Ipermodernità - Ludwig von Mises Italia
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Ipermodernità - Ludwig von Mises Italia
"IPERMODERNITÀ", OVVERO: L'OCCIDENTE VERSO LA CATASTROFE ECONOMICA I sociologi, incuriositi dalle trasformazioni sociali sempre più rapide e profonde che si trovano a studiare, hanno coniato prima il termine riassuntivo di postmodernità (applicato al periodo 19702000 ca.), poi quello di ipermodernità, che sottolinea l'aspetto di eccesso e si riferisce, sempre grosso modo, a quest'inizio di millennio. Occorre riconoscere che la loro indagine sui fenomeni è riuscita a produrre una buona descrizione e a individuare molti nessi causali corretti; sfortunatamente, è loro mancata una retta comprensione del ruolo centrale giocato dalla moneta e, spesso, una formazione di impronta keynesiana o, peggio, socialista ha distorto la loro lettura dei processi economici, altrimenti (va detto) piuttosto precisa. Questo non è e non vuol essere un saggio di sociologia: non ambisce affatto a spiegare il mondo intero. Si limita a spiegare, fin dal titolo, quel che l'ipermodernità significa in campo economico. Naturalmente, la tesi che sostengo può sembrare troppo pessimista; ma temo che l'analisi storica la confermi, una volta assegnato il giusto peso ad alcuni dei fattori determinanti le trasformazioni che, giustamente, hanno destato tanto interesse in sociologia: anzitutto, il meno noto in assoluto, il mutamento che ha investito il cardine dell'economia moderna (nonché post- e ipermoderna), la moneta; la stagflazione e le sue conseguenze sulla struttura produttiva; la parallela esplosione dell'investimento finanziario - più conveniente di quello produttivo (almeno in apparenza) – e quindi del debito, un debito che si assume destinato ad un rinnovo perpetuo, come dire a non essere onorato mai; la «globalizzazione, ossia l'eliminazione delle barriere al libero commercio e la maggiore integrazione tra le economia nazionali»1 (), che, insieme con la libera circolazione dei capitali, formano gli aspetti realmente controversi di un più ampio "fenomeno" globalizzatorio;2 la configurazione del mercato del lavoro, appunto, come mercato al pari degli altri e, pertanto, del lavoro stesso come merce; lo sviluppo della telematica, che fa saltare i consueti riferimenti spaziotemporali, consentendo di lavorare sullo stesso progetto, "in tempo reale" o quasi, anche a persone distanti, fisicamente, migliaia di chilometri; la conseguente rivoluzione delle prassi delle imprese, prima ancora che del diritto del lavoro, il quale si limita a seguire e recepire, spesso timidamente e a distanza, quel che già avviene nei fatti. Sebbene questa scelta imponga una certa sintesi, credo che le interazioni tra i suddetti fattori si colgano meglio in una ricostruzione (diacronica e) unitaria degli eventi, che ho tentato di delineare nel prosieguo. Dalla fine del gold standard al sistema di Bretton Woods (1914-1944) «Su tutta Europa le luci si stanno spegnendo; non le vedremo mai più riaccendersi in vita nostra.». La frase pronunziata da Sir Edward Grey, Ministro degli Esteri dell'Impero Britannico, la sera del 3 agosto 1914, in attesa che scadesse l'ultimatum da lui stesso inviato alla Germania del Kaiser e le 1 2 STIGLITZ 2002, Prefazione, p. ix. Peraltro non nuovo: sotto il pur fuorviante titolo di «mondializzazione della concorrenza», ATTALI 2011, pp. 152156, descrive l’estensione della cooperazione internazionale, tra il 1850 e il 1914, a settori che vanno dalla conoscenza (Premio Nobel) allo sport (Olimpiadi, Federazioni internazionali) e riporta altresì - cfr. pp. 161-162 – una dichiarazione di Sir Ralph Angell, che, nel 1914, definisce i loro frutti addirittura “Stato-mondo”. Potenze europee si trovassero tutte in guerra,3 ben si addice (anche) all'impatto dell'evento sull'economia mondiale. In quel momento, il commercio internazionale prospera, grazie all'assenza quasi totale di barriere doganali e alla stabilità nei cambi, conseguenza del fatto che tutte le valute sono ancorate ad una parità aurea;4 in un mondo che condivide, di fatto, una stessa moneta-merce, l'oro (con un qualche ruolo residuo per l'argento), anche la circolazione dei capitali è notevolmente agevolata, né si ha ragione di opporle ostacoli di sorta. Il mondo del lavoro è dominato da un'industria pesante giunta alla maturità, dove la catena di montaggio, già intravista da Adam Smith nel futuro della produzione (Sennett 1999), è una realtà e si accinge a dar vita al vero e proprio fordismo. Nello stesso tempo, la profezia socialista di un impoverimento continuo del proletariato, di un crescendo inarrestabile della sua spoliazione, ha ricevuto una sonora smentita. Nell'arco temporale 1873-1896, 5 la deflazione conseguente alla progressiva demonetizzazione dell'argento ha giovato non poco alle fasce deboli; inoltre, le associazioni sindacali, dapprima considerate illegali, si sono via via affermate e contrattazione collettiva, giornata lavorativa di otto ore, assicurazione obbligatoria sono ormai sancite dai fatti o dalla legge.6 Delle grandi Potenze, solo la Russia zarista sembra tuttora impermeabile alle conquiste sociali che, nel resto d'Europa, fan credere esorcizzato per sempre lo spettro della Rivoluzione. Ma la Grande Guerra spazza via in un lampo l'integrazione economica planetaria, per quanto già sviluppata e raffinata:7 scomparse le parità auree in tutti i Paesi belligeranti, che si danno a finanziar l'enorme spesa bellica semplicemente stampando il denaro necessario (nell'unica forma utilizzabile all'uopo, la cartamoneta inconvertibile); sconvolta la struttura produttiva delle singole nazioni; defluite le riserve d'oro verso gli Stati Uniti, grande fornitore di materiale bellico e unica grande potenza che abbia conservato il gold standard; stravolto il commercio internazionale, monopolizzato dalle esigenze belliche e impedito, per gli Imperi Centrali, dal blocco navale britannico, per la Russia, dall'impossibile passaggio dei Dardanelli. A conflitto terminato, il ripristino dello status quo ante si rivela semplicemente impossibile: esplode la perdita di potere d'acquisto delle monete, conseguente alla stampa illimitata di cartamoneta; le gravissime tensioni sociali sfociano in moti rivoluzionari da un capo all'altro d'Europa, oltre, naturalmente, all'instaurazione del socialismo reale in un Paese che Marx avrebbe senz'altro giudicato inadatto, la Russia; la ripresa del commercio internazionale risente dell'impossibilità di ripristinar la parità aurea;8 le economie dei Paesi neutrali sono profondamente mutate, adeguandosi all'interruzione dei traffici normali, e molti di loro hanno innalzato barriere doganali a protezione delle industrie nascenti; in più, tutti gli Stati usciti dal conflitto, vincitori o vinti che siano, si trovano schiacciati dal peso dei debiti esteri contratti, per forniture belliche i primi, per danni di guerra i secondi.9 L'esplosione della crisi economica mostra, inoltre, che la libera circolazione dei 3 4 5 6 7 8 9 In B. TUCHMAN, I cannoni di agosto, Garzanti, Milano 1963, p. 151. Del gold standard come di un’«istituzione informale», non frutto di un’organizzazione né di un accordo esplicito – come invece l’Unione Monetaria Latina - parla ATTALI 2011, pp. 136-139. Cfr. J.G. HÜLSMANN (2008), pp. 67-69. Inoltre, non va dimenticato che al socialismo c.d. "riformista" si affianca il movimento operaio cattolico, di cui l'Enciclica Rerum Novarum promuove la nascita, affermando, tra l'altro, l'indisponibilità, da parte del contraente lavoratore, di quel minimo retributivo necessario ad assicurare un'esistenza dignitosa – comprensiva di una certa capacità di risparmio – a lui e alla famiglia. ATTALI 2011, p. 204, definendo «seconda “globalizzazione”» quella divenuta possibile con la caduta del Muro, afferma: «Si chiude così la parentesi aperta con la prima guerra mondiale, che aveva dato una violenta battuta d’arresto alla marcia plurisecolare verso la mondializzazione.». In altri termini, impliciti ma chiari, la “prima” globalizzazione, per l’economista francese, è quella ante 1914 La Conferenza di Genova del 1922 adotta, comunque, un nuovo regime monetario internazionale, il gold exchange standard, che prevede la piena convertibilità aurea solo per dollaro e sterlina, cui le altre valute sono ancorate (In proposito, v. i rilievi critici di RUEFF 1972, pp. 15-35: un sistema del genere, di fatto, estende al commercio internazionale e alla circolazione dei capitali, che fino ad allora richiedevano trasferimenti fisici d'oro, gli inconvenienti dei mezzi fiduciari e della riserva frazionaria). Il sistema entra pienamente in funzione nel 1925, quando l'Inghilterra ripristina la parità aurea antebellica; ma salta nel '31, allorché la Bank of England è costretta a sospendere la conversione, perché il panico conseguente alla crisi ne sta depauperando le riserve auree. Dal 1919 al 1932, la sistemazione del debito – in particolare, ma non solo, di quello tedesco - resta ai primi posti capitali, tanto benefica quando l'oro era l'unica valuta internazionale, riserva brutte sorprese quand'esso è rappresentato da cartamonete la cui convertibilità può venir meno: mentre risorge il protezionismo, nasce il controllo sistematico sui movimenti di valuta. E se negli anni Venti poteva sembrare che il futuro del lavoro consistesse nel comunismo di marca sovietica, oppure nel corporativismo dell'Italia fascista, la Depressione porta con sé il New Deal e le politiche di "piena occupazione". La macroeconomia keynesiana, incentrata sull'incapacità dei mercati di autoequilibrarsi e il necessario interveno dello Stato, entra in scena nel 1936 e, complice anche la rispondenza allo Zeitgeist, conquista rapidamente le Università. L'età di Keynes e di Bretton Woods (1944-1971) La Seconda Guerra Mondiale sovverte completamente lo scenario geopolitico, offrendo agli Stati Uniti – che emergono come potenza egemone rispetto ad un'Europa in rovina – l'opportunità di progettare un nuovo ordine (economico) mondiale, volto ad eliminare i tre grandi mali del periodo interbellico: volatilità dei cambi, barriere doganali10 (e nazionalismo economico in genere), squilibri eccessivi nella bilancia dei pagamenti. I rappresentanti delle Nazioni Unite,11 riuniti a Bretton Woods, vedono un solo mezzo adatto ad evitarli: la cooperazione internazionale, affidata al governo di istituzioni create ad hoc. Nascono, così, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Al primo compete la gestione del nuovo gold exchange standard, quindi delle parità che ciascuno Stato membro manterrà con il dollaro, che, rimasto unica valuta convertibile in oro, 12 si avvia a diventare la moneta del mondo interno, la "liquidità internazionale" per antonomasia);13 inoltre, per ovviare a squilibri temporanei nella bilancia dei pagamenti, gli Stati medesimi potranno attingere alle riserve del Fondo, autorizzato a concedere prestiti a breve termine (per un massimo di tre anni).14 Gli interventi strutturali spettano, invece, alla Banca mondiale;15 e in tale sede, «perfino 10 11 12 13 14 15 nell'agenda politica internazionale; rilevata l'impraticabilità politica del rimedio più semplice, la compensazione multilaterale, si costituisce anche la Banca per i Regolamenti Internazionali (BRI, tuttora esistente; cfr. ATTALI 2011, p. 177), con il compito di gestire i flussi dei pagamenti tra gli Stati. Anche l’Unione federale europea, proposta alla SDN da Briand e Stresemann nel Settembre 1929, avrebbe dovuto «inizialmente prendere decisioni di ordine economico, “perché è la questione più pressante”» (Ibid., pp. 173-174), ma, proprio in quell'anno, scoppia la grande crisi, che, a suo modo, risolve il problema, imponendo una sospensione generalizzata dei pagamenti. Il libero scambio è uno dei quattro princìpi su cui si fondano i Quattordici punti di Wilson: ATTALI 2011, p. 166. L'espressione designava, allora, i membri della coalizione alleata, il cui riferimento ideale era la Carta Atlantica (che contiene anche princìpi economici): l'Organizzazione delle Nazioni Unite viene fondata solo l'anno seguente, il 29 Aprile 1945. Cfr. ATTALI 2011, pp. 181-187. Ma solo per i saldi dei Governi stranieri, al tasso fisso di 35 dollari l'oncia fissato da Roosevelt nel 1934. V. amplius RUEFF (1972), pp. 61-116. Per questo il Fondo è controllato dagli europei: questo potere di gestione del sistema è la contropartita che rende politicamente accettabile l'affermazione della supremazia statunitense nel sistema valutario. STIGLITZ 2002 sostiene che il Fondo avrebbe ricevuto anche il compito di promuovere una politica internazionale di sostegno alla domanda aggregata, fungendo anche da "gruppo di pressione", e che così l'avrebbe concepito lo stesso Keynes; ma gli scopi istituzionali del FMI si limitano – come da Statuti – alla promozione di stabilità cambiaria e commercio internazionale, gli Stati non assumono obbligo alcuno in ordine alla domanda aggregata e, soprattutto, i crediti a breve del Fondo sarebbero strutturalmente inadatti ad una politica anticiclica. Semmai, una lettura "keynesiana" del sistema di Bretton Woods porterebbe a concludere che, delle due "leve" cui l'economista di Cambridge affida la correzione degli squilibri economici, quella degli investimenti sta nelle mani della Banca mondiale e che il Fondo gestisca quella monetaria; ma con un caveat importante, perché Lord Keynes, a Bretton Woods, ha visto respinto il proprio grandioso progetto di una cartamoneta mondiale, il bancor (cfr. ATTALI 2011, pp. 184-185), da lui propugnata perché assai più facile a manovrarsi delle parità auree. Infine, quanto al ruolo di "gruppo di pressione", per cui lo Statuto non gli attribuisce i mezzi, il Fondo lo ha bensì sviluppato (in via di prassi), ma, notoriamente, in favore di politiche non keynesiane. Il cui nome ufficiale, infatti, è Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. Anche per questo, non appaiono condivisibili le considerazioni di STIGLITZ 2002, p. 11: «Nato sul presupposto che i mercati spesso funzionino male, ora sostiene con fervore ideologico la supremazia del mercato. Costruito sul convincimento che occorre esercitare una pressione internazionale sugli stati affinché adottino politiche economiche più espansive – aumentando per esempio le spese, riducendo le imposte oppure abbassando i tassi di interesse per stimolare l'economia – oggi l'FMI tende a fornire i fondi solo ai paesi che si impegnano a condurre politiche volte a contenere il deficit, ad aumentare le tasse oppure ad alzare i tassi di interesse e che pertanto conducono ad una contrazione dell'economia.». negli anni in cui imperava l'ideologia del libero mercato [sic!], spesso si discuteva di quali potessero essere le politiche più idonee per risolvere i problemi di un determinato paese.».16 La stessa esistenza di due istituzioni pone un problema di rapporti reciproci; e, dopo un iniziale riparto di compiti,17 si instaura, nella prassi, una netta supremazia del Fondo.18 Invece, la promozione del libero scambio, obiettivo condiviso dalle Nazioni Unite, dovrebbe spettare ad una terza istituzione, l'Organizzazione Internazionale del Commercio (ITO); ma l'accordo istitutivo19 non ottiene la ratifica del Congresso degli Stati Uniti, timoroso di perdere la sovranità sulla politica commerciale, sicché si deve prorogare l'accordo-ponte - il GATT, General Agreement on Tariffs and Trade20 - raggiunto per ottenere i primi risultati concreti, in vista del varo della nuova organizzazione. Perciò, i progressi del libero scambio, negli anni e decenni successivi, sono scanditi dalle tornate negoziali che conducono a modifiche del GATT:21 così prende il via un aspetto fondamentale della globalizzazione. Ma solo il 1 Gennaio 1995 entrerà in funzione il nuovo ente preposto al suo governo, l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).22 Invece, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) riveste, fin dall'inizio (1948), un ruolo marginale: la mobilità transfrontaliera dei lavoratori, in quel momento, non è sentita come un problema;23 l'uniformità del loro trattamento giuridico, pur avvertita come ideale (e utile strumento per prevenire forme di dumping sociale, o concorrenza al ribasso sui diritti), resta impercorribile, data la spaccatura del mondo in due blocchi. Così, mentre un numero via via crescente di Paesi 16 17 18 19 20 21 22 23 STIGLITZ 2002, p. 13. Va detto che l'A. ha lavorato a lungo presso la Banca mondiale... Poco sensato anche secondo la Teoria Generale di Keynes: le due leve debbono agire di concerto. E, in ogni caso, è indubbio che gli effetti delle politiche di intervento non possano essere circoscritti a determinati settori mediante compartimenti stagni, sicché un coordinamento tra le due istituzioni si imponeva; e, vista l'impossibilità di adottare a priori un criterio di soluzione valido per tutti i potenziali conflitti futuri, il loro esito non poteva che essere rimesso all'esame del caso concreto e, soprattutto, al gioco dei rapporti di forza. La supremazia del FMI è confermata, d'altra parte, anche da una visibilità mediatica ben superiore alla Banca mondiale. Al riguardo, scrive STIGLITZ (2002), p. 13, «Inizialmente, c'era stata una divisione dei compiti. Nei rapporti con un determinato paese, l'FMI doveva limitarsi a questioni di macroeconomia, debito pubblico, politica monetaria, inflazione, deficit commerciale e debito esterno, mentre la Banca mondiale si sarebbe occupata delle questioni strutturali – in che cosa investiva il governo, le istituzioni finanziarie del paese, il mercato del lavoro, le politiche commerciali. Ma l'FMI adottò una visione piuttosto imperialistica del proprio ruolo; dal momento che quasi tutte le questioni strutturali potevano pregiudicare i risultati complessivi dell'economia e, di conseguenza, il bilancio dello Stato o il deficit commerciale, riteneva che praticamente tutto fosse di sua competenza.». Noto come Carta de L'Avana, elaborata tra il 1946 e il '47, sottoscritta da 53 Paesi il 24 Marzo 1948. La logica di fondo era la stessa di Bretton Woods: alle posizioni degli economisti classici, che propugnavano l'eliminazione pura e semplice delle barriere doganali e delle misure protezioniste in genere, si sarebbe sostituita un'istituzione ad hoc, con il compito, più modesto, di promuoverne la rimozione graduale. Siglato a Ginevra da 23 Paesi, il 30 Ottobre 1947. Lo stesso nome - p.es. Uruguay Round – designa, peraltro, sia la tornata negoziale (e deriva, in genere, dal luogo in cui essa si è aperta), sia il Trattato conclusivo. anche il frutto di tali trattative, cioè il trattato conclusivo. I primi round (Ginevra, Annecy, Torquay, 1948-51) si sono risolti in successive riduzioni delle tariffe per prodotti specifici, ma il quarto (Ginevra 1956) ha convolto anche i Paesi in via di sviluppo (la conferenza di Bandung risale all’anno precedente), definendo le strategie per la progressiva apertura dei loro mercati. Dopo un'altra tornata di riduzioni specifiche (Dillon Round, 1960-61), il salto di qualità si è avuto con il Kennedy Round (1964-67), che ha coinvolto 62 Paesi – il massimo precedente erano i 38 di Torquay – e portato alla prima riduzione generale, peraltro accompagnata da misure anti-dumping, respinte dal Congresso USA. Il successivo Tokyo Round (1973-79, 102 Paesi) è passato ad occuparsi anche delle barriere non tariffarie e l'ultima tornata negoziale conclusa con successo, l'Uruguay Round (1986-94), oltre a coinvolgere i servizi e il settore della proprietà intellettuale (accordo TRIPs), ha trasformato l'organizzazione di fatto – anch'essa denominata GATT, nata per gestire i round, ma, fino ad allora, mai divenuta soggetto di diritto internazionale – nell'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). «La prima e unica istituzione veramente sovranazionale, almeno relativamente ai contenziosi [sul commercio internazionale]: tribunali ad hoc, allestiti dall’organo di regolamento delle vertenze, […] permettono di decidere se un paese è in buona fede quando invoca ragioni specifiche per giustificare una distorsione o una deroga alla concorrenza. Questi tribunali, realmente sovranazionali, ai quali è del resto successo di condannare gli Stati Uniti, sono essenzialmente al servizio di un libero scambio in funzione soprattutto dei paesi più forti. Inoltre, sono ancora poco efficienti: su 418 vertenze messe a registro, solo 86 sono state regolate o archiviate.». ATTALI 2011, pp. 231232. Riguarda, d'altronde, soprattutto gli Stati Uniti, in qualitò di beneficiari; e, per la superpotenza, gestire flussi migratori è un'abitudine consolidata. sperimenta il collettivismo di impronta sovietica, il Primo Mondo conosce decenni di prosperità crescente, in cui si afferma un modello sociale ben preciso, che può definirsi "fordistakeynesiano":24 "fordista" non tanto per l'impiego su vasta scala della catena di montaggio, o del taylorismo come metodo di divisione del lavoro, ma per «la sua visione, il suo esplicito riconoscimento del fatto che produzione in serie significasse consumo di massa», "keynesiano" perché «Doveva essere ideato un nuovo modo di regolazione per soddisfare le esigenze della produzione fordista [...]. La crisi era vista fondamentalmente come assenza di domanda effettiva di prodotti».25 Il sistema viene, quindi, a reggersi su un «rapporto di forze, teso ma tuttavia saldo, fra la forza lavoro organizzata, il capitale delle grandi aziende e lo stato nazionale», in cui i sindacati ottengono il riconoscimento di un certo potere, che consiste nello «scambiare aumenti salariali reali con la cooperazione nell'indurre i lavoratori ad accettare il sistema produttivo fordista»;26 le grandi imprese assicurano un regolare incremento degli investimenti (quindi di domanda e produttività), votandosi alla pianificazione "scientifica" e generale, anche nel marketing; lo Stato mantiene, a sua volta, stabile la domanda – presupposta dagli investimenti – tramite politiche anticicliche, agevola in vario modo il raggiungimento degli accordi salariali e assicura benessere sociale tramite una serie di servizi (Welfare State nell'accezione più ampia). «Il fordismo postbellico deve essere visto, quindi, non tanto come un semplice sistema di produzione in serie quanto come uno stile di vita»,27 dove la standardizzazione di prodotti ed esistenza si presta, certo, alla denunzia beffarda della Pop Art, ma, d'altro canto, ciascuno può ottenere una buona dose di stabilità e certezze: ogni lavoratore conosce le proprie mansioni, sa che resteranno, pressapoco, le stesse per tutta la sua carriera (salvi gli effetti, comunque prevedibili. delle promozioni);28 può contare su una data certa per il pensionamento e attendersi una buona qualità della vita per la vecchiaia... per non parlare del fatto che, non appena un contratto di lavoro è siglato, entrambe le parti sono consapevoli che – al netto di eventi del tutto eccezionali – si è instaurato un rapporto che durerà per tutta la vita lavorativa del dipendente. Insomma, la contropartita è tale da assicurare al sistema un ampio consenso sociale (pur non unanime).29 Questo è tuttora l'orizzonte mentale in cui si muovono partiti politici e opinione pubblica dell'Occidente: il paradigma culturale è sopravvissuto di una generazione almeno al tramonto della realtà economica corrispondente. Tramonto, peraltro, inevitabile. «Il lungo boom del dopoguerra dipendeva fondamentalmente da una massiccia espansione del commercio internazionale e dei flussi degli investimenti internazionali», in modo che sempre nuovi lavoratori e merci sempre nuove venissero attratti nel circuito dell'Occidente fordista-keynesiano. Inoltre, «La capacità di fornire beni collettivi dipendeva dalla continua accelerazione della produttività dei lavoratori nel settore delle grandi 24 25 26 27 28 29 «Accetto senz'altro l'opinione secondo cui il lungo boom postbellico, dal 1945 al 1973, è stato costruito su un certo insieme di pratiche di controllo dei lavoratori, mix tecnologici, abitudini di consumo e configurazioni di potere politico-economico, e secondo cui questa configurazione può essere ragionevolmente definita fordista-keynesiana. Il venir meno di questo sistema a partire dal 1973 ha inaugurato un periodo di rapido cambiamento, di fluidità, di incertezza.». HARVEY 1990, pp. 154-155. HARVEY 1990, pp. 158 e 161. HARVEY 1990, pp. 163 e 167-168. HARVEY 1990, p. 169. Si noti che «L'etimologia del termine inglese career ("carriera") [...] rimanda a una "strada per carri": e questa parola, applicata al lavoro, indicava in quale direzione un individuo doveva incanalare i propri sforzi in campo economico. Una direzione che era necessario seguire per tutta la vita. [...] Nell'inglese del Trecento la parola job ("lavoro") indicava un "blocco" o un "pezzo", qualcosa che poteva essere spostato da una parte o dall'altra. Oggi la flessibilità sta riportando in auge questo significato arcaico». SENNETT (1999), p. 9. «Non tutti traevano benefici dal fordismo, e vi erano abbondanti segni di scontento ance all'apogeo del sistema. In primo luogo, le trattative salariali del fordismo si limitavano a certi settori dell'economia e a certi stati nazionali dove una stabile crescita della domanda poteva essere accompagnata da investimenti su larga scala nella produzione in serie. Altri settori di produzione ad alto rischio dipendevano ancora da salari bassi e dalla precarietà del posto di lavoro. E perfino i settori fordisti potevano poggiare su una base non fordsta di subappalto.». HARVEY 1990, p. 172. aziende. Soltanto in quel modo poteva essere fiscalmente possibile il welfare state keynesiano.».30 E se, su questo fronte, problemi di ristagno si manifestavano già intorno alla metà degli anni Sessanta, il colpo mortale al sistema venne inferto dal crollo del regime monetario di Bretton Woods.31 Bretton Woods: dopo il tramonto (1971-oggi) Il 15 Agosto 1971, di fronte al drastico calo delle riserve auree 32 e alla necessità di finanziare la guerra del Vietnam, Richard Nixon sospende la convertibilità del biglietto verde. Dapprima si pensa ad un suo ripristino,33 ma «L'unico strumento di risposta flessibile [ad una crisi già incipiente] stava nella politica monetaria, nella capacità di stampare moneta a qualsiasi velocità sembrasse necessaria per garantire la stabilità dell'economia.».34 La crisi petrolifera infligge il colpo di grazia al gold exchange standard: gli Articles of Agreement del FMI vengono modificati per vietare agli Stati membri di fissare una parità aurea.35 Il mondo precipita nella stagflazione, perché la politica monetaria espansiva non riesce a risolvere problemi strutturali; le fuluttuazioni cambiarie mettono a repentaglio il commercio internazionale; e, mentre le grandi imprese, per sopravvivere, debbono concentrarsi sull'innovazione di processo, l'abbondanza di denaro creato ex nihilo e i tassi di interesse ribassati (ossia, la politica monetaria espansiva) incentivano il ricorso al debito e lo sviluppo del settore finanziario.36 Non da ultimo, si proclama la morte di Keynes: Milton Friedman e la Scuola di Chicago lanciano la nuova ortodossia, il neo-monetarismo o neo-liberismo, che esalta proprio il ruolo della politica monetaria nel governo dell'economia, propugnando, invece, lo smantellamento del regime fordista-keynesiano, i cui «rapporti di forza» sono avvertiti come "rigidità" che inibiscono la piena efficacia della politica espansiva. Così, nel corso degli anni Settanta e Ottanta,37 sorge un nuovo assetto, detto di "accumulazione flessibile" e «caratterizzat[o] da un confronto diretto con le rigidità del fordismo. Poggia su una certa flessibilità nei confronti dei processi produttivi, dei mercati del lavoro, dei prodotti e dei modelli di consumo. E' caratterizzat[o] dall'emergere di settori di produzione completamente nuovi, nuovi modi di fornire servizi finanziari, nuovi mercati e, soprattutto, tassi molto più elevati di innovazione commerciale, tecnologica e organizzativa. [...] L'accumulazione flessibile sembra implicare livelli relativamente alti di disoccupazione "strutturale" (e non "frizionale"), rapida 30 31 32 33 34 35 36 37 HARVEY 1990, pp. 170 e 173-174. L'insostenibilità intrinseca di tale regime costituisce la tesi principale di RUEFF (1972), che la sostiene con vigore; ma appare pacifica ad occhi Austriaci. Conseguente a ripetute richieste di conversione dei saldi in dollari da parte dei Governi stranieri: la sicura convertibilità del dollaro aveva preoccupato già Kennedy e inquietava da tempo la Francia di de Gaulle. Per un riepilogo del periodo 1961-1971 e delle relative vicissitudini, cfr. RUEFF (1972), pp. 61-150. Tra il '71 e il '73, il Congresso vota due successivi aumenti della parità (prima a 38, poi a 42,22 dollari), mentre i cambi di quasi tutte le principali valute, tranne il marco tedesco, vengono riallineati verso il basso, svalutandosi rispetto al dollaro. HARVEY 1990, p. 183. «Under an international monetary system of the kind prevailing on January 1, 1976, exchange arrangements may include (i) the maintenance by a member of a value for its currency in terms of the special drawing right or another denominator, other than gold, selected by the member, or (ii) cooperative arrangements by which members maintain the value of their currencies in relation to the value of the currency or currencies of other members, or (iii) other exchange arrangements of a member’s choice.». Articles of Agreement of the International Monetary Fund – 2011 Edition (sul sito www.imf.org), Art. IV, Sec. 2, lett. b), come modificata con Risoluzione del Board of Governors 30 aprile 1976, n. 31-4, in vigore dal 1 aprile 1978. E' opportuno osservare che i contratti derivati nascono (anche) come strumento di protezione contro gli aumenti dei prezzi e le variazioni del cambio, prima di trasformarsi in strumento per scommettere su queste stesse circostanze. Forse inconsuete, ma del tutto condivisibili, le considerazioni di HARVEY 1990, p. 210 «Le vittorie elettorali di Margaret Thatcher (1979) e di Ronald Reagan (1980) sono spesso viste come una cesura nella politica del periodo postbellico. Io le considero piuttosto il consolidamento di ciò che era già in corso durante gran parte degli anni settanta. La crisi del 1973-75 nasceva in parte da uno scontro con le rigidità delle politiche e delle pratiche governative accumulate durante il periodo fordista-keynesiano. Le politiche keynesiane erano diventate inflazionistiche in quanto alimentavano le spese dello stato sociale mentre la pressione fiscale restava stazionaria. Poiché nell'ambito della politica fordista la ridistribuzione doveva essere sempre finanziata con i proventi della crescita, una crescita rallentata faceva automaticamente insorgere dei problemi in relazione al welfare state e alle spese sociali.». distruzione e ricostruzione delle capacità lavorative, modesti o inesistenti aumenti salariali in termini reali [...] e il ridimensionamento del potere sindacale».38 Nella fine del fordismo c'è molto di positivo, ma la percezione comune è che i nuovi mali siano peggiori dei vecchi. Non a torto. In particolare, la "flessibilità" sul lavoro è stata propagandata come una rivincita dell'individuo sullo standard, una riconquista di controllo sulla propria vita lavorativa, etc. etc.; ma i fatti parlano di un controllo aziendale che si fa, ad un tempo, invisibile, tirannico e, grazie alla tecnologia, onnipotente. In un mondo dove si considera "fisiologica" un'inflazione del 2% annuo – che significa prezzi raddoppiati in 35 anni, triplicati in 56, quadruplicati in 70: l'arco di una vita – la ricerca di profitti reali sugli investimenti è, fatalmente, dirottata sui beni il cui valore si assume stabile (ad esempio le case) oppure sul breve, brevissimo termine. Inoltre, la propensione al risparmio resta fortemente indebolita, mentre cresce il ricorso all'indebitamento (perché l'inflazione avvantaggia i debitori, quando possono giovarsi di tassi tenuti artificialmente bassi, inferiori alla perdita di potere d'acquisto del periodo): la quadratura del cerchio è assicurata solo grazie alla continua creazione di denaro dal nulla. I processi produttivi, per attrarre risorse, devono poter competere con i guadagni facili della finanza (anche grazie ad un auspicabile minor rischio) e, quindi, contrarre i propri orizzonti temporali.39 Perciò, nulla più è sicuro: tra sei mesi, l'impresa potrebbe non esistere più,40 o fare qualcosa di completamente diverso. L'organizzazione viene ripensata di conseguenza: l'adattabilità è il solo principio-cardine, la sola dote che non può conoscere obsolescenza. Le produzioni standard, per sopravvivere, si sono trasferite nel Terzo Mondo: il fordismo è divenuto periferico, lo scarto del modello di sviluppo, e sopravvive sul minor costo del lavoro (nominale, ma anche reale) e sul vero e proprio dumping sociale. Alla flessibilità dei rapporti di lavoro – nell'orario, nella durata, nel modo di svolgimento delle mansioni (mobilità territoriale, telelavoro...), addirittura nel nesso tra prestazioni e attività dell'impresa (lavoro a progetto) - si accompagna un'esternalizzazione crescente di processi (subfornitura, subappalto) o mansioni (somministrazione di manodopera), che disgrega la potenziale "base" sindacale e, se per un verso offre possibilità di sopravvivenza, per altro favorisce la rinascita di forme di sfruttamento padronale che parevano tramontate. La combinazione dei due aspetti è evidente soprattutto nel caso delle donne, che trovano lavoro più facilmente, ma in condizioni di vulnerabilità esasperata. E se appare positiva la riscoperta dei settori "di nicchia", delle microproduzioni, la politica di marketing e la promozione delle mode si sono dovute orientare decisamente verso l'esaltazione dell'effimero e l'accorciamento della vita utile dei prodotti. Ma il quadro della trasformazione non sarebbe completo se non abbracciasse anche il settore finanziario e la globalizzazione. Sepolto il sistema di Bretton Woods, FMI e Banca Mondiale, nel corso degli anni Ottanta, si sono reinventati come prestatori di ultima istanza agli Stati e, insieme, promotori dello sviluppo del Terzo Mondo.41 In questo modo, le due istituzioni hanno assunto – in una certa misura – il governo della globalzzazione: il Fondo, in particolare, generalmente ha legato la concessione di prestiti a misure di apertura dei mercati, commerciali e finanziari. Invero, la controversia si deve, in primo luogo, al fatto che le promesse di prosperità con cui i Paesi poveri sono stati esortati ad aprire i propri mercati a merci, servizi e capitali stranieri appaiono – a conti fatti, è il caso di dirlo – non mantenute; e per l'ottima ragione che l'apertura è stata unilaterale, dato che i Paesi ricchi hanno mantenuto le proprie barriere commerciali.42 L'entrata in funzione del WTO 38 39 40 41 42 HARVEY 1990, pp. 185-186. Un più ampio esame delle conseguenze dell'inflazione in HÜLSMANN (2008), pp. 183-200. ATTALI (2006) osserva che, nell'economia della precarietà, la grande maggioranza delle imprese opera come una compagnia teatrale, che si mette insieme per il tempo di una rappresentazione; ma esiste una minoranza di grandi marchi, che sopravvive come i circhi, cioè rinnovando continuamente i prodotti per tenere vivo e attraente il marchio, di cui si persegue la diffusione su scala planetaria. Dove lo spazio per interventi del FMI non mancava davvero: «i paesi in via di sviluppo avevano sempre bisogno di aiuto e questo organismo ha finito per diventare parte integrante della vita della maggior parte di essi.» (STIGLITZ 2002, pp. 12-3); dal canto suo, in quel periodo, «la Banca mondiale passò dal semplice sovvenzionamento di progetti come strade e dighe all'erogazione di finanziamenti di più vasta portata sotto forma di prestiti di adeguamento strutturale» (Ibid., p. 12, enfasi nel testo), ovviamente in stretto coordinamento con il Fondo. E' una delle tesi fondamentali di STIGLITZ 2002, che, in questo, ha perfettamente ragione. avrebbe dovuto portare al superamento di queste asimmetrie (e su questa premessa si è potuta raggiungere l'apertura dei mercati su vasta scala, compiuta dall'Uruguay Round), ma è difficile, per un Paese povero, intraprendere, gestire e condurre a termine con successo un contenzioso complesso come quello che si instaura presso il nuovo Tribunale del commercio internazionale. Il discorso, a ben vedere, non muta per quanto concerne i mercati finanziari: il progressivo smantellamento dei controlli sulla circolazione dei capitali, instaurati dopo la Grande Depressione, promosso dal duo Reagan-Thatcher all'inizio degli anni Ottanta, ha offerto nuovi sbocchi ad una liquidità in eccesso, prodotta dall'industria finanziaria dei Paesi sviluppati (degli Stati Uniti in particolare), ma il rovescio della medaglia, rispetto a queste occasioni di profitto, è costituito dalla vulnerabilità dei Paesi poveri alle fughe improvvise di capitali. Si è costruito un mercato finanziario globale, ma svuotando di poteri le istituzioni preposte a quelli nazionali senza crearne di nuove (né, tantomeno, le condizioni di libertà monetaria e moneta sana).43 Anzi, le transazioni tendono a sfuggire al controllo, non solo governativo, ma anche umano: già nel crac finanziario dell'ottobre 1987 giocarono un ruolo importante gli ordini di vendita che i computer erano programmati per inoltrare in automatico; oggi, la ricerca dell'attimo fuggente, dello spiraglio favorevole per lucrare un qualunque margine su qualunque cosa, è affidata alla potenza di calcolo (e di banda) dello highfrequency trading. Di contro, però, proliferano i siti Internet che – come slot machine di nuovo genere – consentono a tutti di improvvisarsi speculatori, rischiando, in apparenza almeno, solo una posta minima. Così, i prezzi dei beni – tutti, anche i più comuni – sono determinati, in misura sempre maggiore, sul mercato finanziario, in base al mutevole impiego della liquidità; e anche le imprese rischiano di trasformarsi in mere succursali del proprio ufficio finanziario. Il capitale reale si dissolve in capitale fittizio;44 la stessa forza lavoro si svaluta, anche se i settori "nuovi" promettono riscatti economici e soggettivi. "Il sugo di tutta la storia" Rilette a più di vent'anni da quando sono state scritte, le considerazioni conclusive – pur dichiaratamente provvisorie - di HARVEY 1990 suonano davvero profetiche: «In primo luogo, se vogliamo cercare qualcosa di caratteristico (di diverso, cioè, dal "solito capitalismo") nella situazione attuale, dobbiamo concentrarci sugli aspetti finanziari dell'organizzazione capitalistica e sul ruolo del credito. In secondo luogo, se ci deve essere una stabilità a medio termine nell'attuale regime di accumulazione, questa si potrà trovare molto probabilmente nelle nuove soluzioni temporali e spaziali. In sintesi, potrebbe essere possibile "rimandare" la crisi posticipando (per esempio) il rimborso del debito del Terzo mondo (o di altri debiti) al XXI secolo, e procedendo contemporaneamente a un radicale riassetto delle configurazioni spaziali nelle quali possano emergere vari sistemi di controllo dei lavoratori con nuovi prodotti e nuove modalità nella divisione internazionale del lavoro.».45 Per l'A., la sovraccumulazione – che egli considera "il" problema strutturale del capitalismo - può essere gestita svalutando (le merci, la capacità produttiva umana o strumentale, il denaro), tramite un sistema di controllo macroeconomico, dunque un approccio istituzionale, oppure tramite lo spostamento nello spazio o nel tempo. Il mix fordista-keynesiano di svalutazione controllata (soprattutto attraverso l'obsolescenza tecnologica) e forte controllo macroeconomico, che gestiva 43 44 45 Merita menzione, però, il ruolo assunto della Banca per i Regolamenti Internazionali, che, riferisce ATTALI 2011, p. 240, «Definisce le regole e i rapporti prudenziali applicabili al sistema bancario mondiale: prima quelli di Basilea I, siglati nel 1988, e poi quelli di Basilea II, firmati tra il 2004 e il 2008. Le nuove norme di Basilea III saranno invece attuate in maniera graduale entro il 2019. In realtà, queste regole non sono applicate dalle banche americane, che le impongono però ai loro omologhi europei, riducendo così la competitività dei propri concorrenti.». La distinzione è in HARVEY 1990, p. 227: «La capacità [di spostare la sovraccumulazione nel tempo] dipende, tuttavia, dalla disponibilità di credito e dalla capacità di "formazione di capitale fittizio". Quest'ultimo è appunto il capitale, che ha un valore monetario nominale e un'esistenza cartacea, ma che in un dato momento nel tempo non ha alcun supporto in termini di attività produttive reali o di beni patrimoniali come collaterali [leggi: garanzie]. Il capitale fittizio si converte in capitale reale nella misura in cui si fanno investimenti che portano a un adeguato aumento dei beni strumentali utili [...] o delle merci [...].». HARVEY 1990, p. 243. anche gli spostamenti spaziali e temporali, ha raggiunto il suo limite: «Lo spostamento temporale stava accumulando debiti su debiti al punto che l'unica possibile strategia governativa consisteva nel monetizzarlo. Ciò fu fatto, in effetti, stampando così tanto denaro da dare il via a una spinta inflazionistica che ridusse radicalmente il valore reale dei debiti pregressi [...]. La competizione spaziale si intensificò, soprattutto dopo il 1973, con l'esaurirsi della capacità di risolvere il problema della sovraccumulazione per mezzo dello spostamento geografico. La crisi del fordismo era perciò tanto una crisi geografica e geopolitica quanto una crisi di indebitamento, lotta di classe o stagnazione aziendale all'interno di ciascuno stato. Semplicemente, i meccanismi sviluppati per controllare la tendenza alla crisi furono, alla fine, sopraffatti dalla forza delle contraddizioni di base del capitalismo.».46 Sono stati sostituiti con l'erosione del salario reale e l'accelerazione del dinamismo tecnico-organizzativo. Pur fatta la debita tara alla sua impostazione dichiaratamente marxiana, l'analisi di Harvey è, in larga misura, corretta; la crisi (da sovra- e malinvestimento, più che da sovraccumulazione) ci pone di fronte a quattro alternative: il rinvio della sua esplosione,47 lo spostamento del problema su spalle altrui (ma sembra ormai coinvolto il mondo intero), il controllo governativo sull'economia, la svalutazione, poco importa se del denaro o dei beni, perché si tratta di due facce della stessa medaglia, dal momento che l'inflazione monetaria si traduce in consumo di capitale reale e danno per i processi produttivi ad alta intensità di capitale, con vantaggio per il breve termine, il mordi-efuggi.48 All'elenco deve, peraltro, aggiungersi una quinta alternativa: la guerra. Magari in forme "asimmetriche"e su scala planetaria. I motivi di conflitto non mancano di certo: le interferenze governative nella naturale interazione umana ne creano in continuazione e non mancano mai di rinfocolare quelli già esistenti.49 In un mondo sempre più polarizzato – la contrapposizione del 99% all'1% non è pura retorica, ha un fundamentum in re50 – il rischio che l'invidia scateni tumulti sociali di portata mai vista, o che la paura induca i potenti a circondarsi di mura ben guarnite, non può certo dirsi remoto. Né può tacersi la sesta soluzione: il rifugio nella realtà virtuale. Da un lato, questo mondo perfetto, dove sembra possibile realzzae ogni desiderio, dove il clic del mouse basta a sostentare un'illusione di onnipotenza, attrarrà sempre più, a mano a mano che – disconnessi – ci sentiremo frustrati, impotenti, in balìa degli eventi orchestrati da cospiratori invisibili; dall'altro, la spinta all'uso della moneta elettronica è un chiaro segno di come il Sistema abbia già studiato il modo di sfruttare questa libertà apparente (...virtuale!) come mezzo di controllo, la cui potenza non ha eguali nella Storia. 46 47 48 49 50 HARVEY 1990, p. 231. Cfr., però, HARVEY 1990, p. 227: «lo spostamento temporale verso le attività future è un palliativo di breve durata per il problema della sovraccumulazione a meno che non ci sia uno spostamento continuo con ritmi sempre più elevati di formazione di capitale fittizio e volumi crescenti di investimenti a lungo termine. Tutto ciò dipende da una crescita dinamica dell'indebitamento, continua e sostenuta dagli stati». In una prospettiva personalista, incentrata sull'azione umana, non si può certo trascurare o sottovalutare l'importanza del cambiamento di mentalità che il nuovo stato di cose porta con sé: «Ma com'è possibile perseguire obiettivi a lungo termine in un'economia che ruota attorno al breve periodo? Com'è possibile mantenere fedeltà e impegni reciproci all'interno di aziende che vengono continuamente fatte a pezzi e ristrutturate? In che modo possiamo decidere quale dei nostri tratti merita di essere conservato all'interno di una società impaziente, che si concentra sul momento? Queste sono le sfide che il nuovo capitalismo flessibile pone al carattere.». SENNETT (1999), p. 10. Cfr. anche, sotto altro profilo, ATTALI (2006), p. 422: «Si inventerà [...] un nuovo diritto di proprietà, che darà diritto a un alloggio di qualità e grandezza determinate, ma staccato da un luogo concreto. In ciascun nuovo luogo di residenza, lo stanziale precario potrà occupare provvisoriamente un alloggio che corrisponde alle specifiche del suo titolo di proprietà, e che egli lascerà nell'andarsene. Quelli che non avranno i mezzi per accedere a tale tipo di proprietà non saranno accolti in queste città.». Interessante, al riguardo, la tesi di ATTALI 2006, p. 15, secondo cui «I grandi conflitti di domani non contrapporranno civiltà, ma l'ultimo impero stanziale, l'impero americano, a tre imperi nomadi non territoriali, in competizione con l'America e in lotta l'uno contro l'altro; tre imperi che aspirano a governare il mondo per conto proprio: il mercato, l'islam e la democrazia.». Qualche cifra: il numero degli infranomadi, che vivono al di sotto della soglia di povertà, è stata di due miliardi e mezzo di persone nel 2003, minaccia di raggiungere i cinque nel 2040; e, se la classe media in paesi come l'India e la Cina, sta ancora espandendosi, la grande maggioranza degli esseri umani vive in stato di precarietà (ATTALI 2006). Proveremo tutte queste soluzioni, in miscele e dosi variabili secondo la fantasia degli apprendisti stregoni, crescenti al ritmo indiavolato della disperazione. Il risultato – il solo risultato possibile – sarà una catastrofe economica la cui portata il mondo, perfino adesso, non riesce neppure a immaginare. Eppure, il mio timore più grande non è questo, ma che, prima, riesca ad instaurarsi un Governo totalitario mondiale, che condannerebbe l'umanità intera alla sorte della non rimpianta Unione Sovietica: un declino lento, ma irreversibile; la neutralizzazione del potenziale insito nell'azione umana; la distruzione di tutte le migliori qualità dell'uomo; finché non si perda perfino la la capacità di sognare la libertà. Nondimeno, io credo che questa parola dal significato così ambiguo, amata o disprezzata di volta in volta, troppe volte tradite e venduta, troppe altre sprecata, sia la settima soluzione. Quella vera. Quella che, in qualche modo, emergerà dalle ceneri. E, se così sarà, dovremo ringraziare la catastrofe per aver bruciato ogni nostro idolo, fatto piazza pulita del tempio e dei falsi profeti, smascherato gli ingannatori prezzolati ed esposto al ludibrio quella mistificazione che passava per scienza. Graverà sulle nostre spalle, allora, il compito di costruire, daccapo, un mondo in cui gli errori di oggi (e i loro antecedenti di ieri) non possano ripetersi. Guido Ferro Canale