radici storiche della filosofia ambientale

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radici storiche della filosofia ambientale
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Piergiacomo Pagano
RADICI STORICHE DELLA FILOSOFIA AMBIENTALE
Possiamo fare della natura quello che
vogliamo oppure dobbiamo
rispettarla perché il suo valore è
indipendente da noi? Nel corso dei
secoli numerosi pensatori hanno
cercato delle risposte convincenti a
questa domanda. Ne sono nate idee e
opinioni diverse che condizionano il
nostro modo di rapportarci con la
natura e incidono profondamente sul
futuro del nostro pianeta. Rispetto,
responsabilità, diritti, conservazione,
sostenibilità, rappresentano la sintesi
dei tanti argomenti della filosofia
ambientale, disciplina molto studiata
nel mondo nordico e anglosassone
ma ancora poco conosciuta in Italia.
Questo brano, tratto dal volume
‘filosofia ambientale’ recentemente
pubblicato presso l’editore di
Experience, ha lo scopo di fornire una
panoramica completa sull’argomento,
affinché il lettore possa avvicinarsi
alla filosofia ambientale e compiere,
nella vita di tutti i giorni, scelte
ponderate e consapevoli.
1. Preistoria e prime civiltà
Dal momento in cui l’uomo preistorico iniziò a distinguere fra il bene e il male
pensò fosse giusto darsi delle regole. Il suo comportamento morale, fino ad
allora, si era limitato alla protezione del nucleo familiare dai pericoli del
mondo esterno. D’altra parte la salvaguardia dei propri cari era più un meccanismo innato che una scelta cosciente. Era un imperativo legato alla sua stessa sopravvivenza e a quella dei suoi geni. Tuttavia, mano a mano che il cervello si ingrandiva, aumentava in lui la capacità di ragionare, di stringere contatti, di coltivare amicizie e creare ostilità, di selezionare tra persone e cose degne
di rispetto e non. La natura era una perenne insidia e l’uomo primitivo pensò
che nascondesse delle realtà soprannaturali. Ogni essere, ogni cosa, ogni evento, era parte di un tutto. Un tutto dotato di anima, come di anima erano dotate le sue singole parti.
Poi, l’uomo smise di essere un cacciatore-raccoglitore e si stabilì saldamente
nei territori più fertili, Mesopotamia e Delta del Nilo. L’agricoltura e l’allevamento gli permisero un’espansione demografica, ma lo costrinsero anche ad un
maggiore carico di lavoro. Le relazioni sociali si ampliarono, le religioni assunsero un’importanza sempre maggiore e la morale andò cercando nuovi valori.
Il senso dello Stato divenne forte, non altrettanto i diritti dei suoi abitanti,
basti pensare alle caste, con gli schiavi considerati poco più che bestie, o alle
donne relegate ad un ruolo subordinato al volere maschile e ritenute solo macchine per lavorare e fare figli. Già allora l’agricoltura intensiva aveva portato al
degrado i territori più sfruttati, tuttavia non abbiamo prove che qualcuno si
ponesse il problema della salvaguardia ambientale.
Nella Grecia antica del V secolo a.C. avvenne quella “svolta che ha segnato la
via fino ai giorni nostri”. Ebbe inizio quella tradizione meccanicista e materialista che ha caratterizzato la principale linea di pensiero della filosofia occidentale nel corso dei secoli. Tuttavia, secondo Celeste Locatelli, non tutti i
filosofi avevano la stessa concezione della natura. In effetti: “Alcune testimonianze fanno pensare che la più antica sensibilità magico-religiosa non fosse
del tutto scomparsa dal loro spirito e che lo stesso concetto di natura (in greco
physis, dalla radice di un verbo che significa ‘generare’) ne cogliesse, più che il
sostrato materiale, il dinamismo di un’energia vitale, non dissimile da quella
che anima l’essere umano.” Ad esempio, in Empedocle (ca. 495 - ca. 435 a.C.)
Locatelli ravvisa “un materialismo di tipo animistico più che fisico, che diminuisce e quasi cancella le distanze tra uomo e natura”. Nonostante ciò, le concezioni materialiste acquisirono maggiori consensi tra i filosofi. È con
Democrito (ca. 460 - ca. 370 a.C.) che il materialismo si affermò con grande
vigore. Considerato il più grande esponente della corrente filosofica dell’ato-
mismo proposto per primo da Leucippo (V sec. a.C.) suo
maestro, Democrito affermò che gli atomi sono l’essere
perché fatti di pura materia e perché riempiono gli spazi.
Gli atomi si spostano spontaneamente nel vuoto senza
che quest’ultimo offra resistenza. Gli atomi si scontrano,
si aggregano e si disgregano, in una vibrazione o pulsazione eterna.
Il dibattito filosofico era centrato sullo studio dei fenomeni naturali supremi che governavano il mondo (ad
esempio il concetto di “continuo”, lo studio degli elementi della materia ecc.). Anche se il degrado ambientale si faceva sempre più diffuso, gli effetti antropici sul territorio non facevano discutere. In Grecia “i primi segni
della distruzione su larga scala iniziarono a comparire
circa nel 650 a.C. quando la popolazione crebbe e gli
insediamenti si allargarono. La causa del problema fu
uno sfruttamento eccessivo del pascolo sull’ottanta per
cento della terra che era inadatta alla coltivazione”, tuttavia nessuno sembrò accorgersene. Platone, in Crizia,
dimostra di sapere degli effetti antropici sul territorio ma
esprime anche uno scarso interesse al fenomeno, sia perché considerava il mondo indistruttibile, sia perché,
secondo il suo concetto di perfezione, la natura era priva
di quelle proporzioni matematiche e di quelle forme geometriche ideali degne di interesse. Così scrisse: “Tale era
allora, oltre alla bellezza, la sua fertilità. Come dunque
questo è credibile e per quale indizio questa terra si può
dir giustamente il residuo di quello di allora? [...] sono
rimaste in confronto di quelle d’allora quest’ossa quasi di
corpo infermo, essendo colata via la terra grassa e molle
e restato solo il corpo magro della terra. Ma allora che era
intatta, aveva come monti alte colline, e pianure ora dette
di Felleo erano piene di terra grassa, e sui monti v’era
molta selva, di cui ancora restano segni manifesti. E dei
monti ve ne sono ora che porgono nutrimento solo alle
api. Ma non è moltissimo tempo che vi furono tagliati
alberi per coprire i più grandi edifici, e questi tetti ancora sussistono. V’erano anche molte alte piante coltivate e
vasti pascoli per il bestiame. E ogni anno si raccoglieva
l’acqua del cielo, né, come ora, si perdeva quella che dalla
secca terra fluisce nel mare, ma nella terra, ricevutane
molta la conserva nel suo seno, e la riportava nelle cavità
argillacee, e dalle alture la diffondeva nelle valli formando in ogni luogo larghi gorghi di fonti e di fiumi, dei
quali presso le antiche sorgenti sono rimaste ancora sacri
indizi, che attestano la verità delle mie parole.”
Anche Aristotele ritenne l’uomo esente da qualsiasi
obbligo nei confronti della natura. Innanzitutto pensava
che il degrado per causa umana fosse controbilanciato da
un arricchimento altrove, inoltre era convinto che tutto,
in natura, avesse uno scopo. Così si espresse: “[...] le
piante sono fatte per gli animali e gli animali per l’uomo,
quelli domestici perché ne usi e se ne nutra, quelli selvatici, se non tutti quanti, almeno la maggior parte, perché
se ne nutra e se ne serva per gli altri bisogni, ne tragga
vesti e arnesi”. E conclude dicendo che tutto è fatto per
l’uomo. “Se dunque la natura niente fa né imperfetto né
invano, di necessità è per l’uomo che la natura li ha fatti,
tutti quanti”.
Pochi furono i filosofi che confutarono queste posizioni.
Teofrasto respinse la dottrina secondo cui gli esseri
viventi esistevano per l’uomo. Pitagora e Plutarco raccomandarono di rispettare le norme di giustizia nei confronti degli animali, che consideravano uniti in un’unica,
generale, parentela. Porfirio predicò di ridurre al minimo le proprie pretese per sopravvivere solo dei frutti
inutilizzati.
Nei secoli successivi le cose non migliorarono anche se i
romani elaborarono un diritto della natura (jus naturae)
e un diritto degli animali (jus animalium) in contrapposizione al diritto comune (jus commune) in quanto credevano all’esistenza di leggi naturali, indipendenti dall’uomo, che regolavano i principi della sopravvivenza.
L’avvento del cristianesimo portò ad un inasprimento dei
rapporti fra uomo e natura. Coloro i quali basavano la
propria morale secondo le Sacre Scritture pensavano ad
un Dio Sommo, Unico, Onnipotente e ad un essere
umano voluto a sua immagine e somiglianza. Secondo
l’interpretazione prevalente dell’Antico Testamento il
Creatore aveva dato all’uomo, quale essere eletto, il potere di usare a suo piacimento le risorse naturali. Nel libro
della Genesi è scritto: “Dio disse: -Facciamo l’uomo: sia
simile a noi, sia la nostra immagine. Dominerà sui pesci
del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, sugli animali selvatici e su quelli che strisciano al suolo-”. E ancora:
“Di tutto potrete disporre: [...]”. Il Dio cristiano puniva
gli animali malvagi che uccidevano gli uomini, ma non
condannava l’uomo che uccideva le bestie. Dio disse: “Se
sarà versato il sangue di un uomo, ossia la sua vita, io
interverrò per punire: punirò ogni animale che avrà ucciso un uomo e punirò ogni uomo che avrà ucciso un altro
uomo”.
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2. I primi filosofi moderni
La ricerca di regole indiscutibili su cui poggiare il ragionamento razionale
portò il filosofo francese Cartesio (René Descartes, 1596-1650) a lasciare
un’impronta indelebile nella storia del pensiero occidentale. A lui riconosciamo il merito di aver posto le basi del metodo scientifico. Tuttavia il fatto di
fondare la conoscenza su alcune evidenze che la mente umana sarebbe in grado
di cogliere intuitivamente lo portò a commettere un grave errore. Cartesio
pensò che la sensibilità fosse prerogativa dell’uomo, l’unico dotato di linguaggio e quindi l’unico in grado di pensare, di provare sensazioni e dolore. Gli animali, al contrario, erano semplici oggetti, macchine prive di sensibilità e
coscienza, su cui era lecito compiere ogni tipo di esperimento.
Certo, a quei tempi l’immagine che si aveva della natura selvaggia era totalmente diversa da quella odierna. D’altronde appena ci si allontanava dai luoghi abitati la stessa vita era in pericolo. Le foreste erano impenetrabili, così fitte
di insidie naturali, e i pochi sentieri esistenti erano battuti da briganti in attesa di qualcuno da spennare. Ovvio quindi che l’ambiente naturale fosse considerato selvaggio e brutale, una minaccia da temere. Così per il filosofo inglese
Thomas Hobbes (1588-1679) la vita allo stato di natura era solitaria, povera,
sporca, brutale e breve. Da questo ne dedusse che l’uomo aveva bisogno di
organizzarsi in una società sorretta da regole di comportamento morale per
contrastare i pericoli della natura. Darsi regole e dotarsi di un governo, secondo Hobbes, significava stabilire un “contratto sociale”, un “patto di soggezione”, per il quale ogni individuo rinunciava alla libertà in nome della sicurezza.
Al contrario John Locke (1632-1704), fautore della libertà individuale, pensava che l’aggressività umana, anche in assenza di regole, si bilanciasse secondo
il principio per cui ci si deve aspettare dagli altri ciò che a loro si fa. Col passare del tempo, e attraverso una progressiva migliore organizzazione, la società umana sarebbe andata perfezionandosi. Ogni persona, per il mero fatto di
esistere, aveva il diritto alla vita, alla libertà, alla salute e al possedimento di
beni, proprietà terriera compresa. Secondo Locke, l’uomo era il padrone della
natura, Dio gli aveva dato la Terra per trarne sussistenza e conforto. Tuttavia
non ne doveva abusare. Come un re accorto operava per il prosperare delle sue
proprietà, l’uomo doveva essere un saggio amministratore. Gli animali erano
suoi sudditi, esseri viventi e senzienti che meritavano rispetto.
Molti pensatori del passato fornirono una propria interpretazione della natura. Ad esempio per Henry More (1614-1687), teologo animista insegnante a
Cambridge, ogni parte della natura era pervasa da una anima mundi, le piante e gli animali esistevano per godere di loro stessi e solo la rozzezza dell’ego
portava l’uomo a credere che la natura esistesse solo a suo beneficio. Per il
botanico inglese John Ray (1627-1705), invece, gli esseri viventi esistevano per
glorificare Dio. L’uomo aveva il compito di costruire un impero razionale perché la Provvidenza si compiaceva “della laboriosità dell’uomo nell’adornare la
terra con bellissime città e castelli, con graziosi villaggi e case di campagna
[...]”. Dio era il punto centrale della filosofia dell’olandese Baruch Spinoza
(1632-1677) il quale sosteneva che ogni essere, così come ogni oggetto, fosse
una temporanea manifestazione della sostanza, ciò che sussiste di per sé e che
equivale a Dio. La sua idea panteistica si basava sul fatto che gli esseri, una
volta morti, diventavano il cibo di altri esseri, seguendo
una linea circolare infinita. Spingendosi oltre, il tedesco
Gottfried Leibnitz (1646-1716) rifiutò la separazione tra
il vivente e il non-vivente. Sebbene non abbia mai, o
quasi mai, espresso un’etica che indirizzasse l’uomo verso
un comportamento morale, le idee di Leibniz e il suo
sistema di valori, sono fonte di suggerimenti ben precisi.
Nel libro Leibniz e l’universo dei viventi Vilma Baricalla
tratta di come Leibniz concepisce Dio, il creato e l’intima essenza degli abitanti del mondo. Leibniz afferma
che le monadi (unità sostanziali, elementi primi della sua
metafisica) percepiscono il tutto e sono centri rappresentativi di tutto l’universo. Esse interagiscono in una comune partecipazione per il raggiungimento di un fine universale. Gli organismi non sono riconducibili a semplici
meccanismi, essi sono dotati di una sensibilità anche in
mancanza di una riflessione consapevole. Dio permea
l’universo, compreso il suo più piccolo abitante. Ecco
allora la lezione: “Un uomo, una pianta, un animale
vanno guardati non per quelle creature contingenti, limitate, finite che sono, ma per quell’infinito che, consapevolmente o meno, l’anima di ciascun vivente reca dentro
di sé.”
La questione diretta dei rapporti tra uomo e animali era
un tema più specifico e sicuramente più sentito dalla
popolazione. Basti pensare che il pittore e incisore illuminista inglese William Hogarth (1697-1764), famoso
per le sue stampe satiriche sui costumi dell’epoca, dedicò
le prime due tavole della sua opera: I quattro stadi di crudeltà (rispettivamente: contro i maltrattamenti dei cani e
contro l’abitudine di bastonare i quadrupedi) alla violenza sugli Animali. Come scrisse nelle sue note autobiografiche, esse furono fatte nella speranza di prevenire
quella consueta brutalità. Dalla sua, François Voltaire
(1694-1778) sentì la necessità di contestare la tesi cartesiana dell’associazione necessaria tra linguaggio e sensibilità, mentre Julien Offroy La Mettrie (1709-1751)
chiese rispetto per gli animali domandando se si potessero continuare a trattare come oggetti quegli esseri capaci
di affetti e di emozioni la cui anima registrava le stesse
gioie, le stesse mortificazioni, gli stessi turbamenti di
quella umana. Il filosofo Jean-Jacques Rousseau (17121778) sottolineò la somiglianza fra la sensibilità umana e
quella animale e David Hume (1711-1776) descrisse le
capacità umane, incluse quelle morali, come un caso speciale di capacità animali.
Diversi furono gli uomini illustri del Sei-Settecento che
si distinsero per le loro forti critiche all’antropocentri-
smo. Scienziati, filosofi, letterati, in una nutrita schiera di
opere, descrissero l’antropocentrismo come un’arroganza
tipicamente umana. Tra gli altri, Cyrano de Bergerac,
immaginandosi uomo al cospetto di fiabeschi abitanti
della Luna e del Sole, deve dissociarsi dal genere umano
per non apparire, lui stesso, un essere inferiore. Poiché
noi, che consideriamo inferiori gli animali, potremmo
essere considerati inferiori dagli extraterrestri.
Se pensatori, come La Mettrie, chiedevano il rispetto per
gli animali sostenendo la somiglianza con gli esseri
umani, questa non fu l’unica argomentazione. Immanuel
Kant (1724-1804) vide il loro maltrattamento come
un’anticamera per la violenza verso gli uomini. E questo
perché un uomo che maltrattava un animale senza una
valida ragione, manifestava una perversione che avrebbe
portato, forse, a maltrattare un uomo. Il rispetto morale,
secondo il filosofo tedesco, era dovuto sempre e soltanto
alle persone, mai alle “cose”, sia esse animate o inanimate. Un’altra argomentazione razionale -piuttosto cervellotica- merita menzione. Secondo il teologo Humphry
Primatt la crudeltà dell’uomo nei confronti dell’animale
era infinitamente grave perché quest’ultimo non aveva la
parola per difendersi e nessun tribunale poteva rendergli
giustizia. In sintesi l’atto malvagio contro l’animale era
irreparabile perché non esisteva per lui la possibilità di
riscatto ultraterreno. Inoltre, siccome la sofferenza era
“male”, la crudeltà verso la vita era “ateismo” e “infedeltà”.
Le idee illuministe contribuirono a diffondere una mentalità a difesa degli animali. Alcuni pensatori auspicarono un allargamento dell’etica. Tra questi l’inglese John
Oswald nel 1791 pubblicò The Cry of Nature or an Appeal
to Mercy and to Justice on Behalf of the Persecuted Animals
(Il grido della natura o un appello alla compassione e alla
giustizia nell’interesse degli animali perseguitati) e il
conterraneo George Nicholson nel 1797 diede alle stampe On the Conduct of Man to Inferior Animals (sulla condotta dell’uomo verso gli animali inferiori).
Dall’altra parte dell’oceano il reverendo Nicholas Collin
chiese all’American Philosophical Society di sostenere la
protezione di uccelli poco conosciuti perché rischiavano
l’estinzione, mentre il democratico Thomas Paine (17371809) scrisse: “qualsiasi persecuzione e vendetta tra
uomo e uomo e qualsiasi crudeltà verso gli animali è una
violazione dell’obbligo morale.” Un passo oltre andò il
gentleman di campagna inglese John Lawrence deplorando il fatto che, nel sistema giuridico vigente, gli animali fossero totalmente privi di diritti. Nel saggio A
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Philosophical Treatise on Horses and on the Moral Duties of Man Towards Brute
Creation (Un trattato filosofico sui cavalli e sui doveri morali dell’uomo nei
confronti degli animali selvaggi, 1796) sostenne che lo jus animalium avrebbe
dovuto essere parte di ogni sistema legale fondato sui principi di giustizia e
umanità.
3. Dall’utilitarismo di Bentham alle prime leggi in difesa degli animali
L’allargamento dell’etica agli animali trovò nel pensiero di Jeremy Bentham
(1789-1832) una base razionale forte. Il filosofo inglese sviluppò un’etica utilitaristica basata su un semplice enunciato: sofferenza è male, piacere è bene; il
così detto “principio di massima felicità”. Non era questione se gli esseri viventi avessero un linguaggio, una coscienza o potessero trasmettere informazioni e
sentimenti ai propri simili. La domanda da porsi era se potevano soffrire e la
risposta era: sì. In questo contesto Bentham pose il dilemma dei “casi marginali”, un argomento sempre attuale. Se l’uomo non aveva nessuna remora a
maltrattare o a sopprimere gli animali giustificandosi col fatto che non li riteneva razionali o intelligenti, allora poteva fare altrettanto con gli esseri umani
nelle stesse loro condizioni: neonati, persone in coma, handicappati mentali.
Successivamente, assieme a John Stuart Mill (1806-1873), raffinò la teoria utilitaristica arrivando a presupporre che la crudeltà fosse proporzionale al sistema nervoso degli animali. Più un essere è intelligente e sensibile, più è grave la
crudeltà nei suoi confronti.
I tempi erano ormai maturi perché si vedessero i risultati in termini legislativi.
Qualche avvisaglia c’era stata in precedenza: nel 1596 un’ordinanza nella
comunità inglese di Chester vietò il combattimento tra cani e orsi, nel secolo
successivo venne vietato il combattimento fra galli e nel 1641 venne emanato
il Body of Liberties (Corpo delle libertà) del Massachusetts Bay. Tuttavia le
prime vere leggi a protezione degli animali nacquero a seguito dei movimenti
di libertà di fine secolo XVIII. Così, dopo svariati rinvii, il 22 giugno 1822 in
Inghilterra venne varata la legge sul maltrattamento del bestiame (IllTreatment of Cattle Act). Richard “Humanity Dick” Martin (1754-1834), che
l’aveva proposta e sostenuta con grande vigore, non ne fu soddisfatto perché
riguardava solo una piccola parte del mondo animale. Così proseguì la battaglia fondando la Società per la prevenzione della crudeltà verso gli animali
(Society -divenuta poi Royal Society- for the Prevention of Cruelty to
Animals, società per la prevenzione alla crudeltà verso gli animali) nel 1824.
Per la richiesta dell’enunciazione di veri e propri diritti bisogna attendere ancora qualche decennio quando l’americano Henry Berg (1811-1888) fondò una
società analoga a quella inglese. Lo statuto dell’ASPCA (American Society for
the Prevention of Cruelty to Animals), nata nel 1866, contiene infatti, una
“dichiarazione dei diritti degli animali”, una sorta di proclamazione di indipendenza delle specie che va oltre il “Martin’s Act” e vieta la crudeltà nei confronti di tutti gli animali.
4. Verso un’etica olistica
Nel frattempo il pensiero filosofico a sostegno dell’ambiente percorreva un’altra direzione. Inizialmente, anche
se l’uomo occidentale stava compiendo dei veri e propri
scempi ambientali, pochi studiosi ritennero importante
levare la voce a difesa di un concetto etico che abbracciasse la natura nel suo complesso. In questo contesto si
distinse John Bruckner (1726-1804) teologo luterano di
origine belga, autore del saggio A Philosophical Survey of
the Animal Creation (indagine filosofica sulla creazione
animale, 1768) che, vista l’esplosione di piante ed animali ai tropici, descrisse la natura come “la trama continua
della vita”, una massa animata e brulicante che sfidava i
concetti di ordine ed economia. John Bruckner, mostrando un’incredibile preveggenza ecologica, aveva notato
che sulla Terra era garantita la “produzione e la conservazione” della massima “abbondanza vitale”. Questa
abbondanza era però minacciata dall’avanzamento
umano. Ad esempio gli americani bruciavano le foreste
per coltivare la terra e così facendo mettevano a rischio
dieci specie per ognuna salvaguardata. Secondo Bruckner
ogni organismo aveva il diritto di vivere, la Terra apparteneva a tutti e l’uomo non era il proprietario dell’“intero disegno della provvidenza”. Il pensiero di John
Bruckner rimase per decenni un caso isolato finché non
si riaccese la visione pagana della natura tra la fine del
XVIII secolo e l’inizio del XIX con la nascita del
Romanticismo. Secondo le parole dello storico Donald
Worster: “Alla base della visione romantica della natura
vi era quella che le generazioni future avrebbero chiamato prospettiva ecologica, vale a dire la ricerca della percezione olistica e integrata, l’enfasi sull’interdipendenza e i
rapporti naturali e il forte desiderio di ridare all’uomo un
legame intimo con il vasto organismo che costituisce la
terra.” Sempre secondo Worster, mentre gli umanisti
erano anti-naturalisti per definizione in quanto preferivano soffermarsi sulle istituzioni distintive dell’uomo, i
romantici erano fondamentalmente ecocentrici.
Il primo, e forse il più grande, ambientalista americano fu
il naturalista romantico Henry David Thoreau (18171862). Thoreau credeva nell’esistenza di una “Superanima”, una forza morale che permeava ogni cosa in
natura e che Dio manteneva unita. Durante la breve vita
osservò e annotò scrupolosamente tutto ciò che di natura c’era nei dintorni della sua città natale, Concord.
Cercò di capire quale fosse l’impatto umano sul territorio e in che modo si potesse agire per vivere in armonia
con la natura, così come avevano fatto per millenni gli
indiani d’America. Anche se non arrivò a parlare apertamente di “diritti della natura” in un certo qual modo li
anticipò quando istigò i cittadini a protestare contro la
costruzione di una diga sul Concord River, diga che
avrebbe bloccato i pesci che risalivano il fiume per riprodursi.
Che l’uomo fosse la causa del degrado ambientale era
evidente, tuttavia la prima grande opera sull’impatto
distruttivo umano, Man and Nature, vide la luce solo
nella seconda metà del XIX secolo. Secondo l’autore, il
diplomatico americano John Perkin Marsh (1801-1882),
l’uomo non era il proprietario della Terra, era solo un
usufruttuario col compito di averne cura senza consumarla né, tanto meno, sprecarla. Inoltre l’uomo non era
abbastanza intelligente per capire le conseguenze del suo
operare. Marsh scrisse: “[...] la vita animale e vegetale è
un problema troppo complicato perché l’intelligenza
umana riesca a risolverlo, e noi non potremo mai sapere
quanto è ampio il cerchio di disturbo che produciamo
nell’armonia della natura quando gettiamo il più piccolo
ciottolo nell’oceano della vita organica.” Suggerendo che
l’uomo doveva cambiare rotta e non guardare al solo lato
economico, Marsh sostenne l’esigenza di grandi rivoluzioni politiche e morali. La scienza dell’ecologia era ai
primi passi e la filosofia ambientale iniziava ad allargare
i suoi orizzonti. Ormai i tempi erano maturi e Edward
Payson Evans (1831-1917) sostenne esplicitamente che
la vita non-umana aveva dei “diritti intrinseci” che gli
uomini non dovevano violare. Credendo nella metempsicosi, la trasmigrazione dell’anima da un essere vivente
ad un altro dopo la morte, Evans rifiutò il principio di
Kant secondo cui il maltrattamento degli animali era
sbagliato in quanto portava gli uomini alla violenza sugli
altri uomini e dichiarò che qualsiasi tentativo di separare
il genere umano dalla natura era “filosoficamente falso e
moralmente pernicioso”. Inoltre Evans accusò la cristianità degli scempi ambientali perché giustificava l’utilizzo
della natura come bene strumentale. D’altra parte anche
il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860)
aveva già sollevato la questione individuando nelle radici
del giudaismo la mancanza di diritto degli animali, “una
rivoltante grossolanità e barbarie dell’occidente”.
Il contatto con la natura riesce spesso a cambiare le persone. Generalmente sono le grandiose manifestazioni a
farci riflettere: un silenzioso deserto, una foresta selvaggia o un vulcano in eruzione. Le orchidee ebbero questo
effetto su John Muir (1838-1914). Muir, passato alla sto-
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ria per essere riuscito ad istituire il Yosemite National Park (1890) e per aver
fondato il Sierra Club (1892), era convinto che la presenza dell’uomo fosse
irrilevante. La natura esisteva principalmente per se stessa e per il suo
Creatore. Dio permeava l’ambiente, ma la civiltà e la cristianità, con la sua
separazione dualistica uomo-natura oscurava questa verità. Nella sua giovinezza Muir fu un idealista, tuttavia con la maturità capì che per ottenere dei
risultati concreti doveva cambiare atteggiamento. Abbandonò le idee più
estreme ed entrò in politica diventando pragmatico e utilitarista. Così mentre
nella sua giovinezza aveva dichiarato che gli animali e le piante erano fatte per
la loro stessa felicità, col passare degli anni sostenne che la natura aveva un
valore estetico e le persone potevano giovarsene per rilassarsi o per trarne
nutrimento spirituale. Secondo Roderick F. Nash il suo non fu un ripensameno, Muir piuttosto camuffò il suo egualitarismo in una retorica più accettabile centrata sui benefici che la natura portava agli uomini. Così scrisse Muir nel
primo paragrafo di Our National Parks: “Andare in montagna è come andare a
casa; perché la natura selvaggia è una necessità; e perché i parchi di montagna
e le riserve non sono utili solo come fonti di legname e di fiumi per irrigare,
ma anche come fonti di vita”.
Nella seconda metà del secolo XIX fiorirono nuovi argomenti ambientalisti, si
parlò di un nuovo olismo, un nuovo organicismo, un nuovo panteismo. Di
Thoreau e di altri si è già detto, non si può tuttavia trascurare l’opera di Alfred
North Whitehead (1861-1947) sostenitore che l’identità e lo scopo di ogni
oggetto sorgesse dalla sua relazione con tutte le altre cose e quella di William
Morton Wheeler (1865-1937), professore di entomologia a Harward, che
chiamò “superorganismo” le colonie degli insetti sociali perché agivano come
un unico essere vivente.
E, ancora, è doveroso citare Albert Schweitzer (1875-1965) nobel per la pace
nel 1953. Schweitzer fu un personaggio fuori dal comune. Nato in Alsazia studiò musica, filosofia e teologia finché, a 30 anni, un “richiamo di Dio” lo convinse ad intraprendere gli studi in medicina ed andare in Africa ad occuparsi
della popolazione di colore. Dopo un’ulteriore “illuminazione” si dedicò alla
ricerca di una base razionale dell’etica. Partendo dai valori etici orientali
(indiani, cinesi, tibetani) il “profondo rispetto per la Vita” (Reverence of Life)
divenne il punto centrale della sua filosofia. Per Schweitzer la natura doveva
essere lasciata intatta, anche il cristallo di ghiaccio non andava toccato, era
lecito uccidere solo se strettamente necessario.