Untitled - Delrai Edizioni
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Untitled - Delrai Edizioni
Prima edizione: novembre 2016 © 2016 Delrai Edizioni Milano, Piazzale Siena 6 ISBN 978-88-99960-08-7 Per informazioni sulle novità: www.delraiedizioni.com Modello in copertina: Dusan Susnjar. Foto di Tijana Vukovic. Elaborazione immagini B&J studios. Layout a cura di Catnip Design. Impaginazione © Delrai Edizioni. Stampato in Italia. Tutti i diritti riservati. Malia Delrai P i ac e R e Ru S S o S er i e S RoMaN Ci sono cose che non hanno prezzo, una di queste è l’Amore. Di forme molteplici, a volte possessivo, dirompente, irrazionale o meno. Vi capiterà di giudicare. Ricordate che ogni essere umano sbaglia per amore, e se non sbaglia, be’, non è amore. ROMAN Prologo R itto e fermo al capezzale del fagotto magro sotto le coperte, la testa piena di capelli ribelli e scuri, la fissava con gli occhi dell’innocenza. Era un bambino, ma sapeva bene cosa stava per accadere. Sua mamma l’aveva sempre messo in guardia dal voler essere come gli altri della sua età; sarebbe dovuto crescere in fretta, e lui l’aveva fatto per non darle una cocente delusione. Portava un grosso peso sulle spalle. Niente giocattoli, solo sospetti; niente corse con gli amici per il giardino di casa sua, soltanto occhiate guardinghe attorno a sé, per non dare a vedere quanto fosse vulnerabile. Non poteva certo permettersi di tirare su col naso e piangere, altrimenti chissà cosa suo padre avrebbe pensato di lui, che fosse una femminuccia come tante. No, non poteva proprio dargli questa delusione. Strinse le manine dietro la schiena. All’inizio a pugno, per sentire le unghie pungere fin dentro la pelle, poi, quando sua mamma sospirò sofferente, fu costretto a unire i piccoli palmi, perché il dolore di vederla stare male divenne troppo forte da sopportare, e rischiava di ferirsi sul serio. Sì, sapeva cosa stava per accadere, ma non era ancora pronto a perderla. Era lei l’unica via di fuga, l’unica persona a stringerlo tra le braccia e a sussurrargli che tutto sarebbe andato a meraviglia. E ci credeva davvero, perché gli occhi della persona a cui voleva più bene non gli avrebbero mai mentito. MALIA DELRAI Le iridi verdi di sua madre si spostarono verso di lui. Si irrigidì d’un tratto quando gli sorrise. Il volto pallido così simile al suo… erano speculari, per non dire uguali. Anche se del padre aveva preso i tratti decisi, non c’era niente in lui dei lineamenti russi, o forse era ancora troppo piccolo, non si sentiva un uomo: in verità era solo un bimbo. Cosa significava essere uomini? Aveva paura di chiederlo a suo papà. Quell’uomo era sempre sfuggente e non c’era mai. Lo lasciava solo, e anche la mamma soffriva per questo. Non li amava, non come avrebbe dovuto, questo lo percepiva. Era un bambino, ma non uno stupido. Si considerava piuttosto intelligente. «Roman» lo chiamò sua madre. «Mamma» rispose subito, cercando di trattenere dentro di sé le emozioni. Facevano male, tanto male. Quasi non riusciva a fermare le lacrime che minacciavano di scendere dai suoi occhi. Cercò di tenere un tono neutrale, per non dare a sua mamma l’idea che fosse un debole, ma lo sguardo dolce di lei lo consolò. Non c’era bisogno di nascondersi, perché lo capiva. «Mamma, come stai?» Trotterellò verso il bordo del letto e si aggrappò con le manine alla coperta. «Tu, piccolo…» gli rispose a fatica. Non gli diceva mai come si sentisse, preferiva starlo ad ascoltare per ore intere senza interromperlo. Con il palmo raggiunse il corpo coperto della madre, ma poi subito dovette allontanarlo per asciugarsi il nasino. Mannaggia! Ce l’aveva messa tutta per non singhiozzare, ma niente di fatto. Le prime lacrime iniziarono a rotolare giù per le guance. «Mamma!» urlò e balzò su di lei. Appoggiò il visetto disperato sull’incavo tra il collo e la spalla. Il profumo che tanto adorava gli riempì le narici, ma non bastò a tranquillizzarlo. Lo sentiva. Lei stava andando via, lo stava lasciando. Solo. Non poteva lasciarlo solo, non avrebbe saputo come andare avanti, come vivere senza di lei. Nessuno poteva capire il vuoto che si provava a non essere come gli altri; non ce l’avrebbe mai fatta a sopportarlo. 10 ROMAN «Mamma, ti prego, mamma!» Piangeva come un disperato, quando non avrebbe dovuto farlo. La scrollò perché non la sentì rispondere alla sua chiamata. Di solito lei era sempre pronta ad abbracciarlo, invece adesso le braccia della mamma non erano lì, pronte a consolarlo. Di solito… sua madre non respirava più! Si sentì soffocare. Roman avrebbe dovuto respirare, riprendere a farlo, lentamente, ma non riusciva a muoversi, colto dalla consapevolezza che lei non gli avrebbe più parlato. Subito la porta si spalancò ed entrò un uomo, di corsa. Venne preso e sbalzato all’indietro, lontano da lei. Scalciò, tese le braccia per raggiungerla ancora una volta, ma non ci fu verso: quello sconosciuto era più forte di lui. Gridava, il tipo, ma non lo ascoltò, era concentrato sulla donna senza vita sotto le coperte. “Mamma,” urlava la sua mente. “Non lasciarmi! Ho bisogno di te!” Ma adesso non erano più soli; adesso non avrebbe più potuto dare voce alla sua sofferenza. Doveva fare come sua madre gli aveva detto: essere forte, più forte degli altri, perché così sarebbe sopravvissuto. Con un ultimo sguardo alla mamma, smise di fare resistenza. Lo portarono via e lo chiusero fuori dalla porta. Vennero altre persone, ma non si curò di guardare chi fossero. Suo padre non c’era. No, lui non c’era, e lo odiò per questo, lo detestò profondamente per questo. Era così che dimostrava il suo amore? L’aveva uccisa. Lui, il mostro, l’aveva uccisa. Si guardò la mano, la stessa che aveva accarezzato sua madre, e se la portò sul viso, come se quel gesto avesse potuto renderlo invulnerabile. Si cullò sul palmo e risentì nella testa la voce della mamma che gli ordinava di fare il bravo, perché altrimenti ne avrebbe pagato le conseguenze e allora non sarebbe stato facile continuare a vivere in quell’enorme casa. «Il bambino piange…» sentì dire da quella gente, quando qualcuno accostò l’uscio. Si sentì osservato e smise di mostrare dolore. In un secondo la sua espressione mutò. Quegli sconosciuti non avrebbero più potuto dire 11 MALIA DELRAI nulla, adesso, non sarebbero riusciti a entrargli dentro e a giudicarlo: non avrebbe concesso a nessuno di intravedere la sua anima. In quel momento, lui decise di non avere più un’anima. Si asciugò le lacrime con la manica del pigiama e si strofinò bene il viso rattristato: non gli importava di sporcare la flanella azzurra. Scompigliò i capelli che gli scendevano sulla fronte e poi si ripromise di non piangere mai più. Per nessuna ragione al mondo lo avrebbe fatto, perché non ci sarebbe stato mai più niente di così importante come il rapporto che aveva con la sua mamma. Di questo era convinto. Lui non aveva amici; lui non aveva parenti: semplicemente non c’era nessuno per un sangue misto senza cultura. Si mise ritto sullo stipite, come una sfinge di fronte a una tomba, a controllare chi entrava e chi usciva. Non cercò mai di entrare; voleva ricordarsi sua madre con un sorriso tirato sulle labbra che lo chiamava per nome. Desiderava soltanto quello per i prossimi giorni, forse mesi o anni: risentire la voce dolce di lei nella testa. «Guardalo» sentì dire. «Secondo te è un comportamento normale?» Non girò il capo. Sentiva benissimo cosa si stavano dicendo il medico e l’assistente che aveva curato sua madre. «È appena morta e lui se ne sta lì impassibile come suo padre. Hanno proprio lo stesso sangue. È spaventoso.» Impa… cosa? Non conosceva il significato della parola, ma non era niente di buono. Lo stavano giudicando, come avevano fatto tante persone come loro, perché suo papà – a detta di tutti – era un uomo cattivo, che faceva cose contro la legge. Per questo… cattivo. Così decise di tornare nella sua stanza e smettere di ascoltarli. Era ora di chiudere un capitolo della sua vita e aprirne uno nuovo, dove sarebbe cresciuto e avrebbe dimostrato al mondo di essere un degno figlio di suo papà. Non aveva poi molta importanza che fosse un uomo crudele, lui avrebbe dovuto superarlo e dimostrargli di valere più di tutti. Un giorno, si ripromise, avrebbe preso il posto del padre e allora il papà sarebbe stato orgoglioso di lui. Voleva tanto che qualcuno gli volesse bene come aveva fatto la mamma. Si spostò verso la cameretta e si sedette sul pavimento, non appena fu entrato. Incrociò le gambe paffute e per un attimo la sua convinzione 12 ROMAN vacillò. Si sentiva così triste… però non poteva farsi prendere dallo scoraggiamento. Respirò a fondo, più e più volte, come un guerriero prima della battaglia; e lui, sì, ne aveva combattute tante di guerre immaginarie. Quando si sentì pronto, si alzò e si mise dritto. La mamma lo sgridava sempre quando si ingobbiva; gli gridava contro che doveva essere orgoglioso di se stesso e non insicuro. Solo le persone incerte si incurvavano in avanti e lui non doveva mai farlo, perché era invincibile. Qualcuno bussò alla porta ed ebbe subito la certezza di sapere chi fosse là dietro ad attenderlo. Allora era arrivato, non l’aveva abbandonata. Troppo tardi, ma era venuto. Corse speranzoso ad aprire. Spalancò con il cuore in gola e infatti suo padre era lì, immobile. Abbassò il mento verso di lui e gli occhi nocciola dell’uomo lo squadrarono. Mantenne lo sguardo senza vacillare. Rimase affascinato da suo padre. Era così… così, potente! Spalancò le labbra intimorite e lo ammirò nel completo elegante che indossava. Ne voleva uno uguale, proprio come quello, anche dello stesso colore. «Papà» mormorò. No! Aveva un groppo in gola che minacciava di sopraffarlo. Non poteva lasciarsi andare di fronte al padre, non avrebbe capito. Lui non era forte e bello come il genitore, era l’opposto: debole, piccolo, bisognoso di attenzioni. L’uomo gli si inginocchiò di fronte, ma non arrivava ancora alla sua altezza. Strinse di nuovo la boccuccia e quasi gli venne voglia di rintanarsi in camera: aveva paura. «Ty kto?*» gli chiese sottovoce suo padre. «Roman» rispose. L’altro scosse la testa. Lo afferrò per le spallucce e lo scosse ripetutamente, ma lui si comportò bene. Non si mise a piangere, non scappò via, affrontò gli occhi del papà, che non erano più lontani, ma rossi e gonfi. Anche suo padre era triste! Anche lui stava male per la mamma! La scoperta lo lasciò di sasso. _____________________ * Chi sei? 13 MALIA DELRAI «Ty kto?*» gli ripeté, quasi con rabbia. Lui finalmente capì. «Roman Aleksandrovic Nevskij» replicò con più decisione. Allora suo papà sorrise. Smise di scuoterlo e il grande palmo si spostò sulla sua spalla e la chiuse con un’energica stretta. In quell’esatto istante una scarica elettrica passò dal corpo dell’uomo a lui. Roman non ebbe timore e si avvicinò fin quasi a percepire sul viso il respiro di colui che lo aveva messo al mondo. Passò una muta comprensione tra loro, profonda, talmente radicale che lo scosse fin dentro il cuore. Divenne di ghiaccio. Una patina di cristallo avvolse l’organo che gli batteva nel petto e provò una calma incredibile. La mano che lo teneva ricadde lungo il fianco, ma nessuno dei due distolse gli occhi dall’altro. Rimasero a comunicare senza dire niente e lui capì di voler diventare proprio come chi aveva di fronte. Gli sembrò irraggiungibile. Le voci in corridoio tornarono stridule e questo parve infastidire suo padre. Infatti fece una smorfia innervosita. Lo fissava e il bimbo in lui morì, per lasciare spazio a un altro, più deciso, più tranquillo. Divenne un tutt’uno con il papà e comprese per la prima volta cosa significasse essere un uomo. E, be’, gli piaceva. ____________________ * Chi sei? 14 Capitolo I Presente U n attimo di pausa per pensare, ecco cosa gli serviva per ritornare a non percepire quel peso opprimente sul torace. 'Fanculo al barlume di coscienza che ogni tanto tornava a bussargli nel cervello per fracassagli i coglioni! Afferrò il tumbler e se lo portò alle labbra velocemente, per darsi una scarica di vita. La bocca calda di sesso consumato si accostò al bicchiere e il naso sentì l’aroma dell’alcol trasmettergli il primo brivido di assoluto godimento lungo la schiena. Due cose, oltre a una bella scopata, gli davano lo stesso piacere: la prima era condividere dell’ottima vodka con persone di fiducia, la seconda maneggiare la sua Yarygin MP-443 e ammazzare qualche stronzo che osava sbarrargli la strada. E quelli c’erano sempre, porca puttana! «Roman.» Si sentì chiamare e si voltò per guardare il suo migliore amico, steso sul letto dove avevano appena condiviso un round sessuale con due biondine niente male. Ivan era ancora nudo e stravaccato sul comodo materasso della camera d’albergo che gli apparteneva. Cosa non gli apparteneva in quella merdosa città? Aveva perso il gusto di chiamare San Pietroburgo metropoli quando aveva capito che era pura merda. «Cosa?» borbottò, buttando giù il contenuto della vodka gelida appena versata. MALIA DELRAI «Sei un coglione» lo rimproverò l’altro, squadrandolo dalla testa ai piedi. Ormai stare nudi l’uno di fronte all’altro non era più un problema. «Cazzo, che novità. Dimmi qualcosa che non so, ti sfido a stupirmi» rispose con un ghigno piuttosto amareggiato. Rischiare di essere fatto fuori era uno dei punti soliti all’ordine del giorno. «Giochi col fuoco» continuò Ivan, mentre lui si accostava al frigobar per prendere dal minuscolo freezer l’unica bottiglia della miglior vodka del Paese. «Ritenta» considerò con sarcasmo. L’amico sbuffò e si allungò verso il comodino per prendere il pacchetto di Kent che aveva appoggiato vicino all’abat-jour. Roman, invece, si girò di nuovo verso la finestra, tentato di aprirla per uscire sul balcone. «Ignorare una skhodka* significa dichiarare guerra alla mafija**, amico mio.» Di solito stava ben attento a non ferire lo spocchioso ego degli altri capimafia, ma ora si era stancato di dover sottostare a vecchi piselli flaccidi che non capivano niente della nuova Russia. Pensavano di essere rimasti al periodo della Guerra fredda. «Ho sette vite» considerò. «E sei ne hai già usate» ribatté Ivan alle sue spalle. «So che sei stanco, ma…» «Non sono stanco» lo interruppe. Lui… non lo era mai. Il suo più fidato sostenitore rimase in silenzio, senza contraddirlo. Fu quella sua calma a colpirlo maggiormente, e lo ferì. «Non è più come prima, vero?» asserì Ivan. Lo sentì aspirare il fumo della sigaretta e spostarsi di nuovo sui cuscini. Roman chiuse gli occhi e bevve in un sorso solo il suo tumbler pieno di superalcolico. Aveva iniziato a bere troppo da due mesi a quella parte. Rischiava di non starci più con la testa e gli serviva ancora la sua freddezza per affrontare il casino che si sarebbe scatenato quando l’organizacija*** avrebbe saputo cosa aveva intenzione di fare. _________________________ * Riunione dei capimafia russi. ** Mafia russa. ***Organizzazioni mafiose in generale. 16 ROMAN «Li vedo» gli confessò. Con lui non aveva segreti. Era il suo braccio destro, la sua ombra, un partner di cui non avrebbe potuto fare a meno. Troppe volte gli aveva salvato la pelle. «Lo so. Mi domandavo soltanto quando sarebbe successo» considerò l’altro. «Hai sempre avuto un cuore.» Roman scoppiò a ridere. Ebbe paura di strozzarsi con la vodka che gli stava risalendo su per lo stomaco. Non era stata una buona mossa quella di bere il distillato senza aver mangiato. Pensava di esserci abituato ormai, ma l’evidenza diceva il contrario. O stava tornando a essere un cazzo di pappamolle, oppure era solo un momentaneo crollo spirituale. Sospettava la prima possibilità. «Come sei romantico» lo schernì. Ivan aveva proprio una sensibilità femminile e questo lo urtava non poco, ma ci aveva fatto l’abitudine a lungo andare. «I loro volti, le loro suppliche… mi passano davanti agli occhi e mi perseguitano durante il sonno. Non dormo più, non posso più ignorare le loro grida.» «E le donne? Quello ti fa sentire meglio…» Adocchiò la bottiglia lasciata fuori dal freezer e decise di bere direttamente da quella, senza doversi limitare nelle dosi. I Nevskij non avevano limiti, solo confini, e quelli esistevano per essere valicati e passare oltre. La sua famiglia creava le regole e poi le distruggeva per il gusto di poter dire di aver fatto qualcosa. «Le donne sono un problema» si limitò a dire, ma la risata del suo amico lo avvertì che non gli credeva affatto. Aveva impiegato troppo tempo a rispondere. La spossatezza lo colpì. Ormai era diventato poco credibile e ridicolo anche agli occhi di Ivan. Non si riconosceva più. Roman non aveva mai avuto una coscienza… In qualche modo lui non era come gli altri esseri umani, si distingueva dalla massa per la mancanza di scrupoli. Non era arrivato tanto in alto senza ragione a quell’età. «Le salvi dal giro, le scopi, dai loro lavoro. Sei un santo, Alex.» Alex. Il nome con cui tutti lo chiamavano nell’ambiente, anche e soprattutto chi lo temeva. Le spalle gli si irrigidirono al suono della parolina magica. Era pur sempre lui, ma non si riconosceva più. 17 MALIA DELRAI La bottiglia di vetro, però, non si era mossa dalla posizione di prima, a riprova che Roman stesse cercando di resistere al baratro. Ma era solo questione di tempo. «Sono proprio un santo» ripeté muovendo le labbra, sottovoce. La lingua russa era satura di suoni che riempivano le orecchie di musicalità e ardore. Ne era sempre stato orgoglioso, tuttavia adesso avrebbe desiderato tanto essere lontano dal suo Paese e non dover più portare il peso delle molte morti di cui era stato la causa. «Bere non ti aiuterà.» Quando aveva preso in mano la vodka? Roman pensava di aver avuto la forza di resistere fino a un attimo prima. Fu tentato di lasciarla cadere a terra. Deglutì la saliva rimastagli in gola, ma questa si rifiutò di sciogliere il groppo di rimorsi grevi che gli serrava le vie respiratorie. Faceva male. Tossì e dovette per forza prendere un sorso di vodka. «Stai messo proprio male» commentò allora Ivan. L’amico sollevò un sopracciglio, mentre la mano che teneva la sigaretta si spostava verso il coccio sul comodino e faceva cadere la cenere. Decisamente. Riempì i polmoni di ossigeno per resistere all’ondata di nausea dopo il lungo sorso e decise di rimettersi qualcosa addosso. Avrebbe finito la serata al casinò. Di dormire neanche a parlarne, non avrebbe chiuso occhio, tormentato dagli incubi. Si diresse verso la poltrona dov’erano stati appoggiati i vestiti eleganti che le due ragazze avevano tolto loro con meticolosità. Il ricordo di quanto successo due ore prima lo fece ridacchiare. Quella era stata la parte divertente della nottata. Sentì gli occhi del suo braccio destro fissi su di lui. «Finiscila di guardarmi» lo rimproverò. L’altro non si scusò, non lo faceva mai, e Roman credeva di conoscere il motivo del comportamento della sua spalla, ma tra loro c’era sempre stato un mutuo accordo: niente sdolcinatezze. I sentimenti di Ivan non lo riguardavano, erano le emozioni in generale che lui non voleva gestire, e quello che l’amico provava era di gran lunga meno gestibile di una scopata. Afferrò i boxer e si piegò per infilarli. 18 ROMAN «Sei mai stato innamorato?» gli chiese di punto in bianco il suo partner. Gli venne quasi da vomitare sul pavimento dopo aver assorbito il significato della frase. Fece per raddrizzarsi, ma cambiò idea. Allungò il braccio per agguantare i calzini e i pantaloni costosi. Meglio evitare un confronto diretto di sguardi. «Stai scherzando?» sbottò. «No.» Il sudore freddo iniziò a imperlargli la fronte. Roman si accorse che le sue mani avevano preso a tremare. Era troppo difficile, complicato l’amore, e lui non aveva mai provato niente di simile. Chiuse le palpebre e respirò a fondo: il suo corpo non resisteva più, gli chiedeva di riposare, ma lui non ci riusciva. «Forse…» annaspò. «Un tempo, da ragazzino, ci ho creduto» ammise e gli sembrò di morire. La pressione al torace si era fatta insostenibile. Si tese e annaspò verso il bracciolo della poltrona. Trovò la fondina ascellare che conteneva la sua arma e la chiuse nel pugno, come se toccare la pistola avesse potuto ridargli la forza necessaria per resistere al malessere feroce. Ivan ignorò il suo malore e Roman lo ringraziò mentalmente perché non lo faceva sentire un relitto. Sospettava che avrebbe avuto bisogno di una psicanalista in tempi brevi, altrimenti il suo cervello si sarebbe fritto. «Porca puttana!» digrignò tra i denti. «Ti ricordi se ti sei mai preso una sbandata per una donna più grande? Tutti quanti sogniamo di scoparci una o due milf nella vita. Una bella prova.» Gli gorgogliò una risatina nella gola. Come cazzo faceva Ivan a pensare a cose simili mentre lui stava per crepare sul tappeto accanto alla poltrona? Entro due minuti sarebbe stramazzato sul Pashà e addio mondo! «Ivan» lo chiamò a fatica. «Vaffanculo» terminò. L’altro lo superò e si sedette sul divano, lateralmente al tavolino basso posizionato al centro dell’enorme camera di lusso dal letto 19 MALIA DELRAI king-size. Lo guardava, seguitava a osservarlo con l’aria di chi sapeva, ma non poteva osare di infrangere un accordo. Tuttavia, da grande stronzo qual era, Ivan non perdeva la calma e lo teneva sotto controllo. Roman intuiva la preoccupazione del braccio destro e se, entro due minuti, non si fosse ripreso, quello avrebbe chiamato aiuto. Fottuto bastardo! E allora sì che si sarebbe sentito una merda. «Parlami» gli intimò l’amico. «Be’, sto cercando di farlo, non so se noti» gli rispose. Le ginocchia lo sostennero a malapena, ma riuscì comunque a drizzarsi e a prendere la camicia bianca da indossare. «Sembri già morto. Sei un tantino pallido» commentò, sarcastico, e Roman provò il desiderio di piantargli una pallottola al centro della fronte. Prese la fondina e se la portò verso la spalla. La memoria gli giocò brutti scherzi. Riportò alla mente le notti trascorse a guardare il cielo stellato col suo cannocchiale. Aveva tredici anni all’epoca. Sembrava un’età mai vissuta, così lontana, e lui era solo. Solo, come al solito. Non ricordava di aver mai avuto nessuno al suo fianco quando l’esistenza aveva cominciato a diventare troppo dura per un ragazzino. Aveva dovuto combattere in solitudine le sue battaglie, e vincerle. Niente pippe mentali da adolescente con i brufoli, lui era stato costretto a imparare a sparare. Ne andava della sua vita. «Sai» gli confidò, sedendosi sul morbido cuscino. Ora andava molto meglio. Reclinò la testa all’indietro e guardò il soffitto. «Ho avuto un primo amore.» Ivan parve sorpreso. Percepì palpabile lo stupore dell’uomo seduto poco lontano. L’odore di fumo non lo infastidiva, anche lui si godeva qualche sigaretta di tanto in tanto, soprattutto dopo il cibo e il sesso, ma ora dovette portarsi il palmo della mano contro il naso, perché l’acredine dell’aria rischiò di fargli tornare il fastidioso malore. «Finiscila di sfottermi. Lo sto facendo per farti alzare quel culo moscio che ti ritrovi, lo sai.» Roman sorrise. «La Luna» disse semplicemente. L’amico non replicò nulla. Ricordava da ragazzo quanto avesse adorato osservare la Luna lassù in cielo. Si chiedeva come facesse, 20 ROMAN solitaria, a brillare di luce propria, quel candido chiarore che rischiarava le tenebre, ovattato, nebbioso. Ne era sempre stato affascinato. «Immagino sia finita male» lo canzonò. «Già» proseguì. «Quando ho scoperto che non brillava della sua luce, ma del riflesso del Sole, ho provato una profonda delusione. Si è conclusa con una rottura netta tra noi.» Ivan scomparve. Non proferì parola ma si mosse per rivestirsi e lo lasciò a rimuginare. Roman, di nuovo in forze, guardò verso la portafinestra e ringraziò chiunque gli stesse facendo la grazia di non farlo morire a causa dei sensi di colpa dilanianti. La paura della fine lo accompagnava da sempre, ma di giorno in giorno si faceva sempre più viva, mentre lui moriva dentro. «Ok, lo ammetto, mi hai spiazzato con questa stronzata della Luna… so che sei un bastardo. Sai mentire come pochi, e questa non me l’aspettavo. Hai vinto, te lo concedo.» Una volta in piedi si voltò verso il compagno d’avventure. Ivan si stava infilando la fondina sopra la camicia, che avrebbe coperto con la giacca. Il suo completo valeva parecchio, proprio come quello dell’amico. I soldi non erano mai stati un problema: era nato ricco, sarebbe morto ricco. Noioso, in un certo senso. «Non mi stavo inventando niente. È la verità» affermò. Senza dare inflessione alla voce, freddo come il tono baritonale gli permetteva di fare, rispose e poi si impegnò a infilarsi la giacca scura. Fu meno difficoltoso di quanto avesse creduto; il suo corpo pareva di nuovo rispondere in maniera perfetta agli stimoli. Il sollievo che lo pervase fu secondo solo al pensiero che la notte sarebbe finita presto. All’Eldorado c’era sempre qualche problema dell’ultimo minuto da risolvere. Il mondo era pieno di coglioni che tentavano di sfidare la sorte nel suo casinò, prendendosela poi con gli altri ospiti, e lui era ben felice di rendergli la faccia una poltiglia a suon di pugni per sfogarsi. Si sentiva potente. «La troverai» proruppe all’improvviso Ivan. «Cosa?» disse. Doveva lavarsi le mani, l’odore che gli arrivava alle narici era quello acido del sesso delle ragazze. «La tua Luna, coglione.» 21 MALIA DELRAI Roman lo guardò prendere il pacchetto di sigarette e portarselo nella tasca dei pantaloni. Beffardo, gli mostrò una smorfia per nulla convinta. «Dammi una paglia» gli ordinò. Ivan gli venne incontro e gli passò una delle sue fedelissime divoratrici di alito pulito. La prese e se la portò tra le labbra, al centro esatto, come piaceva a lui. Attese e l’altro gli porse l’accendino. Non fece nessun commento sulla flemma con cui il suo amico gli avvicinò la fiamma sulla punta. Avrebbe potuto accenderne dieci nel frattempo. Gli scoccò un’occhiataccia. L’amico ammiccò. «Sto bene, mamma» lo rimbeccò. «Vedo, e non verrò al tuo funerale» lo avvertì. Poco male, un rompipalle in meno. Ivan sarebbe stato capace di farlo resuscitare pur di rompergli le palle. Per alcuni, un capomafia come lui da morto sarebbe stato più utile che da vivo. Lo superò e andò verso le scarpe Armani, che aveva gettato in un impeto di desiderio vicino all’attaccapanni alla destra della porta. Tenne la sigaretta nella mano destra, tra l’indice e il medio, mentre quella libera si preoccupava di recuperare le calzature eleganti, perfette per il suo completo grigio antracite. Amava le marche italiane, in lui scorreva del sangue misto in fondo. Sua madre doveva essere stata una donna molto elegante, dai tratti delicati. Così l’aveva sempre immaginata, nei suoi sogni, dopo la morte, quando lui era appena un mocciosetto che sgambettava per casa con un fazzolettino sempre sul naso e le ginocchia sbucciate. «Ehi, Alex?» Ivan era pronto per andare di sotto, mentre lui seguitava a fissare le scarpe come se si aspettasse da un momento all’altro che gli parlassero della sua vita. «Andiamo.» Si infilò la sigaretta in bocca e si sbrigò a indossare le calzature comode. Si accostò alla porta e abbassò la maniglia, spalancando l’uscio. Un profumo di colonia costosa gli solleticò le narici, 22 ROMAN disgustandolo, ma snobbò il fastidio e si protese verso il corridoio. La suite comprendeva un’enormità di comfort a cui lui non avrebbe rinunciato facilmente, perché adorava circondarsi di lusso. Lo faceva sentire meno vuoto, meno esposto alle brutture che lo angustiavano. «E se questa fantomatica Luna riuscisse a brillare di luce propria?» gli chiese Ivan, seguendolo verso l’ascensore. «Che cazzo di roba ti dice il cervello? Hai bevuto acqua sporca?» rispose Roman con un sorrisetto di sufficienza. La sigaretta stava già facendo il suo dovere: si sentiva rinascere a ogni tirata. Finalmente aveva ripreso possesso delle sue facoltà mentali. Alex sapeva che la debolezza lo sorprendeva quando meno se lo aspettava e lo stesso valeva per l’opposto. Si ravvivò i capelli prima di chiamare l’ascensore. Le porte si spalancarono, ma il braccio del suo amico lo sorprese, sbarrandogli la strada. Gli prese il mozzicone della sigaretta dalla bocca e lo spense dentro il posacenere a forma di fungo alla loro sinistra. Tutto rigorosamente ponderato per farlo innervosire. «Rispondi» lo invitò, con finto candore. «Nessuna donna è tanto furba da incastrarmi. Nemmeno se si imbelletta con glitter luccicanti» scherzò, per strappargli un ringhio infastidito. Provocare Ivan era uno dei suoi sport preferiti quando si annoiava, doveva proprio confessarlo a se stesso. «Spero che prima o poi quella cazzo di boria ti vada di traverso» replicò il migliore amico. «Stronzo di un russo italico.» «Fottiti» ribatté. Scoppiarono a ridere, entrando in ascensore con l’aria di uomini d’affari soddisfatti da una maratona di sesso estenuante. Roman affondò le mani nelle tasche, percependo l’energia e il potere irradiarsi di nuovo nelle sue vene. Questa era la sensazione che prediligeva, era il re di San Pietroburgo, nessuno osava alzare un dito in città senza prima aver avuto la sua approvazione. Al piano terra le porte si spalancarono per lasciarli passare. Spalla contro spalla si fecero largo nella hall dell’Eldorado. Guardò di sfuggita la giacca di Ivan chiudersi, mentre le mani del braccio destro si soffermavano sul secondo bottone, e lo imitò. 23 MALIA DELRAI «Signore» lo salutò nella sua hall uno dei facchini, in attesa di poter servire gli ospiti. Passò oltre ricambiando il saluto e venne accolto nella sala del casinò da cinque ragazze che lo circondarono. Lo guardavano adoranti, ma lui aveva già avuto le sue ore di svago e quindi non aveva più necessità di una compagnia femminile. «Repetita iuvant» gli consigliò Ivan, adocchiandone una che doveva piacergli parecchio. Il culetto a mandolino ebbe anche la sua approvazione. Niente male. «Andiamo a vedere chi c’è stasera, abbiamo tempo per un altro giro di scopate più tardi.» Lo fermò prima che potesse appartarsi con una delle ultime ragazze assunte. Gli erano grate per averle salvate da un giro di prostituzione che avrebbe potuto portarle anche oltre i confini della Russia, ma lui non le comprava per fare l’eroe. Piuttosto stava osservando le mosse degli schiavisti per capire fin dove si spingessero i loro legami illegali nel commercio di armi e di persone. Gli serviva perché erano anni che cercava di mettere le mani su uno dei capimafia italiani responsabile di aver cercato di fregarlo. Aveva cagato fuori dal vasino, il povero idiota. E quando l’avesse trovato, allora si sarebbe divertito a scuoiarlo prima di farlo divorare dai maiali, che in gergo voleva dire tante cose, soprattutto la morte certa. «Ignorare le istanze degli altri capimafia su questa storia non ti renderà splendido» commentò Ivan, riprendendo il discorso di prima. Si defilarono e andarono verso i tavoli da gioco. «Quei coglioni fanno i loro interessi; io devo fare i miei. L’Italia deve stare alle nostre regole, non alle loro. I patti erano chiari, ma i soldi non sono arrivati. Ci stanno intralciando.» Il Texas Hold ‘em Poker era uno dei giochi che preferiva, ma non era la nottata giusta per tentare la sorte. Avevano altro a cui pensare. Si avvicinarono a uno degli uomini in giacca e cravatta seduto sullo sgabello. Era ora di iniziare a far ballare qualcuno quella sera e di sicuro lo avrebbero fatto cantare. 24