IL PATTO NARRATIVO DEL BIBLIOTECARIO MATTIA Giovanna Rosa

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IL PATTO NARRATIVO DEL BIBLIOTECARIO MATTIA Giovanna Rosa
IL PATTO NARRATIVO
DEL BIBLIOTECARIO MATTIA
Giovanna Rosa
Abstract
Nella sua modernità provocatoria, Il fu Mattia Pascal è l’opera che inaugura la civiltà del romanzo novecentesco. Nelle due Premesse, il bibliotecario Mattia illustra le condizioni inedite
dell’attività di scrittura e delle inclinazioni di lettura ; corrode e riformula i paradigmi compositivi della fiction narrativa, mentre propone nuovi criteri di leggibilità, all’insegna della sintesi
umoristica di “distrazione” ed empatia riflessiva.
 
1. Il patto in chiaro
Per fortuna, l’uomo si distrae facilmente. […] Ebbene, in grazia di questa distrazione provvidenziale, oltre che per la stranezza del mio caso, io parlerò di me, ma quanto più brevemente
mi sarà possibile, dando cioè soltanto quelle notizie che stimerò necessarie.
Alcune di esse, certo, non mi faranno molto onore ; ma io mi trovo ora in una condizione
così eccezionale, che posso considerarmi come già fuori della vita ; e dunque senza obblighi e
senza scrupoli di sorta.
Cominciamo. 1
 
 
 
I
l narratore del Fu Mattia Pascal chiude il preambolo iniziale avviando il racconto
con la formula più canonica della fiction : « cominciamo ». È la mossa d’apertura di
una strategia compositiva che rilancia le tensioni dialogiche della narratività distesa,
in polemica implicita con l’orizzonte d’attesa coevo.
Sulla soglia liminare del testo, Pirandello recupera la morfologia istituzionale del
patto narrativo, rimodulandone le funzioni in chiave di modernità provocatoria : non
una, ma due premesse, e la Seconda (filosofica) a mò di scusa a chiarir subito la norma
binaria e paradossale che governa l’orditura dell’opera.
L’interlocuzione diretta con l’io leggente è dettata dall’urgenza di rivendicare con
foga battagliera la comunicatività ad ampio raggio della prosa d’invenzione : 2 spetta
al genere elettivo dell’immaginazione fantastica, non alla scrittura saggistica, magari
di taglio scientifico (« raccontare, non provare », p. 369), dar conto delle contraddizioni
che governano le dinamiche pubbliche e private dell’io nel rapporto con sé e con gli
altri, sullo sfondo di un’aurorale civiltà di massa. Solo così, d’altra parte, è possibile
 
 
 
 
 
 
 
 
1  Si cita da Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal in Opere di Luigi Pirandello, edizione coordinata da Angelo
R. Pupino, vol. i Romanzi, to. i, a cura di Marco Manotta, Torino, Classici utet, 2009, pp. 371-372. D’ora in
avanti le pagine del romanzo sono indicate direttamente nel testo.
2  Per Debenedetti, Pirandello è un « artista che, alla fine, è per eccellenza un uomo desideroso, bisognoso
di comunicare con gli altri, di farsi capire » Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1976, p. 396. A una conclusione analoga perviene Baldi, commentando, nel Fu Mattia Pascal, la « presenza
dell’autore implicito ‘forte’ », derivata « dal fatto che Pirandello ha ancora un messaggio esemplare da affidare
alla scrittura, in cui egli crede fermamente, anche se per paradosso è un messaggio negativo che contesta un
caposaldo della modernità come l’identità individuale. » Guido Baldi, Pirandello e il romanzo, Napoli, Liguori,
2006, p. 63.
 
 
 
 
 
 
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uscire dall’impasse di una produzione letteraria sempre più appiattita sull’« arte dello
sbadiglio ». 1
Nella consapevolezza che le metamorfosi del genere romanzo non solo non ne
cancellano le suggestioni attrattive, ma ne sollecitano inarcature sempre diverse, Pirandello affida ai due preamboli-menu il compito di indicare le regole del gioco che,
alle soglie del xx secolo, mettono in moto la sua « strana trottola ». 2
Ambientate sullo sfondo della vecchia biblioteca di Miragno e strutturate sugli
scambi di battute fra Mattia e Don Eligio Pellegrinotto, le Premesse esibiscono, in una
sorta di mise en abîme prolettica, la tecnica del dialogismo sottesa all’intero ordito
narrativo e puntellano, con precisione agguerrita, i confini dell’universo di finzione
in cui è invitato ad inoltrarsi il « curioso lettore » (p. 366). È questo il motivo di maggior rilevanza del prologo che, lungi dal sancire l’inattualità allegorica della moderna
epopea borghese o promettere un « meta-romanzo che narra la propria decomposizione », 3 illustra, al contrario, le modalità d’interlocuzione con un pubblico anonimo,
potenzialmente vasto, interessato alla rappresentazione di casi inusuali ed eccentrici.
Distrazione, perplessità ed empatia riflessiva : su questi termini, fondativi dell’ umoristico « sentimento del contrario », si gioca il rilancio, non privo di contraddizioni, della
morfologia romanzesca nell’Italia di inizio novecento.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
2. Le istruzioni per l ’ uso
Il giovane bibliotecario, che, in mezzo al « tanfo della muffa e del vecchiume » (p. 366),
si appresta a rievocare per iscritto la propria « balzana avventura », si affretta a mettere
in chiaro la « situazione narrativa » : 4 il primo passo è la confutazione degli incipit allora
più diffusi, nelle opere di sicuro valore letterario, come nei testi di facile popolarità.
 
 
 
 
 
 
 
 
E va bene ! Il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezza precise…La signora contessa indossò
un abito lilla con una ricca fioritura di merletti alla gola…Teresina si moriva di fame… Lucrezia spasimava d’amore… oh, santo Dio ! E che volete che me ne importi ? (pp. 369-70)
 
 
 
A fronte degli esordi in medias res della « narrazione minuta », verista o psicologica
alla Bourget, ricca « d’oziosi particolari » (p. 369), e contro gli avvii melò-sentimentali,
 
 
 
 
1  « E ci lagniamo dell’indifferenza del pubblico per qualunque manifestazione d’arte ! (...) ma se i nostri libri
di novelle e di romanzi sono sempre noiosi, non è giusto che il pubblico se ne provveda altrove, naturalmente
in Francia per lo più, la lingua francese essendo da noi generalissimamente capita ? » ; « Ed ecco in qual maniera
la nostra produzione letteraria riuscirà a farsi chiamare fra poco l’arte dello sbadiglio ». Sono l’inizio e la fine
dell’articolo L’arte dello sbadiglio pubblicato su « Ariel » (6 marzo 1898). Nello stesso articolo, Pirandello individua nella produzione romanzesca italiana di fine Ottocento due tipologie dominanti : la prima « è povera
d’invenzione, tutta sospirosa, ansimante, bollata sempre con la stessa marca di fabbrica, piena di sofisticherie, carica e luccicante di porporina » ; l’altra, « si discerne subito per il carattere comune della trivialità ». Ad
accomunarle un giudizio impietoso : « E in tutti i casi, noia ». Luigi Pirandello, Saggi e interventi, a cura di
Ferdinando Taviani, Milano, Meridiani Mondadori, 2006, pp. 273-276.
2  Il riferimento al « menu » è citazione dall’incipit del libro I del Tom Jones di Henry Fielding, mentre
l’immagine della « strana trottola » è tratta dal saggio di Jean Paul Sartre, Che cos’è la letteratura, Milano, il
Saggiatore, 1966. Cfr. Giovanna Rosa, Il patto narrativo e la fondazione della civiltà romanzesca in Italia, Milano,
il Saggiatore Faam, 2008.
3  Giancarlo Mazzacurati, Prefazione a Luigi Pirandello, Il fu Mattai Pascal, Torino, Einaudi Tascabili,
1993, p. xxxv. Di Mazzacurati si veda « Il fu Mattia Pascal » : l’eclisse del tempo e il romanzo interdetto, in Idem.,
Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, il Mulino, 1995.
4  L’espressione, proposta da Franz Stanzel (1971), è ripresa da Gérard Genette, Figure iii, Torino, Einaudi, 1976.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
il patto narrativo del bibliotecario mattia
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cari alla letteratura amena, 1 l’ouverture del Fu Mattia Pascal recupera l’artificio cardine della civiltà letteraria postclassica, ovviamente intonandolo all’eco corrosiva della modernità. Il ricorso alle preliminari « scuse », se dileggia la topica « consacrante »
dell’esordio antico, 2 svuota, soprattutto, il repertorio collaudato dei dispositivi della
pattuizione ottocentesca : non un fascio di lettere affidate a un amico fraterno ; non un
ricopiato scartafaccio di anonimo secentesco ; non un diario che corre parallelo alla
nascita della nazione e neppure le confessioni, più o meno segrete, di amori impossibili (da Fosca a Senso, passando per Storia di una capinera ed Eva). Nato su « consiglio »
e grazie all’« ajuto » di un simpatico reverendo, cólto ma dai gusti un po’ antiquati, il
libro di Mattia è un manoscritto qualunque, vergato in solitudine, destinato alla pubblicazione, nel rispetto implicito della normativa sul copyright – « cinquant’anni dopo
la… morte » (p. 366).
Trascorso giusto un secolo, Lorenzo Alderani è diventato Don Eligio Pellegrinotto :
l’atto di scrittura non prevede più l’intesa con le anime elette cui porgere un conforto esemplare e dalla stampa il protagonista non ricaverà alcun merito o « onore » (p.
371). Al pathos tragico con cui l’amico di Iacopo Ortis rievocava il destino dell’« eroico
giovine infelice », serbato a un’illacrimata sepoltura, il narratore del Fu Mattia Pascal
risponde con i timbri dissonanti del riso amaro : lungi dall’erigere un monumento alla
« virtù sconosciuta », il racconto si chiude davanti alla lapide di un « povero ignoto »
a cui l’ipocrita « pietà dei concittadini » (p. 597) ha riservato un posto nel cimitero di
Miragno : chi vi passa accanto non manifesta alcun cordoglio, concede, tutt’al più,
un sorriso incuriosito. D’altronde, a disperdere gli effetti commoventi della retorica
funeraria aveva già provveduto Mattia, quando, assunto il compito di bibliotecario,
aveva tracciato un’iscrizione « a grosse lettere » su un tavolone coperto da uno « strato
di polvere alto per lo meno un dito » (p. 410) :
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
A
MONSIGNOR BOCCAMAZZA
munificentissimo donatore
in perenne attestato di gratitudine
i concittadini
Questa lapide posero
L’insistito parallelismo contrappuntistico, che intona il patto narrativo sulle note irridenti dell’antifrasi, spariglia anche i nessi d’interlocuzione di un’altra illustre morfologia, il romanzo ironico settecentesco alla Sterne, che molti studiosi applicano alla
produzione pirandelliana.
La strategia dialogica del sentimento del contrario presuppone protocolli d’intesa che, seppur venati di soggettivismo eccentrico, sono refrattari a quel narcisismo
d’autore a cui gli « arabeschi » funambolici del reverendo inglese offrivano una base
di aristocraticismo antiprosaico. 3 Mattia Pascal è, e resta, uno sfaccendato piccolo 
 
 
1  È questo il termine, allora molto diffuso, con cui Pirandello indica la narrativa di maggior successo.
2  Ernest Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo Latino, a cura di Roberto Antonelli, Firenze, La
Nuova Italia, 1992.
3  « L’humor di un Swift, di uno Sterne è a parer mio la poesia naturale delle classi elevate del nostro tempo. »
Friedrich Schlegel, Dialogo sulla poesia, in Idem., Frammenti critici e scritti di estetica, Firenze, Sansoni, 1967,
p. 210. Per Lukács nell’opera di Laurence Sterne trova un’espressione chiarissima il « tentativo di trovare alla
soggettività umana smarrita un punto d’appoggio dentro di sé, di crearle un proprio mondo non reificato. (…)
Egli spezza consapevolmente l’unità della forma narrativa per creare, mediante arabeschi fantastici, un’unità
 
 
 
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borghese che converte il racconto di una strana Bildung in un romanzo avventuroso,
in cui le forzature espressive, dettate da un « aggressivo coefficiente polemico », 1 sono
rivolte a un pubblico vasto di lettori qualunque. Se gli artifici della scomposizione
umoristica sgretolano la modellistica usuale della tradizione realistico-mimetica, l’urgenza comunicativa da cui era mosso lo scrittore agrigentino prefigura un orizzonte
d’attesa ampio, composto da « letterati e illetterati », 2 più interessati agli assilli di vita
quotidiana che alle combinazioni dell’« estrosa ornamentalità » d’artista. 3
A testimoniare lo spessore di modernità equivoca, che orienta le funzioni fatiche
dell’opera, è la seconda mossa compiuta dall’io narrante nell’impostare le regole del
gioco. Nella prima Premessa, contro « la misera stima dei libri » (p. 366), Mattia invoca,
a conforto della stesura del suo, la diversità e la stranezza del caso : 4 « Ecco : il mio
caso è assai più strano e diverso : tanto diverso e strano ch’io mi faccio a narrarlo » (p.
364). La figura dell’iterazione a chiasmo allude a due tipologie narrative allora molto
diffuse : da una parte la poetica verista dei « faits divers » o documenti umani, dall’altra
la grammatica del racconto fantastico ; ma, la ripresa ostentata
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
…non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto, non stimassi davvero strano
il mio caso e tale da poter servire d’ammaestramento a qualche curioso lettore (p. 366)
e l’explicit finale del secondo capitolo, « oltre che per la stranezza del mio caso » (p.
371), sparigliano, come di consueto, le carte. L’insistenza sull’omodiegesi –il mio caso,
mi faccio a narrarlo- abroga senza appello il canone oggettivistico dell’impersonalità ;
mentre il semplice accenno all’ammaestramento dissolve la norma elettiva del genere
fondato sull’esitazione perturbante. 5 La Premessa si chiude sulle note della reticenza
prolettica che rilancia la tensione narrativa : « io sono morto, sì, già due volte, ma la
prima per errore, e la seconda… sentirete » (p. 366). Nell’epilogo romanzesco, zona altrettanto strategica per il patto, dove convenzionalmente si tirano le fila del discorso,
il narratore recupera le espressioni incipitarie - i casi miei, questa mia strana storiaper discuterne « a lungo » con Don Eligio (p. 597).
In trasparente citazione dell’ultimo colloquio fra Renzo e Lucia, i due bibliotecari
si interrogano sul possibile « sugo della storia » : lo scioglimento, lungi dal celebrare il
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
soggettiva, l’unità degli stati d’animo contrastanti dell’ intenerimento e dell’ironia. » György Lukács, Il romanzo come epopea borghese, in György Lukács et alii, Problemi di teoria del romanzo, Torino, Einaudi, 1976, p.
159.
1  Giacomo Debenedetti, op. cit, p. 396.
2  La celebre dittologia manzoniana è ripresa esplicitamente da Pirandello in un saggio, pubblicato nel 1890,
sulla rivista fiorentina « Vita nuova », dedicato alla Prosa moderna. (Dopo la lettura del « Mastro Don Gesualdo ») : « I
letterati non conoscono altra lingua che quella dei libri ; mentre gl’illetterati continuano a parlare quella cui
sono abituati, la provinciale, ossia i vari dialetti natali. I mali che derivano da questo difetto capitale, son di
facile comprensione. » Luigi Pirandello, Saggi e interventi, cit., p. 80.
3  György Lukács, Il romanzo come epopea borghese, cit. p. 159. Nell’Umorismo, la definizione di Hegel, « attitudine speciale d’intelletto e di animo onde l’artista si pone lui stesso al posto delle cose » è commentata con la
consueta verve antidealistica : « ha tutta l’aria di un rebus. » Luigi Pirandello, Saggi e interventi, cit, p. 907
4  Nel suo commento al Fu Mattia Pascal, attento al ricco ordito intertestuale, Marco Manotta ricorda
come nella poetica verista il ‘caso’ sia « l’occasione per lo studio della tranche de vie » e, per documentare l’« area
del racconto fantastico e surreale », cita il titolo del romanzo di Robert Luis Stevenson, The strange case of Dr
Jekill e Mr.Hide, op. cit., pp. 364-365.
5  Lo statuto del racconto fantastico ottocentesco presuppone l’« esitazione provata da un essere il quale
conosce soltanto le leggi naturali di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale » Tzvetan
Todorov, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 1977, p. 26.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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« trionfo dello Stato civile », 1 come vorrebbe suggerire, crocianamente, il reverendo
editor, avvalora solo le osservazioni del protagonista, il quale si ostina a dichiarare « di
non saper vedere che frutto se ne possa cavare » (ibidem). Il richiamo al xxxviii capitolo
dei Promessi sposi è tanto apertamente allusivo quanto pirandellianamente spudorato.
Il meccanismo manzoniano è replicato e contraddetto, nel contempo. Come nel capolavoro ottocentesco, in cui la conclusione non si appiattisce sull’elenco delle lezioni
apprese dai due giovani, ma, affiancando alle loro parole la voce colta del trascrittore,
rimanda il senso complessivo fuori dal testo, così anche nell’opera del 1904, i dispositivi retroattivi dello scambio interlocutorio innescano una « chiusa » 2 a duplice sbocco.
Il raggiungimento della « condizione eccezionale », grazie a cui Pascal ha intrapreso la
stesura del racconto, invalida sia la promessa iniziale (« servir d’ammestramento ») sia
l’accomodante parere finale dell’amico editor, assestandosi su un’inquieta percezione
di estraneità : « io non saprei proprio dire ch’io mi sia » (p. 597). L’anafora speculare
del pronome, enfatizzato dalla particella possessiva, rimarca la soggettività « fuori di
chiave » del narratore omodiegetico e, nel rigetto dei parametri tradizionali della lusis
epilogica, getta una luce equivoca sulla fonte del racconto. In seconda battuta, il dialogo con un compagno di strada curioso – l’aggettivo è reiterato dalla Premessa- dirotta
l’explicit di questa « strana storia » oltre l’abside della polverosa Biblioteca :
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Qualche curioso mi segue da lontano ; poi, al ritorno, s’accompagna con me, sorride, e – considerando la mia condizione – mi domanda :
– ma voi, insomma, si può sapere chi siete ? (p. 598).
 
 
 
E quell’insomma è tanto meno conclusivo quanto più prolettico era stato l’altro con
cui, in incipit, Mattia aveva preannunciato al lettore, allettato dalla suspence, che nel
suo racconto da scoprire « …sì, niente, insomma » (p. 364).
Agli albori del nuovo secolo, le pretese assiologiche su cui si reggeva il « romanzo del dover essere » (Debenedetti) sono svaporate : la sfida dell’invenzione narrativa
non postula fondamenti ontologici, non riaccende nessun « lanternone », men che mai
concede riscatti catartici ; implica piuttosto la verifica degli « effetti di perplessità » suscitati presso il pubblico elettivo. 3 L’attività di scrittura e l’esperienza di lettura non si
incontrano più sul terreno comune di modelli esemplari e criteri di verità oggettiva :
nessun sugo della storia né sintesi pacificanti riequilibrano il gioco di arsi e tesi, desis e
lusis ; non per questo, chi costruisce « mondi di carta » 4 rinuncia a patteggiare le regole
che orientano e suggellano la progressione d’intreccio : in nome di un permanente e
sempre più diffuso bisogno di distrazione illusoria, il narratore invita i suoi lettori ad
accompagnarlo nel suo viaggio, per superare insieme la noia e condividere un sentimento paradossale di empatia straniante.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1  È la conclusione cui giungeva l’analisi crociana a commento delle parole finali di Don Eligio : « fuori della
legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo, caro signor Pascal, non è possibile
vivere » p. 597.
2  Per la distinzione fra « scioglimento », il ritorno a Miragno, e « chiusa », il duplice dialogo di Mattia con
Don Eligio e con il passeggero curioso, cfr. Boris Tomasesvkij, Teoria della letteratura, Milano, Feltrinelli, 1978.
3  « Per questo giudizio, ho bisogno innanzitutto di sapere lo stato d’animo che quella rappresentazione
artistica vuol suscitare : lo saprò dall’impressione che ne ho ricevuto. Questo stato d’animo, ogni qual volta
mi trovo innanzi a una rappresentazione veramente umoristica, è di perplessità. » Luigi Pirandello, L’ umorismo, cit, p. 916.
4  Mondo di carta è il titolo di una novella, edita sul « Corriere della Sera », 4 ottobre 1909, raccolta poi in Luigi
Pirandello, Novelle per un anno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Anni dopo, nell’edizione Bemporad, Pirandello invocherà, in limine e in aggiunta,
gli « scrupoli della fantasia », 1 quasi a replicare, con la solita verve provocatoria, i prerequisiti finzionali da cui aveva preso avvio il racconto : « io mi trovo ora in una condizione così eccezionale, che posso considerarmi come già fuori della vita ; e dunque
senza obblighi e senza scrupoli di sorta » (p. 372). Ebbene, anche sul lembo estremo
e posteriore, non postumo, dell’Avvertenza, il libro ribadisce e legittima la strategia
compositiva su cui poggia l’inedito protocollo d’intesa. L’ iterazione esibita del lemma « « scrupoli », nell’incorniciamento di premesse postille postfazioni, esalta la funzione generica del patto, orientato a galvanizzare le risorse immaginose dell’io. Le
osservazioni autoriali smascherano e nel contempo accreditano le istruzioni per l’uso
avanzate, sulla soglia del testo, dal bibliotecario Mattia : l’essere « fuori della vita »,
« fuori di chiave », è il postulato irrinunciabile dell’ inclinazione umoristica e dei suoi
dispositivi dialogici. Se l’io narrante può iniziare a raccontare solo trovandosi in una
condizione eccezionale, capace cioè di « vedersi » e attivare l’ancipite sentimento del
contrario, all’io leggente, sollecitato ad assumere un ugual atteggiamento di straniamento immedesimativo, spetta il compito di tirare le fila dell’« arruffio » romanzesco :
la trama « macchinosa » e ricca di dissonanze presuppone un pubblico composto da
chi « tanto appassionatamente ragiona » quanto « più soffre » : 2 non l’élite raffinata, interessata ai crucci en artiste, ma le schiere di umanità piccolo-borghese tentennante,
priva di luce, alla ricerca ansiosa di sé. In explicit, scioglimento e chiusa si rifrangono
all’insegna della dialettica ossimorica di riso e pianto : davanti alla coppia Pomino Romilda e, per inciso, nell’unica sequenza del romanzo in cui il corpo femminile appalesa l’istinto materno congiunto alla carica erotica, Mattia prima scoppia « a ridere fino
ad averne male ai fianchi » (p. 589) quindi, il « nodo di un pianto inatteso » gli stringe la
gola. (p. 594)
Il patto narrativo del Fu Mattia Pascal inaugura la tradizione del romanzo novecentesco, perché, potenziando gli effetti della fiction, ne riplasma con paradosso cogente
le inclinazioni fruitive : dalla ricalibratura fra alto e basso, pathos ed ethos, distrazioni lenitive e criticismo perplesso, prendono slancio i procedimenti di leggibilità, nel
precario e sempre difficile equilibrio fra l’offerta dell’autore e le domande dei lettori.
Interpretare il libro del 1904 alla luce dell’« allegoria senza più codici », 3 o in nome del
decostruzionismo postmoderno, rischia di offuscarne la carica di originalità autentica, fondativa della nostra civiltà letteraria contemporanea.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
3. Una cornice sfasata
Secondo Mazzacurati, al culmine della cornice, « il terzo anello del racconto », si staglia un’icona funebre, a suggellare il rovinio della moderna epopea borghese : « Ciò
che avanza è un punto interrogativo semovente, una libertà vertiginosa e totalmente
vuota di contenuti, di attributi : l’involucro vivente di una forma, che compie riti sulla
 
 
 
 
 
1  Avvertenza sugli scrupoli della fantasia postfazione a Il Fu Mattia Pascal, Firenze, Bemporad, 1921. Nell’edizione Utet, pp. 599-606.
2  Tutte le espressioni virgolettate sono citazioni dall’Avvertenza, p. 604 e p. 602.
3  Giancarlo Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, cit., p. 279. Se la biblioteca Boccamazza è simile
al labirinto borgesiano e la stazione di Alenga diventa un « non-luogo », il rischio è cancellare l’intero percorso
del romanzo novecentesco (Cfr. Marco Manotta, L’« altro luogo » nella narrativa di Pirandello, in Studi sulla
letteratura italiana della modernità per Angelo R.Pupino, Primo Novecento, a cura di Elena Candela, Napoli, Liguori
2009).
 
 
 
 
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il patto narrativo del bibliotecario mattia
propria tomba ». 1 In « finale dissolvenza », la simmetria circolare del macrotesto rende
la biblioteca Boccamazza affatto coincidente con il cimitero di Miragno, a sanzione
conclusiva del « doppio sentore di funerale e di menzogna » che sprigiona dall’opera
inaugurale del xx secolo. Eppure qualcosa non torna in questo disegno concentrico
e centripeto, privo di crepe, aggettante sul nulla : troppo polemicamente definita è
la grammatica della pattuizione romanzesca, troppo ostentate nel testo le citazioni
dei paradigmi passati, per attribuire a Pirandello un intento solo demolitorio, allegoricamente vuoto ed egolalico. Come l’orditura complessiva del romanzo, anche la
cornice è costruita con l’impegno cruccioso di chi punta sempre a provocare il lettore,
rendendolo non spettatore attonito di uno spettacolo privo di senso, ma complice,
fratello in perplessità, di un narratore che racconta la sua « bislacca avventura ». La
sfida a chi legge è lanciata con piglio tanto più agguerrito quanto maggiore è il tasso
di reattività implicito nel nuovo protocollo d’intesa.
Sul piano macrostrutturale, la cornice ad anello disegna sì un’intelaiatura solida,
ricca di corrispondenze binarie, ma le spinte centrifughe della diegesi ne minano la
circolarità simmetricamente speculare : alle due Premesse iniziali corrispondono i due
capitoli finali, ma l’ultimo, Il fu Mattia Pascal, che contiene scioglimento e chiusa, consuona con il titolo complessivo dell’opera e getta luce analettica sull’intero récit.
Entro la trama romanzesca incipit ed explicit si fronteggiano in forme discrete e
sfalsate : l’iniziale presunzione di certezza nominalistica (« io mi chiamavo Mattia Pascal ») si capovolge in una duplice negazione-affermazione identitaria : « io non saprei
proprio dire ch’io mi sia », « Io sono il fu Mattia Pascal », dove la particella pronominale
non è semplice « variante notarile », simile ai ghiribizzi filiformi della scrittura sterniana, 2 ma segno di contraddizione che rinsalda la rete dei dispositivi dialogici, aprendo
uno scarto umoristico fra testo e paratesto.
Sulla soglia liminare, nel titolo, quel fu suona come invito allettante, promessa di
suspence avvincente ; l’esordio narrativo la ribadisce, pur contestandone il primo significato : il racconto non rievoca morti o delitti, non tratta di fantasmi o revenants,
e poco e nulla c’entra con le agnizioni del feuilleton, anche se ne condivide l’iniziale
pubblicazione a puntate. Il narratore che sin dalla prima riga dice io è vivo e vegeto e
la sua parola riecheggia in uno scenario di quotidianità prosaica. Nella conclusione,
la sillaba replicata nel titolo del xviii capitolo, e messa in aggetto dall’ultima frase
del libro, assume una specifica funzione strutturale, diventando indizio palese della
distanza cronologica e diegetica – raggiungimento della « condizione eccezionale »
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1  Giancarlo Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, cit, pp. 212-213. La citazione successiva a pag.
202. Sono molti i saggi che si richiamano esplicitamente all’interpretazione « funebre » di Mazzacurati : Franca Angelini, Cimiteri, in Luoghi e paesaggi nella narrativa di Luigi Pirandello, a cura di Gianvito Resta, Roma,
Salerno, 2002 ; Michela Sacco Messineo, Mattia Pascal cominciare dalla fine, in Studi sulla Letteratura Italiana
della modernità per Angelo R. Pupino, Primo Novecento, cit. Di diverso orientamento il saggio di Nicola Merola,
contenuto nella stessa miscellanea, I casi del racconto. Sole e ombra di Pirandello, che sottolinea la funzione di
riscatto attribuito dall’autore agrigentino alla scrittura narrativa, di misura breve e lunga.
2  Giancarlo Mazzacurati, nota a Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, op. cit, p. 280. D’altronde, come
suggerisce Paul Ricoeur : « Un non-soggetto non è un ‘niente’ in rapporto alla categoria del soggetto. (…)
Altrimenti detto, questo dramma della disgregazione non ci interesserebbe, né ci piomberebbe nel panico se
il non-soggetto non fosse ancora una figura del soggetto – benché in forma negativa ». Nello stesso saggio
un’altra osservazione sottolinea la rilevanza strutturale del finale : « la chiusura del racconto, così problematica
nel romanzo moderno, costituisce un punto essenziale dell’arte della composizione. Vale lo stesso per l’estensione : è l’intreccio a conferire all’azione un perimetro, un limite e, per conseguenza, un’estensione ». L’identità
narrativa, « allegoria » n.60, luglio-dicembre 2009.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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– che separa io narrante e io narrato : al lettore spetta il compito di sciogliere i nodi
problematici dell’attesa iniziale, misurando le diffrazioni prospettiche ed enunciative
sottese ad una vicenda condotta tutta in analessi. Il primo e fondativo elemento di
complementarità antitetica che governa l’intera compagine dell’opera non riguarda
la coppia Mattia Pascal Adriano Meis, ma la duplice funzione testuale del bibliotecario, personaggio e narratore. 1
Con puntiglio altrettanto incisivo, le coordinate spazio-temporali della cornice non
delimitano un « cosmo nullificato », 2 o la dimensione dell’oltre-vita, ma costruiscono il
cronotopo dell’invenzione letteraria nella modernità : siamo in biblioteca, nel tempo
presente e solitario della scrittura, nella sede elettiva della lettura muta e silenziosa.
Il rispetto della norma sul copyright, per quanto dissimulato, suggerisce i caratteri
storici dell’orizzonte d’attesa ; la modulazione del patto esalta lo scarto dissonante
del dialogismo romanzesco d’inizio secolo : lo scambio fra l’io narrante e il suo editor
non prevede alcuna figura di narratario ; in ombra solo traluce il profilo indefinito
e anonimo del pubblico urbano-borghese, atteggiato a readership. 3 Rilette in chiave
antifrastica e contrastiva, le istruzioni per l’uso offerte da Mattia nelle Premesse sono
di una chiarezza trasparente.
Il luogo deputato della cultura antiquaria è rifugio per ragni e topi ; la « stima dei
libri, siano essi a stampa o manoscritti » (p. 366) si è ridotta a un grado miserevole ;
d’altronde, lo scenario esterno, che accomuna io narrante e io leggente, non ispira
certo motivi di incoraggiamento : siamo tutti su « un’invisibile trottolina… che gira e
gira e gira », su cui ormai si dipanano solo « storie di vermucci », magari « abbrustoliti »
(p. 371). Ecco perché, come proclama il bibliotecario Mattia, « non è tempo di scriver
libri neppure per ischerzo » (p. 368).
Tutto vero e incontrovertibile. E nondimeno, non solo la titubanza iniziale – « se mai
sarà terminato » (p. 367) – si scioglie in corso d’opera e il romanzo è concluso in meno
di un anno, « circa sei mesi » (p. 597) ; ma soprattutto il giovane narratore, incurante dei
suggerimenti dotti di Don Eligio, ha trovato il « tono » giusto per scrivere e soddisfare
la curiosità di un pubblico a cui ha annunciato, con abilissima tecnica dilatoria, che
per leggere la stramba avventura dovrà attendere la « terza, ultima e definitiva morte »
dell’autore (p. 366). Anche alla terna aggettivale, sottolineata dal corsivo, Pirandello
affida una funzione dialogica di polisemia equivoca : il tricolon, esasperando l’eccezionalità del caso – non una, ma ben tre morti – inficia la pattuizione tradizionale delle
bizzarrie e dei racconti fantastici. Se un semplice « Auff ! » di Mattia basta a disperdere
l’eco comica della novellistica illustre, evocata dall’amico reverendo, ben più efficace
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1  Gli studiosi, attenti al dispositivo binario che governa il sistema attanziale del racconto, mettono spesso in
primo piano la coppia persona personaggio, ricavata dalla lettura autoesegetica, tendenziosa sempre, in Pirandello capziosamente ingannevole. Pupino commenta e precisa : « Il soggetto che parla è diverso dal soggetto di
cui egli parla, si chiami Mattia Pascal o dica di chiamarsi Adrano Meis, non importa. Esiste un io narrante che
narra in un tempo presente ed esiste un io narrato che ha agito in un tempo passato, e del quale il primo io è
come un doppio » (Angelo R.Pupino, Introduzione a Opere di Luigi Pirandello, cit., p. 40). Sempre pertinenti le
analisi di Baldi che, giusta la distinzione genettiana fra voce e prospettiva, commenta : « l’unica voce che narra,
che “parla” nel romanzo è quella di Mattia Pascal che, terminate le sue vicende, si volge indietro a considerarle per affidarle alla scrittura. » Guido Baldi, op. cit., p. 33.
2  Antonio Saccone, La biblioteca del Fu Mattia Pascal, in Idem, « Qui vive/ sepolto/un poeta », Napoli Liguori,
2008, p. 3
3  Walter Ong, Il pubblico dello scrittore è sempre una finzione, in Idem, Interfacce della parola, Bologna, il
Mulino, 1989.
 
 
 
 
 
 
 
 
il patto narrativo del bibliotecario mattia
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si rivela lo sberleffo che colpisce le agnizioni rivelatrici della produzione « alimentare »,
magari, perché no ?, del celebre Conte di Montecristo. Pascal non è stato rinchiuso nel
castello d’If, e al ritorno non compie nessuna vendetta, come pure si era ripromesso. 1
Una volta ricomparso, passa gran parte del giorno nel silenzio appartato dell’abside di
Santa Maria Liberale : ripreso il mestiere di bibliotecario, occupa il tempo a leggere e
a riempire pagine con il racconto di « una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta
immaginare » (p. 405). La stramba avventura è degna d’esser narrata perché, sebbene
ambientata nella mediocrità quotidiana, è inusuale e stravagante : un « caso strano e
diverso : tanto diverso e strano ch’io mi faccio a narrarlo » (p. 364).
Come nella citazione parodica degli esordi, in un colpo solo, Pirandello recupera e
rimodella i paradigmi immediatamente riconoscibili della moderna epopea borghese.
Alle vicende « comuni di un uomo comune », quali erano quelle di Robinson Crusoe
od anche di Renzo Tramaglino, al misterioso fascino degli avatar fantasmatici, magari
più scapigliati che richteriani e hoffmaniani, alle rivalse implacabili degli eroi dell’ appendice, si sostituisce, all’inizio del secolo, il caso eccentrico di un qualunque « scioperato » di provincia : il lettore è sollecitato a seguirne le vicende in nome di una particolare sintonia che, lungi dal rifiutare le distrazioni salutari della fantasia immaginosa,
le riplasma con umorismo cruccioso e perplesso. A fondamento, la percezione di « esilio » rispetto agli endoxa collettivi, cui si affianca la condivisione di un dubbio assillante
sul rischio di anomia che la massificazione incipiente sta cominciando ad adombrare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
4. La biblioteca Boccamazza
La biblioteca in cui si apre il racconto in tanto è il « correlativo oggettivo » della poetica
dell’umorismo, 2 in quanto inscrive nel testo le condizioni statutarie sia di scrittura sia
di lettura della fiction novecentesca.
Nel tempo della riproducibilità tecnica, ogni pretesa d’aura nobilitante è svanita ;
nell’abside buia e umida di una chiesetta sconsacrata regna disordine e confusione : in
questa « vera babilonia di libri » impossibile rinvenire modelli da imitare ; il « particolare
sapore dei classici », coltivato da Don Eligio, sa ormai di muffa tarlata. Le legature dei
testi agiografici si sono « fraternamente appiccicate » alle pagine dei trattati licenziosi :
è l’icastica raffigurazione della moderna mescolanza dei generi e degli stili, poi teorizzata nel saggio sull’Umorismo, dedicato in epigrafe « Alla buon’anima di mattia
pascal Bibliotecario ». Dove ciò che conta non è tanto il motteggio replicante del
« fu »- la buon’anima appunto- quanto piuttosto la sottolineatura del mestiere del personaggio narratore.
Nel terzetto di figure ospitate in quei locali dismessi, 3 l’io narrante sta in mezzo fra
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1  È questo il primo moto reattivo che agita Adriano Meis quando si sporge sul parapetto del Ponte Margherita : « Esse, Romilda e la madre, mi avevan gettato in questi frangenti (…). Un fremito di ribellione mi scosse.
E non potevo vendicarmi di loro, invece di uccidermi ? (…) Vendicarmi ! (…) – Una volta per uno ! Ritorno
vivo ; mi vendicherò !- » (p. 571). Il penultimo capitolo Rincarnazione si chiude su una analoga battuta del personaggio : « Mi vendicherò ! », p. 583. Poi davanti a Pomino, sposato a Romilda e neo padre : « Oh, insomma, –
sbuffai, – volevo vendicarmi e non mi vendico » (p. 592). Su questo motivo Pupino insiste nella sua Introduzione,
suggerendo che la « vendetta » di Pascal potrebbe essere affidata all’atto di scrittura (op.cit., pp. 46-48).
2  Guido Guglielmi, Poetiche di romanzo in Pirandello, in Idem, La prosa del novecento, Torino, Einaudi, 1986,
p. 86.
3  C’è un lapsus nel racconto : « e mi ridussi invece a questa biblioteca di Santa Maria Liberale, dove trovai
al mio posto il reverendo amico don Eligio Pellegrinotto, il quale non mi riconobbe neanche lui, lì per lì. » (p.
595). Ben comprensibile : don Eligio ha preso il posto di Mattia dopo la sua scomparsa e prima, nel tempo della
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Pellegrinotto e Romitelli e nei confronti d’entrambi assume un ruolo oppositivo : Mattia non solo rifiuta i consigli canonici del reverendo editor, impegnato « eroicamente »
a « dare assetto e ordine » a volumi che il tempo ha inesorabilmente frammischiato,
ma ribalta, con esito ben più cruciale per l’intonazione, gli abituali comportamenti di
lettura del suo predecessore. Pascal diventa un narratore che scrive, buttando « giù come vien viene », dopo aver letto tanti libri, « curiosi e piacevolissimi » (p.368), consumati
nei modi caotici e compulsivi che si addicono alla fruizione letteraria nella modernità.
Diversamente dal « sordo, quasi cieco, rimbecillito » Romitelli, dedito a un unico volume erudito (« libraccio » p. 408 e p. 411), scelto a caso, letto con « stento » e a voce alta
-« leggeva forte » per meglio « cacciarselo a memoria » (pp. 408-409)-, Mattia si avvicina
ai libri non per « obbligo » 1 e con funzione vicaria, né per « amore di studio » filologico, ma per « gusto » e per attenuare il peso della « noja ». Li accumula senza criterio o
gerarchia, « disordinatamente », e soprattutto li legge in silenzio e con intensità, quasi
divorandoli con furore. 2 Ecco allora dai lineamenti di Mattia Pascal, bibliotecario a
« sessanta lire al mese » (p. 408), emergere in chiaroscuro il profilo del lettore elettivo :
controfigura di un io narrante che scrive in solitudine appartata, anch’egli consuma i
libri nell’intimità più riposta e vi cerca distrazioni illusorie capaci, grazie ai congegni
di una trama ultra- romanzesca, di lenire, se non arginare, affanni e turbamenti.
Come detta la moderna retorica della fiction, l’opera narrativa nasce in un luogo
« fuori mano », priva di ogni alone auratico, avvolta dallo stesso silenzio concentrato
entro cui si cala il lettore per « divorarla » e apprezzarne la tenuta espressiva.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Chi ascolta una storia è in compagnia del narratore ; anche chi legge partecipa a questa società.
Ma il lettore di un romanzo è solo. Egli è più solo di ogni altro lettore (Poiché anche chi legge
una poesia è pronto a dare una voce alle parole per chi si trova in ascolto). In questo isolamento
il lettore di romanzi si impadronisce del loro contenuto più avidamente di ogni altro lettore.
Egli è pronto ad assimilarlo interamente, a – per così dire- divorarlo. 3
 
 
Simile al Balicci, protagonista della novella Mondo di carta, che vive in gran « babele »
di volumi a cui si applica con voracità convulsa (« pareva che se li mangiasse, anche
materialmente, tanto se li accostava alla faccia per leggerli »), 4 l’interlocutore di Mattia
legge « con gli occhi soltanto », conscio ormai che un tono di voce diverso dal proprio,
quello che riecheggia nella solitudine intima, « colora tutto diversamente ». È l’estro
 
 
 
 
 
 
 
 
 
storia, personaggio e lettore non l’avevano mai incontrato in biblioteca. Sulle figure dei bibliotecari cfr. Ilaria
Crotti, Il mondo di carta di Luigi Pirandello, in Idem, Mondo di carta. Immagini del libro nella letteratura italian del
Novecento, Venezia, Marsilio, 2008 ; su Mattia « liseur de romans » Marinella Cantelmo, L’abito, il corpo, la carta
del cielo. Saggi su Pirandello, Lecce, Manni, 1996.
1  L’immagine, come di consueto, è reiterata con insistenza : « O credeva forse che un bibliotecario, essendo
la biblioteca fatta per leggervi, fosse obbligato a legger lui, posto che non aveva veduto mai apparirvi anima
viva ; e aveva preso quel libro, come avrebbe potuto prenderne un altro ? » p. 409 ; « Mi sarei dunque ridotto
come il Romitelli a sentir l’obbligo di leggere, io bibliotecario, per tutti quelli che non venivano alla biblioteca ? » p. 412.
2  « La fureur de lire » è l’espressione che accompagna la rivoluzione della lettura all’avvio della civiltà romanzesca. Reinhard Wittmann, Una « Rivoluzione della lettura » alla fine del xviii secolo ?, in Storia della lettura nel
mondo occidentale, a cura di Guglielmo Cavallo e Roger Chartier, Bari-Roma, Laterza, 1995. Anche in nome di
questa voracità di lettura, il modello paradigmatico del protagonista romanzesco non è il reverendo Tristram
Shandy, ma il triste cavaliere della Mancha di Cervantes, evocato a più riprese nel saggio sull’Umorismo.
3  Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Idem, Angelus Novus, Torino,
Einaudi, 1962, p. 252
4  Luigi Pirandello, Mondo di carta, in Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, vol. i, to. ii, Milano,
Meridiani Mondadori, 1996, p.1022 ; la successiva citazione a p.1025.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
il patto narrativo del bibliotecario mattia
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idiosincratico di chi entra e si muove nei fictionals words a dare il giusto « colore » alle
storie, governate certo da regole proprie e specifiche, ma sempre comparabili con
quelle dell’universo reale. E d’altronde, solo nel confronto ravvicinato con la pagina
stampata e in forza di una rinnovata sospensione dell’incredulità (« Le proibisco di dire
che non è come è detto là ! È come è detto là, e basta ») 1 l’io leggente può « distrarsi » e
acconsentire agli « scrupoli della fantasia » di chi non ha « obblighi » di sorta, al di fuori
delle norme concordate.
Da questa inedita « condizione eccezionale », che stringe in sintesi vincolante attività
di scrittura e inclinazioni di lettura, nasce l’urgenza di porre in chiaro i protocolli d’intesa : alla trasparenza della grammatica compositiva corrisponde un’altrettanto limpida retorica fruitiva. 2 E come nella stagione inaugurale della fiction, anche in questo
avvio di secolo, il patto fra l’io narrante e i destinatari prescelti rimodella la gamma
variegata delle funzioni di genere.
Innanzitutto, la strategia umoristica, inscritta come correlativo oggettivo nel tempo-luogo della Biblioteca Boccamazza, invera e corrobora il paradosso fondativo della
moderna civiltà romanzesca : la lettura, diventata estensiva (i libri si accumulano senza
filtri censori e preselettivi ; il pubblico si è ampliato oltre i confini ristretti dell’élite), è
un’attività solitaria e individuale ricca di intensità di pathos, fonte di quella « distrazione provvidenziale » che fronteggia lo squallore anonimo di chi vive su « un granellino
di sabbia impazzito che gira gira gira, senza saper perché » (p. 370). L’ « essere fuori di
chiave » dell’io narrante, « segno di esclusione ed insieme strumento di riscatto », 3 è il
prerequisito necessario per costruire il mondo di carta e puntellare il cammino di chi
è invitato ad entravi. Se il primo effetto della scrittura è orientato a cancellare la noja,
con pari cura occorre eludere il rischio, altrettanto pernicioso, di sprofondare nei vortici delle fantasticherie cartacee che, allentando i contatti con l’universo di realtà, ci
fanno « vivere tra le nuvole » (p. 412). Novecentescamente, anche l’io leggente deve
assumere l’inclinazione di « forestiere della vita » che, in tragica straniante complicità,
accompagna l’io narrante alla ricerca affannosa di sé, nell’intrico delle relazioni intime e sociali che lo plasmano nel tempo. L’esperienza della lettura umoristica, grazie
all’approfondimento empatico della riflessione critica, conduce al riconoscimento
amaro delle contraddizioni, al di là di ogni gratificazione narcisistica : al termine, « sì,
niente, insomma » ; forse, solo il « nudo volto individuale » (Avvertenza) di un soggetto
ammaccato, preda di assalti nevrotici e di solitudini immedicabili.
Le Premesse pongono i paletti inediti del percorso fruitivo, orchestrato sulle note del
paradosso ossimorico.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1  Ivi, p. 1028
2  Contro la retorica tradizionale, la « vecchia bugiarda, fanfarona, civetta con gli occhiali », giusta la definizione del cavaliere Tito Lenzi, nel Fu mattia Pascal (p. 464), Pirandello scrive a più riprese. Esemplare
l’immagine del « guardaroba », diviso per « scansie », che riflette l’ordine gerarchicamente tripartito fondato
sulla « convenienza » ; oltre la novella Il guardaroba dell’eloquenza, si legge nel saggio del 1908 : « La Retorica, in
somma era come un guardaroba : il guardaroba dell’eloquenza, dove i pensieri nudi andavano a vestirsi. E gli
abiti, in quel guardaroba, eran già belli e pronti, tagliati tutti su i modelli antichi, più o meno adorni, di stoffa
umile o mezzana o magnifica, divisi in tante scansie, appesi alle grucce e custoditi dalla guardarobiera che si
chiamava Convenienza. » Luigi Pirandello, L’umorismo, cit., p. 817. « Di fatto, l’antiformalismo pirandelliano
è motivato nel profondo da una nuova concezione della retorica, che s’identifica progressivamente con la
tecnica scompositiva dell’umorista. » Maria Antonietta Grignani, Retoriche pirandelliane, Napoli, Liguori,
1993, p. 45.
3  Marinella Cantelmo, op. cit., p. 101
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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5. L’invettiva e le notizie
La più rilevante, seppur misconosciuta, sfida lanciata in incipit dal narratore del Fu
Mattia mira a contestare il paradigma convenzionale degli « effetti » che le vicende
romanzesche suscitano in coloro cui sono destinate. E come per i prologhi in medias
res, anche la corrosione delle risposte usuali e di poco conto assolve una duplice funzione :
 
 
 
Qualcuno vorrà ben compiangermi (costa così poco), immaginando l’atroce cordoglio d’un
disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt’a un tratto che… sì, niente, insomma : né padre,
né madre, né come fu o come non fu ; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della
corruzione dei costumi, e de’ vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser
cagione a un povero innocente.
Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo.
(p. 364)
 
 
Lo sfondo, corruzione dei costumi e tristezza dei tempi, e la sequela dei tratti attanziali, orfano bastardo disgraziato povero innocente, alludono con la consueta verve
provocatoria ai modelli narrativi allora più diffusi e di maggior impatto : l’orizzonte
d’attesa entro cui si colloca il Fu Mattia è costituito da lettori qualunque, attratti dagli
intrighi delle storie psicologico-passionali e dalle trame coinvolgenti dei romanzi di
costume. È il repertorio canonico di temi e personaggi, che nati, all’insegna dell’ « immaginazione melodrammatica » (Peter Brooks) o dell’ « immaginazione dei sentimenti », per dirla con Paul Bourget, puntano ad eccitare moti di compatimento e slanci di
indignazione. Ebbene, il primo cartellino-menu della Premessa avverte che la bislacca
avventura, pur nell’intreccio di pubblico e privato, « fra volto individuale ed immagine
sociale » (Avvertenza, p. 603), non promette nulla di tutto ciò. Il secondo commento,
messo in parentesi- e quindi in rilievo- mentre sbeffeggia la stereotipia delle reazioni
meno impegnative (« costa così poco », « costa anche meno »), conferma per antifrasi
la « gran norma dell’interesse », 1 virandola, ancora una volta, in chiave di modernità novecentesca. All’inizio del secolo, la dinamica economica delle risorse psichiche,
sottesa ad ogni atto di lettura, 2 impone di rinegoziare gli « effetti contrattuali », imprimendovi una forte torsione ossimorica : intercettare i bisogni di un’utenza ormai
potenzialmente di massa, senza rinunciare ad alimentare l’idiosincratico desiderio di
distrazione che il singolo coltiva in tacita solitudine.
Pirandello sa bene che all’ampiezza del pubblico cui l’opera è indirizzata corrisponde il profilo anonimo dei suoi compagni di viaggio : a differenza dei suoi predecessori
ottocenteschi, non può schizzarne i lineamenti neanche in controluce : il lettore non
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1  « [...] sono io in realtà il fondatore di una nuova provincia delle lettere e quindi libero di farci le leggi che
voglio. E queste leggi, i lettori miei, che io considero come i miei sudditi, son tenuti a ubbiderle e a crederci.
Tuttavia, affinché lo facciano prontamente e allegramente, li assicuro che terrò nella massima considerazione
la loro comodità e il loro vantaggio, perché io son ben lontano- diversamente da un tiranno jure divino – dal
supporre ch’essi siano miei schiavi o una mia merce. Anzi, son io che sono stato creato per il loro uso, non
loro per il mio. Però ho fiducia che, mentre procuro il loro interesse – che è la gran norma dei miei scritti –
essi concorreranno unanimemente a dare appoggio alla mia dignità e a rendermi tutti gli onori che merito o
desidero. » Henry Fielding, Tom Jones, Milano, Feltrinelli, 1964, p.41. Cfr. Giovanna Rosa, La lettura romanzesca e la « gran norma dell’interesse », in Libri per tutti. Generi editoriali di larga circolazione tra antico regime ed età
contemporanea, a cura di Lodovica Braida e Mario Infelise, Torino utet, 2010.
2  Vittorio Spinazzola, L’esperienza della lettura, Milano, Unicopli, 2010.
 
 
 
 
il patto narrativo del bibliotecario mattia
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si atteggia né ad amico confidente e neppure ad avatar cruccioso. Ecco allora che
per catturarne l’attenzione occorre potenziare la funzione fàtica e, sin dalle prime
sequenze, innescare il meccanismo della « curiosità » avvincente. 1
Il narratore sollecita i destinatari elettivi a entrare nel mondo di carta innanzitutto
in nome della comune sfida alla monotonia tediosa : da qui nasce l’iniziale elemento
di sintonia con il protagonista che, « tremendamente solo » e « mangiato dalla noja »,
trova conforto non nella compagnia degli altri e neppure nell’ultratradizionale dialogo con la natura, 2 ma nell’intimità oscura e appartata della biblioteca.
La « tragedia buffa » di Mattia « ci importa » 3 perché ci promette, con la stranezza di
un « caso diverso », di soddisfare l’ansia di sfuggire all’anonimato squallido della quotidianità – « gli uomini non sono mai stati così nojosi come adesso » (p. 371). L’impegno
di lettura, tuttavia, non è gratuito, anzi « costa » e non poco : quanto più i procedimenti
della retorica umoristica offrono a chiunque la chance di un’esperienza estetico-letteraria non banale, tanto più alto è il prezzo richiesto : come per lo sfaccendato narratore protagonista che, al termine del racconto, sempre più solo e in crisi di identità,
non sa che « frutto » cavarne.
La seconda Premessa filosofica delinea, con il consueto tono « aggressivo » (Debenedetti), lo sfondo di relativismo in cui avviene lo scambio.
L’imprecazione « Maledetto sia Copernico ! », se certo avvalora la condanna della miopia presuntuosa dell’antropocentrismo – « storie di vermucci sono le nostre »-, denuncia soprattutto la consapevolezza del tracollo dei paradigmi compositivi, retti da
norme pacificamente condivise. Quando Mattia ricorre all’invettiva per proclamare :
« non mi pare più tempo questo di scriver libri », Don Eligio dissente, e non a torto :
« Oh oh oh, che c’entra Copernico ! » (p. 368). Dal suo osservatorio, collocato entro un
sistema letterario ancorato ai modelli tradizionali, al reverendo sfugge l’impatto che
la crisi dei valori fine-ottocenteschi induce nel rapporto fra la « vita » e la « forma », per
adottare per un’unica volta la dittologia pirandelliana, molto abusata e troppo infida. 4
O, a meglio dire con l’Umorismo, fra la « macchina dell’universo » e l’« immagine » che il
romanzo ne offre per via inventiva. 5
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1  Boris Tomasesvskij ricorda : « l’interesse attira e l’attenzione tiene avvin­ti », Teoria della letteratura, cit,
p. 181
2  Esemplare il tragitto di andata e ritorno che Mattia compie dalla Biblioteca Boccamazza alla spaggia : alle
domande e pose melodrammatiche del protagonista, il mare risponde con voce umoristicamente bassa e prosaica : « Quando la testa mi fumava, chiudevo la biblioteca e mi recavo per un sentieruolo scosceso, a un lembo
di spiaggia solitaria. (…) vedevo quelle sabbie lì abbandonate ; gridavo con rabbia, scotendo le pugna :
– Ma perché ?, ma perché ?
E mi bagnavo i piedi.
Il mare allungava forse un po’ più qualche ondata, per ammonirmi :
“Vedi, caro, che si guadagna a chieder certi perché ? Ti bagni i piedi. Torna alla tua biblioteca ! L’acqua salata
infradicia le scarpe ; e quattrini da buttar via non ne hai.” » (pp. 412-13).
3  Come sempre la ricorrenza lessicale suggerisce, in antifrasi, la strategia compositiva pirandelliana : la
parodia degli incipit tradizionali si chiude con la domanda provocatoria di Mattia a Don Eligio : « e che volete
che me ne importi ? » p.370 ; mentre le letture di Romitelli sono così commentate : « O che poteva importare a
quell’uomo… che poteva importargli che… » (p. 409).
4  È da condividere il parere di Ferdinando Taviani : « Malgrado certa scolastica venerazione, non si può
proprio dire che saggi e studi di Pirandello abbiano lasciato una traccia significativa nel pensiero critico italiano del Novecento » La minaccia di una fama divaricata, Introduzione a Luigi Pirandello, Saggi e interventi,
cit., p. xvii.
5  « Uno dei più grandi umoristi, senza saperlo, fu Copernico, che smontò non propriamente la macchina
dell’universo, ma l’orgogliosa immagine che ce n’eravamo fatta » Luigi Pirandello, L’umorismo, cit, p. 944.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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giovanna rosa
L’affermazione del giovane bibliotecario « Copernico, Copernico, don Eligio mio,
ha rovinato l’umanità » 1 nasce non solo dalla presa d’atto dell’anomia insensata e « senza scopo », da cui si sentono minacciati tutti i lettori piccolo-borghesi, ma soprattutto dall’apprensione autoriale che la « noja » e gli « sbadigli » compromettano « irrimediabilmente » l’efficacia di una fiction indifferente alle attese del pubblico lontano e
sprovveduto. Per Mattia, non è più tempo di scrivere libri perché « le belle scoperte e
invenzioni » della scienza hanno reso inessenziali e poco interessanti le « notizie » che
riguardano gli umani vermucci e di cui la stampa dà quotidiano conto. La trottolinamondo si muove con frenesia sempre più convulsa, girando a vuoto, « senza saper perché, senza pervenir mai a destino » : impossibili le tragedie, inutili le vendette. La sfida
per chi scrive è davvero improba : la narrazione della « sequela di piccole sciocchezze »,
che capitano alla moltitudine vivente sul « granellino di sabbia impazzito », rischia di
apparire priva di attrattiva e soprattutto di « valore ». Basta la cronaca nera a offrirci,
con il tratteggio dei colori forti, il quadro delle « generali calamità » e delle « miserie
particolari ». La filippica contro Copernico sfocia in un paio di domande, rivolte a Don
Eligio e, insieme, a chi legge : « Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille ? Niente
(…) Chi ne parla più ? ». Al silenzio rimbombante in cui si perde l’informazione giornalistica di eventi più o meno drammatici, occorre ribattere con l’efficacia spregiudicata
della rappresentazione romanzesca. La prima replica è affidata direttamente alla voce
del bibliotecario, che promette di raccontare il suo « caso strano », dandocene « quanto
più brevemente » le « notizie necessarie ». La seconda, a distanza e a posteriori, si trova
nella doppia citazione che apre e chiude l’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia :
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il Signor Alberto Heintz, di Buffalo negli Stati Uniti, al bivio tra l’amore della moglie e quello di una
signorina ventenne […] (Vedere i giornali di New York del 25 gennajo 1921, edizione del mattino). […]
Ecco quanto si leggeva nel Corriere della Sera del 27 marzo 1920 :
L’omaggio di un vivo alla propria tomba 2
 
 
Il confronto ravvicinato e oppositivo con gli articoli di stampa, già esibito dai fondatori della nuova provincia romanzesca ai tempi dello « Spectator » o del « Tale ». 3 acquista
un’urgenza cogente agli inizi del Novecento e impone agli scrittori di fiction una reazione ancor più energica.
Da questa sfida nasce lo slancio affabulante di Mattia Pascal ; da qui germina il senso
umoristico dell’esperienza di scrittura di un io narrante che narra di sé, mettendo in
crisi la fonte stessa del racconto, e chiamando l’io leggente a condividerne sintonicamente le perplessità crucciose.
Dopo l’accusa al canonico polacco di aver inferto alla fantasia una ferita immedicabile, con un guizzo poco « filosofico » e molto inventivo, il bibliotecario invoca la
grazia della temporanea « distrazione » illusoria : le ultime battute di dialogo con Don
Eligio fissano la « condizione eccezionale » da cui il narratore s’appresta a rievocare la
sua balzana avventura ; la Premessa seconda si chiude con la rivendicazione spregiudicata di una demiurgia autoriale del tutto inaffidabile, accompagnata però subito da un
noi coinvolgente :
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1  Tutte le espressioni virgolettate, salvo indicazione, sono tratte dalla sequenza finale della Premessa seconda.
2  Avvertenza, p. 599 e p. 605.
3  « Poiché, se ogni buon autore sta nei limiti della probabilità, non è punto necessario che i suoi personaggi
o incidenti siano banali, comuni o volgari, come succede in ogni strada o casa, o come si legge nella cronaca
cittadina d’un giornale. » Henry Fielding, Tom Jones, cit., p. 280.
 
 
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il patto narrativo del bibliotecario mattia
Ebbene, in grazie di questa distrazione provvidenziale, oltre che per la stranezza del mio caso,
io parlerò di me, ma quanto più brevemente mi sarà possibile, dando cioè soltanto quelle notizie che stimerò necessarie.
Alcune di esse, certo, non mi faranno molto onore ; ma io mi trovo ora in una condizione
così eccezionale, che posso considerarmi come già fuori della vita, e dunque senza obblighi e
senza scrupoli di sorta.
Cominciamo. (pp. 371-72)
 
6. L’ossimoro dell ’ empatia straniante
Il « menu » esibito dal Fu Mattia Pascal, nella doppia cornice delle Premesse, regolando
la « distanza estetica » e la « temporanea volontaria sospensione dell’ incredulità », chiarisce la retorica degli effetti « umoristici » volti ad attivare il meccanismo, complementare e antitetico, di empatia straniante o straniamento simpatetico. Per l’articolazione
del patto, la figura dell’ossimoro denuncia il passaggio di secolo. La commistione
novecentesca dei generi e degli stili- « una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta
immaginare » (p. 405) orienta i dispositivi di lettura, ribaltandone la dinamica tradizionale. L’efficacia della bislacca avventura è tanto maggiore quanto più alto è il tasso di
criticismo empatico : il pubblico elettivo è composto da « chi soffre e ragiona (appunto
perché soffre) », 1 Allo scoppio del riso che colpisce, con superficiale avvertimento, un
comportamento contrario alle norme invalse – « una situazione socialmente anormale » – segue la riflessione che conduce, per via proiettiva, alla scoperta del nucleo
drammatico dell’io e delle dinamiche di realtà.
Sul piano della fenomenologia degli atti di lettura l’approfondimento identificativo
– perì bathous – 2 capovolge l’aggressività del comico dissolvente in empatia umoristica : l’efficacia paradossale della narrazione romanzesca sta nel risarcimento illusorio
di un’esperienza fruitiva tanto più distaccata e insieme immedesimativa quanto meno
incline ai vettori consueti del pathos melodrammatico e dello straniamento eccentrico.
Se, nelle Premesse, Mattia bibliotecario si premura di illustrare i prerequisiti del racconto – la biblioteca Boccamazza come cronotopo della scrittura e della lettura ; la
sottolineatura della condizione di « forestiere della vita » in cui si trova il narratore ;
l’invettiva anticopernicana a sancire il tracollo dei paradigmi rappresentativi comunemente condivisi ; spetta all’Avvertenza del ’21 spiegare la genesi dell’inedita pattuizione,
fondata sulla coppia ancipite di criticismo simpatetico (sun-paqos).
Quasi ad emulare, in provocatoria sfida, Don Alessandro, che dopo avere offerto
il modello del componimento misto di storia e invenzione, ne censurava la miscela,
Pirandello ritorna, « a distanza di circa vent’anni dalla prima pubblicazione » (p. 604), a
interrogarsi su una analoga e diversa commistione di materiali estetici ed extraestetici. L’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, se mira a controbattere ipotesi critiche più
o meno azzeccate, da Croce a Tilgher – e su quest’onda argomentativa gli studiosi
continuano a dissezionarla –, assolve innanzitutto una funzione postfatoria tesa a legittimare l’energia dialogica dell’opera di fiction che inaugura il xx secolo.
Lungi dal suonare giustificazione regressiva rispetto al saggio sull’Umorismo, la
postilla del ’21 ne conferma l’impianto compositivo e corrobora la retorica fruitiva
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1  Avvertenza, p. 602, l’altra citazione a p. 603.
2  Guido Guglielmi, Peri Bathous, in Idem, La prosa italiana del novecento, cit.
 
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giovanna rosa
inscritta nei capitoli iniziali del libro « buttato giù » da Mattia. Al pari dell’autore dei
Promessi sposi, anche Pirandello sa che in gioco non c’è tanto e solo una questione di
verisimiglianza, quanto piuttosto un problema di efficacia rappresentativa. 1 A suffragare questa ottica è stata l’esperienza teatrale che, seppur solo accennata nell’Avvertenza, ne illumina lo svolgimento di pensiero. 2 D’altronde, anche durante il dibattito ottocentesco, nei molteplici interventi a favore o contro il novel, il paragone
fra morfologie di genere poggiava su un’analoga preoccupazione. Ad essere messi
in campo dagli Scrupoli della fantasia sono, infatti, due postulati cruciali per la civiltà
romanzesca : da una parte, la funzione assolta dalla moderna epopea borghese entro
il sistema letterario post-classico, in opposizione sia al sublime tragico ed epico, sia
alla prosa quotidiana delle « notizie » senza « valore » ; dall’altra, la misura della distanza
estetica che rende ogni lettore contemporaneamente « una persona credula che ‘finge’ e uno scettico ». 3 Al pari dei fondatori della « nuova provincia », che vantavano la
« verità » delle loro storie, nell’atto stesso in cui si inoltravano negli universi di finzione, invocando la deliberata temporanea sospensione dell’incredulità ; così Pirandello,
teorizzatore del relativismo più scettico- « Maledetto sia Copernico »- legittima il rilancio novecentesco della narrativa d’invenzione, rimodellando l’inclinazioni fruitive dei
destinatari elettivi. Davanti ai processi comunicativi dominati dall’entropia rumorosa
e omologante in una società potenzialmente di massa, dove le notizie stupefacenti
appaiono sui giornali e il pubblico è composto da anonimi lettori piccolo-borghesi,
al romanziere spetta il compito di « escogitare » (p. 601) scene e personaggi tanto più
veri quanto più inverosimili, e viceversa. In fondo, è la stessa strategia retorica con cui
Mattia « costruisce », per forza di dettagli immaginosi, la vita di Adriano Meis « una vita
non realmente vissuta, ma colta man mano negli altri » (p. 454), incontrati per caso in
un girovagare senza meta. Così il curioso lettore accompagnerà l’io narrato nelle sue
molteplici bislacche avventure, assumendo l’osservatorio privilegato dell’io narrante
che, « fuori di chiave », si vede vivere : « essere un altro e godere nello stesso tempo del
proprio Sé ». 4 Come a teatro. Ma, unico spettatore in poltrona, giusta l’espressione di
Stendhal, chi legge un romanzo sa che ogni evento e personaggio è affidato non alla
« voce » o alle battute della recitazione, ma sempre e solo ad una progressione d’intreccio che si sviluppa lungo le pagine inchiostrare del genere della fiction.
Lo sappiamo bene – e Mattia si preoccupa di ribadirlo – che non è più tempo di scrivere libri ; e nondimeno, ci sono sempre, per nostra distrazione necessaria, « casi strani
e diversi » che vale la pena di raccontare e di seguire con criticismo lucido e insieme
appassionato. Le istruzioni per l’uso ci suggeriscono di atteggiarci a lettori curiosi e
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1  La seconda parte dell’Umorismo è tramata sin dall’esordio dalla contestazione di una definizione ontologica dell’umorismo « è difficilissimo dire che cosa sia veramente, perché esso ha infinite varietà e tantissime
caratteristiche…. » ; molto più funzionalmente opportuno interrogarsi sulle reazioni indotte dalla rappresentazione artistica del « sentimento del contrario » : « quello stato d’animo che il poeta voleva suscitare… quello
stato d’animo che l’autore ha voluto suscitare »p. 912 ; « ho bisogno innanzi tutto di sapere lo stato d’animo che
quella rappresentazione artistica vuol suscitare : lo saprò dall’impressione che ne ho ricevuto. Questo stato
d’animo, ogni qualvolta mi trovo innanzi a una rappresentazione davvero umoristica, è di perplessità : io mi
sento come tenuto tra due : vorrei ridere, rido, ma il riso mi è turbato e ostacolato da qualcosa che spira dalla
rappresentazione stessa. » cit., p. 916.
2  L’Avvertenza, con il titolo Gli scrupoli della fantasia, appare sull’ »Idea nazionale » il 22 giugno 1921 ; al mese
prima risale l’allestimento al Teatro Valle di Roma dei Sei personaggi in cerca d’autore
3  Wayne C. Booth, Retorica della narrativa, Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. 103.
4  Hans R. Jauss, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria, Bologna, il Mulino, 1987, pp. 84-85.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
il patto narrativo del bibliotecario mattia
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scettici, pronti a ridere delle altrui « sciagure » e, nel contempo, ad assumere la disposizione credula di chi, entrato nell’ « arruffio » « arzigogolato » (Avvertenza, p. 604) di
« certe follie » (p. 455), ne coglie riflessivamente le intime assillanti contraddizioni. Solo
l’impegno della « fantasia » è in grado di « riallacciare le fila » che intessono una trama
fatta di « cose sostanziali, minutissime inimmaginabili » (ibidem) ; e d’altronde, è grazie
agli ingranaggi di quel « macchinismo » « voluto » (Avvertenza, p. 604) che i labili confini
dell’io possono delinearsi e scomporsi su uno sfondo nebbioso e privo di lanternoni.
Il tragitto compiuto assieme al narratore, con cui condividiamo l’atteggiamento
di « forestiere della vita » ci ha procurato un ricavo di non poco conto : un « diversivo »
energetico di distrazione illusoria che non concede, però, alcuna catarsi, né tragica né
melodrammatica. Al termine ci resta solo il sorriso amaro e crudele di chi ha capito
che « sì, niente, insomma » ; ovvero, il riconoscimento dolente che l’individualismo,
cardine della civiltà urbano-borghese e cifra peculiare della sua moderna epopea, non
solo è privo di ogni fondamento ontologico, ma è messo a dura prova dai processi albali di anonimato squallido e spersonalizzante : le dinamiche di banalità omologatrice
che, in un’incipiente società di massa, colpiscono soprattutto i ceti piccolo-borghesi
non permettono né fughe né vendette, e, a quest’altezza cronologica, neanche vitalistiche regressioni. Nella riformulazione del rapporto fra l’io e gli altri, fra pubblico e
privato, tra res collettiva e intimità domestica, il grumo nevrotico dello « sfaccendato »
senza famiglia si rapprende, senza sciogliersi, nel pathos umoristico di « risate omeriche » e magoni di pianto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
7. « Io butto giù come vien viene »
 
 
Nell’orizzonte della modernità del xx secolo, la strategia compositiva e retorica fondata sul « sentimento del contrario » tanto più corrode e ribalta i procedimenti narrativi dell’arte dello sbadiglio quanto più aggira, con tecnica agguerrita, le tante trappole che gli « scrupoli della fantasia » disseminano lungo il percorso romanzesco. Se il
primo intento autoriale è incuriosire l’io leggente, distraendolo senza farlo cadere nel
gorgo obnubilante della smania « divoratrice » di libri, che rovina non solo gli occhi,
ma la vita di coloro che, come il Balicci, si chiudono al mondo ; ancor più vincolante per Pirandello è il secondo impegno : demistificare l’ammaliamento di parole con
cui una « categoria di scrittori » crede ambiziosamente di fronteggiare il grigiore prosastico delle notizie senza valore della cronaca quotidiana. Siamo all’ultimo paletto
orientatore che il narratore, prima di immergersi nel racconto e assecondarne la progressione d’intreccio, offre al suo pubblico elettivo.
Dopo la descrizione del quadro familiare e della stagione adolescenziale, giunto in
prossimità del matrimonio con Romilda, Mattia arresta il tempo diegetico, per interloquire nuovamente con Don Eligio. Nella sequenza finale del terzo capitolo, La casa
e la talpa, ci ritroviamo nell’abside della chiesetta sconsacrata : e, come nelle Premesse,
i consigli emulativi del reverendo sono rigettati con uno sbuffo irriverente :
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
– S’io fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima leggermi qualche novella del Boccaccio o del
Bandello. Per il tono, per il tono…
Ce l’ha col tono, Don Eligio. Auff ! Io butto giù come vien viene.
Coraggio, dunque ; avanti ! (p. 382).
 
 
 
Nessuna sorpresa per l’invito a procedere senza indugi, né, tanto meno, per la mossa
recisa di smarcamento dalla tradizione. Se l’abrasione della modellistica classica è or-
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giovanna rosa
mai consumata, la ricorrenza insistita sul « tono » chiarisce, nel passaggio al iv capitolo, Fu così, 1 un’ultima specifica funzione del patto narrativo. Per un verso, quell’« avanti ! », con tanto di esclamativo, ci segnala che il racconto avanzerà spedito, senza più
intoppi e pause dialogiche ; per l’altro, il brutale « Io butto giù come vien viene » suggerisce i timbri antiletterari e spigliati, al limite della goffaggine, su cui l’opera viene
intonata.
Mattia sta cominciando a sperimentare quello « stile di cose » che, contrapposto allo
« stile di parole », è il fulcro della celebre conferenza su Giovanni Verga, tenuta al Teatro
Bellini nel 1920, l’anno prima dell’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia. 2 L’impegno di
scrittura del giovane Pascal che rievoca il suo strano caso non solo smonta e rimodella
in antifrasi le passate morfologie di genere, ma punta con altrettanto vigore a erodere
le cadenze raffinate della più suadente prosa coeva : e con il consueto compiacimento
umoristico, il narratore affida al montaggio di sequenze binarie e al diagramma delle
figure in coppia il compito di illustrare la sua ambiziosa opzione espressiva.
Poco prima dello stacco tipografico che ci riconduce nel tempo-spazio della Biblioteca Boccamazza, Mattia aveva sbeffeggiato la « disciplina » e il « metodo » con cui il
« precettore » scelto dalla madre aveva educato lui e il fratello Berto. Il ritratto di Pinzone, tratteggiato con le linee piatte del comico grottesco, ricorda la malizia divertita
con cui Carlo Dossi schizza il profilo del professor Proverbio nel secondo episodio
dell’Altrieri, Panche di scuola. Ma se là ad esser colpita era l’ignoranza crassa, « le sequipedali baggianate », di un buzzurro direttore di collegio, qui lo scherno antiumanista irride l’« erudizione curiosa e bislacca » di un insegnante « dottissimo in bisticci » :
« conosceva la poesia fidenziana e la maccaronica, la burchiellesca e la leporeambica,
e citava allitterazioni e annominazioni e versi correlativi e incatenati e retrogradi di
tutti i poeti perdirgiorni, e non poche rime balzane componeva egli stesso » (pp. 37879). La censura al campionario dei generi cari ai letterati perdigiorno non potrebbe
essere più beffarda ; ma ad acuire la corrosione perfida è il commento ulteriore sulle
trascrizioni di poesie che Pinzone ama collezionare « con inchiostro tabaccoso in un
vecchio cartolare dalle pagine ingiallite » (ibidem). Nel gioco del parallelismo attanziale, sempre sotteso al récit del Fu Mattia, il valente precettore si accoppia al rimbecillito
Romitelli : 3 in entrambi a prevalere sono le pose e i gusti antiquari, che si sposano con
l’inclinazione a leggere a voce alta. È qui che scatta la pointe di provocante dileggio :
« Mi pare di vederlo ancora, nell’atto di recitare, spirante delizia da tutto il volto, con
gli occhi semichiusi, facendo con le dita il chiocciolino » (p. 380).
Alla figura dell’ipotiposi che esalta l’actio dell’antica oratoria affidata alla sonorità
per l’orecchio, il bibliotecario Mattia contrappone, poche pagine dopo, il « tono » di
una prosa buttata « giù come vien viene », dal « carattere determinatamente libresco » : 4
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1  È uno dei molti titoli orientativi dei capitoli del Fu Mattia Pascal : il tempo di primo piano e l’avvincente
avverbio prolettico accelerano il ritmo narrativo che non sarà più interrotto.
2  Luigi Pirandello, Giovanni Verga, Discorso al Teatro Bellini di Catania, nell’ottantesimo compleanno dello
scrittore, (settembre 1920).
3  La sintonia di coppia è confortata dai dettagli e dalle sfumature coloristiche : anche Romitelli « s’infrociava
una grossa presa di tabacco », mettendo in mostra « i suoi denti gialli » p. 408.
4  In un primo sintetico abbozzo di teoria della prosa, Ejchenbaum offre un’utile distinzione : « Da questo
materiale descrittivo dei costumi e della psicologia si sviluppa il nuovo romanzo dell’ Ottocento : il romanzo
di Dickens, Balzac, Tolstoi, Dostoevskij [dal] carattere determinatamente libresco » ; accanto vive « il romanzo
che risale al modello avventuroso, ora sotto le spoglie della « storia » (W. Scott), ora servendosi delle forme
del linguaggio oratorio, oppure sviluppando una particolare narrazione lirica o « poetica » (V. Hugo) » in cui
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
il patto narrativo del bibliotecario mattia
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lo stile specifico della fiction e della sua fruizione intima, muta e solitaria. Composta
per l’occhio, 1 per far « vedere » le cose e i personaggi, la narrazione di Mattia ha un andamento affatto antitetico alle cadenze liricizzanti, ultracolte di chi predilige lo « stile
di parole ». Dal Discorso al Teatro Bellini :
 
 
 
 
 
 
Là, insomma, per aprire davanti a noi in una più vasta veduta letteraria due lineamenti ben distinti e quasi paralleli lungo tutto il cammino della nostra storia artistica, là uno stile di parole,
qua uno stile di cose (…) Negli uni la parola che pone la cosa e per parola non vuol valere se
non in quanto esprime la cosa, per modo che fra la cosa e il lettore che deve vederla, essa, come
parola, sparisca, stia lì, non parola, ma la cosa stessa. Negli altri, la cosa, che non tanto vale per
sé quanto per come è detta, e appar sempre il letterato che vi vuol far vedere com’è bravo a
dirvela, anche quando non si scopra. 2
 
Nella famosa antitesi espressiva che contrappone Verga a D’Annunzio, ciò che conta
è il richiamo esplicito alla retorica degli effetti : nello stile di cose, protagonista è il
lettore che, grazie alla trasparenza delle scelte espressive, « vede » ciò che il narratore
rievoca « buttando giù come vien viene » ; nel secondo, in primo piano balza il letterato
che, forte del proprio narcisismo autogratificante, concentra sulla parola tutta la sua
ars scribendi.
Con un’ultima conclusiva precisazione : quel verbo « vedere », tanto ricorrente nella
scrittura narrativa pirandelliana e su cui molti studiosi hanno richiamato l’attenzione, 3 poco ha a che fare con il radicale di presentazione della spettacolarità teatrale,
suggerisce piuttosto una tendenza predominante nel ritmo continuo della fiction : opsis vs melos. 4
Per l’autore del Fu Mattia Pascal, la primazia irriducibile dello stile di cose che, grazie alla costruzione da dentro, invera nuove forme di realismo, 5 aveva la funzione
primaria di rinsaldare i fondamenti della civiltà romanzesca in nome dei principi della
leggibilità, contro le norme neo-auratiche della letterarietà maliosa, il cui prototipo
esemplare era appunto l’autore del Piacere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
« viene mantenuto il contatto con la pronuncia, che si orienta però verso la declamazione, e non verso la
narrazione » Boris Ejchenbaum, Teoria della prosa, in I formalisti russi, a cura di Tzvetan Todorov, Torino,
Einaudi 1968, p. 235-236.
1  Senza voler forzare i nessi della dispositio va, tuttavia, sottolineato che il ritratto di Pinzone si chiude con
l’accenno fatto per la prima volta agli occhiali che Mattia indossa contro lo strabismo. p. 381.
2  Luigi Pirandello, Giovanni Verga, Discorso al Teatro Bellini…, in Saggi e interventi, cit., p. 1010.
3  Cfr il saggio di Maria A.Grignani, op. cit.
4  « è evidente che la distinzione tra i generi è basata, in letteratura sul radicale della presentazione. Le
parole possono essere recitate di fronte ad uno spettatore, dette ad un ascoltatore, cantate o declamate, scritte
per un lettore. » Northop Frye, Anatomia della critica, Torino, Einaudi, 1969, p. 328. L’antitesi fra opsis e melos
è teorizzata nel capitolo dedicato a Il ritmo della continuità : la prosa, ivi, pp. 356-57.
5  « E lì, dunque una costruzione da dentro, le cose che nascono e vi si pongono innanzi, sì che voi ci camminate in mezzo, vi respirate, le toccate : terra, pietre, carne, quegli occhi, quelle foglie, quell’acqua ; e qua una
costruzione da fuori, le parole dei repertori linguistici e le frasi che vi sanno dir queste cose, e che alla fine,
poiché ci sentite la bravura, vi saziano e vi stancano. » Giovanni Verga, cit, p. 1010.