I diritti umani tra le verità dei paradossi e il

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I diritti umani tra le verità dei paradossi e il
I diritti umani tra le verità dei paradossi e il paradosso della verità
oltre il moderno, ciò che non muta1
di Giuseppe Limone
1. Il paradosso della verità
Vorremmo indicare qui una prospettiva ambiziosa e vincolante. Ambiziosa,
perché si pone un fine impegnativo; vincolante, perché istituisce legami per un
pensare che prende sul serio le sue parole. Diremo alcune cose sul paradosso della
verità e altre sulle verità dei paradossi. Ci avvicineremo poi alle idee fondamentali di
giustizia e di dignità. Svolgeremo, in questo contesto, alcune riflessioni su ciò che
emerge dal confronto intellettuale fra la posizione di Martin Heidegger e quella di
Jean-Paul Sartre, perché da questo confronto nasce, a nostro avviso, un varco per
capire ciò che entrambi non hanno pensato: la persona.
Non parleremo, pertanto, dei diritti umani nel senso della loro elencazione
analitica, ma nel senso di ciò che è propedeutico alla loro comprensione. Parleremo
cioè dei prolegòmeni ai diritti umani. È necessario capire questi presupposti per
capire l’essenza nascosta nell’idea dei diritti umani.
Esaminiamo, perciò, alcuni paradossi. Il paradosso è ciò che a prima vista viola
il senso comune. Nella società occidentale, in cui viviamo come narcotizzati, non
riusciamo veramente a capire se non a condizione di essere colpiti da uno choc. Una
delle forme dello choc è il paradosso.
I diritti umani vanno capiti sulla base di quel presupposto fondamentale che è
la verità. La verità è, nei confronti di ogni concezione ermeneutica e/o relativistica,
1
Relazione al Convegno di studi Europa e diritti dell’uomo. A cento anni dalla nascita di Pietro Tocănel, tenuta
presso l’Istituto Teologico romano-cattolico francescano, Bacau (Romania), 1-2 ottobre 2011. Questa relazione si è
sviluppata in ideale continuità con quella tenuta a San Leucio, presso la Facoltà di Studi Politici “Jean Monnet”, il
giorno 30 settembre 2011 sul tema La proprietà della terra tra agricoltura e usi alternativi.
parola esigente. Che cosa è la verità? Si tratta di una domanda che assomiglia a quella
rivolta da Ponzio Pilato a Cristo2.
La verità si regge su un paradosso. Essa, nella sua forma prima e radicale, è
quell’apertura dell’Essere che si dà nel mio stesso dire, ancor prima che io dica e che
io ne dica. Essa è ciò che, anche se nessuno le credesse, continuerebbe a sussistere. È
ciò che, anche se nessuno consentisse, continuerebbe ad essere. È ciò che, anche se
nessuno di noi esistesse, continuerebbe a valere. In questa prospettiva, la verità non
va semplicemente assimilata al valore. Porre la verità come valore significa ancora
porsi sul terreno della distinzione friabile tra il fatto e il valore. Nell’ipotesi della
distinzione, se pensiamo la verità come semplice valore, noi pensiamo ancora alla
verità come mera opinabile valutazione. Bisogna pensare, invece, alla verità in modo
radicale. Pensarla in modo radicale significa innanzitutto pensarla come fatto.
Situazione di fatto. La verità, pertanto, in quanto fatto, precede la mia stessa
valutazione – e ogni possibile valutazione – su di essa. Dire che ciò sarebbe
atteggiamento dogmatico è non accorgersi che è atteggiamento dogmatico anche
quello che su un tale atteggiamento dogmatico dice la sua negazione. La verità è ciò
di cui non posso semplicemente parlare, perché precede il mio stesso parlare, dando a
questo stesso parlare il fondamento perché possa significare qualcosa. Si tratta di una
situazione paradossale, perché io sto parlando di qualcosa che precede il mio stesso
dirne – qui e ora – qualcosa. Anche il mio dire è un fatto, e costituisce pertanto la
verità del fatto del suo dire. Anche il mentire è un fatto che, nel suo essere un fatto,
contiene una sua paradossale verità. Chi mente produce il fatto del mentire, il quale
fatto è fattualmente vero.
Questo primo passo non basta. Bisogna farne un secondo. C’è un fatto di cui
siamo ogni giorno testimoni senza poterne dubitare. È il fatto del nostro vissuto. Il
vissuto è ciò in cui da sempre io abito, di cui non posso dubitare, in cui abito anche
2
Andrea Milano ha svolto una penetrante analisi sulla domanda posta da Ponzio Pilato a Gesù, ragionando sulla
differenza fra «che cosa è verità?» e «che cosa è la verità?». Per questo itinerario, vedi Andrea Milano, Quale verità?
Per una critica della ragione teologica, Ed. Dehoniane, Bologna 1999.
nell’atto del puro pensarlo. Nello stesso pensare il mio vissuto, io vivo il vissuto del
pensarlo.
Questo vissuto ha dentro di sé un altro paradosso, su cui non si riflette
abbastanza. Il vissuto è inosservabile. Nessuna scienza – del passato, del presente o
del futuro – potrà mai osservarlo, posto che osservare significa “vedere dall’esterno”.
Quando la scienza pretende di osservare, attraverso le sue sofisticate attrezzature, il
vissuto, essa sta osservando non il vissuto ma le supposte proiezioni e traduzioni di
quel
vissuto
nelle
forme
esteriori
(elettroniche,
elettrochimiche,
elettroencefalografiche, e così via) in cui si ritiene che quel vissuto si manifesti. La
scienza percepisce non il vissuto, ma il corpo del vissuto. Anzi, il corpo presunto del
vissuto. Del vissuto come fatto, del proprio vissuto come fatto ognuno di noi è –
ognuno per se stesso – testimone, unico testimone, senza poter farlo osservare dagli
altri. Questo vissuto può cercare di esprimersi, a volte, in parole. Il vissuto sottende e
struttura ogni atto del pensiero, anche se questo pensiero si esprimesse nel dubbio, nel
dubitare. Esiste un vissuto del dubitare, e questo vissuto è certo. Un tale vissuto
precede anche il cogito cartesiano.
Questo vissuto, in quanto inosservabile, costituisce l’invalicabile limite di ogni
scienza, che opera all’esterno di quel limite, senza mai riuscire a varcarlo. Ogni
scienza empirica si muove a partire dalla certezza dell’osservazione. Il vissuto, pur
inosservabile, è un fatto. Un fatto inosservabile. Un fatto inosservabile su cui nessuna
scienza potrà elevare un qualsivoglia argomentabile dubbio. Siamo davanti a un
fenomeno che, pur inosservabile, è il più certo dei fenomeni. Più certo anche di
quanto è in modo evidente osservato. Una scienza che pretende di essere certa in
quanto fondata sulle cose osservate non è consapevole del fatto che esiste un
“inosservabile” che è più certo della certezza riguardante l’osservazione: il vissuto. Il
vissuto rappresenta, perciò, il limite insuperabile della scienza, di ogni scienza
empirica. Capire che in un corpo osservato esiste un vissuto è come porsi davanti a
una finestra buia, scoprendo all’improvviso che all’interno si è accesa una luce. Nel
momento in cui capisco che in quel luogo una luce si accende, capisco che in quel
luogo c’è un “dentro” che prima ignoravo. Chi osserva dall’esterno vede corpi bui;
solo chi scopre di poter mettersi in contatto con un vissuto si accorge che in quel
corpo una luce è accesa. Questa luce accesa si esprime in parole. Nelle sue e nelle
mie parole.
All’interno di questo vissuto può individuarsi un particolare vissuto, che ha
una sua specialissima forza e caratura. Esso, tra i vissuti che viviamo, si caratterizza
in modo più acuto, più penetrante, più certo. Questo vissuto è il dolore. Nel vissuto
del dolore io non dico semplicemente che vivo o che penso o che dubito. Dico, più
specificamente, che sono io e solo io che soffro in questo momento presso di me. Il
dolore mi ritaglia nella mia assoluta singolarità. Esso mi introduce a un altro livello
della certezza, anche per quanto riguarda il pensare e il dubitare. Non mi fa percepire
soltanto che c’è un pensare, un dubitare, un soffrire, ma che sono io a pensare, a
dubitare, a soffrire. La certezza non riguarda semplicemente l’evento, ma me. Se la
certezza si limitasse all’evento, io stesso potrei essere un semplice momento
all’interno di quell’evento, momento della cui auto-consistenza non ancora avrei
certezza. Nell’evento del dolore non ho solo certezza dell’evento ma – all’interno
dell’evento – dell’auto-consistenza irrefutabile del me che lo patisce. Del me. Posso
illudermi di pensare, non posso illudermi di soffrire. Se soffro, nessuno – nemmeno
l’Assolutissimo Dio – potrà mai dimostrarmi che non soffro. Il dolore è assoluto.
Esso mi apre a un’assoluta certezza, che mi fa al tempo stesso sentire la certezza del
me.
Ci si potrebbe domandare perché istituire, a questo primo livello, una
distinzione fra il dolore e le altre forme di vissuto. Anche nel piacere e in una
semplice gioia, come in altre forme, accade una fenomenologica certezza. Nel dolore,
però, si danno due caratteri ulteriori e connessi che ne mutano la cifra: da un lato,
l’accadere di un fenomeno interno che mi spinge a far riflessivamente gravitare il
mio sguardo su esso; dall’altro lato, l’accadere di un trauma specifico che mi spinge a
prendere coscienza di me. Nel dolore, più acutamente e più specificamente che in
altre forme, si danno quel vettore e quella frattura che illumina sull’emergenza del
me. Nel dolore scoppia la bolla che mi separava da me.
Si tratta di un punto importante, che potrebbe e dovrebbe essere sottolineato
nei confronti di Martin Heidegger quando nella sua lettera sull’umanismo sostiene di
voler essere il pensatore non dell’uomo, ma dell’Essere: non dell’esserci, ma dell’Essere. Per Heidegger io sono solo il pastore dell’Essere perché l’Essere mi precede e
mi sottende, né si risolve nel mio esserci. In me l’Essere trova il suo «qui», il suo
«Da» (esser-ci ossia Da-sein). In questa prospettiva, io mi colloco come un luogo,
come un momento, come un ponte, in cui l’Essere disloca il suo «Da». Il mio esserci,
il mio essere qui, il mio essere la radura dell’Essere. Heidegger, perciò, intende
essere il pensatore non del soggetto, ma dell’Essere. L’Essere precede il soggetto e si
dà nel soggetto, gettandolo nel «qui». Ancor prima che il soggetto guardi all’oggetto
come a una cosa gettata davanti a sé, l’Essere ha già gettato il soggetto nel «qui».
Heidegger assume così una postura ontologica, per la quale l’Essere non è un ente,
perché è quel continuo fluire e durare che in ogni esserci e in ogni ente si dà. L’Essere è il puro scorrere che mi precede e in me qui si dà.
Qui Heidegger sembra non aver meditato abbastanza sull’evento del dolore.
Nell’evento del dolore – nel mio dolore – anche se in me si annuncia l’Essere, si
annuncia attraverso la mia sofferenza, che appartiene a me, solo a me, sulla quale non
posso dubitare (e sulla quale mi sentirei fortemente insultato se dubitassi tu).
L’Essere, nell’annunciarsi in me attraverso il mio dolore, non può affermare che il
dolore è suo, perché è mio. È mio e non di altri. Mi ritaglia nella mia singolarità. Mi
dà certezza della mia singolarità. Non mi dice semplicemente che io penso, ma mi
dice che, in questo pensare – anzi in questo soffrire – sono proprio io e non altri, non
altro. Qui opera un “mio” che non può essere oggetto di generalizzazione né di
neutralizzazione concettuale. Questo mio non è nel senso della proprietà, né nel senso
dell’autore, e nemmeno nel senso dell’appartenenza. È il mio nel senso del suo
coincidere col me, con questa voce che dice io e che io da me ascolto dentro di me. In
questo mio si apre la radura del mio esserci, del mio essere qui, che in modo
inesorabile e inaccessibile mi ritaglia da ogni altro esserci, in qualche modo
distinguendomi dallo stesso Essere che non si dà solo in me, ma in tutti gli altri simili
a me. Nel momento del dolore, l’Essere intercetta e individua il mio essere – il mio
esserci – e può intercettare ogni altro esserci, ma uno alla volta considerato. Leone
Tolstoj ha icasticamente espresso questa capacità individuante del dolore, là dove ha
scritto – nella sua Anna Karenina – che le famiglie sono tutte felici allo stesso modo,
ma ognuna è infelice a modo suo. Giuseppe Capograssi ha genialmente scritto che nel
mondo del diritto io mi sento individuato nel momento in cui io sono colpito. E
potremmo aggiungere: se con uno spillo pungo qualcuno tra la folla, uno solo grida.
Nel foro di quell’esserci l’Essere si dà come radura. In questa radura che io sono, e in
modo speciale nel dolore, si danno appuntamento – inestricabile appuntamento –
l’Essere che si dà in me e il mio contributo assolutamente singolare all’evento
dell’essere. In questa luce il dolore che mi individua nel mio esserci non mi consente
di confondere questo mio esserci con un qualsiasi altro esserci e con qualsiasi altro
momento degli esserci. A questo punto, oltre l’empirica certezza che si dà
nell’osservazione, io sono approdato a due certezze, ben più radicali della prima. Alla
certezza del mio vissuto e alla certezza di quel me che in questo vissuto di dolore si
dà.
Ma è proprio nell’evento del dolore che si compie, a un certo punto, un inatteso
rovesciamento di significati. È precisamente nel dolore – proprio o dell’altro – che
accade la possibile risonanza reale del proprio sé con l’altro e dell’altro col sé.
Proprio nel momento più radicalmente individuale dell’umano accade un movimento
che va oltre l’individualità. Un movimento che costitutivamente trabocca.
Come possiamo dire del dolore, possiamo dire della paura e della morte. Il
dolore non è il concetto del dolore. La morte non è il concetto della morte. La paura
non è il concetto della paura. Il mio dolore, la mia paura e la mia morte non possono
essere concettualizzati. Siamo in un orizzonte di esperienze che hanno una strutturale
paradossalità. Perché si tratta di esperienze di cui non può darsi concetto e di cui non
può non darsi un qualche sfocato concetto: nella forma di una idea.
Ci troviamo, in questo itinerario, davanti a una sequenza di paradossi che non
possono essere analiticamente scomposti, ma che vanno necessariamente pensati. La
verità si dà anche se nessuno le credesse, anche se nessuno la condividesse, anche se
nessuno le prestasse consenso. La verità non può essere messa ai voti. Non può essere
sottoposta al principio del mercato. Né del sondaggio. Né della statistica. Potrebbe
addirittura dirsi che non è sottoposta nemmeno al principio dell’unanimità. La verità
non è democratica.
Potrebbe, certo, sanamente obiettarsi che nessuno sa qual è la verità. Ma la
verità, così come abbiamo già detto, non è l’oggetto di un’opinione e, in ogni caso,
anche se fosse inconoscibile, non si potrà mai confondere tra il suo essere
inconoscibile e il suo non esistere affatto. Compiere questa confusione è atto più
dogmatico della dogmaticità che l’apparente non dogmaticità della negazione
intenderebbe superare. Chi ritiene superata la verità la sostituisce con la propria.
Determinando, fra l’altro, un conflitto fra più verità che, alla fine, si risolve in quella
catastrofe in cui ritorna la verità.
2. Le verità dei paradossi
Si è parlato del paradosso della verità. Occupiamoci ora delle verità dei
paradossi. I paradossi sono il modo attraverso cui si illumina la notte delle nostre
consapevolezze scontate.
I
diritti
umani
sono
certamente,
oggi,
un’acquisizione
importante.
Distingueremmo, però, fra diritti umani e diritti fondamentali. Distingueremmo
perché i diritti umani parlano del contenuto di questi diritti, mentre i diritti
fondamentali, pur parlando ancora di questi contenuti, parlano della forza di questi
diritti, che sono appunto fondamentali, cioè non fondati ma fondanti. Dovremmo
pertanto distinguere tra i diritti umani in quanto si riferiscono al catalogo di questi
contenuti e i diritti fondamentali in quanto si riferiscono alla forza di questo catalogo.
Questi diritti, essendo fondamentali, si impongono anche contro la forza dello Stato
che li dichiara.
Qui appare un paradosso su cui non si riflette abbastanza. È stato certamente
importante che ci sia stata, con l’ONU, la Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo. Sono state certamente importanti le tante dichiarazioni universali sui
diritti che si sono da allora susseguite. Sono state importanti le Costituzioni che
hanno in più occasioni catalogato quei diritti umani. È stata importante la
Dichiarazione contenuta nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU),
così come è stata importante la Carta dei diritti dell’Unione Europea. Ma poniamoci
il problema di queste dichiarazioni dal punto di vista di un pensare radicale. Ci
troviamo, qui, davanti a una sequenza inevitabile di paradossi.
Vediamo il primo paradosso. Nel momento in cui un qualsiasi Potere dichiara i
diritti umani e i diritti fondamentali sta esprimendo una posizione inconsapevolmente
contraddittoria. Questo Potere sta dicendo che i diritti da esso dichiarati esisterebbero
anche se esso non li dichiarasse (e che esisterebbero anche contro di lui). Questo
Potere, nel momento in cui dichiara questi diritti, contemporaneamente presuppone
che questi nascano nel momento in cui li dichiara. Consideriamo questa prospettiva,
che è propria del Potere che si auto-comprende in un orizzonte giuspositivistico: io
Potere dichiaro che esistono questi diritti fondamentali dal momento che li dichiaro e
contemporaneamente dichiaro che questi diritti esistono indipendentemente dalla mia
dichiarazione. A ben riflettere, siamo, a questo punto, davanti allo stesso paradosso
della verità di cui prima dicevamo, portata – questa volta – alla scala del diritto e
dell’esistenza umana, anzi degli esistenti umani. Parliamo di quella verità di cui
abbiamo detto che esisterebbe anche se nessuno la riconoscesse. In prospettiva
analoga, qui parliamo di quegli esseri umani che esisterebbero anche se nessuno ne
riconoscesse l’esistenza.
Noi non riflettiamo mai abbastanza su questa contraddizione – pragmatica
contraddizione –, pur virtuosa, su cui si regge ogni potere che dichiara i diritti
fondamentali. Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si afferma e si
auspica che il potere di qualsiasi Stato, nel fondare questi diritti, dovrà dichiarare
diritti che esistono indipendentemente dal suo potere, al limite anche contro di lui.
Una tale concezione costituiva, come è noto, già all’epoca della Dichiarazione
universale del 1948, un principio eversivo nei confronti di ogni concezione
pubblicistica, che asseriva come suo dogma fondamentale il principio per cui ogni
diritto soggettivo promanava dallo Stato. La contraddizione, in questa prospettiva,
viene occultata dal Potere dichiarante. Ma la cosa più importante, a questo punto, è
farla venire alla luce. Molto più importante della conoscenza analitica degli stessi
diritti elencati. Il riconoscimento dei diritti fondamentali è un paradosso logico, del
quale bisogna prendere radicale consapevolezza. Dentro quella contraddizione è
nascosta una operosa verità.
Veniamo al secondo paradosso. Potrà osservarsi che accanto alla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo ci saranno poi tante altre Dichiarazioni universali:
quella dei Paesi africani, quella dei Paesi islamici, quella dei Paesi orientali e così via.
Partendo da ciò potrà affermarsi che tutte le dichiarazioni universali sono
contrassegnate dalla loro storica e geografica relatività. C’è però, a questo proposito,
un punto da chiarire. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 è
stata importante perché ha dichiarato che esistono limiti al potere di uno Stato. Ci
sono, però, su questo punto molte altre diverse Dichiarazioni. Il fatto che ci siano
tante Dichiarazioni universali sui diritti dell’uomo non è tanto importante perché esse
dicano – in modo opinabile – questi diritti, ma perché tutte insieme riconoscono che
esiste un limite al potere di un qualsiasi Stato nei confronti degli esseri umani. Se
trasferiamo questo discorso sul piano del problema che concerne la verità, possiamo
dire che non è tanto importante l’affermare una determinata verità indipendente dal
consenso o dalla forza, ma è importante il fatto che si riconosca ci sia una verità, pur
non conosciuta o pur diversamente conosciuta, che costituisca un limite al Potere o
alla Forza. Non è importante che si sappia quale sia la verità indipendente dal
consenso e dalla forza, ma è importante sapere che questa verità c’è.
Corrispondentemente, non è tanto importante sapere quali siano i diritti soggettivi
indipendenti dal consenso e dalla forza, ma è importante sapere che questi diritti ci
sono e che derivano dalla mera esistenza dell’uomo come tale, del singolo uomo
come tale, del singolo uomo ancor prima che abbia operato alcunché. Siamo, qui,
davanti allo stesso paradosso della verità, portato alla scala dell’umano: dei diritti
umani.
In realtà, va compreso che dentro la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è nascosta un’altra – ben più profonda – dichiarazione, con la quale si riconosce
che esiste una verità indipendente dalla dichiarazione stessa e che questa verità si
sostanzia nella verità di quel singolo uomo che esiste come tale e che reclama il
diritto di essere riconosciuto tale. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
sta, in realtà, confessando che c’è una verità concreta che la precede, sostanziata
nell’esistenza del singolo uomo. Quella Dichiarazione, cioè, sta nel suo fondo
presupponendo un’altra dichiarazione, più importante di ciò che quella Dichiarazione
esplicitamente dice.
Quella dichiarazione dei limiti costituisce, perciò, una confessione. La
confessione concerne il fatto che, contro gli stessi interessi costitutivi del potere
dichiarante, si riconosce questo limite e che questo limite c’è. In questa luce, è
secondario il capire in che modo e secondo quali varianti culturali un tale limite
debba interpretarsi. Il modo di interpretare questa verità potrà essere anche
culturalmente variabile, ma riposerà pur sempre sull’evento – universalmente
riconosciuto – che questo limite c’è. Si tratta di un evento che non può e non deve
essere occultato.
Siamo al terzo paradosso, la cui individuazione è importante, per capire la
nostra epoca e per andare oltre di essa. Siamo abituati a contrapporre, secondo un
criterio superficiale e pericoloso, natura e storia. Anzi, dovremmo più radicalmente
dire: ontologia e storia. Secondo questa impostazione, ci sono dei diritti naturali e
eterni e c’è una storia mobile e relativa. Una tale prospettazione è superficiale e
negligente. La storia non va pensata secondo una modalità che la contrappone alla
natura o, se vogliamo, all’ontologia. La storia è da considerare piuttosto il modo
attraverso cui, nello spazio e nel tempo, la natura – anzi l’ontologia – si fa storia: si
storifica. Potremmo dire: la “natura” necessariamente si storifica nelle modalità in
cui nello spazio e nel tempo appare. Nella storia si dà permanentemente la necessità
dello storificarsi di una “natura” che soggiace, o che si postula soggiaccia. Questa
“natura”, in realtà, è null’altro che il mondo della vita. Non si tratta della natura come
oggetto del discorso, ma del mondo della vita che precede, sottende e struttura ogni
discorso su di esso. In questa prospettiva, è astratto e fuorviante, espressione di una
cattiva astrazione, il contrapporre natura e storia, perché la natura si dà sempre e non
può non darsi in forma di storia. La natura necessariamente si dà nella forma mobile
della storia. Lo stesso “diritto naturale” non può non darsi – necessariamente si dà –
in forma storica. La storicità del suo darsi non esclude la sua naturalità, anzi la fa
apparire alla luce. La “natura” si dà, e non può non darsi, nella maschera della storia,
anche se si darà in forme diverse e contrastanti. La pluralità, quindi, appartiene a
quello stesso mondo dell’ontologia che la precede e la sottende, mentre solo in forme
parziali e provvisorie si dà.
La contrapposizione, pigramente ripetuta, tra natura e storia è perciò
contrapposizione negligente, che non ha pensato in modo radicale i termini che
contrappone. Siamo davanti al paradosso del necessario storificarsi di ciò che è
naturale e del necessario storificarsi di ciò che è ontologico. L’ontologico si storifica
in modo parziale e plurale; ma, d’altra parte, più importante della sua pluralità è il
fatto che rispetto al potere qualche cosa sempre imperiosamente resiste. Per altro
verso, però, quella pluralità non è arbitraria, o meglio non può ragionevolmente
ritenersi che lo sia. Questo plurale resiste, in quanto non è arbitrario e in quanto non
si dissolve e non può dissolversi in un arbitrario artificio.
Potrebbe certamente obiettarsi che, se quell’ontologia è plurale, potrebbe
diventare arbitraria e che, se diventa arbitraria, nessun limite più si ergerebbe nei
confronti di un qualsiasi Potere. Una tale obiezione, però, non riflette abbastanza sul
fatto che dalla storia stessa emerge il fenomeno per cui non qualsiasi arbitrio è
possibile e che, quando qualche forza una tale arbitrarietà abbia praticato,
l’esperienza umana si è trovata consegnata davanti allo spettacolo di un intollerabile e
universale orrore. Ciò che dalla storia si apprende è che, da un lato, appaiono costanti
antropologiche, pur in varia forma manifeste, e che, dall’altro lato, quando alcune di
queste costanti sono state violate, universale e dura è stata la storica reazione. Dal
grembo stesso della storia emerge, pertanto, attraverso il sentimento di una catastrofe
comune, la resistenza della storia alla storia come pratica dell’arbitrio intollerabile. In
un tale storico succedersi di azioni e di reazioni l’evento fenomenologico delle
Dichiarazioni universali non è semplicemente un fatto storico fra gli altri, ma un
referto che la storia traccia su se stessa, riflettendo sui limiti di quanto è tollerabile
dall’uomo. Dal grembo della storia emerge uno storico referto, che è una tornante
riflessione su di sé. Qui la verità si rivela essere nient’altro che il confine.
Veniamo al quarto paradosso. Solo i paradossi – oggi – riescono a darci a
pensare, bucando la banalità della nostra inconsapevole narcosi. Si tratta di un
paradosso messo in scena dalla stessa scienza, anzi dall’insieme di tutte le scienze
nell’evolversi del loro straordinario progresso. Si parla del paradosso, di cui altrove
abbiamo già detto e che chiameremmo delle quantità cognitive decrescenti. Più la
scienza conosce, meno riesce a prevedere e a governare gli effetti che produce
conoscendo. Più le scienze conoscono, meno riescono a controllare e a governare gli
effetti che producono. Più velocemente mi indirizzo verso la meta, più la meta si
allontana.
Veniamo a un quinto paradosso, che potremmo chiamare delle quantità
antropologiche decrescenti. Più cresce la potenza delle scienze, più diventa piccolo il
numero di coloro che possono produrre effetti devastanti sul pianeta. Navighiamo
verso il limite all’altezza del quale un singolo uomo – una persona – potrà produrre
effetti devastanti sull’intero pianeta. Il crescere della potenza scientifica va,
paradossalmente, in direzione del crescere della potenza di un singolo uomo, di una
persona, indipendentemente dalla sua consapevolezza. Assistiamo a una radicale
democratizzazione del potere di dare la morte a tutti. La persona, in questo orizzonte,
acquista, all’interno della storia della complessità e della velocità generate dalle
scienze, una paradossale nuova centralità in negativo. Si tratta di una scoperta
inquietante che può avere, rovesciata in modo virtuoso, una sua tragica bellezza. Una
catastrofica bellezza che può diventare un monito etico di tipo nuovo.
Veniamo a un sesto paradosso, che chiameremmo delle quantità spaziali
decrescenti. È il paradosso per cui da angoli sempre più piccoli e remoti dell’intero
pianeta possono prodursi effetti dirompenti sull’intero pianeta. Un tale fenomeno
rompe ogni gerarchia consolidata dei rapporti fra centro e periferia. Ogni punto del
pianeta può diventare, in qualsiasi momento, centro di effetti inattesi, mentre sta
all’occhio intelligente sapere che viviamo all’interno di questa permanente
possibilità.
Il singolo, che era, nelle concezioni consolidate, il semplice – e povero –
membro di una classe, può diventare in ogni momento decisivo dell’insieme.
L’importanza di un tale sguardo su questo sopravvenuto potere del singolo diventa
oggi necessità non semplicemente per una decisione etica, ma per una illuminazione
epistemologica, che investe la rottura del tradizionale modo di vedere il rapporto tra
oggetto e conoscenza.
Possiamo, a questo punto, intercettare un settimo paradosso, sul quale
dobbiamo imparare a meditare. Si tratta di un paradosso che può avere importanti
effetti virtuosi. È il paradosso per il quale noi possiamo meglio individuare il bene –
possiamo meglio identificarlo nei suoi confini – a partire dal massimo male. Lo
chiameremmo il paradosso del massimo male, ossia il paradosso della catastrofe
come rivelativa di verità.
Si tratta di un’impostazione che batte in breccia ogni forma di non
cognitivismo etico: ogni forma di relativismo inteso in senso banale. Viviamo in un
tempo in cui il discorso sui valori è preceduto da un atteggiamento di arbitrario
shopping delle scelte. In tale contesto, ogni scelta è, in quanto tale, puramente
intellettuale e arbitraria. E, in quanto arbitraria, esercitabile secondo il puro criterio
del piacimento. Si assume, rispetto ai valori, il punto di vista degustativo che
potrebbe aversi davanti a una vetrina di merci. Di pasticcini. Esiste in questo
shopping un momento topico, in cui esso si rivela, attraverso il consumarsi di un
crollo, nella sua improvvisa verità. È il momento in cui noi siamo posti davanti al
fatto della catastrofe che ci accumuna e del dolore che l’accompagna. Qui la
catastrofe accomuna all’interno del suo evento quello stesso soggetto umano che
arbitrariamente sceglieva. L’evento della catastrofe – il massimo male – ci rivela che
le nostre arbitrarie preferenze erano solo esercitazioni da salotto, ignare della loro
strutturale deriva. In quel momento, a partire dal massimo male, si comprende
riflettendo a ritroso, sui contorni del bene che avevamo dimenticato e che l’insieme
salottiero delle preferenze aveva voluttuosamente offuscato, impedendoci lo sguardo
sulla deriva. A partire dalla catastrofe noi possiamo, a questo punto, identificare il
valore. Per dir così, l’invisibile valore si fa avanti, si fa sperimentare a partire dalla
visibile catastrofe. Costituisce una dura verità del mondo umano quella di dover
capire – troppo tardi – il bene a partire dal male. Hegel diceva che la filosofia arriva
troppo tardi. Noi dovremmo piuttosto dire che è la comprensione del valore ad
arrivare troppo tardi. Capire, infatti, non è il semplice capire: è capire l’importanza di
ciò che si è capito. Perciò, si può capire senza capire. Se non si capisce a partire dalla
possibile catastrofe, non si capisce affatto. La catastrofe è il limite oggettivo
all’arbitraria cecità verso il valore. Il relativismo inteso in senso banale rivela qui la
sua strutturale incapacità di capire. Semplicemente perché ignora il presupposto
radicale su cui è seduto e da cui prende alimenti: la forma della vita. Si tratta di un
presupposto radicale, che non è mero presupposto logico di ciò che si dice, ma
presupposto ontologico di ciò che in un dicente agisce e che gli consente di dire. Qui
la vera intelligenza si rivela l’intelligenza dei bordi.
Tutto ciò illumina in modo nuovo la stessa idea di comunità. La comunità,
infatti, non si comprende a partire dal fatto che, essendo noi in comunità, ci vogliamo
bene. Essa si comprende, invece, a partire dal fatto che noi, essendo in questo luogo
comune, siamo insieme esposti a un comune pericolo di cui la catastrofe potrà essere
la strutturale rivelazione: l’epifania. Potremmo, in questa prospettiva, parlare di una
comunità in sé e di una comunità per sé. Noi siamo comunità in sé, cioè esposti a un
comune pericolo, anche se non lo sappiamo. Possiamo diventare comunità per sé
quando cominciamo ad accorgercene. In ogni caso – sia che siamo comunità in sé, sia
che siamo comunità per sé – non siamo comunità in quanto ci vogliamo bene, ma
siamo comunità in quanto siamo e ci percepiamo esposti alla possibilità della comune
catastrofe, la quale non è altro che la spia strutturale della individuale e comune
fragilità. Solo in seconda istanza – in quanto sappiamo di poter sperimentare la
catastrofe, in quanto subliminalmente la pre-sentiamo e in quanto empaticamente la
sentiamo – possiamo vivere il soccorrerci e il volerci bene, cioè il nutrire reciproca
volontà buona, promuovendo così l’essere in comunità all’ulteriore grado della sua
eticità.
L’esposizione alla catastrofe non è esorcizzabile a partire da arbitrarie
esercitazioni relativistiche. La catastrofe e l’esposizione alla catastrofe illuminano di
nuova luce le preferenze che fino a quel momento avevamo privilegiato,
collaudandole alla luce dei valori. La contemplazione della comune catastrofe
impedisce di vedere il colpito all’interno di una prospettazione indifferente. In quel
momento noi non siamo in atteggiamento relativistico, ma relazionale. La relazione
col dolore altrui non può essere relativizzata. Né può essere ridotta a disincarnata
noesi. In questo orizzonte di riferimenti, il massimo male diventa, paradossalmente,
istitutivo della possibilità non relativistica di rapportarsi con quella verità che si dà
alla luce come dolore.
Esiste un ulteriore paradosso: l’ottavo. Lo chiameremmo il paradosso del
particolare che sfonda. Siamo abituati a pensare che il particolare è come una mela
che, essendo fuori del canestro delle mele, attende solo di essere in quel canestro
deposta e classificata, semplice membro della classe delle mele. In questa prospettiva,
nella quale quel particolare è solo un membro generico dell’insieme, il mio compito
sarà solo quello di collocare la mela nel canestro della sua classe perché questa mela,
confondendosi fra le tante, sia finalmente considerata una delle tante. Oggi siamo
collocati nella condizione di pensare in modo radicalmente diverso. Noi possiamo
oggi, infatti, pensare che il particolare è il modo nuovo con cui comincia daccapo
l’universale. Nessuno possiede interamente il canestro del genere, perché sempre
daccapo un particolare annuncia un nuovo modo di essere di quel genere, mai chiuso,
non concettualmente circoscrivibile in maniera definitiva, e pertanto sempre aperto a
nuove possibilità. Non si tratta però, in questa visione, semplicemente del guardare
alla novità di una variante all’interno di un genere, perché si tratta – ben più
radicalmente – di capire l’unicità di ogni esistenza concreta in quanto tale. Così come
non può darsi concetto del dolore, della paura e della morte, non può darsi concetto
dell’esistenza concreta, di questa mia esistenza concreta, di questa tua esistenza
concreta. Anzi, questa esistenza concreta è il livello più radicale in cui si annuncia la
stessa irriducibilità del dolore, della paura e della morte. In questo senso, il momento
esistenziale diventa l’occasione rivelatrice di un momento della logica, e non
viceversa.
Una tale impostazione significa, in realtà, avvicinarsi al problema dei diritti
umani in modo nuovo, cercando di andare in direzione di ogni singola persona,
esistenzialmente sempre nuova, vivente nella comunità sempre aperta degli umani.
Non bisogna confondere ciò che è logicamente comune con ciò che è
esistenzialmente comunitario: questo “comune” concerne gli enti logici; questa
“comunità” concerne gli esistenti reali. La persona non è uno schema. Se fosse uno
schema sarebbe misera cosa. Non è un che, ma un chi.
Una tale impostazione può essere guardata anche nella prospettiva evangelica,
se è vero, come è vero, che l’evangelo esprime sempre il punto di vista dell’ultimo.
La persona è il punto di vista della pietra scartata. Il vissuto della pietra scartata. La
fatticità della sua verità.
Il problema della verità, in questa luce, non è il problema della verità come
corrispondenza. La verità come corrispondenza ha da fare con il problema
dell’enunciato linguistico. O, tutt’al più, dell’approccio puramente noetico. La verità
non è solo la verità come corrispondenza. La verità è, innanzitutto, quel fatto che si
impone anche se io non lo riconoscessi. C’è una verità come fatto che si dà
indipendentemente dal mio vederla. Questa verità è la fatticità di un vissuto, che
appare ancor meglio, ma non soltanto, nella fatticità del suo dolore. Se questo è il
dato di fatto da cui partire, dobbiamo saper capire che questa verità è il singolo. Non
nel senso che il singolo abbia la verità, ma nel senso che questo singolo è la verità, o
meglio, una parte importante e inevitabile di essa. Una tale verità si sottrae a qualsiasi
potere. Il singolo è il fatto del suo vissuto, l’atto del suo vissuto e l’evento del suo
vissuto. Ma l’evento del suo vissuto dice null’altro che l’evento del suo esistere
concreto, che non può essere ridotto a un concetto che ne dica. Ma non c’è solo un
esistere concreto. Ci sono tanti esistenti concreti. Ogni esistente è, in quanto tale, una
verità. E questa verità, che è la mia e la tua, nel momento del dolore mi tocca. Ti
tocca. Ci tocca. Se non ci tocca, la catastrofe è già accaduta. E, a questo punto,
daccapo ci toccherà.
Ciò significa che non c’è una sola verità, ma tante verità. E ciò, d’altra parte,
significa che ogni volta la verità comincia daccapo. Perché ogni volta la verità si dà
in una forma di cui non possediamo schema precostituito.
Non c’è legislatore, non c’è Assemblea dell’ONU, non c’è storia che possa
esaustivamente contenere ciò che si dà e si darà. Tutta la storia del mondo è, rispetto
a ogni nuova esistenza, in quanto manca di essa e delle altre, una misera cosa.
3. Una partita intellettuale del Novecento: Martin Heidegger e Jean-Paul
Sartre
Qui si apre la possibilità di percepire una partita intellettuale che si è giocata
nella prima metà del Novecento, soprattutto nel secondo dopoguerra, tra Martin
Heidegger e Jean-Paul Sartre. Martin Heidegger, anche se non sempre lo si coglie,
era un grande estimatore di Sartre. Lo testimonia anche una lettera a Sartre, a cui
Sartre non rispose (ne dà conto il curatore della Lettera sull’umanismo)3.
3
M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 1995.
Quali sono gli elementi strutturali di questa intellettuale partita? Si sta
parlando, in realtà, del modo di intendere l’essere umano e la verità. Heidegger, come
è noto, sostiene, contro le posizioni esistenzialiste (di cui Sartre è portatore), che non
c’è il soggetto, ma l’Essere. E che perciò bisogna far centro non sul soggetto, ma
sull’Essere. Per Heidegger l’uomo è il pastore dell’Essere. Egli porta – nel suo esserci
– l’Essere. Egli coltiva l’Essere nel linguaggio. Se l’uomo tenta di definire quest’Essere, arriva a ritenere che la verità sia semplice corrispondenza. Ma questo soggetto,
che non c’è perché non auto-consiste, deve essere inteso, nel suo esserci, come
l’Essere che si dà qui: in questo mio essere qui. Il Da-sein esprime, perciò, l’Essere
che in questo momento qui in me si dà. Io sono il suo esser-ci. Il suo essere qui. Io
sono il tramite nel quale passa e si disloca l’Essere. In questo senso, mentre il
soggetto pensa di proiettare davanti a sé l’oggetto, per Heidegger lo stesso soggetto è
qualcosa di gettato dall’Essere. Il soggetto è null’altro che l’esserci che l’Essere ha
qui in me gettato.
La posizione di Sartre è diversa. Egli parla di un’esistenza che precede
l’essenza, che non si riduce all’essenza. Il soggetto, in quanto esistente, c’è, mentre è
proprio l’Essere a mancare, potendosi esso dare soltanto nella forma del Niente. Del
Ni-ente. A ben riflettere, sia ad Heidegger che a Sartre manca qualcosa. C’è un quid
che manca a tutti e due. E che, mancando a tutti e due, può tenerli – d’altra parte –
insieme. Ad Heidegger manca la considerazione per cui, nel passaggio dell’Essere
nell’esserci, si dà un sé unico e autoconsistente, della cui unicità l’esserci stesso
testimonia. Di ciò appare insuperabile esperienza la traccia del dolore. Del dolore non
sono possibili duplicazioni. Non è possibile, cioè, un raddoppiamento noetico – tutto
intellettuale – del dolore. Nel dolore l’esserci afferma e sente la sua unicità. In Sartre,
invece, manca la traccia dell’Essere che nel soggetto si dà. La domanda che, a questo
punto, a Sartre è possibile rivolgere è: se soltanto nel soggetto si danno il pensare e il
sapere, che ne è mai di questo pensare e di questo sapere se nel niente non c’è? Non è
forse quel soggetto tracciato da un Essere che nel suo pensare, nel suo sapere – e
ancor più nel suo soffrire – si dà? La domanda che, a questo punto, è possibile
rivolgere a entrambi, è: in questo dolore non accade per caso che nell’esserci vivono
contemporaneamente il suo esser tracciato dall’Essere e il suo esser tracciato dal sé, o
meglio il suo esser-tracciato come il suo medesimo sé?
Che cosa a Heidegger e Sartre sembra mancare? A entrambi, in realtà, manca
l’anello che li tiene insieme. L’anello che potrebbe tenerli insieme: la persona, il suo
atto di essere. Il suo auto-consistente atto di essere.
A ben riflettere, il dolore è l’evento nel quale, in modo più evidente che negli
altri vissuti, si rivela un nesso che è – fra più eventi – ponte e crocevia. Nel dolore si
vive la traccia inconfutabile del proprio unico essere e dell’Essere che nel proprio
esserci si dà. Nel dolore percepisco più nettamente che io unicitariamente sonotracciato, stando in un Essere da cui sono tracciato. La domanda impossibile che, a
questo punto, può formularsi è: sono io che vivo l’essere o è l’essere che vive me?
Nel mio vivere l’energia che mi precede e mi attraversa, sembra che prevalga
l’essere; nell’evento del mio pensare, sembra che prevalga io; ma in realtà, è sempre
impossibile, in questo nesso, un taglio di spada che separi. Se guardiamo all’evento
del dolore, qui un chi vive la frontiera fra l’io e l’essere, in cui intanto vibra ogni altro
io. È ciò che accade nel dolore e nel mio essere memoria (essere memoria, non
semplicemente aver memoria). Non solo. Nel dolore io vivo – posso vivere – l’evento
dell’incoercibile risonanza con l’altro, che dal dolore mi chiama e che nel dolore
sento di chiamare. Se vedo davanti ai miei occhi l’altro sgozzato, questo evento
incoercibilmente mi devasta. Il dolore è l’evento in cui si dà la triplice traccia della
propria unicità, dell’essere e dell’altro. Attraverso il dolore si accede a
quell’esperienza unicitaria che è l’esperienza della propria persona come atto di
esistere del sé, dell’essere che nel sé abita e dell’altro, che nel proprio sé e nell’altro
risuona. In Heidegger c’è l’Essere e c’è l’esserci, ma manca la persona, perché manca
la singolarità che si auto-costituisce nella sua unicità. In Sartre c’è il soggetto e c’è il
Niente, ma manca la persona, perché manca l’Essere che in quella persona si dà.
Nell’uno e nell’altro manca la persona. Forse perché a entrambi manca la medesima
cosa: una rigorosa meditazione sul dolore.
4. Per una prospettiva che rovescia
Crediamo che la Chiesa debba ancora molto meditare su questo punto, perché
la meditazione sulla persona è cosa troppo preziosa per lasciarla ai soli credenti. La
persona è una ricchezza da cui possono – speculativamente e esistenzialmente –
imparare credenti e non credenti. Troppo spesso i non credenti non parlano di
“persona” solo perché ritengono che l’idea di persona sia un semplice affare culturale
per credenti.
La persona è l’evento che, sussistendo, in me si dà, di cui io non dispongo, in
cui, anche attraverso il mio dolore, io testimonio la mia unicità, ma sapendo che io
sono il luogo in cui passa e si rivela l’Essere. Per dir così, l’Essere si annuncia in me,
ma si annuncia a mie spese. Io contribuisco, con la spesa del mio dolore, all’annuncio
dell’Essere. La persona è, quindi, il luogo dell’apertura dell’Essere che, sussistendo
nel mio essere, apre sull’ente di cui può disporre e/o di cui non può disporre. La
persona diventa la verità, ma questa verità, che è la verità dell’essere ciò che sono, in
cui si apre l’Essere che mi precede e mi sottende e che si apre al mondo e dice sul
mondo nel quale è.
Questa verità che in me si dà è triplice. Come in una formula trinitaria. Esiste,
in questa verità, una singolare trinitarietà, tutta sempre daccapo da pensare, a partire
da me. Questa verità che io sono – e nel cui orizzonte ognuno può dire “io sono” – è
trinitaria, perché è la verità di chi dice quel che dice e che, sentendosi unico, esiste e
soffre. È la verità che dentro di me si rivela, di cui nella mia unicità sento, di cui
nemmeno io dispongo, alla quale pure dò voce, che è la mia profondità, mentre è, al
tempo stesso, la verità della relazione in cui sempre sono – risuono, empaticamente
risuono – con l’altro: relazione costitutiva, e non semplicemente aggiuntiva, del me,
là dove quella che è la costitutività e non l’aggiuntività della relazione dice che c’è un
essere di quella persona che è nel mancare. Un mancare che è, in realtà, un chiamare
e un esser chiamati. Questo mancare è un essere, nel senso che è un segreto aspirare
a rivelare altri aspetti di sé alla luce della relazione con l’altro: è un apofatico essere
che, dandosi nel mancare, è in attesa di tante nuove possibili relazioni in cui svelare
parti di sé, mentre segretamente tende a svelare parti nascoste nell’altrui mancare. La
verità è, contemporaneamente, nel sé e nella relazione col sé. Io posso offendere la
verità anche quando, mentre dico il vero come contenuto, víolo la relazione con
l’altro ledendo la sua dignità. In questo caso, io sto affermando la verità come
contenuto nello stesso momento in cui la sto violando come relazione. Ciò può
accadere anche nell’agire. Posso regalare a qualcuno qualcosa non per fargli del bene,
ma per stracciare la sua dignità.
Questa verità, che è trinitaria in modo radicalmente laico e che si sviluppa nelle
tre coordinate dell’unicità, del legame e della profondità, è una verità fondamentale
nel senso che si pone come limite a ogni sguardo conoscitivo e a ogni potere
manipolante. In questo senso, questa verità triplice – l’Essere che in me si dà,
l’autenticità che in me parla e la relazione in cui risuono e risuona – rivela un quarto
livello, che tutti e tre attraversa e congiunge: è la verità come contro-limite nei
confronti di ogni pensiero e di ogni agire, e quindi di ogni Potere e di ogni Agire.
Non si tratta di una verità generica. Quando Pilato si trova davanti a Gesù e gli
domanda che cosa sia verità4, trova davanti a se stesso una risposta muta, che gli
appare nella forma della presenza di un uomo, di una persona che davanti a lui è
verità. Non verità enunciata, ma in carne e ossa. Verità è colui che in quel momento è
davanti a lui. Inerme, povero e solo. Pilato cerca che cosa sia vero nel senso
dell’aggettivale, ma si trova davanti a una persona, che è vera non per la sua
aggettivalità, ma per la sua sostanza. Quella persona è un limite al suo potere: è la
verità del suo essere persona. Si tratta di una verità a lui così evidente, che egli sente
la necessità urgente di lavarsene in pubblico le mani. Qui appare tutta la miseria di
una democrazia fondata sul principio della maggioranza, o del consenso, per quanto
straordinariamente esteso fino a poter essere plebiscitario. Una democrazia
puramente maggioritaria – in cui, cioè, la maggioranza pretenda di poter decidere
4
Sul punto vedi A. Milano, Quale verità, cit.
qualsiasi cosa – è una tirannide della maggioranza. La verità è sempre un limite al
potere. Sia politico, sia giuridico, sia scientifico, sia noetico. Anche qui, la verità è
nient’altro che confine.
I diritti umani, guardati in questo orizzonte, ossia in quella caratura
fondamentale che non si riduce al loro contenuto, sono un modo di dirsi e d’imporsi
della verità. L’essere i diritti fondamentali si riferisce, in questa luce, non al loro
contenuto, ma alla loro forza: fondante e non fondata. Come la verità è tale
indipendentemente da chi vi consenta, così i diritti fondamentali sono un limite al
potere. La verità è un limite al potere, come un limite al potere è verità. Si tratta non
di un limite generico, ma specifico, carnale, qui e ora collocato. Consistente nel fatto
di quel vissuto che io sono e che, come me, qualsiasi altro io è.
Non basta. C’è la verità di questo qui e ci sono le verità di questi qui. E c’è la
verità che tiene insieme tutte queste verità, senza mai esaustivamente risolversi in
nessuna di esse. Una tale verità si rivela anche nella possibile catastrofe che si
annuncia quando è violata la comunità in cui abita ognuna di quelle verità. Non si
tratta di una comunità operosa, ma di una comunità che le precede, le sottende e le
attraversa, rivelandosi in ognuna di esse. Dove una sola è violata, è violata l’intera
comunità. Perché è violata la persona che da quella comunità è indivisibile e in cui
quella comunità necessariamente si dà.
Si rovescia, così, ogni prospettiva sulla giustizia e sulla dignità. Non abbiamo
più da fare con uno schema di dignità e/o di giustizia calato dall’alto da parte di un
Potere che lo dichiara. Abbiamo, invece, da fare con le verità dei singoli in cui
necessariamente abitano la giustizia e la dignità. In questa prospettiva, la giustizia
non è uno schema intellettuale, perché si risolve nel riconoscimento delle singole
libertà e dignità, che quello schema – nella forma di limiti – precedono ed eccedono.
Ogni persona, in quanto esistente sempre nuovo, costituisce pertanto il limite
invalicabile – il contro-limite – nei confronti di ogni Potere, e di ogni Sapere che in
quel Potere vive radicato. Qui si coglie la provvisorietà strutturale di ogni schema che
pretenda dire quella giustizia e quella dignità. Anzi, più radicalmente, qui si coglie la
contraddittorietà di ogni Potere che intenda dichiarare l’esistenza di diritti
indipendenti dal suo potere, da un Potere che, contemporaneamente, si presenta come
costituente. Un tale limite, anche se si esprimerà in forme storicamente diverse, sarà
limite perenne. Ciò che va intanto, speculativamente capito, è che cosa tiene insieme
quelle forme storiche diverse.
Stiamo parlando non della dignità dell’uomo in quanto specie, ma della dignità
di ogni singolo uomo, distinto da ogni altro, che è – in quanto tale – persona. Se si
parlasse, infatti, della dignità dell’essere umano come specie, potremmo
paradossalmente sostenere che anche i nazisti ne possedevano il senso, facendo
consistere tale dignità in quella dell’essere umano bianco di razza ariana. La dignità
esprime il significato dell’axios, ossia di ciò che è principiale, fondante. Di ciò che ha
la forza di fondare e che è adeguato a fondare. L’axios ha da fare con l’assioma, che è
il principio fondante. Tolto l’assioma, l’intero edificio crolla. In questa prospettiva, è
quel singolo il fondamento dell’edificio umano. Ogni singolo, nessuno escluso, a
partire dall’ultimo. Anche se non fosse ancora nato. Rispettare l’inviolabile di ogni
singola persona, nessuna esclusa, a partire dall’ultima, non è affermazione enfatica,
perché ha un preciso contenuto etico e metodologico, puntualmente chiarificabile e
vincolante. Una tale prospettiva ribalta quella per cui – pur nelle migliori intenzioni –
si sostiene l’etica di una progressiva inclusione degli esclusi. La vulgata
dell’inclusione va, in questa diversa visione, rovesciata. Non si tratta di includere
progressivamente gli esclusi. Non si tratta di rimediare, nel bus planetario degli
inclusi, uno strapuntino per il prossimo disperato della lista. Si tratta, invece, di
ripensare e garantire l’universo umano a partire dall’inviolabilità degli ultimi. Non la
sovrabbondanza dei diritti deve progressivamente includere l’ultimo, ma la
salvaguardia dell’ultimo deve poter consentire il formarsi eventuale di una qualsiasi
sovrabbondanza. In questo orizzonte, la singola esistenza, in quanto limite
all’ordinamento e in quanto inseparabile da ogni altra esistenza, è direttamente bene
comune.
Se vediamo questa prospettiva dal punto di vista religioso, ci accorgiamo della
profondità dell’affermazione per cui la pietra scartata può essere la testata d’angolo.
Anzi, è la testata d’angolo. Si tratta della dignità di un esistente che è un fatto e non
semplicemente un valore.
Un medesimo discorso vale per la giustizia. Essa non è un concetto, ma è l’idea
attraverso cui si va – sempre daccapo, all’interno di un universo comune, mai esaurito
e mai esauribile – in direzione della dignità di ognuno. Una tale idea della giustizia si
risolve, in realtà, nell’alfabeto delle singole libertà e delle singole dignità. Questa
giustizia ha, perciò, sempre da fare non con un concetto, e nemmeno con una idea,
ma con una domanda di giustizia che sorge dal bisogno concreto delle singole
identità. Si squaderna qui il limite di tutti gli ordinamenti del mondo là dove questi,
cercando di dichiarare i diritti fondamentali, non si avvedono di dimenticare il
paradosso che loro si offre come perennemente da pensare.
Possiamo, a questo punto, pervenire al nodo nascosto e impensato all’interno
dello stesso aforisma di Kant, «il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me».
Qui è necessario capire che la stessa legge morale vive radicata nella diversificazione
di ogni singola dignità. È lo stesso cielo stellato degli ordinamenti umani che deve –
ogni volta daccapo – piegarsi davanti al limite di ogni singola dignità.