Come un fumetto Giapponese Anteprima

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Come un fumetto Giapponese Anteprima
Illustrazione di copertina: Marco Fantechi
Progetto grafico e art direction: Lorenzo Pacini
Redazione e impaginazione: Il Paragrafo, Udine
www.giunti.it
© 2000, 2008 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese, 165 - 50139 Firenze - Italia
Via Dante, 4 - 20121 Milano - Italia
ISBN 9788809754812
Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl
Prima edizione digitale 2010
Gianfranco Liori
COME UN FUMETTO
GIAPPONESE
Ai miei figli Francesco e Giuditta
Prologo
EHI, C’È QUALCUNO CHE TI CHIAMA
Agosto
Mi stava capitando una cosa straordinaria.
I miei genitori mi avevano convinto ad accompagnarli al centro commerciale. Gli serviva qualcuno
che li aiutasse a spingere i carrelli. A me non piaceva
affatto uscire con loro, ma ero talmente annoiato che
avevo accettato.
Non appena dentro, feci finta di perdermi e me ne
andai in giro per conto mio. Acquistai un paio di fumetti giapponesi, una lattina di Coca e un pacchetto
di caramelle, poi andai a sedermi a un tavolino del
bar all’aperto. Vidi una tipa della mia scuola. Era sola,
stava appoggiata al muretto e beveva un’aranciata con
la cannuccia. Mi salutò. Mi avvicinai e attaccai discorso. Le solite cose. Che cosa faceva lei lì. Che cosa
ci facevo io, eccetera. Non la conoscevo molto bene,
lei era della sezione D, cioè stava al secondo piano,
quello sopra al mio. Si chiamava Michela (non me lo
ricordavo), era bionda e abbastanza carina.
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Dopo un po’ accadde qualcosa che me la fece vedere con occhi diversi.
Appena vide i fumetti mi chiese:
«Anche tu leggi i manga?».
«Certo, perché?»
«Oh, anch’io. Ho la collezione completa di Nana,
Berserk, Naruto e Dragon Ball, anche quella originale
giapponese. Sono proprio fissata».
Sberla da cento punti! In un colpo solo avevo fatto
amicizia con la ragazza più carina del mondo (mi
sembrava così, adesso) e con una fanatica di fumetti
come me. Era impossibile che mi fosse sfuggita, a
scuola. Comunque avevo deciso. Era la ragazza della
mia vita.
«Di… dici davvero?» Gonfiai il petto e iniziai a sciorinare tutte le mie conoscenze in materia.
Incredibile. Ne sapeva quanto me e ascoltava le
mie parole senza sbadigliare come fanno tutti quelli
che conosco. Ero al settimo cielo.
Parlando del mio argomento preferito il tempo
volò in un attimo.
Non le avevo ancora chiesto se potevamo rivederci
prima che ricominciasse la scuola, quando accadde il
fattaccio. I miei vennero a cercarmi.
«Ehi,» disse Michela «c’è qualcuno che ti chiama».
Fuori dal bar stava la mia ridicola famigliola al completo. Mio padre, piccolo e grasso come un ornitorinco, col suo vestito bianco e gli occhiali alla Elvis Presley, mia madre, vestita di rosa con i capelli gialli coto-
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nati, e la mia diabolica sorella Vincenzina di otto anni.
Avevano due carrelli traboccanti di ogni ben di Dio.
«Che buffi» continuò Michela. «Li conosci?»
«Mai visti prima d’ora».
Mi girai verso di lei riprendendo il discorso interrotto e facendo finta di niente. In cuor mio speravo,
pregavo, imploravo che se ne andassero e mi lasciassero perdere.
Pensai di chiederle il numero di telefono, ma non
ne ebbi il coraggio. Ancora non sapevo il suo cognome.
«Toh, guarda, quei tizi sono ancora lì».
«Chissà cosa vogliono» dissi io sempre più sulle
spine. «Senti, perché non ci facciamo un giro?»
«D’accordo».
La portai dalla parte dei negozi con l’intento di
confonderci tra la folla. Credetti di essere in salvo, ma
mi sbagliavo. Dopo pochi secondi mi sentii tirare la
maglietta alle spalle. Mi voltai. Vincenzina! Capelli
biondi con i boccoli, rossetto rosa sulle labbra, vestitino con i pizzi e scarpe di vernice. Sembrava appena
sfornata dalla fabbrica delle bambole.
«Che cosa vuoi, bambina?» chiesi fulminandola
con lo sguardo. Forse non era tanto scema. Forse
avrebbe detto: “Mi scusi signore, mi sono sbagliata”.
Invece no. A voce alta disse:
«GU-GLI-E-L-MO! MAMMA E PAPÀ HANNO DETTO
DI SBRIGARTI. STIAMO ANDANDO VIA. HAI CAPITO?
MUOVITI!». Poi, a voce bassa: «Che rottura!».
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Col senno di poi, avrei potuto fare qualcosa per salvare la situazione. Avrei potuto fingere di essere un
agente segreto e chiedere a Michela di correre via con
me tra la gente. Ma non lo feci. Credo di essere diventato rosso come un’aragosta. A malapena riuscii a
mormorare:
«Okay. Io devo andare. Ciao».
Non ebbi il coraggio di guardarla negli occhi, ma
mi accorsi che sorrideva. Che figura…
Mezz’ora dopo me ne stavo in camera mia, sdraiato
sul letto, a pensare. Osservavo le facce dei miei modellini di robot giapponesi e i poster appesi alle pareti. Ero proprio stufo dei miei genitori. Che cosa
avevo fatto di male per essere capitato in una famiglia
così?
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Cap. 1
RISCHIO LA RETROCESSIONE
Come avrete già capito, il mio nome è Guglielmo,
ma tutte le persone intelligenti mi chiamano William,
o Willy. I miei genitori mi chiamano Guglielmo,
anche i professori, ma per gli amici sono sempre e
solo Willy. Qualcuno aggiunge anche “il coyote”, per
via della sfiga che ogni tanto mi perseguita, ma solo
ogni tanto.
Ho dodici anni, frequento la seconda media e,
come dice il signor Giorgio, rischio la retrocessione.
Le cose che mi piacciono di più sono disegnare e
leggere i manga. Il mio non è un semplice divertimento. Diciamo che è una passione, una mania. Oltre
i fumetti mi fa impazzire tutto ciò che sa di “occhi a
mandorla”. Il cinema, la musica, gli aggeggi; ma soprattutto i cartoni animati giapponesi.
A volte credo di essere un giapponese nato per
sbaglio in Italia. Non posso farci niente. Sono fatto
così.
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Settembre
Me ne stavo seduto per terra, la schiena contro il
muro, a leggere un vecchio numero di Ken il Guerriero. Il prof di matematica mi aveva appena fatto un
favore sbattendomi fuori dall’aula. Nel corridoio c’è
sempre un piacevole silenzio, e ciò favorisce le mie
letture.
Dall’aula di fronte si aprì la porta e ne uscì Jago.
La richiuse sbattendola e borbottando qualche parolaccia.
È il ripetente della seconda B. È il duro più duro
che conosca. È fatto di acciaio puro. Ha quattordici
anni ed è molto più alto e muscoloso di me. Porta i
capelli a spazzola e i calzoni larghi alla moda hip-hop.
Di lui sapevo che abitava nel quartiere più malfamato
di Cagliari e che era davvero fortissimo. Ma non l’avevo mai visto litigare con qualcuno. La gente ci pensava due volte prima di pestargli gli alluci.
Quell’anno era già la terza volta che ci trovavamo
nel corridoio a scontare le “punizioni” dei prof. Lui
non era un tipo molto loquace, ma a furia di passare
tanto tempo insieme avevamo fatto amicizia. Io ero
molto orgoglioso di ciò, appena la cosa si fosse risaputa, nessuno avrebbe osato molestarmi. Avrebbero
avuto tutti una paura da matti.
Di solito parlavamo di ragazze. Anzi, per essere più
precisi, era lui che parlava. Mi raccontava delle sue avventure. Mi diceva di avere, nel suo quartiere, una
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sfilza di ragazze che facevano a turno per fidanzarsi
con lui. Tantissime. Una più carina dell’altra. Tutte
cotte perse per lui. E ciò me lo rendeva più simpatico.
Non pensavo che contasse balle. Gli credevo ciecamente.
Magari un giorno anch’io avrei avuto il suo fascino.
Oppure, grazie a lui, sarei diventato un playboy.
Si sedette al mio fianco sbuffando e facendo un
commento ironico circa le tette della supplente di
educazione artistica.
«Cia’ Jago» dissi.
«Ciao, “coyote”». Jago cominciò a sbirciare il mio
fumetto.
«Cos’hai fatto?» chiesi.
«Boh, niente. E tu? Stavi disegnando come al solito
durante la spiegazione?»
«No» risposi. «Questa volta il prof ha detto che
stavo “togliendo la concentrazione” ai miei compagni.
Meglio così, c’è interrogazione».
«Anche in classe mia».
Riprendemmo la lettura per qualche minuto.
«Vi hanno mandato in panchina, eh? Cos’era, cartellino giallo?»
Era il signor Giorgione Sanna detto “guardalinee”.
È il bidello della scuola. Solo che lui non lo sa. Crede
di vivere in una partita e parla esclusivamente in termini calcistici. Se un alunno arriva in ritardo lui gli
dice di sbrigarsi perché la partita è già cominciata.
Quando viene sospeso è perché ha ricevuto il cartel-
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lino rosso. Se sta andando male a scuola rischia la retrocessione e così via. Il primo quadrimestre è per lui
il girone d’andata, il secondo quello di ritorno. È
completamente “andato”, come il vino che beve e che
gli rimane tra i peli della barba.
«Una semplice ammonizione, capo» disse Jago.
«Non si sta seduti per terra, ragazzi. Alzatevi, se vi
becca l’arbitro, il preside, rischiate il cartellino rosso».
«Esagerato» dissi. Comunque ubbidimmo. Il “guardalinee” se ne andò portandosi appresso il solito
odore di vino guasto. Appena svoltò l’angolo noi ci ributtammo sul pavimento. E tornammo alle nostre letture.
Alla fine del fumetto i miei occhi caddero su una
pagina pubblicitaria. Parlava di Lucca, dove ogni
anno si tiene il famosissimo “Salone internazionale
dei comics e del film d’animazione”. Ovvero, la Fiera
del Fumetto e del Cartone Animato. Da tutta l’Italia,
e anche dall’estero, giungono in quella cittadina venditori, compratori, collezionisti e appassionati di ogni
genere di fumetto. Si possono trovare le cose più rare
e fare ottimi affari. In più ci sono tantissimi disegnatori ai quali chiedere autografi e tutti gli editori più
importanti. Per me quello è il Paese dei Balocchi.
Mi venne l’idea di scappare di casa per andarci.
Io me la cavo discretamente in disegno. Di sicuro
sono il più bravo della scuola. Avrei potuto incontrare
un disegnatore giapponese e chiedergli di portarmi
con sé. Avrei accettato di lavorare gratis. In cambio lui
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mi avrebbe insegnato i trucchi del mestiere, fino a
quando non sarei diventato un disegnatore famoso
anch’io.
«Deve essere proprio un bel posto» dissi.
«Già».
Mi mancava solo un compagno. Non me la sentivo
di scappare di casa da solo. Nella mia classe non c’era
nessuno che mi avrebbe seguito. Qualcuno era appassionato di fumetti, ma nessuno avrebbe mai avuto il
coraggio di fare una cosa simile.
«Proprio figo».
Pensai a Jago. Lui non aveva paura di niente. E poi,
quando ci incontravamo nel corridoio, mostrava
molto interesse verso i fumetti. Gliene avevo anche regalato qualche copia.
Gli parlai della mia idea.
«Già…» disse lui. «Dev’essere proprio bello. Senti,
ma dov’è Lucca?»
«In Toscana».
«Ah…» Jago fece schioccare le dita delle mani ma
non mi diede alcuna risposta.
Io girai il fumetto e ricominciammo a leggerlo daccapo.
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Fine dell'anteprima
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