I diritti umani tra le verità dei paradossi e il
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I diritti umani tra le verità dei paradossi e il
I diritti umani tra le verità dei paradossi e il paradosso della verità oltre il moderno, ciò che non muta1 di Giuseppe Limone 1. Il paradosso della verità Vorremmo indicare qui una prospettiva ambiziosa e vincolante. Ambiziosa, perché si pone un fine impegnativo; vincolante, perché istituisce legami per un pensare che prende sul serio le sue parole. Diremo alcune cose sul paradosso della verità e altre sulle verità dei paradossi. Ci avvicineremo poi alle idee fondamentali di giustizia e di dignità. Svolgeremo, in questo contesto, alcune riflessioni su ciò che emerge dal confronto intellettuale fra la posizione di Martin Heidegger e quella di Jean-Paul Sartre, perché da questo confronto nasce, a nostro avviso, un varco per capire ciò che entrambi non hanno pensato: la persona. Non parleremo, pertanto, dei diritti umani nel senso della loro elencazione analitica, ma nel senso di ciò che è propedeutico alla loro comprensione. Parleremo cioè dei prolegòmeni ai diritti umani. È necessario capire questi presupposti per capire l’essenza nascosta nell’idea dei diritti umani. Esaminiamo, perciò, alcuni paradossi. Il paradosso è ciò che a prima vista viola il senso comune. Nella società occidentale, in cui viviamo come narcotizzati, non riusciamo veramente a capire se non a condizione di essere colpiti da uno choc. Una delle forme dello choc è il paradosso. I diritti umani vanno capiti sulla base di quel presupposto fondamentale che è la verità. La verità è, nei confronti di ogni concezione ermeneutica e/o relativistica, 1 Relazione al Convegno di studi Europa e diritti dell’uomo. A cento anni dalla nascita di Pietro Tocănel, tenuta presso l’Istituto Teologico romano-cattolico francescano, Bacau (Romania), 1-2 ottobre 2011. Questa relazione si è sviluppata in ideale continuità con quella tenuta a San Leucio, presso la Facoltà di Studi Politici “Jean Monnet”, il giorno 30 settembre 2011 sul tema La proprietà della terra tra agricoltura e usi alternativi. parola esigente. Che cosa è la verità? Si tratta di una domanda che assomiglia a quella rivolta da Ponzio Pilato a Cristo2. La verità si regge su un paradosso. Essa, nella sua forma prima e radicale, è quell’apertura dell’Essere che si dà nel mio stesso dire, ancor prima che io dica e che io ne dica. Essa è ciò che, anche se nessuno le credesse, continuerebbe a sussistere. È ciò che, anche se nessuno consentisse, continuerebbe ad essere. È ciò che, anche se nessuno di noi esistesse, continuerebbe a valere. In questa prospettiva, la verità non va semplicemente assimilata al valore. Porre la verità come valore significa ancora porsi sul terreno della distinzione friabile tra il fatto e il valore. Nell’ipotesi della distinzione, se pensiamo la verità come semplice valore, noi pensiamo ancora alla verità come mera opinabile valutazione. Bisogna pensare, invece, alla verità in modo radicale. Pensarla in modo radicale significa innanzitutto pensarla come fatto. Situazione di fatto. La verità, pertanto, in quanto fatto, precede la mia stessa valutazione – e ogni possibile valutazione – su di essa. Dire che ciò sarebbe atteggiamento dogmatico è non accorgersi che è atteggiamento dogmatico anche quello che su un tale atteggiamento dogmatico dice la sua negazione. La verità è ciò di cui non posso semplicemente parlare, perché precede il mio stesso parlare, dando a questo stesso parlare il fondamento perché possa significare qualcosa. Si tratta di una situazione paradossale, perché io sto parlando di qualcosa che precede il mio stesso dirne – qui e ora – qualcosa. Anche il mio dire è un fatto, e costituisce pertanto la verità del fatto del suo dire. Anche il mentire è un fatto che, nel suo essere un fatto, contiene una sua paradossale verità. Chi mente produce il fatto del mentire, il quale fatto è fattualmente vero. Questo primo passo non basta. Bisogna farne un secondo. C’è un fatto di cui siamo ogni giorno testimoni senza poterne dubitare. È il fatto del nostro vissuto. Il vissuto è ciò in cui da sempre io abito, di cui non posso dubitare, in cui abito anche 2 Andrea Milano ha svolto una penetrante analisi sulla domanda posta da Ponzio Pilato a Gesù, ragionando sulla differenza fra «che cosa è verità?» e «che cosa è la verità?». Per questo itinerario, vedi Andrea Milano, Quale verità? Per una critica della ragione teologica, Ed. Dehoniane, Bologna 1999. nell’atto del puro pensarlo. Nello stesso pensare il mio vissuto, io vivo il vissuto del pensarlo. Questo vissuto ha dentro di sé un altro paradosso, su cui non si riflette abbastanza. Il vissuto è inosservabile. Nessuna scienza – del passato, del presente o del futuro – potrà mai osservarlo, posto che osservare significa “vedere dall’esterno”. Quando la scienza pretende di osservare, attraverso le sue sofisticate attrezzature, il vissuto, essa sta osservando non il vissuto ma le supposte proiezioni e traduzioni di quel vissuto nelle forme esteriori (elettroniche, elettrochimiche, elettroencefalografiche, e così via) in cui si ritiene che quel vissuto si manifesti. La scienza percepisce non il vissuto, ma il corpo del vissuto. Anzi, il corpo presunto del vissuto. Del vissuto come fatto, del proprio vissuto come fatto ognuno di noi è – ognuno per se stesso – testimone, unico testimone, senza poter farlo osservare dagli altri. Questo vissuto può cercare di esprimersi, a volte, in parole. Il vissuto sottende e struttura ogni atto del pensiero, anche se questo pensiero si esprimesse nel dubbio, nel dubitare. Esiste un vissuto del dubitare, e questo vissuto è certo. Un tale vissuto precede anche il cogito cartesiano. Questo vissuto, in quanto inosservabile, costituisce l’invalicabile limite di ogni scienza, che opera all’esterno di quel limite, senza mai riuscire a varcarlo. Ogni scienza empirica si muove a partire dalla certezza dell’osservazione. Il vissuto, pur inosservabile, è un fatto. Un fatto inosservabile. Un fatto inosservabile su cui nessuna scienza potrà elevare un qualsivoglia argomentabile dubbio. Siamo davanti a un fenomeno che, pur inosservabile, è il più certo dei fenomeni. Più certo anche di quanto è in modo evidente osservato. Una scienza che pretende di essere certa in quanto fondata sulle cose osservate non è consapevole del fatto che esiste un “inosservabile” che è più certo della certezza riguardante l’osservazione: il vissuto. Il vissuto rappresenta, perciò, il limite insuperabile della scienza, di ogni scienza empirica. Capire che in un corpo osservato esiste un vissuto è come porsi davanti a una finestra buia, scoprendo all’improvviso che all’interno si è accesa una luce. Nel momento in cui capisco che in quel luogo una luce si accende, capisco che in quel luogo c’è un “dentro” che prima ignoravo. Chi osserva dall’esterno vede corpi bui; solo chi scopre di poter mettersi in contatto con un vissuto si accorge che in quel corpo una luce è accesa. Questa luce accesa si esprime in parole. Nelle sue e nelle mie parole. All’interno di questo vissuto può individuarsi un particolare vissuto, che ha una sua specialissima forza e caratura. Esso, tra i vissuti che viviamo, si caratterizza in modo più acuto, più penetrante, più certo. Questo vissuto è il dolore. Nel vissuto del dolore io non dico semplicemente che vivo o che penso o che dubito. Dico, più specificamente, che sono io e solo io che soffro in questo momento presso di me. Il dolore mi ritaglia nella mia assoluta singolarità. Esso mi introduce a un altro livello della certezza, anche per quanto riguarda il pensare e il dubitare. Non mi fa percepire soltanto che c’è un pensare, un dubitare, un soffrire, ma che sono io a pensare, a dubitare, a soffrire. La certezza non riguarda semplicemente l’evento, ma me. Se la certezza si limitasse all’evento, io stesso potrei essere un semplice momento all’interno di quell’evento, momento della cui auto-consistenza non ancora avrei certezza. Nell’evento del dolore non ho solo certezza dell’evento ma – all’interno dell’evento – dell’auto-consistenza irrefutabile del me che lo patisce. Del me. Posso illudermi di pensare, non posso illudermi di soffrire. Se soffro, nessuno – nemmeno l’Assolutissimo Dio – potrà mai dimostrarmi che non soffro. Il dolore è assoluto. Esso mi apre a un’assoluta certezza, che mi fa al tempo stesso sentire la certezza del me. Ci si potrebbe domandare perché istituire, a questo primo livello, una distinzione fra il dolore e le altre forme di vissuto. Anche nel piacere e in una semplice gioia, come in altre forme, accade una fenomenologica certezza. Nel dolore, però, si danno due caratteri ulteriori e connessi che ne mutano la cifra: da un lato, l’accadere di un fenomeno interno che mi spinge a far riflessivamente gravitare il mio sguardo su esso; dall’altro lato, l’accadere di un trauma specifico che mi spinge a prendere coscienza di me. Nel dolore, più acutamente e più specificamente che in altre forme, si danno quel vettore e quella frattura che illumina sull’emergenza del me. Nel dolore scoppia la bolla che mi separava da me. Si tratta di un punto importante, che potrebbe e dovrebbe essere sottolineato nei confronti di Martin Heidegger quando nella sua lettera sull’umanismo sostiene di voler essere il pensatore non dell’uomo, ma dell’Essere: non dell’esserci, ma dell’Essere. Per Heidegger io sono solo il pastore dell’Essere perché l’Essere mi precede e mi sottende, né si risolve nel mio esserci. In me l’Essere trova il suo «qui», il suo «Da» (esser-ci ossia Da-sein). In questa prospettiva, io mi colloco come un luogo, come un momento, come un ponte, in cui l’Essere disloca il suo «Da». Il mio esserci, il mio essere qui, il mio essere la radura dell’Essere. Heidegger, perciò, intende essere il pensatore non del soggetto, ma dell’Essere. L’Essere precede il soggetto e si dà nel soggetto, gettandolo nel «qui». Ancor prima che il soggetto guardi all’oggetto come a una cosa gettata davanti a sé, l’Essere ha già gettato il soggetto nel «qui». Heidegger assume così una postura ontologica, per la quale l’Essere non è un ente, perché è quel continuo fluire e durare che in ogni esserci e in ogni ente si dà. L’Essere è il puro scorrere che mi precede e in me qui si dà. Qui Heidegger sembra non aver meditato abbastanza sull’evento del dolore. Nell’evento del dolore – nel mio dolore – anche se in me si annuncia l’Essere, si annuncia attraverso la mia sofferenza, che appartiene a me, solo a me, sulla quale non posso dubitare (e sulla quale mi sentirei fortemente insultato se dubitassi tu). L’Essere, nell’annunciarsi in me attraverso il mio dolore, non può affermare che il dolore è suo, perché è mio. È mio e non di altri. Mi ritaglia nella mia singolarità. Mi dà certezza della mia singolarità. Non mi dice semplicemente che io penso, ma mi dice che, in questo pensare – anzi in questo soffrire – sono proprio io e non altri, non altro. Qui opera un “mio” che non può essere oggetto di generalizzazione né di neutralizzazione concettuale. Questo mio non è nel senso della proprietà, né nel senso dell’autore, e nemmeno nel senso dell’appartenenza. È il mio nel senso del suo coincidere col me, con questa voce che dice io e che io da me ascolto dentro di me. In questo mio si apre la radura del mio esserci, del mio essere qui, che in modo inesorabile e inaccessibile mi ritaglia da ogni altro esserci, in qualche modo distinguendomi dallo stesso Essere che non si dà solo in me, ma in tutti gli altri simili a me. Nel momento del dolore, l’Essere intercetta e individua il mio essere – il mio esserci – e può intercettare ogni altro esserci, ma uno alla volta considerato. Leone Tolstoj ha icasticamente espresso questa capacità individuante del dolore, là dove ha scritto – nella sua Anna Karenina – che le famiglie sono tutte felici allo stesso modo, ma ognuna è infelice a modo suo. Giuseppe Capograssi ha genialmente scritto che nel mondo del diritto io mi sento individuato nel momento in cui io sono colpito. E potremmo aggiungere: se con uno spillo pungo qualcuno tra la folla, uno solo grida. Nel foro di quell’esserci l’Essere si dà come radura. In questa radura che io sono, e in modo speciale nel dolore, si danno appuntamento – inestricabile appuntamento – l’Essere che si dà in me e il mio contributo assolutamente singolare all’evento dell’essere. In questa luce il dolore che mi individua nel mio esserci non mi consente di confondere questo mio esserci con un qualsiasi altro esserci e con qualsiasi altro momento degli esserci. A questo punto, oltre l’empirica certezza che si dà nell’osservazione, io sono approdato a due certezze, ben più radicali della prima. Alla certezza del mio vissuto e alla certezza di quel me che in questo vissuto di dolore si dà. Ma è proprio nell’evento del dolore che si compie, a un certo punto, un inatteso rovesciamento di significati. È precisamente nel dolore – proprio o dell’altro – che accade la possibile risonanza reale del proprio sé con l’altro e dell’altro col sé. Proprio nel momento più radicalmente individuale dell’umano accade un movimento che va oltre l’individualità. Un movimento che costitutivamente trabocca. Come possiamo dire del dolore, possiamo dire della paura e della morte. Il dolore non è il concetto del dolore. La morte non è il concetto della morte. La paura non è il concetto della paura. Il mio dolore, la mia paura e la mia morte non possono essere concettualizzati. Siamo in un orizzonte di esperienze che hanno una strutturale paradossalità. Perché si tratta di esperienze di cui non può darsi concetto e di cui non può non darsi un qualche sfocato concetto: nella forma di una idea. Ci troviamo, in questo itinerario, davanti a una sequenza di paradossi che non possono essere analiticamente scomposti, ma che vanno necessariamente pensati. La verità si dà anche se nessuno le credesse, anche se nessuno la condividesse, anche se nessuno le prestasse consenso. La verità non può essere messa ai voti. Non può essere sottoposta al principio del mercato. Né del sondaggio. Né della statistica. Potrebbe addirittura dirsi che non è sottoposta nemmeno al principio dell’unanimità. La verità non è democratica. Potrebbe, certo, sanamente obiettarsi che nessuno sa qual è la verità. Ma la verità, così come abbiamo già detto, non è l’oggetto di un’opinione e, in ogni caso, anche se fosse inconoscibile, non si potrà mai confondere tra il suo essere inconoscibile e il suo non esistere affatto. Compiere questa confusione è atto più dogmatico della dogmaticità che l’apparente non dogmaticità della negazione intenderebbe superare. Chi ritiene superata la verità la sostituisce con la propria. Determinando, fra l’altro, un conflitto fra più verità che, alla fine, si risolve in quella catastrofe in cui ritorna la verità. 2. Le verità dei paradossi Si è parlato del paradosso della verità. Occupiamoci ora delle verità dei paradossi. I paradossi sono il modo attraverso cui si illumina la notte delle nostre consapevolezze scontate. I diritti umani sono certamente, oggi, un’acquisizione importante. Distingueremmo, però, fra diritti umani e diritti fondamentali. Distingueremmo perché i diritti umani parlano del contenuto di questi diritti, mentre i diritti fondamentali, pur parlando ancora di questi contenuti, parlano della forza di questi diritti, che sono appunto fondamentali, cioè non fondati ma fondanti. Dovremmo pertanto distinguere tra i diritti umani in quanto si riferiscono al catalogo di questi contenuti e i diritti fondamentali in quanto si riferiscono alla forza di questo catalogo. Questi diritti, essendo fondamentali, si impongono anche contro la forza dello Stato che li dichiara. Qui appare un paradosso su cui non si riflette abbastanza. È stato certamente importante che ci sia stata, con l’ONU, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Sono state certamente importanti le tante dichiarazioni universali sui diritti che si sono da allora susseguite. Sono state importanti le Costituzioni che hanno in più occasioni catalogato quei diritti umani. È stata importante la Dichiarazione contenuta nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), così come è stata importante la Carta dei diritti dell’Unione Europea. Ma poniamoci il problema di queste dichiarazioni dal punto di vista di un pensare radicale. Ci troviamo, qui, davanti a una sequenza inevitabile di paradossi. Vediamo il primo paradosso. Nel momento in cui un qualsiasi Potere dichiara i diritti umani e i diritti fondamentali sta esprimendo una posizione inconsapevolmente contraddittoria. Questo Potere sta dicendo che i diritti da esso dichiarati esisterebbero anche se esso non li dichiarasse (e che esisterebbero anche contro di lui). Questo Potere, nel momento in cui dichiara questi diritti, contemporaneamente presuppone che questi nascano nel momento in cui li dichiara. Consideriamo questa prospettiva, che è propria del Potere che si auto-comprende in un orizzonte giuspositivistico: io Potere dichiaro che esistono questi diritti fondamentali dal momento che li dichiaro e contemporaneamente dichiaro che questi diritti esistono indipendentemente dalla mia dichiarazione. A ben riflettere, siamo, a questo punto, davanti allo stesso paradosso della verità di cui prima dicevamo, portata – questa volta – alla scala del diritto e dell’esistenza umana, anzi degli esistenti umani. Parliamo di quella verità di cui abbiamo detto che esisterebbe anche se nessuno la riconoscesse. In prospettiva analoga, qui parliamo di quegli esseri umani che esisterebbero anche se nessuno ne riconoscesse l’esistenza. Noi non riflettiamo mai abbastanza su questa contraddizione – pragmatica contraddizione –, pur virtuosa, su cui si regge ogni potere che dichiara i diritti fondamentali. Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si afferma e si auspica che il potere di qualsiasi Stato, nel fondare questi diritti, dovrà dichiarare diritti che esistono indipendentemente dal suo potere, al limite anche contro di lui. Una tale concezione costituiva, come è noto, già all’epoca della Dichiarazione universale del 1948, un principio eversivo nei confronti di ogni concezione pubblicistica, che asseriva come suo dogma fondamentale il principio per cui ogni diritto soggettivo promanava dallo Stato. La contraddizione, in questa prospettiva, viene occultata dal Potere dichiarante. Ma la cosa più importante, a questo punto, è farla venire alla luce. Molto più importante della conoscenza analitica degli stessi diritti elencati. Il riconoscimento dei diritti fondamentali è un paradosso logico, del quale bisogna prendere radicale consapevolezza. Dentro quella contraddizione è nascosta una operosa verità. Veniamo al secondo paradosso. Potrà osservarsi che accanto alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ci saranno poi tante altre Dichiarazioni universali: quella dei Paesi africani, quella dei Paesi islamici, quella dei Paesi orientali e così via. Partendo da ciò potrà affermarsi che tutte le dichiarazioni universali sono contrassegnate dalla loro storica e geografica relatività. C’è però, a questo proposito, un punto da chiarire. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 è stata importante perché ha dichiarato che esistono limiti al potere di uno Stato. Ci sono, però, su questo punto molte altre diverse Dichiarazioni. Il fatto che ci siano tante Dichiarazioni universali sui diritti dell’uomo non è tanto importante perché esse dicano – in modo opinabile – questi diritti, ma perché tutte insieme riconoscono che esiste un limite al potere di un qualsiasi Stato nei confronti degli esseri umani. Se trasferiamo questo discorso sul piano del problema che concerne la verità, possiamo dire che non è tanto importante l’affermare una determinata verità indipendente dal consenso o dalla forza, ma è importante il fatto che si riconosca ci sia una verità, pur non conosciuta o pur diversamente conosciuta, che costituisca un limite al Potere o alla Forza. Non è importante che si sappia quale sia la verità indipendente dal consenso e dalla forza, ma è importante sapere che questa verità c’è. Corrispondentemente, non è tanto importante sapere quali siano i diritti soggettivi indipendenti dal consenso e dalla forza, ma è importante sapere che questi diritti ci sono e che derivano dalla mera esistenza dell’uomo come tale, del singolo uomo come tale, del singolo uomo ancor prima che abbia operato alcunché. Siamo, qui, davanti allo stesso paradosso della verità, portato alla scala dell’umano: dei diritti umani. In realtà, va compreso che dentro la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è nascosta un’altra – ben più profonda – dichiarazione, con la quale si riconosce che esiste una verità indipendente dalla dichiarazione stessa e che questa verità si sostanzia nella verità di quel singolo uomo che esiste come tale e che reclama il diritto di essere riconosciuto tale. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sta, in realtà, confessando che c’è una verità concreta che la precede, sostanziata nell’esistenza del singolo uomo. Quella Dichiarazione, cioè, sta nel suo fondo presupponendo un’altra dichiarazione, più importante di ciò che quella Dichiarazione esplicitamente dice. Quella dichiarazione dei limiti costituisce, perciò, una confessione. La confessione concerne il fatto che, contro gli stessi interessi costitutivi del potere dichiarante, si riconosce questo limite e che questo limite c’è. In questa luce, è secondario il capire in che modo e secondo quali varianti culturali un tale limite debba interpretarsi. Il modo di interpretare questa verità potrà essere anche culturalmente variabile, ma riposerà pur sempre sull’evento – universalmente riconosciuto – che questo limite c’è. Si tratta di un evento che non può e non deve essere occultato. Siamo al terzo paradosso, la cui individuazione è importante, per capire la nostra epoca e per andare oltre di essa. Siamo abituati a contrapporre, secondo un criterio superficiale e pericoloso, natura e storia. Anzi, dovremmo più radicalmente dire: ontologia e storia. Secondo questa impostazione, ci sono dei diritti naturali e eterni e c’è una storia mobile e relativa. Una tale prospettazione è superficiale e negligente. La storia non va pensata secondo una modalità che la contrappone alla natura o, se vogliamo, all’ontologia. La storia è da considerare piuttosto il modo attraverso cui, nello spazio e nel tempo, la natura – anzi l’ontologia – si fa storia: si storifica. Potremmo dire: la “natura” necessariamente si storifica nelle modalità in cui nello spazio e nel tempo appare. Nella storia si dà permanentemente la necessità dello storificarsi di una “natura” che soggiace, o che si postula soggiaccia. Questa “natura”, in realtà, è null’altro che il mondo della vita. Non si tratta della natura come oggetto del discorso, ma del mondo della vita che precede, sottende e struttura ogni discorso su di esso. In questa prospettiva, è astratto e fuorviante, espressione di una cattiva astrazione, il contrapporre natura e storia, perché la natura si dà sempre e non può non darsi in forma di storia. La natura necessariamente si dà nella forma mobile della storia. Lo stesso “diritto naturale” non può non darsi – necessariamente si dà – in forma storica. La storicità del suo darsi non esclude la sua naturalità, anzi la fa apparire alla luce. La “natura” si dà, e non può non darsi, nella maschera della storia, anche se si darà in forme diverse e contrastanti. La pluralità, quindi, appartiene a quello stesso mondo dell’ontologia che la precede e la sottende, mentre solo in forme parziali e provvisorie si dà. La contrapposizione, pigramente ripetuta, tra natura e storia è perciò contrapposizione negligente, che non ha pensato in modo radicale i termini che contrappone. Siamo davanti al paradosso del necessario storificarsi di ciò che è naturale e del necessario storificarsi di ciò che è ontologico. L’ontologico si storifica in modo parziale e plurale; ma, d’altra parte, più importante della sua pluralità è il fatto che rispetto al potere qualche cosa sempre imperiosamente resiste. Per altro verso, però, quella pluralità non è arbitraria, o meglio non può ragionevolmente ritenersi che lo sia. Questo plurale resiste, in quanto non è arbitrario e in quanto non si dissolve e non può dissolversi in un arbitrario artificio. Potrebbe certamente obiettarsi che, se quell’ontologia è plurale, potrebbe diventare arbitraria e che, se diventa arbitraria, nessun limite più si ergerebbe nei confronti di un qualsiasi Potere. Una tale obiezione, però, non riflette abbastanza sul fatto che dalla storia stessa emerge il fenomeno per cui non qualsiasi arbitrio è possibile e che, quando qualche forza una tale arbitrarietà abbia praticato, l’esperienza umana si è trovata consegnata davanti allo spettacolo di un intollerabile e universale orrore. Ciò che dalla storia si apprende è che, da un lato, appaiono costanti antropologiche, pur in varia forma manifeste, e che, dall’altro lato, quando alcune di queste costanti sono state violate, universale e dura è stata la storica reazione. Dal grembo stesso della storia emerge, pertanto, attraverso il sentimento di una catastrofe comune, la resistenza della storia alla storia come pratica dell’arbitrio intollerabile. In un tale storico succedersi di azioni e di reazioni l’evento fenomenologico delle Dichiarazioni universali non è semplicemente un fatto storico fra gli altri, ma un referto che la storia traccia su se stessa, riflettendo sui limiti di quanto è tollerabile dall’uomo. Dal grembo della storia emerge uno storico referto, che è una tornante riflessione su di sé. Qui la verità si rivela essere nient’altro che il confine. Veniamo al quarto paradosso. Solo i paradossi – oggi – riescono a darci a pensare, bucando la banalità della nostra inconsapevole narcosi. Si tratta di un paradosso messo in scena dalla stessa scienza, anzi dall’insieme di tutte le scienze nell’evolversi del loro straordinario progresso. Si parla del paradosso, di cui altrove abbiamo già detto e che chiameremmo delle quantità cognitive decrescenti. Più la scienza conosce, meno riesce a prevedere e a governare gli effetti che produce conoscendo. Più le scienze conoscono, meno riescono a controllare e a governare gli effetti che producono. Più velocemente mi indirizzo verso la meta, più la meta si allontana. Veniamo a un quinto paradosso, che potremmo chiamare delle quantità antropologiche decrescenti. Più cresce la potenza delle scienze, più diventa piccolo il numero di coloro che possono produrre effetti devastanti sul pianeta. Navighiamo verso il limite all’altezza del quale un singolo uomo – una persona – potrà produrre effetti devastanti sull’intero pianeta. Il crescere della potenza scientifica va, paradossalmente, in direzione del crescere della potenza di un singolo uomo, di una persona, indipendentemente dalla sua consapevolezza. Assistiamo a una radicale democratizzazione del potere di dare la morte a tutti. La persona, in questo orizzonte, acquista, all’interno della storia della complessità e della velocità generate dalle scienze, una paradossale nuova centralità in negativo. Si tratta di una scoperta inquietante che può avere, rovesciata in modo virtuoso, una sua tragica bellezza. Una catastrofica bellezza che può diventare un monito etico di tipo nuovo. Veniamo a un sesto paradosso, che chiameremmo delle quantità spaziali decrescenti. È il paradosso per cui da angoli sempre più piccoli e remoti dell’intero pianeta possono prodursi effetti dirompenti sull’intero pianeta. Un tale fenomeno rompe ogni gerarchia consolidata dei rapporti fra centro e periferia. Ogni punto del pianeta può diventare, in qualsiasi momento, centro di effetti inattesi, mentre sta all’occhio intelligente sapere che viviamo all’interno di questa permanente possibilità. Il singolo, che era, nelle concezioni consolidate, il semplice – e povero – membro di una classe, può diventare in ogni momento decisivo dell’insieme. L’importanza di un tale sguardo su questo sopravvenuto potere del singolo diventa oggi necessità non semplicemente per una decisione etica, ma per una illuminazione epistemologica, che investe la rottura del tradizionale modo di vedere il rapporto tra oggetto e conoscenza. Possiamo, a questo punto, intercettare un settimo paradosso, sul quale dobbiamo imparare a meditare. Si tratta di un paradosso che può avere importanti effetti virtuosi. È il paradosso per il quale noi possiamo meglio individuare il bene – possiamo meglio identificarlo nei suoi confini – a partire dal massimo male. Lo chiameremmo il paradosso del massimo male, ossia il paradosso della catastrofe come rivelativa di verità. Si tratta di un’impostazione che batte in breccia ogni forma di non cognitivismo etico: ogni forma di relativismo inteso in senso banale. Viviamo in un tempo in cui il discorso sui valori è preceduto da un atteggiamento di arbitrario shopping delle scelte. In tale contesto, ogni scelta è, in quanto tale, puramente intellettuale e arbitraria. E, in quanto arbitraria, esercitabile secondo il puro criterio del piacimento. Si assume, rispetto ai valori, il punto di vista degustativo che potrebbe aversi davanti a una vetrina di merci. Di pasticcini. Esiste in questo shopping un momento topico, in cui esso si rivela, attraverso il consumarsi di un crollo, nella sua improvvisa verità. È il momento in cui noi siamo posti davanti al fatto della catastrofe che ci accumuna e del dolore che l’accompagna. Qui la catastrofe accomuna all’interno del suo evento quello stesso soggetto umano che arbitrariamente sceglieva. L’evento della catastrofe – il massimo male – ci rivela che le nostre arbitrarie preferenze erano solo esercitazioni da salotto, ignare della loro strutturale deriva. In quel momento, a partire dal massimo male, si comprende riflettendo a ritroso, sui contorni del bene che avevamo dimenticato e che l’insieme salottiero delle preferenze aveva voluttuosamente offuscato, impedendoci lo sguardo sulla deriva. A partire dalla catastrofe noi possiamo, a questo punto, identificare il valore. Per dir così, l’invisibile valore si fa avanti, si fa sperimentare a partire dalla visibile catastrofe. Costituisce una dura verità del mondo umano quella di dover capire – troppo tardi – il bene a partire dal male. Hegel diceva che la filosofia arriva troppo tardi. Noi dovremmo piuttosto dire che è la comprensione del valore ad arrivare troppo tardi. Capire, infatti, non è il semplice capire: è capire l’importanza di ciò che si è capito. Perciò, si può capire senza capire. Se non si capisce a partire dalla possibile catastrofe, non si capisce affatto. La catastrofe è il limite oggettivo all’arbitraria cecità verso il valore. Il relativismo inteso in senso banale rivela qui la sua strutturale incapacità di capire. Semplicemente perché ignora il presupposto radicale su cui è seduto e da cui prende alimenti: la forma della vita. Si tratta di un presupposto radicale, che non è mero presupposto logico di ciò che si dice, ma presupposto ontologico di ciò che in un dicente agisce e che gli consente di dire. Qui la vera intelligenza si rivela l’intelligenza dei bordi. Tutto ciò illumina in modo nuovo la stessa idea di comunità. La comunità, infatti, non si comprende a partire dal fatto che, essendo noi in comunità, ci vogliamo bene. Essa si comprende, invece, a partire dal fatto che noi, essendo in questo luogo comune, siamo insieme esposti a un comune pericolo di cui la catastrofe potrà essere la strutturale rivelazione: l’epifania. Potremmo, in questa prospettiva, parlare di una comunità in sé e di una comunità per sé. Noi siamo comunità in sé, cioè esposti a un comune pericolo, anche se non lo sappiamo. Possiamo diventare comunità per sé quando cominciamo ad accorgercene. In ogni caso – sia che siamo comunità in sé, sia che siamo comunità per sé – non siamo comunità in quanto ci vogliamo bene, ma siamo comunità in quanto siamo e ci percepiamo esposti alla possibilità della comune catastrofe, la quale non è altro che la spia strutturale della individuale e comune fragilità. Solo in seconda istanza – in quanto sappiamo di poter sperimentare la catastrofe, in quanto subliminalmente la pre-sentiamo e in quanto empaticamente la sentiamo – possiamo vivere il soccorrerci e il volerci bene, cioè il nutrire reciproca volontà buona, promuovendo così l’essere in comunità all’ulteriore grado della sua eticità. L’esposizione alla catastrofe non è esorcizzabile a partire da arbitrarie esercitazioni relativistiche. La catastrofe e l’esposizione alla catastrofe illuminano di nuova luce le preferenze che fino a quel momento avevamo privilegiato, collaudandole alla luce dei valori. La contemplazione della comune catastrofe impedisce di vedere il colpito all’interno di una prospettazione indifferente. In quel momento noi non siamo in atteggiamento relativistico, ma relazionale. La relazione col dolore altrui non può essere relativizzata. Né può essere ridotta a disincarnata noesi. In questo orizzonte di riferimenti, il massimo male diventa, paradossalmente, istitutivo della possibilità non relativistica di rapportarsi con quella verità che si dà alla luce come dolore. Esiste un ulteriore paradosso: l’ottavo. Lo chiameremmo il paradosso del particolare che sfonda. Siamo abituati a pensare che il particolare è come una mela che, essendo fuori del canestro delle mele, attende solo di essere in quel canestro deposta e classificata, semplice membro della classe delle mele. In questa prospettiva, nella quale quel particolare è solo un membro generico dell’insieme, il mio compito sarà solo quello di collocare la mela nel canestro della sua classe perché questa mela, confondendosi fra le tante, sia finalmente considerata una delle tante. Oggi siamo collocati nella condizione di pensare in modo radicalmente diverso. Noi possiamo oggi, infatti, pensare che il particolare è il modo nuovo con cui comincia daccapo l’universale. Nessuno possiede interamente il canestro del genere, perché sempre daccapo un particolare annuncia un nuovo modo di essere di quel genere, mai chiuso, non concettualmente circoscrivibile in maniera definitiva, e pertanto sempre aperto a nuove possibilità. Non si tratta però, in questa visione, semplicemente del guardare alla novità di una variante all’interno di un genere, perché si tratta – ben più radicalmente – di capire l’unicità di ogni esistenza concreta in quanto tale. Così come non può darsi concetto del dolore, della paura e della morte, non può darsi concetto dell’esistenza concreta, di questa mia esistenza concreta, di questa tua esistenza concreta. Anzi, questa esistenza concreta è il livello più radicale in cui si annuncia la stessa irriducibilità del dolore, della paura e della morte. In questo senso, il momento esistenziale diventa l’occasione rivelatrice di un momento della logica, e non viceversa. Una tale impostazione significa, in realtà, avvicinarsi al problema dei diritti umani in modo nuovo, cercando di andare in direzione di ogni singola persona, esistenzialmente sempre nuova, vivente nella comunità sempre aperta degli umani. Non bisogna confondere ciò che è logicamente comune con ciò che è esistenzialmente comunitario: questo “comune” concerne gli enti logici; questa “comunità” concerne gli esistenti reali. La persona non è uno schema. Se fosse uno schema sarebbe misera cosa. Non è un che, ma un chi. Una tale impostazione può essere guardata anche nella prospettiva evangelica, se è vero, come è vero, che l’evangelo esprime sempre il punto di vista dell’ultimo. La persona è il punto di vista della pietra scartata. Il vissuto della pietra scartata. La fatticità della sua verità. Il problema della verità, in questa luce, non è il problema della verità come corrispondenza. La verità come corrispondenza ha da fare con il problema dell’enunciato linguistico. O, tutt’al più, dell’approccio puramente noetico. La verità non è solo la verità come corrispondenza. La verità è, innanzitutto, quel fatto che si impone anche se io non lo riconoscessi. C’è una verità come fatto che si dà indipendentemente dal mio vederla. Questa verità è la fatticità di un vissuto, che appare ancor meglio, ma non soltanto, nella fatticità del suo dolore. Se questo è il dato di fatto da cui partire, dobbiamo saper capire che questa verità è il singolo. Non nel senso che il singolo abbia la verità, ma nel senso che questo singolo è la verità, o meglio, una parte importante e inevitabile di essa. Una tale verità si sottrae a qualsiasi potere. Il singolo è il fatto del suo vissuto, l’atto del suo vissuto e l’evento del suo vissuto. Ma l’evento del suo vissuto dice null’altro che l’evento del suo esistere concreto, che non può essere ridotto a un concetto che ne dica. Ma non c’è solo un esistere concreto. Ci sono tanti esistenti concreti. Ogni esistente è, in quanto tale, una verità. E questa verità, che è la mia e la tua, nel momento del dolore mi tocca. Ti tocca. Ci tocca. Se non ci tocca, la catastrofe è già accaduta. E, a questo punto, daccapo ci toccherà. Ciò significa che non c’è una sola verità, ma tante verità. E ciò, d’altra parte, significa che ogni volta la verità comincia daccapo. Perché ogni volta la verità si dà in una forma di cui non possediamo schema precostituito. Non c’è legislatore, non c’è Assemblea dell’ONU, non c’è storia che possa esaustivamente contenere ciò che si dà e si darà. Tutta la storia del mondo è, rispetto a ogni nuova esistenza, in quanto manca di essa e delle altre, una misera cosa. 3. Una partita intellettuale del Novecento: Martin Heidegger e Jean-Paul Sartre Qui si apre la possibilità di percepire una partita intellettuale che si è giocata nella prima metà del Novecento, soprattutto nel secondo dopoguerra, tra Martin Heidegger e Jean-Paul Sartre. Martin Heidegger, anche se non sempre lo si coglie, era un grande estimatore di Sartre. Lo testimonia anche una lettera a Sartre, a cui Sartre non rispose (ne dà conto il curatore della Lettera sull’umanismo)3. 3 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 1995. Quali sono gli elementi strutturali di questa intellettuale partita? Si sta parlando, in realtà, del modo di intendere l’essere umano e la verità. Heidegger, come è noto, sostiene, contro le posizioni esistenzialiste (di cui Sartre è portatore), che non c’è il soggetto, ma l’Essere. E che perciò bisogna far centro non sul soggetto, ma sull’Essere. Per Heidegger l’uomo è il pastore dell’Essere. Egli porta – nel suo esserci – l’Essere. Egli coltiva l’Essere nel linguaggio. Se l’uomo tenta di definire quest’Essere, arriva a ritenere che la verità sia semplice corrispondenza. Ma questo soggetto, che non c’è perché non auto-consiste, deve essere inteso, nel suo esserci, come l’Essere che si dà qui: in questo mio essere qui. Il Da-sein esprime, perciò, l’Essere che in questo momento qui in me si dà. Io sono il suo esser-ci. Il suo essere qui. Io sono il tramite nel quale passa e si disloca l’Essere. In questo senso, mentre il soggetto pensa di proiettare davanti a sé l’oggetto, per Heidegger lo stesso soggetto è qualcosa di gettato dall’Essere. Il soggetto è null’altro che l’esserci che l’Essere ha qui in me gettato. La posizione di Sartre è diversa. Egli parla di un’esistenza che precede l’essenza, che non si riduce all’essenza. Il soggetto, in quanto esistente, c’è, mentre è proprio l’Essere a mancare, potendosi esso dare soltanto nella forma del Niente. Del Ni-ente. A ben riflettere, sia ad Heidegger che a Sartre manca qualcosa. C’è un quid che manca a tutti e due. E che, mancando a tutti e due, può tenerli – d’altra parte – insieme. Ad Heidegger manca la considerazione per cui, nel passaggio dell’Essere nell’esserci, si dà un sé unico e autoconsistente, della cui unicità l’esserci stesso testimonia. Di ciò appare insuperabile esperienza la traccia del dolore. Del dolore non sono possibili duplicazioni. Non è possibile, cioè, un raddoppiamento noetico – tutto intellettuale – del dolore. Nel dolore l’esserci afferma e sente la sua unicità. In Sartre, invece, manca la traccia dell’Essere che nel soggetto si dà. La domanda che, a questo punto, a Sartre è possibile rivolgere è: se soltanto nel soggetto si danno il pensare e il sapere, che ne è mai di questo pensare e di questo sapere se nel niente non c’è? Non è forse quel soggetto tracciato da un Essere che nel suo pensare, nel suo sapere – e ancor più nel suo soffrire – si dà? La domanda che, a questo punto, è possibile rivolgere a entrambi, è: in questo dolore non accade per caso che nell’esserci vivono contemporaneamente il suo esser tracciato dall’Essere e il suo esser tracciato dal sé, o meglio il suo esser-tracciato come il suo medesimo sé? Che cosa a Heidegger e Sartre sembra mancare? A entrambi, in realtà, manca l’anello che li tiene insieme. L’anello che potrebbe tenerli insieme: la persona, il suo atto di essere. Il suo auto-consistente atto di essere. A ben riflettere, il dolore è l’evento nel quale, in modo più evidente che negli altri vissuti, si rivela un nesso che è – fra più eventi – ponte e crocevia. Nel dolore si vive la traccia inconfutabile del proprio unico essere e dell’Essere che nel proprio esserci si dà. Nel dolore percepisco più nettamente che io unicitariamente sonotracciato, stando in un Essere da cui sono tracciato. La domanda impossibile che, a questo punto, può formularsi è: sono io che vivo l’essere o è l’essere che vive me? Nel mio vivere l’energia che mi precede e mi attraversa, sembra che prevalga l’essere; nell’evento del mio pensare, sembra che prevalga io; ma in realtà, è sempre impossibile, in questo nesso, un taglio di spada che separi. Se guardiamo all’evento del dolore, qui un chi vive la frontiera fra l’io e l’essere, in cui intanto vibra ogni altro io. È ciò che accade nel dolore e nel mio essere memoria (essere memoria, non semplicemente aver memoria). Non solo. Nel dolore io vivo – posso vivere – l’evento dell’incoercibile risonanza con l’altro, che dal dolore mi chiama e che nel dolore sento di chiamare. Se vedo davanti ai miei occhi l’altro sgozzato, questo evento incoercibilmente mi devasta. Il dolore è l’evento in cui si dà la triplice traccia della propria unicità, dell’essere e dell’altro. Attraverso il dolore si accede a quell’esperienza unicitaria che è l’esperienza della propria persona come atto di esistere del sé, dell’essere che nel sé abita e dell’altro, che nel proprio sé e nell’altro risuona. In Heidegger c’è l’Essere e c’è l’esserci, ma manca la persona, perché manca la singolarità che si auto-costituisce nella sua unicità. In Sartre c’è il soggetto e c’è il Niente, ma manca la persona, perché manca l’Essere che in quella persona si dà. Nell’uno e nell’altro manca la persona. Forse perché a entrambi manca la medesima cosa: una rigorosa meditazione sul dolore. 4. Per una prospettiva che rovescia Crediamo che la Chiesa debba ancora molto meditare su questo punto, perché la meditazione sulla persona è cosa troppo preziosa per lasciarla ai soli credenti. La persona è una ricchezza da cui possono – speculativamente e esistenzialmente – imparare credenti e non credenti. Troppo spesso i non credenti non parlano di “persona” solo perché ritengono che l’idea di persona sia un semplice affare culturale per credenti. La persona è l’evento che, sussistendo, in me si dà, di cui io non dispongo, in cui, anche attraverso il mio dolore, io testimonio la mia unicità, ma sapendo che io sono il luogo in cui passa e si rivela l’Essere. Per dir così, l’Essere si annuncia in me, ma si annuncia a mie spese. Io contribuisco, con la spesa del mio dolore, all’annuncio dell’Essere. La persona è, quindi, il luogo dell’apertura dell’Essere che, sussistendo nel mio essere, apre sull’ente di cui può disporre e/o di cui non può disporre. La persona diventa la verità, ma questa verità, che è la verità dell’essere ciò che sono, in cui si apre l’Essere che mi precede e mi sottende e che si apre al mondo e dice sul mondo nel quale è. Questa verità che in me si dà è triplice. Come in una formula trinitaria. Esiste, in questa verità, una singolare trinitarietà, tutta sempre daccapo da pensare, a partire da me. Questa verità che io sono – e nel cui orizzonte ognuno può dire “io sono” – è trinitaria, perché è la verità di chi dice quel che dice e che, sentendosi unico, esiste e soffre. È la verità che dentro di me si rivela, di cui nella mia unicità sento, di cui nemmeno io dispongo, alla quale pure dò voce, che è la mia profondità, mentre è, al tempo stesso, la verità della relazione in cui sempre sono – risuono, empaticamente risuono – con l’altro: relazione costitutiva, e non semplicemente aggiuntiva, del me, là dove quella che è la costitutività e non l’aggiuntività della relazione dice che c’è un essere di quella persona che è nel mancare. Un mancare che è, in realtà, un chiamare e un esser chiamati. Questo mancare è un essere, nel senso che è un segreto aspirare a rivelare altri aspetti di sé alla luce della relazione con l’altro: è un apofatico essere che, dandosi nel mancare, è in attesa di tante nuove possibili relazioni in cui svelare parti di sé, mentre segretamente tende a svelare parti nascoste nell’altrui mancare. La verità è, contemporaneamente, nel sé e nella relazione col sé. Io posso offendere la verità anche quando, mentre dico il vero come contenuto, víolo la relazione con l’altro ledendo la sua dignità. In questo caso, io sto affermando la verità come contenuto nello stesso momento in cui la sto violando come relazione. Ciò può accadere anche nell’agire. Posso regalare a qualcuno qualcosa non per fargli del bene, ma per stracciare la sua dignità. Questa verità, che è trinitaria in modo radicalmente laico e che si sviluppa nelle tre coordinate dell’unicità, del legame e della profondità, è una verità fondamentale nel senso che si pone come limite a ogni sguardo conoscitivo e a ogni potere manipolante. In questo senso, questa verità triplice – l’Essere che in me si dà, l’autenticità che in me parla e la relazione in cui risuono e risuona – rivela un quarto livello, che tutti e tre attraversa e congiunge: è la verità come contro-limite nei confronti di ogni pensiero e di ogni agire, e quindi di ogni Potere e di ogni Agire. Non si tratta di una verità generica. Quando Pilato si trova davanti a Gesù e gli domanda che cosa sia verità4, trova davanti a se stesso una risposta muta, che gli appare nella forma della presenza di un uomo, di una persona che davanti a lui è verità. Non verità enunciata, ma in carne e ossa. Verità è colui che in quel momento è davanti a lui. Inerme, povero e solo. Pilato cerca che cosa sia vero nel senso dell’aggettivale, ma si trova davanti a una persona, che è vera non per la sua aggettivalità, ma per la sua sostanza. Quella persona è un limite al suo potere: è la verità del suo essere persona. Si tratta di una verità a lui così evidente, che egli sente la necessità urgente di lavarsene in pubblico le mani. Qui appare tutta la miseria di una democrazia fondata sul principio della maggioranza, o del consenso, per quanto straordinariamente esteso fino a poter essere plebiscitario. Una democrazia puramente maggioritaria – in cui, cioè, la maggioranza pretenda di poter decidere 4 Sul punto vedi A. Milano, Quale verità, cit. qualsiasi cosa – è una tirannide della maggioranza. La verità è sempre un limite al potere. Sia politico, sia giuridico, sia scientifico, sia noetico. Anche qui, la verità è nient’altro che confine. I diritti umani, guardati in questo orizzonte, ossia in quella caratura fondamentale che non si riduce al loro contenuto, sono un modo di dirsi e d’imporsi della verità. L’essere i diritti fondamentali si riferisce, in questa luce, non al loro contenuto, ma alla loro forza: fondante e non fondata. Come la verità è tale indipendentemente da chi vi consenta, così i diritti fondamentali sono un limite al potere. La verità è un limite al potere, come un limite al potere è verità. Si tratta non di un limite generico, ma specifico, carnale, qui e ora collocato. Consistente nel fatto di quel vissuto che io sono e che, come me, qualsiasi altro io è. Non basta. C’è la verità di questo qui e ci sono le verità di questi qui. E c’è la verità che tiene insieme tutte queste verità, senza mai esaustivamente risolversi in nessuna di esse. Una tale verità si rivela anche nella possibile catastrofe che si annuncia quando è violata la comunità in cui abita ognuna di quelle verità. Non si tratta di una comunità operosa, ma di una comunità che le precede, le sottende e le attraversa, rivelandosi in ognuna di esse. Dove una sola è violata, è violata l’intera comunità. Perché è violata la persona che da quella comunità è indivisibile e in cui quella comunità necessariamente si dà. Si rovescia, così, ogni prospettiva sulla giustizia e sulla dignità. Non abbiamo più da fare con uno schema di dignità e/o di giustizia calato dall’alto da parte di un Potere che lo dichiara. Abbiamo, invece, da fare con le verità dei singoli in cui necessariamente abitano la giustizia e la dignità. In questa prospettiva, la giustizia non è uno schema intellettuale, perché si risolve nel riconoscimento delle singole libertà e dignità, che quello schema – nella forma di limiti – precedono ed eccedono. Ogni persona, in quanto esistente sempre nuovo, costituisce pertanto il limite invalicabile – il contro-limite – nei confronti di ogni Potere, e di ogni Sapere che in quel Potere vive radicato. Qui si coglie la provvisorietà strutturale di ogni schema che pretenda dire quella giustizia e quella dignità. Anzi, più radicalmente, qui si coglie la contraddittorietà di ogni Potere che intenda dichiarare l’esistenza di diritti indipendenti dal suo potere, da un Potere che, contemporaneamente, si presenta come costituente. Un tale limite, anche se si esprimerà in forme storicamente diverse, sarà limite perenne. Ciò che va intanto, speculativamente capito, è che cosa tiene insieme quelle forme storiche diverse. Stiamo parlando non della dignità dell’uomo in quanto specie, ma della dignità di ogni singolo uomo, distinto da ogni altro, che è – in quanto tale – persona. Se si parlasse, infatti, della dignità dell’essere umano come specie, potremmo paradossalmente sostenere che anche i nazisti ne possedevano il senso, facendo consistere tale dignità in quella dell’essere umano bianco di razza ariana. La dignità esprime il significato dell’axios, ossia di ciò che è principiale, fondante. Di ciò che ha la forza di fondare e che è adeguato a fondare. L’axios ha da fare con l’assioma, che è il principio fondante. Tolto l’assioma, l’intero edificio crolla. In questa prospettiva, è quel singolo il fondamento dell’edificio umano. Ogni singolo, nessuno escluso, a partire dall’ultimo. Anche se non fosse ancora nato. Rispettare l’inviolabile di ogni singola persona, nessuna esclusa, a partire dall’ultima, non è affermazione enfatica, perché ha un preciso contenuto etico e metodologico, puntualmente chiarificabile e vincolante. Una tale prospettiva ribalta quella per cui – pur nelle migliori intenzioni – si sostiene l’etica di una progressiva inclusione degli esclusi. La vulgata dell’inclusione va, in questa diversa visione, rovesciata. Non si tratta di includere progressivamente gli esclusi. Non si tratta di rimediare, nel bus planetario degli inclusi, uno strapuntino per il prossimo disperato della lista. Si tratta, invece, di ripensare e garantire l’universo umano a partire dall’inviolabilità degli ultimi. Non la sovrabbondanza dei diritti deve progressivamente includere l’ultimo, ma la salvaguardia dell’ultimo deve poter consentire il formarsi eventuale di una qualsiasi sovrabbondanza. In questo orizzonte, la singola esistenza, in quanto limite all’ordinamento e in quanto inseparabile da ogni altra esistenza, è direttamente bene comune. Se vediamo questa prospettiva dal punto di vista religioso, ci accorgiamo della profondità dell’affermazione per cui la pietra scartata può essere la testata d’angolo. Anzi, è la testata d’angolo. Si tratta della dignità di un esistente che è un fatto e non semplicemente un valore. Un medesimo discorso vale per la giustizia. Essa non è un concetto, ma è l’idea attraverso cui si va – sempre daccapo, all’interno di un universo comune, mai esaurito e mai esauribile – in direzione della dignità di ognuno. Una tale idea della giustizia si risolve, in realtà, nell’alfabeto delle singole libertà e delle singole dignità. Questa giustizia ha, perciò, sempre da fare non con un concetto, e nemmeno con una idea, ma con una domanda di giustizia che sorge dal bisogno concreto delle singole identità. Si squaderna qui il limite di tutti gli ordinamenti del mondo là dove questi, cercando di dichiarare i diritti fondamentali, non si avvedono di dimenticare il paradosso che loro si offre come perennemente da pensare. Possiamo, a questo punto, pervenire al nodo nascosto e impensato all’interno dello stesso aforisma di Kant, «il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me». Qui è necessario capire che la stessa legge morale vive radicata nella diversificazione di ogni singola dignità. È lo stesso cielo stellato degli ordinamenti umani che deve – ogni volta daccapo – piegarsi davanti al limite di ogni singola dignità.