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Un festival tira l’altro: ma è davvero ricchezza culturale?
di Donatella Gnetti
Da meno di un mese abbiamo archiviato la tredicesima edizione di Passepartout, la
rassegna che la Biblioteca Astense organizza ogni anno nei primi giorni di giugno. Nato
nel 2004 come festival di letteratura sulle orme di ciò che era stato Chiaroscuro,
Passepartout ben presto ha assunto una fisionomia diversa, allontanandosi dalla
letteratura per affrontare la riflessione su temi di anno in anno diversi, ma sempre con una
forte declinazione storica. La formula che fa riferimento a un anno del passato carico di
echi simbolici (quest’anno il 1936 della Guerra Civile spagnola) riportandolo all’oggi - per
analogie o differenze - riesce ogni anno, grazie all’apporto fondamentale del direttore
scientifico Alberto Sinigaglia, a comporre un panel di ospiti di alto profilo, chiamati
singolarmente a esporre dal palco le loro riflessioni nel corso di una lectio magistralis.
Volutamente antitetico rispetto alla confusione urlata degli spettacoli televisivi di
approfondimento, Passepartout offre un modello che il pubblico mostra di gradire,
affollando gli incontri e ascoltando in silenzio religioso i vari interventi, al termine dei quali
vengono poste domande che spesso innescano un dibattito, sempre rispettoso e civile,
anche quando le posizioni sono in contrasto. Una formula riuscita, gradita al pubblico,
seguita dai media locali e nazionali, apprezzata dalle fondazioni bancarie che la
promuovono e dagli sponsor che la sostengono. Tutto bene, quindi? Sì, certo, ma restano
zone d’ombra. Quella che più inquieta chi scrive è lo scarso richiamo che la
manifestazione esercita sui giovani. Una rassegna che si fonda soltanto sul potere della
parola e delle idee, dove non scorre alcool, né musica spacca timpani può risultare del
tutto estranea a un certo tipo di gioventù che nelle calde serate estive invade il centro
rumoreggiando fino alle ore piccole. Ma dove sono gli studenti delle scuole superiori, che
sui temi proposti dal festival si confrontano all’esame di maturità, spesso limitandosi a
scaricare da internet tesine preconfezionate? Dove sono gli universitari, che hanno latitato
persino lo scorso anno, quando molti degli incontri si sono svolti nella sede di ASTISS?
Non se ne vedono molti tra il pubblico di Passepartout. Che è – va riconosciuto – un
pubblico meraviglioso, cresciuto con la manifestazione e che la segue da sempre. Un
pubblico più volte lodato dagli ospiti per l’attenzione di cui dà prova (non si sente suonare
un cellulare, eppure in cortile siedono 500/600 persone: un chiaro segnale di civiltà). Un
pubblico, infine, motivato da ragioni diverse dalla necessità di ‘esserci e farsi vedere’,
essendo la rassegna priva di qualsivoglia risvolto mondano, così caro a un certo clima di
provincia. Ma un pubblico decisamente adulto, che la manifestazione ha saputo formare e
fidelizzare negli anni. Perché i giovani, che pure stazionano nel cortile della Biblioteca
dove la sera hanno luogo gli incontri fino a poche ore prima dell’inizio degli stessi, non
frequentano Passepartout? È una domanda alla quale non so rispondere e sulla quale mi
piacerebbe avere un confronto con le altre manifestazioni astigiane, a patto che
condividano con Passepartout la caratteristica del rigore dell’offerta, priva di seduzioni
alcooliche e acustiche.
Una seconda considerazione muove invece dal concetto di Asticittàfestival, che nel 2008
così veniva promossa dalla amministrazione comunale: Una città vivace, pulsante, tutta da
scoprire attraverso un percorso culturale e di intrattenimento che trova la sede naturale nel
suo splendido centro storico; una città i cui luoghi più belli, più storici e più suggestivi si
collegano fra loro per diventare un unico spazio in cui immergersi. La città vive la sua
lunga estate di intrattenimento e di cultura, di divertimento e di animazione. E non solo:
accanto a questi grandi avvenimenti, per tutta l’estate, si susseguono ogni sera spettacoli
musicali che animano le piazze del centro, dai caffè concerto al tango argentino, dal piano
bar al concerto jazz. Il fil rouge tra le tante manifestazioni dell’estate era quindi la
localizzazione nel centro storico: ad alcuni anni di distanza varrebbe la pena di fare una
riflessione sulla validità di questo assunto. E forse una sintetica ricostruzione storica può
essere d’aiuto. In principio fu Asti Teatro, nato dall'idea geniale di Laurana Lajolo e altre
belle teste, che nel 1978 ad Asti si occupavano di cultura per continuare a fare teatro
negli spazi aperti di una città dove il Teatro era stato chiuso. L’idea era talmente buona e
l’organizzazione affidata a personaggi di tale indiscutibile livello, che per anni Asti fu la
capitale della drammaturgia contemporanea, cui tutto il mondo dello spettacolo - italiano e
non solo - guardava con la stessa considerazione di Spoleto o Avignone. Nel 1995 nacque
con la stessa vocazione ‘di piazza’ e di offerta di alto livello AstiMusica. Poi fu
Chiaroscuro, altra idea vincente di Marco Tropea, che avrebbe potuto - se
opportunamente valorizzato - fare ad Asti ciò che fu fatto a Mantova. Tropea si stancò
dopo alcune edizioni, nel 2003 l'edizione di giugno fu rimandata a settembre e il festival A
sud di nessun nord organizzato dal Diavolo Rosso ne occupò immediatamente lo
spazio, candidandosi l'anno successivo, quando Tropea lasciò definitivamente Asti, a
prenderne il posto. Invano, perché la biblioteca in poco tempo fece nascere Passepartout
dalle ceneri di Chiaroscuro e mantenne l’idea di un festival di letteratura ancorato alla
principale pubblica istituzione culturale cittadina. Nel 2013 a San Damiano debuttava la
prima esperienza in provincia con il festival FuoriLuogo, un mix di musica,
enogastronomia e letteratura, rientrato in città dopo due sole edizioni per andare
recentemente stabilirsi nella ristrutturata ex palestra Muti, dove convergeranno anche gli
orfani di A Sud di nessun Nord, cessato già da due anni, e del Diavolo Rosso, che nel
frattempo ha chiuso. Ultimo arrivato, in questa affollata galassia festivaliera, l’Indulgence
Chromatics Festival, organizzato con una scelta promozionale davvero singolare da un
negozio di ottica, che però pare ancora in cerca di una propria orbita e di una propria
identità. Lo scorso anno al Michelerio corteggiava AstiMusica con i ritmi caraibici, mentre
quest’anno in Piazza S. Secondo ha reso omaggio alla formula di Passepartout
promuovendo incontri con giuristi e giornalisti. Forse gli astigiani soffrono di bulimia
culturale e hanno bisogno di tutto questo e magari anche di più. Organizzare un festival
deve essere facile visto che nel nostro paese nascono come i funghi e ad Asti con una
facilità e frequenza anche maggiore. Ma non mi sembra corretto interpretare questa
pletora di iniziative come sintomo di buona salute della cultura cittadina. Temo, al
contrario, che lo spezzatino culturale degli ultimi anni, barattato come ricchezza
dell'offerta sotto il comodo slogan di città festival, sia riuscito soltanto a impoverire la città,
parcellizzando le risorse sempre più scarse in un eccesso di iniziative coriandolo, senza
alcun coordinamento, senza un'idea.
Non ha fatto crescere un pubblico, non ha creato professionalità. Intanto Asti Teatro,
fantasma di ciò che fu, annaspa alla ricerca di una nuova identità, AstiMusica sopravvive
grazie all’ASP, le istituzioni culturali boccheggiano in una città fiaccata dalla crisi. Serve
una riflessione critica, perché la mano pubblica ha abdicato al ruolo di coordinamento che
le compete, per limitarsi ad esprimere apprezzamento e a sostenere qualsiasi cosa senza
neppure un calendario coordinato? Come si può, infatti, autorizzare, sostenere ed
elogiare iniziative private che si svolgono negli stessi giorni e spazi, in concorrenza
evidente con quell’AstiTeatro, un tempo fiore all’occhiello dell’Amministrazione e della
Città, che ora sembra sopravvissuto a se stesso? Forse, se la politica (nel senso
etimologico di polis) si riappropriasse del ruolo di coordinamento che le compete, non in
forza di uno slogan privo di contenuti, ma per fare massa critica e coordinare le varie
forze della città riusciremo a fare di meglio.
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