancipación. De este modo, los escritores postcoloniales adquieren un papel de traductores como transmisores de su cultura originaria expresada en la lengua del colonizador. La historia de los pueblos africanos se remonta a la tradición oral, y el escritor postcolonial desempeñará labores de traductor y creador para expresar la historia por escrito en la lengua colonizadora. Asimismo se convierten en traductores culturales para reescribir la historia que había sido narrada por los colonizadores y de igual forma cuentan las historias que no se conocían de las culturas colonizadas bajo la dominación. En la traducción en los países africanos Moradewun Adejunmobi distingue tres tipos principales: 1) compositional translations, traducciones que se caracterizan por la «ausencia de versiones originales de los textos indígenas»; 2) authorized traslations, «las versiones en lenguas europeas de textos en lenguas africanas»; 3) complex translations, traducciones que se caracterizan por la presencia de ambos idiomas en el texto33. La hibridación está, pues, en la base de la literatura postcolonial. Algunos escritores moldean las lenguas coloniales con el objetivo de mantener rasgos indígenas en la lengua europea a la que traducen. Esta estrategia para transmitir la hibridación de la sociedad postcolonial a menudo lleva a una mezcla entre la lengua colonizadora y la autóctona, y algunos autores la toman como aceptación de las diferencias y otros la utilizan con espíritu revolucionario, como una forma de rebeldía M. Adejunmobi, Translation and Postcolonial Identity, cit., pp. 163-181. 33 141 Alessandro Ghignoli – Estefanía Hernández Rodríguez contra la dominación occidental. Todos los aspectos que aparecen en la traducción postcolonial tienen un papel fundamental, por lo que deberían estudiarse en una rama aparte dentro de los estudios sobre la traducción literaria. 142