Legge di stabilità 2015: no al` “Codice Rosa”

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Legge di stabilità 2015: no al` “Codice Rosa”
Legge di stabilità 2015: no al’ “Codice Rosa”
Se vivessimo in una favola, in questi giorni potremmo raccontarci quella del Mago di Oz,
che con un incantesimo restituiva a ciascuno ciò che riteneva di non possedere. Nello
specifico, il cosiddetto emendamento “codice Rosa” mi fa pensare al leone fifone che
chiede al mago il coraggio sperando che una magia possa fargli affrontare le sfide
quotidiane con la grinta che sia addice al re della foresta. Se vivessimo in una favola il
cosiddetto emendamento “codice Rosa” sarebbe l’incantesimo che cancella la paura di
centinaia di donne che quotidianamente vivono sulla propria pelle l’abominio della
violenza.
Ma noi viviamo nel mondo reale e alla paura che scaturisce dall’aver subito violenza fisica,
sessuale o psicologica non possiamo permetterci di rispondere con un obbligo, con un
emendamento superficiale che pretende di liquidare in una sequenza di azioni
burocratiche cicatrici che invece potrebbero rimanere lì per sempre.
Ecco perché l’emendamento codice rosa non ci piace, perché riteniamo che non sia una
soluzione, ma un ennesimo tentativo di sminuire la portate del fenomeno violenza, quasi
che minimizzandolo si possa più facilmente fare finta che non esista.
Per chi non si fosse documentato, in breve accade che partendo da un protocollo già
applicato dal 2010 all’AUSL di Grosseto e dal 2014 in tutta la Toscana, un gruppo di
deputate proponga che la stessa procedura che prevede all’arrivo al pronto soccorso di
una vittima di violenza, che quest’ultima sia messa immediatamente in contatto con
specialisti sanitari, forze dell’ordine e di polizia e magistratura, diventi un diktat nazionale.
Pur con la consapevolezza che il codice penale italiano stabilisce che costringere alla
denuncia di un reato è di per sé un reato, e che non si tratterebbe di un obbligo, possiamo
solo provare ad immaginare le pressioni a cui sarebbe sottoposta la vittima, e la scelta del
termine non è casuale, trovandosi a dover giustificare per l’ennesima volta il più naturale
ed umano dei sentimenti: la paura.
Perché diciamolo pure a voce alta, chi subisce una violenza tace perché ha paura, non
denuncia perché non vede via d’uscita, e se la violenza avviene tra le mura domestiche,
nella maggior parte dei casi non va via perché non esiste un posto in cui possa andare e
sentirsi al sicuro. Chi sostiene il “codice rosa”, sembra, infatti, dimenticare che tristemente
la maggior parte dei femminicidi avviene per mano del partner o ex partner e che
obbligare, o meglio “incoraggiare” una donna a denunciare senza offrirle una concreta
tutela, consistente prima di tutto in un rifugio a cui approdare dopo aver denunciato,
equivale a rispedirla dritta fra le braccia del suo aguzzino, che ben lieto della querela
ricevuta non reagirà certo con fiori e tenerezze.
Dire che il “Codice Rosa” non ci piace, non vuol dire sostenere quella mentalità omertosa
per cui quello che accade tra le mura domestiche sia una faccenda privata. Denunciare è il
solo mezzo per portare alla luce la violenza e sconfiggerla, e di questo siamo tutti ben
consapevoli, ma non esiste un automatismo, non esiste un percorso standard e non esiste
una soluzione facile.
Occorre infittire la rete delle tutele, occorre creare un virtuoso sistema di accoglienza
assistenza delle vittime che non si limiti alla burocratizzazione dell’atto di denuncia,
occorre che le vittime abbiano una via d’uscita. Solo un paese che sia in grado di fornire
tutte queste attenzioni, potrà permettersi di chiedere un atto di coraggio a chi
quotidianamente combatte la sua battaglia. Ma allo stato attuale, quella rivoluzione
culturale, non può dirsi ancora compiuta e un emendamento coercitivo e, avrebbe
presumibilmente un unico drammatico effetto: ridurrebbe il numero di richieste d’aiuto al
pronto soccorso, aumentando il numero dei soprusi taciuti. E’ davvero questo quello che
vogliamo??
Potenza, 15 dicembre 2015
L’Addetto Stampa