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RASSEGNA STAMPA
Martedì 25 agosto 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Avgi del 9/08/2015
La presidente dell’ARCI sul quotidiano di Syriza
Francesca Chiavacci: Solidarietà alla “Solidarietà per tutte e tutti” e il
popolo greco
Una campagna di solidarietà alla “Solidarietà per tutte e tutti” e per di più in piena estate
ha cominciato il colosso dell’associazionismo culturale e sociale ARCI, che ha quasi 1,3
milioni di membri e centinaia di circoli e associazioni. “Abbiamo raccolto già più di 22 mila
euro, grazie anche alle iniziative personali dei nostri membri e amici”, ha detto ad “Avgi” la
presidente dell’ARCI Francesca Chiavacci, che vuole visitare a settembre la Grecia per far
partire nuove iniziative di solidarietà con il popolo greco. Per la presidente dell’ARCI la
Grecia ha offerto una grande occasione per parlare per l’Europa dei popoli, della
democrazia, della solidarietà e della giustizia sociale.
*In piena estate avete preso la decisione di cominciare una campagna di solidarietà
per la Grecia e specialmente con la “Solidarietà per tutte e tutti”…
Abbiamo deciso di cominciare la campagna di solidarietà durante la più difficile settimana
per la Grecia e l’Europa. Avevamo detto allora che indipendentemente da come andava a
finire il Consiglio Europeo e questa storia l’ARCI si doveva trovare al fianco dei greci colpiti
dall’austerità. Avevamo visto con piacere i risultati del referendum e l’espressione
democratica del popolo greco. Abbiamo sperato che l’Europa accoglieva il messaggio.
Sfortunatamente questo non è successo.
L’ARCI ha le sue radici nelle società di mutuo soccorso del secolo scorso, alle esperienze
dalla dittatura fascista e la resistenza e più tardi quando ha rappresentato il lievito per la
creazione dello stato sociale italiano. L’ARCI ha rappresentato la leva per il
riconoscimento di tanti dei diritti dei lavoratori, come la tessera sanitaria.
*L’ARCI aveva mostrato il suo interesse per le strutture di solidarietà dall’inizio della
crisi greca…
Quando aveva cominciato la crisi in Grecia l’ARCI aveva preso l’iniziativa, essendo forse
la prima grande associazione culturale e sociale che ha visitato la Grecia, ha conosciuto la
“Solidarietà con tutte e tutti” e ha seguito da vicino le esperienze delle strutture greche di
solidarietà. L’ex presidente di ARCI Paolo Beni, la responsabile delle relaziono
internazionali Rafaella Bolini e un gruppo di attivisti aveva incontrato “Solidarietà con tutte
e tutti”, l’Ambulatorio Medico e Farmaceutico Sociale Metropolitano di Elliniko ad Atene ed
altre strutture di solidarietà.
La campagna che abbiamo cominciato il giorno dopo il Consiglio Europeo per raccogliere
fondi per sostenere la “Solidarietà con tutte e tutti” ci ha sorpreso, perché anche se siamo
nel periodo estivo abbiamo avuto dalla gente una risposta immediata, i semplici cittadini.
Lo dico questo perché abbiamo raccolto più di 22 mila euro durante il periodo estivo
quando i circoli e le associazioni di ARCI non svolgono le loro attività in pieno a causa
delle vacanze. Quello che ci ha fatto impressione è la disponibilità delle persone a livello
individuale di offrire il loro sostegno economico alla “Solidarietà con tutte e tutti”.
Dalla fine di agosto cominceremmo di organizzare iniziative di solidarietà per raccogliere
fondi per la “Solidarietà con tutte e tutti” e non solo. Vogliamo creare un centro di
accoglienza per immigrati, visto che la questione della immigrazione rappresenta un
problema comune. Vogliamo sostenere la creazione di un Ambulatorio Medico e
Farmaceutico Sociale e sostenere dei ragazzi che vogliono aiuto nella scuola.
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Agli inizi di settembre avremo un incontro con la “Solidarietà con tutte e tutti” ad Atene e
credo che troveremo forme di collaborazione. C’è anche la idea di procedere a gemellaggi
delle strutture di solidarietà greche con i nostri circoli ed associazioni.
*L’ARCI si era cambiato durante la guerra civile nella ex Jugoslavia con una forte
presenza di solidarietà ai popoli della ex Jugoslavia. Oggi come vedete la situazione
in Europa?
La solidarietà ai popoli della ex Jugoslavia ci ha fatta capire tante cose. Oggi l’austerità
distrugge l’Europa e la idea dell’Europa dei popoli. Abbiamo bisogno di un’Europa solidale
e la Grecia è importante. Abbiamo sottolineato alla nostra campagna dal principio due
parole: “Solidarietà” e “Sinistra”.
Con la crisi, lo vediamo anche in Italia, il populismo, il nazionalismo, e ancora peggio il
fascismo, alzano la testa. In Italia, come anche in Grecia, parlano di una estrema destra
sociale. C’è un grande pericolo per la democrazia e i cittadini. Oggi le decisioni per la
gente non le prendono i governo ma il settore finanziario influenzando direttamente la vita
quotidiana delle persone. Dobbiamo farlo capire alla gente.
Il governo italiano, almeno ufficialmente, ha detto che ha sostenuto la Grecia, ma noi
crediamo che poteva fare molto di più. È una questione che ci riguarda, come il questione
della immigrazione. Sfortunatamente nessuno oggi vuole pensare come europeo.
*Lei viene dalla Toscana, la capitale dell’associazionismo e del volontariato italiano,
della partecipazione nella vita sociale e di solidarietà. Come possono coesistere il
ritorno alla “stato nazionale” e l’idea dell’Europa dei popoli, che ha citato?
Le grandi società partecipative e i loro cittadini hanno un’altra idea per l’Europa dei popoli,
della solidarietà e della giustizia sociale. Si deve creare un fronte ampio e un movimento a
livello europeo per farli capire che non vogliamo andare via dall’Europa, non vogliamo
sopportare che decidono altri per noi, non vogliamo questa applicazione dei trattati. I
trattati con possono essere interpretati solo con criteri economici. Non possiamo ritornare
nel passato. Vogliamo un futuro comune che garantisce il benessere e il progresso
sociale.
L’Europa che appoggia le guerre vicine e si trova ostaggio del settore finanziario colpisce i
suoi cittadini. I popoli pagano il prezzo. Per questo abbiamo cominciato la campagna di
solidarietà con la “Solidarietà con tutte e tutti”.
Sfortunatamente in diversi paesi l’opinione pubblica non nostra nessun interesse per
quello che succede in Europa, non esiste nessuna sensibilità. In Italia abbiamo votato per
le elezioni europee e la storia è finita lì. Parliamo per la Grecia o per la questione della
immigrazione e credono che sono problemi che non riguardano tutti noi. Quelli che
scappano dalla Libia e dalla Siria lo fanno a causa delle guerre che l’Europa si è
impegnata attivamente. Il governo italiano non ha fatto molte cose. Avevamo per sei mesi
la presidenza dell’Unione Europea e potevano approfittare meglio per mettere alcune
questioni bollenti.
Da Repubblica Genova del 25/08/2015
Mense scolastiche, genitori contro l'appalto
"balneare"
La Commissione mense: "Così i bambini continueranno a mangiare cibi
su cui abbiamo già obiettato"
di MICHELA BOMPANI
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«Il Comune ha fatto un golpe agostano, lanciando un mega-appalto per le mense delle
scuole genovesi che vale quasi 30 milioni di euro e tenendoci fuori da ogni decisione. Così
i nostri bambini mangeranno ancora i bastoncini di pesce della Namibia, il riso rumeno e a
verdura congelata che arriva dal Belgio»: hanno scritto direttamente al sindaco, i genitori
delle diciassette commissioni mensa che compongono la Rete delle Commissioni mensa,
riconosciuta dallo stesso Comune lo scorso 13 maggio, durante una commissione
consiliare monografica sul tema.
E la Rete, che proprio nelle scorse settimane ha inglobato anche l'Arci Genova, l'Aiab
Liguria (associazione italiana agricoltura biologica), l'Asci Liguria, un'associazione di
coltivatori e la onlus Terra!, denuncia senza giri di parole una situazione che ritiene grave.
Accanto a loro, il 19 agosto scorso, tre consiglieri comunali hanno presentato, sullo stesso
tema, una mozione al sindaco: «Chiediamo che il bando per l'affidamento del servizio
ristorazione scolastica sia limitato soltanto ai lotti in scadenza o oggetto di ricorso, non a
tutti i dieci lotti», scrivono al sindaco e alla sua giunta, Antonio Bruno, Fds, Gianpaolo
Malatesta, ex Pd civatiano ora nel gruppo misto e la stessa consigliera della Lista Doria,
Clizia Nicolella.
Se tutti attendevano un bando per due soli lotti, dei dieci in cui è suddiviso tutto il servizio
di ristorazione scolastica del Comune di Genova, nessuno pensava che Tursi procedesse
a un bando complessivo. E in così breve tempo. Nel mirino dei genitori e degli stessi
consiglieri è dunque il grande appalto, da oltre 4 milioni di pasti all'anno che il Comune
pubblicherà proprio a fine mese.
«Non abbiamo ricevuto alcuna risposta - protesta Antonio Bruno - l'assessorato alla
Scuola doveva muoversi prima per fare la gara per bene, non nel pieno d'agosto e di
corsa. Chiediamo che il bando che sarà pubblicato a fine agosto affidi gli appalti solo per
un anno, in modo da poter costruire una efficente rete con materie biologiche e a
chilometro zero in tutte le scuole».
La Rete delle commissioni mensa, dopo una serie di sopralluoghi in cui denunciava la
bassa qualità del servizio, a maggio è stata invitata a Palazzo Tursi, nella commissione
presieduta dall'assessore alla Scuola, Pino Boero, per presentare le proprie rilevazioni e
cominciare un percorso di collaborazione con le stesse strutture dell'assessorato per il
controllo della qualità del servizio (oltre a quello garantito dal Comune stesso e dalla Asl) e
vedendo riconosciuto un proprio ruolo attivo nell'impostazione dei miglioramenti in termini
di aumento delle materie prime biologiche, a filiera tracciata e garantita e a chilometro
zero, ma anche nella consegna dei cibi veicolati in buone condizioni e con la giusta
grammatura.
«Siamo stati convocati il 2 luglio - spiega Sabina Calogero,una dei genitori fondatori della
Rete - e l'atmosfera era collaborativa. Abbiamo scoperto soltanto ad agosto che
l'assessore aveva lanciato un mega-appalto senza rispettare alcuna delle nostre richieste,
a parte qualche banale rassicurazione».
http://genova.repubblica.it/cronaca/2015/08/24/news/mense_scolastiche_genitori_contro_l
_appalto_balneare_-121563442/
Da Il Tirreno.it del 25/08/2015
Casina Rossa, dove il lavoro non manca
Una zona ristretta di Montecatini costellata di negozi e servizi. E vicino
al bar Giulia che festeggia 10 anni riapre anche il Circolo Arci
di Luca Signorini
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MONTECATINI. Negli ultimi anni in poche occasioni ci siamo ritrovati a parlare di nuove
aperture commerciali (se non di multinazionali e grandi aziende). A Montecatini il settore
non naviga certo in buone acque, tra chi prova a resistere e chi alla fine deve arrendersi.
C'è però una zona che appare in controtendenza: la Casina Rossa, dove assistiamo a una
vitalità piuttosto inusuale di questi tempi.
Il quartiere residenziale a nord della città sfida la crisi dei consumi. Domenica 30 agosto,
per esempio, il bar Giulia di via Bruceto festeggia i dieci anni di attività (fino al 2005 il
fondo ha visto un susseguirsi di gestori). I titolari, lafamiglia Flori, nell'occasione
organizzano una festa (a partire dalle 19) che sa tanto di rivincita contro gli scettici e
contro un mercato che va a rilento (ma non per loro): sono previste una cena a buffet, la
torta, le candeline e la musica dal vivo.
Accanto a chi taglia un traguardo per niente scontato, c'è anche chi arriva per la prima
volta e decide di investire. È il caso di Mirko Silvestri che da inizio settembre riaprirà le
porte dello storico circolo Arci della Casina Rossa, lungo viale Fedeli. L'attività è rimasta
chiusa dall'inizio dell'estate, dopo sette anni di gestione di Graziano Galligani, che l'aveva
rilevata nel 2008. Dopo pochi mesi, i bar del quartiere tornano così ad essere tre (su viale
Fedeli c'è anche un'altra storica attività, il bar Bull). Da queste parti resta solo un fondo
senza occupanti in via Bruceto: quello dove fino a giugno era aperta una gelateria, che
però non ha chiuso i battenti ma anzi si è trasferita in pieno centro, proprio di fianco
all'ingresso del teatro Verdi.
È alta la concentrazione di esercizi commerciali (e l'offerta per i residenti e turisti) in questo
popoloso quadrante cittadino. Da alcuni anni su via Bruceto Mr Food sforna pizze e
prepara panini. Poi si aggiungono due forniti minimarket per fare la spesa, un negozio di
casalinghi, una macelleria, una parafarmacia, l'edicola e tabacchi Ritual. Oltre alla filiale
del Credito Cooperativo della Valdinievole, al ristorante Il Discepolo e all'hotel Casa
Rossa. La zona rappresenta in pratica una piccola cittadina fornita di quasi tutti i servizi
all'interno della città. Nessun altro quartiere di Montecatini,
anche tra i più estesi, può vantare un simile numero di attività in un'area così circoscritta.
Chi ci abita, non è costretto a salire su un’automobile. Una luce in un presente ancora
nero. Che andrebbe valorizzata, per evitare il rischio di disperdere ciò che si è costruito.
http://iltirreno.gelocal.it/montecatini/cronaca/2015/08/24/news/casina-rossa-dove-il-lavoronon-manca-1.11981513
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 25/08/2015, pag. 24
Riforma ferma al palo terzo settore in allarme
si allontana la svolta lavoro
Dopo l' ok della Camera ad aprile, le misure bloccate al Senato
Il governo: "Ora acceleriamo su servizio civile e impresa sociale"
ROMA Il nervosismo, forse la delusione, sale dalla base. Cooperazione sociale, enti del
servizio civile, volontariato temono ormai il binario morto. La legge delega per la riforma
del terzo settore, annunciata da Renzi un anno fa come «grande momento di svolta» in
conferenza stampa, giace ancora in Senato, dov'è arrivata il 20 aprile, dopo essere stata
approvata dalla Camera. E li rimarrà ancora un po', a quanto si capisce. Il sottosegretario
pd al Lavoro Luigi Bobba assicura che «ad ottobre andrà in aula», che il ministero «è
pronto per lo sprint e sta già lavorando ai primi decreti attuativi, a partire da servizio civile
e impresa sociale». Difficile convincere chi quella riforma la attende da vent'anni.
Ancora più complicato spiegarlo alla platea ciellina che questa mattina accoglierà il
premier al Meeting di Rimini. Il governo puntava sulla riforma anche in termini
occupazionali, sbandierando i dati di alcune cooperative secondo i quali un giovane su tre
impegnato nel servizio civile viene poi assunto a tempo indeterminato. Il ministro Poletti (al
Meeting domani) prometteva i decreti attuativi già rutti nel2015. E la partenza di un primo
contingente da 50 mila ragazzi entro l'anno, pagati460 euro al mese ( 100 mila entro
il2017, diceva Renzi). «Sarà così, metteremo insieme le risorse di Garanzia giovani e del
fondo per il servizio civile», ribadisce ora Bobba. «Partiranno con le vecchie regole, ma
partiranno». Ma perché questo ritardo? «Ingorgo parlamentare, problemi di calendario »,
minimizza. La riforma è finita nel budello della commissione Affari costituzionali del
Senato, presieduta da Anna Finocchiaro (che ha fatto slittare al 7 settembre il termine per
il deposito degli emendamenti). La stessa sommersa da 500 mila proposte di modifica per
la ben più decisiva, per il governo, riforma della Costituzione. Non solo. Palazzo Madama,
a quanto si apprende, alla ripresa dei lavori potrebbe essere investito anche della legge
sulle unioni civili. Poi dal 15 ottobre toccherà allo tsunami della Finanziaria. Maria Elena
Bosch i, ministro per i Rapporti col Parlamento, fiutando l'aria, ha convocato con urgenza i
capigruppo di Camera e Senato, Zanda e Rosato, già a fine luglio, chiedendo di
accelerare. Il relatore pd al Senato Stefano Lepri, incalzato dal magazine del non profit
Vita e dall'invito della base appunto a «fare presto», si n asconde dietro l'urgenza della
rifor-ma costituzionale, «mica la riforma della banana fritta». Gli si rimprovera la differenza
con il Jobs Act, realizzato in sette mesi. «Nessuna volontà di insabbiare nulla, il testo è
buono, va solo migliorato in cinque o sei passaggi». Proprio per placare richieste e
critiche, il 6 agosto un decreto del ministero dello Sviluppo economico e una delibera Cipe
hanno anticipato un comma dell'articolo 7 della riforma. «Abbiamo creato un fondo rotativo
di garanzia da 200 milioni, quattro volte lo stanziamento iniziale, che sarà a ttivato a
settembre », spiega Bobba. «Con questo fondo pensiamo di finanziare circa 500 iniziative
importanti. Possono accedervi 15 mila cooperative sociali e chiedere da 100 mila euro a
10 milioni a un tasso dello 0.50% per impianti o software e ricerca ». La riforma contiene
anche altro. Oltre a l servizio civile universale, la modifica allibro primo del codice civile
che traccerà il recinto del terzo settore. Partiti e sindacati fuori. Ma associazioni e
fondazioni che svolgono attività commerciale dentro. Purché rispettino nuove norme di
trasparenza, obblighi di fatturazione e bilancio e tutela dei terzi. Indispensabili in tempi di
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Mafia Capitale e scandali coop. Si prevedono poi maggiori e omogenei incentivi fiscali.
Senato permettendo.
Da Redattore Sociale del 25/08/2015
Lavoro in carcere, Antigone: “Così com’è non
aiuta i detenuti”
Il presidente dell’associazione, Gonnella, commenta la relazione del Dap
sull’occupazione nei penitenziari. “Non è solo un problema di calo di
risorse, c’è da cambiare completamente rotta. Lavorare per
l’amministrazione non dà dignità e non prepara all’uscita”
“Non è tanto, o solo, un problema di risorse: va cambiata completamente la strategia
dell’inserimento lavorativo dei detenuti”. Così Patrizio Gonnella, presidente
dell’AssociazioneAntigone, reagisce alla relazione presentata dal Dap “sull’attuazione
delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti” in cui si ammette un drastico calo
di risorse per i detenuti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria.
“Le minori risorse si inseriscono in un trend di carattere generale di riduzione della spesa
che riguarda tutti i capitoli di welfare”. Ma non è questo, per Gonnella, il problema
principale: “Il punto è che, con o senza risorse, il lavoro per conto dell’amministrazione
penitenziaria non è rilevante da un punto di vista curriculare”. In sostanza, non forma i
detenuti, non li prepara al rientro in società. “Bisognerebbe cambiare totalmente rotta, sottolinea, - qualificando il lavoro e cercando di reperire nuove risorse coinvolgendo i
privati ma anche guardando alle opportunità che vengono dall’Ue. È necessario restituire
dignità al lavoro in carcere, che ora oltre che essere scarsamente retribuito è anche troppo
standardizzato e non dà alcuna qualifica”. Per Gonnella una possibilità può arrivare dal
disegno di legge delega di riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma preoccupa anche il
crescente riferimento ai lavori socialmente utili per i detenuti: “Il lavoro per ridare dignità
deve essere retribuito” mette in chiaro il presidente di Antigone, che invita anche a
rivedere il lessico, per ridare dignità al lavoro in carcere: “Come possiamo continuare a
parlare di spesino, scopino? Non sono dignitosi. Così come “mercedi”: perché non
parliamo di stipendio?”
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ESTERI
Del 25/08/2015, pag. 4
Syriza perde il suo segretario
Grecia. Si dimette Tasos Koronakis: «Partito svalutato dalle scelte di
Tsipras»
Angelo Mastrandrea
In un giorno solo, Alexis Tsipras ha perso il suo successore e pure il predecessore. Nella
riunione della segreteria politica di Syriza, alla quale ha partecipato per sostenere che
l’obiettivo è «ottenere un mandato chiaro per quattro anni» e che il partito «deve incontrare
la società», il premier si è trovato a dover fare i conti con la lettera di dimissioni del segretario Tasos Koronakis, con il quale aveva condiviso la militanza fin dai tempi del G8 di
Genova e poi quando si erano ritrovati a essere il primo (Tsipras) segretario della neonata
Coalizione della sinistra radicale e l’altro leader del movimento giovanile.
Koronakis non è stato tenero con il primo ministro, accusato di aver «svalutato» il partito,
non tenendo conto delle decisioni del Comitato centrale (che si era espresso a maggioranza contro il Memorandum) e convocando le elezioni senza tenere in considerazione
Syriza, provocando in questo modo la fuoriuscita non solo della minoranza interna, ma
l’esplosione dell’intera Coalizione. Nella lettera che si conclude con le dimissioni il segretario non risparmia neppure la Piattaforma di sinistra, pure accusata di avere una «responsabilità significativa» nella «continua svalutazione del partito».
Si tratta di una defezione pesante non solo perchè Syriza si ritrova senza segretario nel
momento di maggiore difficoltà e neppure per il fatto che Tsipras perde una figura della
sua maggioranza, ma soprattutto perché indica come giorno dopo giorno la prima forza
politica della Grecia si stia sgretolando, paradossalmente proprio nel momento in cui i sondaggi la davano al massimo storico.
Meno sorprendente, invece, è l’endorsement per Unità popolare dell’ultimo segretario del
Synaspismos Alekos Alavanos. L’economista che fu tra gli artefici della nascita di Syriza
e dello svecchiamento del partito (fu lui a proporre Tsipras alla segreteria) aveva già da
tempo abbandonato i suoi compagni e alle elezioni di gennaio aveva sostenuto il piccolo
partito di ultrasinistra Antarsya, che non aveva ottenuto il quorum per entrare in Parlamento. Ieri con la sua formazione Piano B (che si richiama apertamente al Grexit) ha
stretto un accordo con il leader di Unità Popolare Panagiotis Lafazanis, invitando anche il
partito comunista Kke a stringere un’alleanza elettorale. «Noi non consideriamo il Kke
come un nostro nemico. Noi non consideriamo nemica alcuna forza di sinistra, progressista e che sia contraria al terzo piano di salvataggio. Al contrario, noi vogliamo formare un
grande fronte comune con tutte queste forze», ha detto Lafazanis, che ha accettato il mandato esplorativo dal Presidente della Repubblica Prokopis Pavlopoulos dopo il fallimento
del tentativo del leader di Nea Democratia Vangelis Meimarakis.
Ma le grane a sinistra per il premier non finiscono qui. Pure l’ex partigiano Manolis Glezos
ieri è tornato ad attaccare il suo ex partito: «Non c’è spazio per nessun accordo postelettorale», ha detto, a meno che dal Megaro Maximo (la sede del governo) non si faccia
autocritica. A mantenere le distanze dalla neonata Unità Popolare è invece Yanis Varoufakis. In un’intervista a una tv francese l’ex ministro delle Finanze ha detto di sentirsi lontano
dalle loro posizioni perché «per loro il ritorno alla dracma è una questione di ideologia».
Invece «per la Grecia è meglio rimanere nell’euro, anche se non dobbiamo farlo a ogni
costo». Per questo non ha escluso di poter tornare a collaborare con un futuro governo
guidato da Syriza, ma solo se cambieranno le politiche economiche.
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Per il momento non pare che Tsipras abbia alcuna intenzione di tornare sui suoi passi.
Alla segreteria del partito il capo del governo ha illustrato le linee guida della campagna
elettorale, decise il giorno prima nella riunione con il suo staff di fedelissimi (tra ministri ed
esponenti di Syriza): innanzitutto la richiesta di un «mandato chiaro di quattro anni», ma
anche la necessità di porre l’accento non tanto sulla «guerra civile» tra ex compagni di
schieramento (al contrario di Unità Popolare che intende invece dimostrare che «la sinistra
siamo noi») quanto sul programma di governo, antiliberista e contro il blocco d’affari
interno, «per una graduale uscita del Paese dai controlli e dai Memorandum». Infine ha
sottolineato la necessità di una riorganizzazione del partito e di una sua apertura alla
società. Ma su questo punto l’impressione è che sarà necessaria una vera e propria
rifondazione.
Del 25/08/2015, pag. 25
Tsipras: "Voglio governare 4 anni"
Mandato esplorativo a Lafazanis, ma ormai ad Atene è già campagna
elettorale
ATENE. Adesso tocca all'ex ministro Panagiotis Lafazanis Provare a formare un nuovo
governo, e come prevede la Costituzione g reca avrà tempo fino a domani. Sanno tutti che
è una formalità utile a rosicchiare qualche giorno di campagna elettorale in più, perché
Unità Popolare (il movimento appena nato da una scissione a sinistra di Syriza, diventato
subito terzo gruppo parlamentare) non ha i numeri per mettere insieme un nuovo
esecutivo il quale, secondo Lafazanis, dovrebbe respingere in blocco il terzo
memorandum firmato da Alexis Tsipras. Il presidente della Repubblica Prokopis
Pavlopoulos aveva due scelte davanti, dopo le dimissioni del premier e le consultazioni
finite in un nulla di fatto affidate venerdì scorso al secondo partito, i conservatori di Nuova
Democrazia: passare la palla - tra l'imbarazzo generale- ai neonazisti di Alba Dorata, terzo
partito più votato alle elezioni dello scorso gennaio; Si è dimesso il segretario di Syriza in
polemica con il premier uscente oppure al gruppo di Lafazanis, terzi per peso
parlamentare. Pavlopoulos h a scelto la seconda, scatenando le proteste dell'estrema
destra: «Questo è deviazionismo costituzionale», il commento del deputato Ilias Kasidiaris.
Un passaggio obbligato, quindi. Il cuore della politica greca è già altrove, tutta protesa
com'è a organizzarsi per il voto del 20 (oppure 27) settembre. Syriza è favorita secondo
tutti i sondaggi, anche se Bild ne ha pubblicato uno che, s i trasformasse in realtà,
equivarrebbe a una prematura fine politica perTsipras, a quel punto costretto alle larghe
intese: la "Coalizione della sinistra radicale" al 28 per cento, a soli 4 punti da Nuova
Democrazia e i duri e puri d i Lafazanis al1'8 per cento. In più l'ex premier ha dovuto
incassare un altro colpo, cioè le dimissioni del segretario di Syriza Tassos Koronakis. Uno
della "generazione Alexis"', nata e cresciuta nei sodal forum di inizio anni Duemila , e per
questo il suo addio fa rumore: «Le scelte del governo hanno bypassato completamente il
partito in questi mesi - ha detto Koronakis -e il memorandum è un pessimo accordo, serve
una seria autocritica». Ci sono anche due ministri del governo Tsipras che hanno
annunciato d i non voler essere ricandidati alle prossime elezioni, quella dell'Immigrazione
Tasia Christodoulopoulou e quello del Commercio Thodoris Dritsas. Mentre dalla sua villa
sull'isola di Egina Yanis Varoufakis continua a fendere colpi a Tsipras: «Non mi ha tradito
personalmente ma ha tradito il popolo greco». L'ex ministro delle Finanze ha aggiunto che
però non passerà con Lafazanis, anche se «nella vita tutto può accadere». L'idea di
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Tsipras, comunque, è quella d i riproporre un' alleanza post elettorale con la destra dei
Greci Indipendenti. «Vogliamo un mandato per governare quattro anni, stavolta in modo
stabile - ha spiegato ai suoi, riuniti alla sede d i Syriza - e il programma resta quello di una
sinistra radicale di governo, capace di mettere in discussione i dogmi dell'Europa
neoliberista». Missione che finora è riuscita solo a livello simbolico.
Del 25/08/2015, pag. 1-15
Come rompere la gabbia dei memorandum
Il capolavoro retorico delle classi dirigenti tradizionali, dall’inizio della crisi, è stato quello di
trasfigurare nel senso comune una crisi del capitalismo finanziario in una crisi del debito
pubblico. Ne è derivato che non sono tanto le élites a dover rispondere della loro dissennata gestione del potere, ma sono i popoli a essere messi sul banco degli imputati per
aver vissuto “al di sopra delle proprie possibilità”. Su questa narrazione fittizia sono state
costruite politiche reali, la cui natura è stata ben nascosta dagli apparati egemonici del
capitalismo. Questi apparati hanno fatto passare come necessità oggettive scelte che da
un lato hanno avuto un forte impatto redistributivo verso l’alto, dall’altro hanno disegnato
un nuovo ordine continentale asimmetrico a vantaggio dei centri forti dell’economia europea. All’interno dei singoli paesi si è determinato un ingente spostamento di risorse dal
salario – reale e differito – al capitale, e un’ulteriore concentrazione del potere nelle mani
delle élites oligarchiche a scapito del controllo democratico. Su scala continentale si
è giunti al contempo a una configurazione gerarchica dell’Unione europea, con una divisione del lavoro sostanzialmente duale, sul modello di quella che ha condotto
all’esplosione, nel nostro Paese, della questione meridionale. Le forze popolari e progressiste hanno il compito di smascherare l’artificio retorico attorno al quale le classi dominanti
hanno costruito la narrazione della crisi: un’operazione indispensabile per il rilancio di un
disegno contro-egemonico su scala continentale.
È stata la haute finance a trarre beneficio dalle dinamiche della crisi, lucrando sulla “scarsità” di risorse da essa stessa prodotta con la complicità dei governi. Nel caso della Grecia
i cosiddetti “salvataggi” non sono stati altro in realtà che uno strumento per garantire la
rendita finanziaria, alimentando il potere di ricatto delle élites del denaro. Le banche europee, a cominciare da quelle tedesche, hanno sin qui prestato denaro ad Atene, che, privata della libertà di indirizzare questi fondi verso reali politiche espansive, si è trovata
costretta ad ulteriormente indebitarsi. I provvedimenti imposti dalla Trojka hanno quindi
realizzato, mediante una partita di giro, un rafforzamento delle banche private, favorendo
al contempo un colossale spostamento di risorse dal welfare alla rendita finanziaria.
Le condizioni imposte per il “salvataggio” della Grecia hanno riproposto uno schema universalizzato, dove al primo posto, immancabile, si è collocata la raccomandazione di
varare un ampio piano di privatizzazioni. Queste ultime hanno portato con sé due conseguenze. Da un lato, la svendita al capitale metropolitano di asset pregiati delle periferie
sconvolte dalla crisi (è di questi giorni la notizia che il gruppo tedesco Fraport si è accaparrato la gestione quarantennale di 14 aeroporti greci). Dall’altro, specie in realtà in cui il
capitalismo nazionale dimostra tendenze secolari verso la trasformazione in rendita, una
deindustrializzazione funzionale alla riconfigurazione in senso gerarchico della divisione
continentale del lavoro.
Alle privatizzazioni hanno poi fatto seguito un po’ ovunque le “riforme del lavoro”. Lungi
dall’aver determinato una ripresa dell’occupazione, attraverso di esse si è stabilizzato un
enorme esercito industriale di riserva, tra le file del quale pescare manodopera dequalifi10
cata e a basso costo per la produzione di semi-lavorati, destinati ad essere assemblati dai
grandi gruppi industriali metropolitani. Con l’artificio retorico dell’invecchiamento della
popolazione, infine, i governi nazionali sono stati costretti a varare “riforme delle pensioni”
che hanno prolungato nel tempo la condizione di sfruttamento della forza-lavoro, garantendo allo stesso tempo lauti dividendi ai grandi gruppi assicurativi privati.
Senza una netta inversione di tendenza, questa serie di misure è destinata ad avere un
impatto di lunghissimo periodo e a trasformare in profondità lo spazio economico continentale. La crisi modella la costruzione dell’Europa gerarchica, mentre lo strumento del
memorandum, moderna Magna Charta, la “costituzionalizza”.
Dopo la Grecia è lecito supporre l’aggressione del grande capitale europeo ad altri anelli
deboli dell’eurozona. Alcuni segnali in questa direzione si hanno già. Si pensi alla crescita
dei colossi finanziari tedeschi, Allianz e Deutsche Bank, i quali stanno acquisendo anche
in paesi come il nostro quote crescenti di mercato, al punto che Allianz è il secondo operatore in Italia nel campo delle assicurazioni. Anche per quanto riguarda il nostro mercato
finanziario si pone quindi un problema di subalternità al gigante tedesco. Ma l’aspetto
determinante per il dispiegarsi dell’egemonia tedesca è la deindustrializzazione del sud
Europa, una delle emergenze che andrebbero affrontate nella prospettiva di un’alternativa.
Chi pensa che il futuro della Grecia o dell’Italia possa essere trainato dall’agricoltura o dal
turismo, se non è in mala fede, rischia comunque di prendere un abbaglio. Non farebbe
male ogni tanto rispolverare il pensiero dei nostri grandi statisti del passato. Riprendendo
una valutazione di Cavour, all’inizio del Novecento Francesco Saverio Nitti affermava che
«l’industria dei forestieri, l’industria degli alberghi sono grandi industrie: ma non possono
considerarsi come la base del reddito nazionale. Inoltre un paese che vive dei forestieri
tende in certa guisa ad abbassare il suo carattere: tende à un esprit d’astuce et de servilisme funeste au caractère national. L’industria dei forestieri invece è benefica invece in un
paese già industriale che può trattare i forestieri su le pied d’une parfaite égalité».
Rispetto alla situazione in atto un’inversione di tendenza coinciderà solo con un ribaltamento degli attuali equilibri. Il nodo di fondo da affrontare è sempre lo stesso, il rapporto
fra Stato e mercato: il primo deve tornare come in passato ad avere l’ultima parola sulla
decisione su cosa, come e per chi produrre, cominciando con il recuperare quella che
Beveridge avrebbe chiamato una “signoria sul denaro”, ossia una sottomissione della
finanza al controllo democratico. Soltanto così sarà possibile perseguire politiche espansive e rilanciare la produzione industriale e terziaria in tutte le aree d’Europa.
L’accentramento dei poteri decisionali in mano ad organismi democraticamente irresponsabili ed un’asimmetrica divisione continentale del lavoro hanno proceduto fin qui di pari
passo nella costruzione dell’Europa gerarchica. Solo un processo coordinato di ricostruzione dell’apparato produttivo della periferia continentale potrà innescare un processo
opposto e virtuoso di riconfigurazione democratica dell’Europa.
Del 25/08/2015, pag. 6
Beirut, non è una tardiva “primavera araba”
Libano. Gli slogan scanditi nei giorni scorsi dai manifestanti ricordano quelli delle
proteste di cinque anni fa in Tunisia ed Egitto ma il Libano era e resta fortemente
condizionato dal settarismo e dalle dinamiche politiche interne e regionali
Michele Giorgio
Non è il caso di lasciarsi suggestionare dallo slogan che urlavano l’altra sera i libanesi: “Il
popolo vuole la caduta del regime”. Parole note un po’ a tutti, scandite cinque anni fa da
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milioni di tunisini ed egiziani e che fecero crollare i dittatori Zine El Abidine Ben Ali e Hosni
Mubarak. Le proteste a Beirut e gli scontri violenti degli ultimi giorni scorsi hanno ben poco
in comune con la cosiddetta “primavera araba”, sfociata nel bagno di sangue al quale ora
assistiamo in Iraq, Siria, Bahrain, Libia e Kurdistan. Niente accade in modo realmente
spontaneo nel Libano piegato sotto il peso del settarismo e delle conseguenze interne
della guerra nella confinante Siria e che da 14 mesi non riesce ad eleggere il nuovo capo
dello stato. O, per essere più precisi, nessuna protesta di massa può conservarsi a lungo
a indipendente e popolare senza le influenze della politica nazionale e regionale.
Certo, le manifestazioni di questi giorni sono nate inizialmente da un’esigenza genuina di
condanna di un esecutivo — e più in generale di un mondo politico corrotto — incapace di
dare una risposta a un bisogno elementare dei cittadini. Ma un malcontento del genere,
nato per il problema irrisolto dei rifiuti non raccolti, non arriva all’escalation violenta
dell’altra sera, a notti di vera e propria guerriglia urbana. L’intenzione di non pochi manifestanti di sfondare lo schieramento di polizia e di arrivare fin dentro i palazzi del potere, ha
avuto un chiaro obiettivo politico: esprimere l’insoddisfazione dello schieramento filo
siriano e filo iraniano “8 marzo” contro il primo ministro Tammam Salam sempre più condizionato dai voleri dell’Arabia saudita. Allo stesso tempo la decisione degli attivisti di “You
Stink” di revocare le nuove manifestazioni convocate per ieri, rappresenta un accoglimento
della volontà dei partiti del fronte “14 marzo”, anti Damasco e anti Tehran, di non offrire
opportunità agli avversari politici di sfruttare la rabbia popolare per costringere alle dimissioni il premier. L’assalto tentato domenica sera alle sedi istituzionali sono ammonimenti
diretti a chi dentro e fuori dal governo, sotto il peso della pressione di Riyadh, preme con
più forza di prima per mettere nell’angolo Hezbollah, “reo” di combattere in Siria dalla parte
di Bashar Assad. Tutto è politica in Libano. Fu una finta protesta popolare, ad esempio, la
“Primavera di Beirut” — nota come la “Rivoluzione dei cedri”, prima e dopo l’assassinio
(nel 2005) del premier sunnita Rafiq Hariri – descritta in Occidente come una lotta per la
liberazione del Paese dal controllo siriano. In realtà fu portava avanti solo dai libanesi
nemici di Damasco. Altrettanto finta fu la “ribellione del popolo” che Hezbollah e i partiti
alleati del fronte “8 marzo” attuarono per mesi, con un campo permanente di migliaia di
tende nel centro di Beirut, a partire dal dicembre 2006. Ufficialmente quella protesta chiedeva la caduta del governo filo occidentale di Fouad Siniora rivelatosi “incapace” di guidare il Libano nei giorni delicati dell’offensiva militare israeliana scattata qualche mese
prima. In realtà l’obiettivo era affondare Siniora perchè, su pressione degli Stati Uniti,
intendeva impegnarsi per il disarmo della guerriglia sciita e per ottenere la condanna di
Hezbollah e della Siria, accusata dell’assassinio di Rafiq Hariri, da parte del Tribunale
Internazionale per il Libano. La dimensione politica di quest’ultima protesta di cittadini,
innescata dall’assenza di un servizio pubblico e poi sfociata in guerriglia urbana contro il
governo, si ritrova nei riflessi in Libano del recente accordo di Vienna sul nucleare iraniano. Hezbollah e le formazioni politiche alleate hanno accolto con grande favore l’intesa
tra gli Stati Uniti, le altre potenze occidentali e Tehran. Invece altre forze hanno stretto
i pugni per la rabbia, perchè convinte a torto o a ragione che la legittimazione internazionale dell’Iran favorirà un riconoscimento di fatto anche del movimento sciita e del ruolo
della sua guerriglia in Siria. Dietro le quinte l’Arabia saudita preme sui partiti amici in
Libano e sul premier Tammam Salam affinchè vengano contenuti l’”espansionismo iraniano” e il peso degli alleati libanesi di Tehran.
L’altra sera in strada a Beirut tra quelli che urlavano contro il primo ministro, non pochi in
realtà lanciavano avvertimenti a ministri e partiti legati alla monarchia saudita. E ieri alcuni
giornali arabi, vicini a Riyadh, mettevano in guardia dal “tentativo” di Hezbollah di prendere
il controllo Libano attraverso le proteste per la mancata raccolta dei rifiuti.
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Del 25/08/2015, pag. 16
Palmira ferita non a caso
Siria. Dopo la demolizione del Leone di Allat salta in aria anche il
Tempio di Baalshamin. Un gesto che potrebbe svelare la vera strategia
dello Stato islamico, che da un lato distrugge e dall’altro risparmia tutto
ciò che può essere fonte di guadagno
A qualche giorno dalla tragica esecuzione pubblica di Khaled As’ad, l’ex direttore del sito
e del museo di Palmira, una nuova esplosione emotiva scuote gli animi degli studiosi di
antichità e di quanti guardano al patrimonio archeologico come orizzonte culturale. Il 23
agosto, l’Osservatorio Nazionale per i Diritti Umani in Siria ha annunciato che i miliziani di
Daesh hanno fatto saltare in aria il Tempio di Baalshamin a Palmira, danneggiando gravemente anche il vicino colonnato.
A scongiurare l’evento non è bastato l’appello di Irina Bokova, Direttrice Generale Unesco,
che tre mesi fa invitava al «cessate il fuoco» per proteggere uno fra i siti più sorprendenti
del Mediterraneo. In seguito all’imperdonabile distruzione del monumento dedicato al dio
del fulmine e della fertilità, la Bokova ha dichiarato che gli uomini del Califfo stanno compiendo, in Iraq e Siria, le più brutali e sistematiche devastazioni del patrimonio storico mai
registrate dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Eppure, tra i due comunicati – quello di fine maggio e quest’ultimo – niente è stato fatto
dall’agenzia Onu affinché la celebre città carovaniera, nella lista del World Heritage fin dal
1980 e dal 2013 fra i siti in pericolo, fosse salvaguardata. Nessuna voce «ufficiale» del
mondo della cultura si è levata – agli inizi di luglio – quando l’Isis ha giustiziato venticinque
soldati dell’esercito regolare nel teatro romano di Palmira, servendosi persino di adolescenti come boia e compiendo – secondariamente – un atto di vilipendio all’edificio che ha
ospitato in passato nobili forme d’arte.
Il 27 giugno scorso era passata in sordina anche la demolizione del Leone di Allat, la
colossale statua risalente al I secolo d.C. posta dalla fine degli anni ’70 a guardia del
Museo di Palmira. «La “sentinella” dell’ingresso a Palmira – ci dice Pascal Arnaud,
docente di Storia Romana all’Università Lumière-Lyon2 e già consulente Unesco per gli
scavi di Beirut – non può considerarsi un obiettivo secondario per l’Isis. “Leone”, in arabo,
si dice El-Assade all’epoca di Hafez al-Assad quella scultura era emblema
dell’universalismo del partito Baath».
«Il sito archeologico di Palmira – continua Arnaud – rappresentava il dominio, da parte del
regime, della cultura dei colonizzatori, i quali avevano annientato una città araba medievale per far emergere un patrimonio più antico, spettacolare e maggiormente degno di
attenzione». La «sconfitta» di tale cultura coloniale, garanzia di modernità e integrazione
al mondo ormai nelle mani della nazione siriana, innescò quel processo ideologico che
fece della regina Zenobia la leader di un Fronte di Liberazione Nazionale.
In realtà, come sappiamo ora da un recente libro di Annie e Maurice Sartre (Zénobie, de
Palmyre à Rome, ed. Perrin 2014), Zenobia – che era la consorte di Settimio Odenato e a
lui succedette quale imperatrice romana d’Oriente -, non fomentò le lotte contro i «colonizzatori» ma si oppose a un altro imperatore, Aureliano, con l’ambizione di conquistare il
potere assoluto assieme al figlio Vallabato. L’importanza accordata da Hafez al-Assad
all’archeologia come strumento di propaganda nazionalista si riflette nella scelta
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d’installare nel maestoso tempio di Bêl una residenza per il ministro della Cultura, dalla
quale mostrare agli ospiti del regime i fasti della nuova Siria.
Ma se in giugno i miliziani hanno compiuto la loro vendetta archeologica e politica sul
Leone di Palmira, fa riflettere la scelta di preservare proprio quel tempio e scagliarsi invece
sul santuario dedicato a Baalshamin, datato al II secolo d.C., un gioiello architettonico ma
certamente meno imponente e «caro» al turismo di massa. Le ragioni vanno probabilmente ricercate nella strategia economica dell’Isis, che da una parte distrugge manufatti
con vere e proprie messe in scena, dall’altra risparmia tutto ciò che può esser fonte di
guadagno. La scelta di far saltare in aria il tempio di Baalshamin risiede forse nelle sue
modeste dimensioni e nella sua posizione periferica. Coloro che continuano a credere che
l’unico scopo dell’Isis sia cancellare il passato pre-islamico ed esercitare la furia iconoclasta contro gli idoli, dovranno sforzarsi di guardare oltre quest’uso strumentale e – a tratti
abbagliante – dell’archeologia. Se finora non ci sono prove che l’ottantaduenne As’ad
sarebbe stato torturato e poi barbaramente ucciso perché rifiutatosi di rivelare il nascondiglio di preziosi reperti, appare chiaro che per lo Stato Islamico – come d’altra parte ampiamente documentato da indagini della polizia internazionale – il traffico illegale di reperti sia
una delle principali fonti di finanziamento.
È anche noto che Daesh venda a caro prezzo licenze per scavi clandestini, compromettendo – come già successo a Dura Europos e Mari – le stratigrafie dei siti ma favorendo la
scoperta di manufatti da riacquistare e immettere sul mercato. Mentre facciamo il lutto al
tempio di Baalshamin, dobbiamo aspettarci in futuro, altre dimostrazioni di violenza da
parte dell’Isis, mirate tuttavia non alla distruzione globale di un patrimonio siriano già fortemente compromesso dalla guerra civile, ma a una destabilizzazione emotiva della comunità internazionale. Per questo, bandiere a mezz’asta e iniziative di commemorazione non
ci aiuteranno a onorare uomini e a proteggere monumenti ma continueranno, in mancanza
di azioni concrete, ad allontanarli per sempre dal nostro sguardo.
Del 25/08/2015, pag. 19
L'Is conquista Sirte e minaccia l'Italia
Sharia e terrore, il Califfato crea il suo emirato nell'ex città di Gheddafi:
"La Libia è la porta per arrivare a Roma"
Sconfitti i salafiti, ora regna la legge degli uomini in nero: corte
islamica, classi separate per maschi e femmine
Corte islamica e sharia, classi separate per maschi e femmine e un nuovo regime fiscale:
la città simbolo del potere di Muhammar Gheddafi, Sirte, il capoluogo beduino in rui
nacque il rais, è diventata un e mirato dello Stato islamico. Sconfitti i rivali salafiti che la
governavano, una dozzina dei quali sono stati decapitati e crocifissi come monito ai civili, i
miliziani fedeli ad Al Baghdadi hanno preso definitivamente il controllo della città
sostituendone l'organizzazione amministrativa. E mentre lo Stato islamico avanza sul
campo, i tagliagole jihadisti lanciano nuove minacce web all'Italia: «La Libia è la porta per
arrivare fino a Roma», titola l'ultima campagna del terrore su Twitter accompagnata da
una serie di fotomontaggi che mostrano la capitale italiana in fiamme tra le bandiere nere
del califfato. Propaganda, ma i torù sono un'elegia cantata per riscaldare i cuori dei
giovani: «Le armi ottomane hanno accerchiato Roma dopo avere conquistato la Libia a
sud dell'Italia. Chi vuole prendere Roma e l'Andalusia deve cominciare dalla Libia»,
avverte nel tweet un combattente dell'ls. Secondo il quotidiano al Wasat membri armati
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dell'Is sono entrati nei negozi, nelle officine e nelle fabbriche reimmatricolandoli con
documenti timbrati dal nuovo emirato e imponendo le loro tasse. Dopo aver chiuso il
tribunale, sostituendolo con una Corte islamica che applicherà la Sharia, hanno distribuito
volantini con il calendario liturgico e l'elenco delle disposizioni religiose da seguire. E
l'Ufficio per l 'educazione dell'Is ha imposto anche un nuovo programma scolastico e ha
stabilito la separazione tra studenti e studentesse nelle classi e nelle università. Francia,
Germania, Italia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti hanno già condannato l'Is per le stragi
e le violenze imposte a Sirte. mentre il governo di Tobruk chiede alla Lega araba di colpire
militarmente i miliziani islamisti ed esorta il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a
revocare il divieto di fornire armi all' esercito libico, un divieto imposto dopo la caduta di
Gheddafi. n capo delle forze armate del governo ufficiale di Tobruk, il generale Khalifa
Haftar, ribadisce che l'esercito fedele al governo non dispone di armi a sufficienza per
contrastare ijihadisti dello Stato islamico a Sirte. Secondo il leader dei Fratelli musulmani
libici Bashiral Kubti, invece, le notizie da Sirte sono state volutamente esagerate proprio
per giustificare un intervento straniero in Libia.
Del 25/08/2015, pag. 1-2
La bolla, il contagio e l'ultima incognita
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FEDERICO RAMPINI
NEW YORK
QUASI come nel 2008, un vento di panico travolge le Borse di tutto il mondo. L'epicentro
della crisi è cambiato rispetto a 7 anni fa, stavolta non è l'America ma la Cina. Lo scoppio
della bolla speculativa di Shanghai moltiplica i timori sulle conseguenze per l'economia
reale. La frenata della crescita cinese ha già contagiato pesantemente tutte le altre
economie emergenti. Le svalutazioni competitive si susseguono, e i danni ora lambiscono
l'Occidente.
IL LUNEDI NERO PARTE DA ORIENTE
Dopo il venerdì nero che aveva visto un tracollo di oltre 500 punti nell'indice Dow Jones (a
-3 ,58%) e perdite settimanali del 7% sulle piazze europee,le avvisaglie di una giornata
drammatica arrivano ancora una volta da Oriente. Alla riapertura della settimana Tokyo e
Taiwan, Singapore e l'India, l'Australia e la Nuova Zelanda sono risucchiate nel vortice
dell'economia cinese, con cui tutte hanno forti legami d'interdipendenza. Ancora una volta i
giochi si decidono a Shanghai, dove il listino frana dell'8,5%. Dall'inizio di questa crisi, in
un mese la principale Borsa cinese ha perso il 40%. E' quindi il peggiore crac dopo quello
del 2007 -2008.
IL DIRIGISMO CINESE NON BASTA
A diffondere la paura c'è anche un non-evento. E' il mancato funzionamento di quella "rete
di - 10% protezione" pubblica messa in piedi tre settimane fa dal presidente Xi Jinping. I
trader di Shanghai, Shenzhen e Hong Kong l'avevano chiamata "la squadra nazionale",
con un accento patriottico che tradiva la fiducia in un governo onnipotente. La "squadra
nazionale" è un cordone di emergenza composto di banche pubbliche, enti di Stato, fondi
pensione, con dietro generosi finanziamenti d ella banca centrale cinese. L'ordine di
scuderia: comprare azioni sul mercato per compensare le vendite del popolo dei piccoli
risparmiatori. La "squadra nazionale"' ha eseguito le direttive del governo, ma si è rivelata
impotente di fronte alla paura di massa. Se la diga del dirigismo cinese non regge di
fronte all'onda di piena della psicosi delle vendite, che cosa rimane? Il mondo intero se lo
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chiede: dall'inizio di questa crisi sino-centrica le Borse globali hanno bruciato 5.000 miliardi
di dollari di capitalizzazione. Il governo di Pechino tenta di rassicurare i propri cittadini e il
resto del mondo sulla tenuta della propria economia reale, conferma che quest'anno sarà
raggiunta una crescita del 7% del Pil. Circolano stime private che parlano di una crescita
reale molto inferiore, forse la metà. Di fronte a queste preoccupazioni perfino il cessato
allarme tra le due coree ha lasciato indifferenti i mercati.
IL PETROLIO Al MINIMI COME NELLA GRANDE CRISI Seguendo l'apertura delle Borse
in base ai fusi orari, il lunedì nero si estende rapidamente al Golfo Persico e al Medio
Oriente, dove ad affondare i listini di Dubai e Ryad contribuisce un fattore aggiuntivo: è il
crollo del petrolio. Il prezzo del greggio scende perfino sotto i 40 dollari al barile, anche
questo è un livello che ricor-da la grande recessione del2007- 2008. Oggi come allora, la
caduta delle materie prime si trasforma da una manna in una maledizione . Certo per i
paesi consumatori di energia è un beneficio la riduzione della bolletta petrolifera. Salvo
che in questo caso - proprio come accadeva sette anni fa- dietro il calo del petrolio c'è sia
un eccesso di offerta (buona cosa per noi consumatori) sia una debolezza della domanda.
Questo secondo fattore si estende a tutte le materie prime come minerali e metalli. Meno
domanda uguale minori consumi. Il potere d'acquisto dei paesi emergenti si riduce. E'
l'altra faccia della deflazione, quella perversa: s'impoveriscono tutti quei mercati dove il
made in Italy (e più in generale tutte le industrie occidentali) hanno cercato e trovato
sbocchi negli ultimi anni. Da attendersi, ben presto, anche le ripercussioni politiche? Non
va dimenticato che la depressione del 2008 generò, tra l'altro, le primavere arabe.
EUROPA VASO DI COCCIO
Le Borse del Vecchio continente alla loro riapertura seguono il copione dettato dalla Cina.
Ai minimi delle sedute le perdite a Londra, Francoforte e Milano sono dell'ordine del 7%, le
chiusure segnano in media meno 5% con Milano che sfiora il 6%. Ad accentuare le paure
dell'Europa c'è una specificità valutaria. Quasi un crudele accanimento contro quella parte
del mondo che è ancora convalescente dalla grande crisi del 2008. Sta di fatto che da
quando la Cina ha iniziato a svalutare la sua moneta, il renminbi oyuan, l'euro ha
cominciato a rafforzarsi perlina sul dollaro. Pessima cosa per i paesi esportatori, ma
soprattutto per Italia Francia Spagna cioè quelle economie dove le imprese hanno spesso
basato la loro competitività sui prezzi (la Germania è un po' meno vulnerabile perché la
forza delle sue esportazioni risiede soprattutto sulla qualità tecnologica). Ma perché mai la
svalutazione del renminbi fa salire l'euro? Due risposte. Primo, perché il valore delle
monete è relativo: stanno crollando quelle di tutti i paesi emergenti che per forza seguono
la Cina; i capitali che fuggono dai Brics devono pure investirsi altrove. Secondo, questa
crisi sta mettendo in dubbio il rialzo dei tassi americani che aveva sospinto in su il dollaro.
L'euro dunque rimane stretto in una morsa implacabile che lo rafforza. Proprio quando
l'economia europea avrebbe bisogno di una moneta debole. Si spiega così che la crisi
cinese sia stata al centro del vertice di ieri tra Angela Merkel e François Hollande: il vaso
di coccio.
WALL STREET LIMITA (UN PO') l DANNI San Paolo L'apertura delle Borse americane è
al cardiopalmo. L'indice Dow Jones arriva a perdere mille punti in corso di seduta. E' ormai
"panic selling" nel gergo tecnico, una di quelle vendite irrazionali in cui la psicologia delle
folle diventa più importante dell'economia Alla fine riappaiono un po' di compratori e Wall
Street ridimensiona le sue perdite, che restano comunque ragguardevoli: questo agosto
2015 passerà alla storia come il peggior mese dopo il novembre 2008, in quanto a crolli in
Borsa. Lo stato d'animo degli investitori è tale che la Cnbc (la più guardata delle tv
specializzate nella finanza) manda in onda "Otto a:r se da sapere in un mercato-orso"'. Si
definisce "orso"' un ciclo di ribassi che fa perdere oltre il20% del valore azionario. Non ci
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siamo ancora- in 18 mesi Wall Street ha perso dai massimi oltre il 10% che in gergo è una
"correzione"' - ma la Cnbc prepara i suoi spettatori al peggio.
LA CASA BIANCA VIENE "INFORMATA"
Barack Obama riceve i suoi consiglieri economici per un "briefing"' sull'emergenza dei
mercati e la situazione cinese. D Tesoro Usa fa sapere che "vigila da vicino"'. Il portavoce
della Casa Bianca,Josh Earnest, fa una dichiarazione ufficiale rivolta a Pechino: «La Cina
continui le riforme di mercato rivolte alla flessibilità del cambio». Poi ne aggiunge una per
gli investitori nazionali: «L' economia americana oggi è ben più solida che nel 2008». Sulla
seconda non c'è alcun dubbio, oggi l'America è la più solida tra le economie mondiali.
Forse l'unica ad avere ancora un ruolo. Ma la prima affermazione? Qualcuno dubita che
sia opportuno auspicare la flessibilità del renminbi: in questa fase le forze di mercato lo
spingono sempre più giù. A dar ragione al portavoce di Obama, però, c'è questo fatto:
all'origine dei problemi attuali per l'economia cinese ci fu quel prolungato aggancio del
renminbi al dollaro, che portò a una rivalutazione (con perdita di competitività). Se Wall
Street limita le perdite in chiusura di seduta, è comunque per un'altra ragione: si rafforza la
speranza che la Federai Reserver invii l'aumento dei tassi d'interesse. Fino a poche
settimane fa una mini-stretta monetaria era considerata inevitabile. Ma adesso la gelata
che arriva da Oriente può rimettere in discussione i programmi della Fed E la Borsa ama il
credito facile, il denaro a tasso zero ..
FIDUCIA A XI JINPING Un altro elemento inquietante del lunedì nero è proprio quel che
esce dal vertice franco-tedesco. Sia la Merkel che Hollande abbondano nelle
manifestazioni di fiducia verso Pechino. Testualmente, la cancelliera tedesca si dice sicura
che "'la Cina troverà le risposte giuste ... E' già abbastanza singolare che i destini della
crescita europea siano appesi alla capacità di stabilizzazione di un regime autoritario. E
quali sarebbero le "'risposte giuste"', nel caso della Cina? Era ancora in carica Hu Jintao, il
predecessore di Xi Jinping, quando Pechino dovette affrontare il pericolo di una
recessione nel 2008, perché la depressione americana ed europea decurtarono le
esportazioni made in China. Nel2009 il governo cinese varò una maxi-manovra di
investimenti pubblici analoga a quella varata da Obama (e mai varata in Europa). I risultati
furono positivi -la Cina non flnì in recessione- ma con qualche eredità negativa. Nel boom
di investimenti pubblici, in particolare edilizia e grandi opere, ci sono alcuni germi della
bolla speculativa che oggi è scoppiata. Se Pechino non vuole ripercorrere la stessa strada,
che risposta rimane? La svalutazione è un'arma ben collaudata per rilanciare la crescita,
ma a condizione che il contesto esterno sia favorevole, cioè che ci sia una domanda
vigorosa sui mercati di sbocco stranieri. Non è il caso attuale, con l'unica eccezione del
mercato Usa.
LE INCOGNITE FUTURE.
I timori più fondati devono riguardare l'economia reale, non le Borse. Rialzi e ribassi sono
fisiologici in Borsa, e non mancano gli argomenti per sostenere che diversi mercati
azionari (dagli emergenti agli Usa) fossero arrivati a livelli troppo alti. n problema vero è
quel che accade all'occupazione e ai redditi delle famiglie. E anche su questo fronte, non
tutti sono sullo stesso piano. La Cina è reduce da un quarto di secolo di boom, se questo
rallentamento rimanesse controllato potrebbe essere un "'atterraggio morbido H verso una
crescita sostenibile. Di certo la leadership cinese sta fronteggiando un test che non ha
precedenti dai tempi di Piazza Tienanmen ( 1989) anche per le incognite sulla tenuta
politica e sociale. L'America, reduce dai sei anni di crescita, può anch'essa permettersi
una battuta d'arresto. Tutt'al più una recessione americana manderà alla Casa Bianca un
repubblicano? Se fosse Donald Trump il mondo intero avrà di che divertirsi fino al 2020 ...
La situazione di gran lunga più drammatica è quella dell'Eurozona. Dalla crisi del2008 il
Vecchio continente è l'unica area del mondo a non avere ancora conosciuto una ripresa.
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Dopo lo shock scatenato sette anni fa da Wall Street, le ricette decise a Berlino e a
Bruxelles hanno generato altre due ricadute in recessione. Del vertice Merkel-Hollande di
ieri l'aspetto più drammatico è l'attesa che la Cina faccia qualcosa. E' come se l'Europa
abbia cessato di considerarsi padrona del proprio destino. Come se le tempeste
dell’economia globale fossero delle calamità naturali, troppo potenti per essere
contrastate. E' in una fase come questa, quando vengono meno i motori di sviluppo dei
paesi emergenti, che l'Europa dovrebbe riempire un vuoto. Non ci sono segnali che questo
stia per accadere.
Del 25/08/2015, pag. 9
Quella sovrabbondanza infinita che
destabilizza l’economia globale
Paul Krugman, “C’è una grande bolla di risparmio che da più di dieci
anni si sposta da un’area all’altra perpetuando l’instabilità finanziaria”
Che cosa ha provocato il crollo improvviso delle Borse? Che cosa implica ciò per il futuro?
Nessuno lo sa, e non è un buon segno.
I tentativi di spiegare le oscillazioni quotidiane delle Borse sono in genere sprovveduti: un
sondaggio condotto in tempo reale nel 1987 sul crack delle Borse non riscontrò alcuna
prova che avallasse le spiegazioni che gli economisti e i giornalisti avrebbero addotto a
posteriori, scoprendo invece che la gente vendeva azioni perché – l’avrete già capito – i
prezzi erano in calo. Il mercato azionario, per di più, è una guida tremenda per presagire il
futuro dell’economia: Paul Samuelson una volta scherzò dicendo che il mercato aveva
previsto nove delle ultime cinque recessioni. E su quel fronte niente è cambiato. Tuttavia,
gli investitori sono ovviamente nervosi. E a buon motivo. Negli ultimi tempi le notizie di
economia provenienti dagli Stati Uniti sono state buone, anche se non eccellenti, ma il
mondo nel suo complesso pare ancora significativamente propenso agli infortuni. Da sette
anni (e chissà per quanti altri ancora) stiamo vivendo in un’economia globale che procede
barcollando da una crisi all’altra: ogni qualvolta una regione del mondo sembra finalmente
rimettersi in sesto, ecco che subito un’altra inizia a traballare. E l’America non può certo
isolarsi del tutto da queste calamità globali. Ma perché l’economia continua a incespicare?
A prima vista, si direbbe che ci siamo imbattuti in una considerevole quantità di sfortuna.
Prima c’è stata la bolla immobiliare, che ha innescato la crisi delle banche. Poi, proprio
quando il peggio sembrava passato, l’Europa è entrata in una crisi debitoria e in una
recessione che di fatto è una double-dip, una doppia recessione. Alla fine l’Europa ha
raggiunto una stabilità precaria e ha ripreso a crescere, ma ecco che in Cina e in altri
mercati emergenti, che in precedenza consideravamo solidi pilastri, vanno affiorando
grossi problemi.
Ricorderete che più di dieci anni fa Bern Bernanke sostenne che l’impennata del deficit
commerciale statunitense non era il prodotto di fattori interni, bensì di una “global saving
glut”, che potremmo chiamare una “bolla globale di risparmio”: in pratica, una
sovrabbondanza di risparmi sugli investimenti in Cina e in altre nazioni in via di sviluppo,
trainata in parte dalle reazioni politiche alla crisi asiatica degli anni Novanta che stava
arrivando negli Stati Uniti alla ricerca di profitti. Bernanke si preoccupò un poco per il fatto
che l’afflusso di capitali non era convogliato in investimenti alle imprese, bensì nel settore
immobiliare. Ovviamente, avrebbe dovuto preoccuparsi molto di più (come fecero alcuni di
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noi). Tuttavia, la sua supposizione secondo la quale il boom immobiliare negli Usa era
almeno in parte causato dalla debolezza delle economie estere appare tuttora valida.
Naturalmente, il boom divenne una bolla, e quando scoppiò la bolla inflisse danni enormi.
Ma c’è dell’altro, la storia non finì lì. Ci fu anche un flusso di capitali dalla Germania e da
altri Paesi dell’Europa settentrionale in direzione di Spagna, Portogallo e Grecia. Anche
questa si sarebbe rivelata una bolla, e quando la bolla scoppiò nel 2009-2010 accelerò la
crisi dell’euro. No, no, la storia non finisce nemmeno a questo punto. Non essendo più
America ed Europa destinazioni allettanti, l’eccesso globale di risparmio andò alla ricerca
di altre bolle da gonfiare. E le trovò nei mercati emergenti, spingendone le valute ad
altezze insostenibili, per esempio il real brasiliano. Tutto ciò non poteva durare, e di fatti
non è durato: ci troviamo ora nel bel mezzo di una crisi dei mercati emergenti che ad
alcuni osservatori ricorda la situazione degli anni Novanta in Asia. Sì, proprio la stessa
dalla quale ha avuto tutto inizio.
E dunque: in quale direzione si sposterà l’indicatore della sovrabbondanza? Che
domande! Di nuovo verso l’America, dove un afflusso fresco fresco di capitali stranieri ha
spinto il dollaro al rialzo, minacciando ancora una volta di rendere non competitiva la
nostra industria. Che cosa provoca questa sovrabbondanza globale? Probabilmente, un
mix di fattori diversi. La crescita della popolazione sta rallentando in tutto il mondo, e
malgrado tutto il gran parlare di tecnologia non sembra proprio che essa stia creando una
produttività in eccedenza o una grossa domanda di investimenti delle imprese. L’ideologia
dell’austerità, che ha portato a una debolezza della spesa pubblica senza precedenti, ha
aggravato ancor più il problema. E per finire, la bassa inflazione in tutto il mondo – che
significa bassi tassi di interesse anche quando le economie sono in piena espansione – ha
ridotto al minimo i margini per tagliare i tassi quando le economie subiscono un crollo
rapido e improvviso. A prescindere da qual è il mix preciso delle varie cause di questo
fenomeno, ciò che più conta adesso è che i policy-maker prendano sul serio la possibilità,
che chiamerei probabilità, che la nuova normalità sia questa: risparmi in eccedenza e
debolezza globale persistente. Ho la sensazione che vi sia una ben radicata mancanza di
volontà, perfino tra i funzionari più autorevoli, ad accettare questa realtà. E credo che vi
sia anche una sorta di pregiudizio irrazionale contro il concetto stesso di sovrabbondanza
globale. Politici e tecnocrati la pensano nello stesso modo: vogliono essere considerati
persone serie che prendono decisioni difficili e che scelgono, per esempio, come tagliare
programmi popolari e aumentare i tassi di interesse. A loro non piace sentirsi dire che
viviamo in un mondo nel quale politiche apparentemente severe non faranno che
peggiorare le cose. Eppure è così, e le cose andranno di male in peggio.
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INTERNI
Del 25/08/2015, pag. 5
Chiesa e centrodestra all’attacco del ddl
Cirinnà
Unioni civili. Delrio: «Il governo tira dritto». Ma Bagnasco ribadisce il no
al testo. E nasce una polemica sull’«utero in affitto»
Da una parte ci sono gli annunci del premier Matteo Renzi e dei suoi ministri che assicurano l’approvazione entro la fine dell’anno del disegno di legge Cirinnà sulle Unioni civili.
Dall’altro le parole del presidente della Cei il cardinale Angelo Bagnasco, che dopo lo stop
dato nei giorni scorsi ieri ha ribadito ancora una volta la contrarietà della chiesa al provvedimento. In mezzo gli alfieri della crociata contro l’ equiparazione di diritti tra coppie etero
e omosessuali, i parlamentari di Area popolare — primi fra tutti quelli del Ncd di Alfano —
ma anche un Pd per niente compatto e convinto sul ddl, al punto che anche tra le sue fila
è possibile contare qualche parlamentare incerto sul da farsi.
Non accenna certo di diminuire la polemica intorno al ddl Cirinna, che anzi vede la strada
per la sua approvazione (il provvedimento è in commissione Giustizia del Senato) sempre
più in salita. Le unioni civili non possono essere omologate alla famiglia «perché sono
realtà diverse: bisogna riconoscere la diversità delle realtà e trattare le singole realtà
secondo la concreta situazione. Omologare automaticamente mi pare che sia contro la
logica», ha ripetuto ieri il cardinale Bagnasco definendo «polemiche che non aiutano» gli
interventi di quanti hanno letto le sue parole come un’ingerenza da parte della chiesa nel
dibattito politico del Paese. «Nessuno può fare delle ingerenze — ha proseguito Bagnasco
-: tutti devono portare il proprio contributo rispettando la responsabilità di ciascuno».
Il problema è che più che contributi alla discussione, sul ddl stanno piovendo massi destinati a fermare del tutto l’iter della legge. Ieri il ministro Graziano Delrio ha garantito ancora
una volta l’impegno del governo a voler andare avanti con l’esame del testo, pur assicurando l’ascolto di tutte le posizioni presenti in parlamento. Più che sufficiente per scatenare le reazioni di una destra che di confrontarsi non ne ha nessuna voglia. E che anzi
preferisce dettare lei le regole del gioco. Così Paola Binetti (Ap) ha subito chiesto a Renzi
di ritirare il ddl Cirinnà (a proposito di dialogo), seguita dal collega Alessandro Pagano che
ha chiesto di sostituire il testo in discussione con la proposta di legge firmata da lui e Maurizio Sacconi sui diritti individuali dei conviventi. Il che per essere chiari significherebbe
«no all’equiparazione al matrimonio, no all’adozione gay e no all’orrenda pratica dell’utero
in affitto», come ha spiegato la stesso Pagano.
Questa dell’«utero in affitto»(in realtà si chiama gestazione di sostegno, ma a destra preferiscono involgarire il linguaggio) è un’altra della motivazioni che i parlamentari di Area
popolare accampano nel tentativo di bloccare il ddl Cirinnà. Il senatore Gaetano Quagliarello ha proposto di abolirla per legge, sicuro che poi si troverebbe un’intesa sulle unioni
civili. E subito Eugenia Roccella, deputata anche lei di Ap, ha proposto un emendamento
al ddl sulle unioni civili che «ne modifichi profondamente l’impostazione».
In realtà nel testo in questione è prevista la stepchild adoption, ovvero la possibilità di
adottare il figlio del partner, ma nessun via libera all’adozione per i gay né alla gestazione
di sostegno. Come conferma il senatore Felice Casson, vicepresidente della commissione
Giustizia del Senato che a settembre riprenderà l’esame del testo. «Sono scuse per bloccare il ddl, come ha spiegato più volte in commissione la relatrice del testo», dice. «Chi fa
queste affermazioni o non conosce affatto la legge oppure è in malafede».
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Del 25/08/2015, pag. 13
Capitale sede vacante e nei giorni della
bufera Marino scrive memorie tra il Texas e i
Caraibi
Più che colpevole, assente. In città infuriano le polemiche ma il sindaco rimane
oltreoceano dove sta ultimando un libro sui suoi primi due anni in Campidoglio.
Non tornerà neanche giovedì quando in Consiglio dei ministri si discuterà la sorte
del Comune
di FRANCESCO MERLO
È così irrilevante che ormai anche le sue dimissioni sarebbero insignificanti. Si è perciò
nascosto ai Caraibi per scrivere le sue memorie, libro dei sogni e canto del pastore
errante. Ignazio Marino potrebbe rubare il titolo al film dei Fratelli Coen: L'uomo che non
c'era. È infatti il loser che mai sta dentro la sua vita, "quella vita - dice il Marino del film che mi ha servito delle carte perdenti o forse non le ho sapute giocare, chissà". Dunque è
drammaticamente ovvio che il sindaco-scrittore non sarà presente neppure giovedì
prossimo quando il Consiglio dei ministri parlerà di lui ed esaminerà la monumentale
relazione del prefetto Gabrielli, la cartografia e la sinossi di mafia capitale, il caso Roma
insomma che, purtroppo, non ha la leggerezza fatua e struggente del caso Marino. Ha
detto Renzi ad Orfini: "Il sindaco è l'assente che non si può cacciare". Speriamo che
questa scrittura gli serva almeno come terapia perché davvero somiglia al barbiere di quel
film che "non c'era soprattutto quando c'era".
Almeno adesso nel non esserci Marino ha la scusa dei Caraibi "dove il sole è più sole che
qua...". Sempre l'altrove di Marino è quello delle canzoni e della commedia all'italiana,
esotismo e fusi orari. Quando a Roma è mezzogiorno di fuoco lui dorme, come Paperino
ad Honolulu che Paperone non poteva raggiungere perché l'uno si alzava quando l'altro si
coricava. Dunque, dopodomani mattina quando di giorno a Roma il Consiglio dei ministri
parlerà di lui, Marino scriverà di sé nella notte del Golfo del Messico, "mio diletto amore /
non tramonta il sole / al Tahiti Bar". Marino scrive. Da quando è sindaco ogni sera ha
preso appunti su quadernetti di colore diverso: il nero per la mafia che non ha visto, il
rosso per la rivoluzione che ha promesso, il giallo per i viaggi e per le fughe, il grigio per i
giornalisti cattivi, l'arcobaleno per gli incoraggiamenti che ha ricevuto all'estero "dove - mi
confidò - mi capiscono e mi applaudono per le stesse ragioni per cui a Roma mi
fischiano". Per la verità nel novembre del 2014, quando scoppiò la rivolta della periferia di
Tor Sapienza contro gli immigrati, il primo cittadino, che nei comizi elettorali aveva
promesso di "trasformare Roma nella città dell'accoglienza", non si accorse di nulla e
addirittura l'indomani mattina, mentre infuriava lo scontro, sempre più sconnesso con la
realtà volò a Londra (...) E ritirava una laurea ad honorem a Philadelphia nei lunghi giorni
di ordinaria follia quando l'intera Roma inseguiva i tre rom che a Primavalle, su un'auto
pirata, avevano travolto sette persone e ucciso sul colpo una povera donna. E quando i
vigili urbani si diedero tutti insieme malati e scoppiò la rivolta dei certificati falsi, Marino era
e rimase a Boston. Anche adesso è negli Stati Uniti, di nuovo a indignarsi attraverso
Facebook: "Sono solo contro la mafia". E ha polemizzato con la prefettura e con la
questura con post, telefonate, messaggi in bottiglia e lettere dall'esilio.
Anche di quel crimine estetico che è stato il funerale dello zio Casamonica ovviamente
Marino non ha nessuna responsabilità. Certo, ha mancato gli aerei di ritorno, ha
dimenticato che giovedì la sua Roma entrerà in sala operatoria per un intervento a cuore
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aperto, ma di nuovo è innocente, proprio come il barbiere dei fratelli
Cohen che diceva di sé: "Sono un fantasma, non vedo nessuno e nessuno vede me".
Diciamo la verità, nella storia politica di Roma non c'era mai stata una vacanza di governo,
un vuoto, un vacuo, un'assenza così candida come quella di Marino, marziano con la bici
al posto dell'astronave, mai perseguito per qualche delitto ma sempre deriso per tutte le
goffaggini, americano a Roma, sindaco delle buche, della sporcizia e del degrado epocale
della capitale e ora anche scrittore autoenciclopedico, una nuova e inaspettata maschera
romana, un incrocio tra Pierrot e Meo Patacca. "Se rimane Marino in tre anni se magnamo
Roma" aveva profeticamnete detto Buzzi, che de Roma è er capomafia. Marino non s'era
accorto che la Roma che lui non riusciva a governare era diventata "a mucca che amo
munto tanto" né che i consigli comunali e le giunte "devono stare ai nostri ordini perché li
pago e vaffanculo". Non vedeva nulla ma intanto per scappare dalle Iene televisive cadeva
dalla bici e mentre gridava ai giornalisti che aveva "cose ben più importanti di cui
occuparsi" sbatteva la testa sullo stipite. Certo, non c'entra con quel funerale ma l'estetica
dei Casamonica è la stessa di er Batman e delle famose feste con le teste di maiale. La
volgarità pacchiana e funeraria del clan degli estortori e degli usurai è parente stretta di
quella esibita nelle feste private e celebrata come un cult dal Cafonal di Dagospia... E
come dimenticare la foto dei porci che grufolavano felici tra i cassonetti nel rione
semiperiferico di Boccea? Lo stile di Roma è quello documentato da www.romafaschifo,
con i ratti che hanno invaso il quartiere Prati, con le foto delle persone che defecano a
cielo aperto dentro la stazione Termini... Casamonica più che zingarismo è neo
romanesco, lo stile greve da cui gli italiani vorrebbero ormai allontanarsi, quello stesso che
domina nei programmi televisivi. Marino colpevole? No, assente. Al punto che in Texas
potrebbe restarci sino a Natale e nessuno se ne accorgerebbe a parte i vignettisti e gli
autori di satira che, comunque, sono anch'essi in difficoltà perché Marino è oltre l'ironia di
Longanesi sul non esserci, sul non accorgersi e sull'arrivare tardi: "Spiacenti, il nostro
inviato speciale si è perduto per causa pioggia". Perciò è insignificante chiedere che
Marino si dimetta. Più chiaramente: la campagna per le sue dimissioni che la destra, al di
là della demagogia, conduce con molte ragioni, è senza senso politico. Roma infatti è già
senza governo, la città è esausta e non può certo permettersi le elezioni durante il
Giubileo. E l'idea del commissariamento per mafia, con qualsiasi formula venisse
mascherato, è improponibile per la capitale d'Italia. Non può arrivare a tanto il lungo
oltraggio che la politica ha commesso contro la città più bella del mondo, rendendola via
via corrotta, infetta, ladrona e da ultimo anche mafiosa.
Scavalcato, messo tra parentesi, trattato con alzate di spalle e sguardi al cielo, Marino è
commissariato sì, ma all'italiana: svuotato, reso superfluo e caraibico, espatriato in patria.
Dunque Matteo Orfini gli fa da tutore politico. Franco Gabrielli, al suo posto, si occuperà
del Giubileo. Malagò presidia la chimera delle Olimpiadi. La fiaccola della passione civile,
di cui Marino fu tribuno di Roma, è passata nelle mani del Papa. E si sa che su Roma il
consigliere all'orecchio di Renzi è Francesco Rutelli. Certo, l'ideale sarebbe stata quella
legge speciale che proponemmo già nello scorso giugno per sottrarre Roma al
Campidoglio e affidarla allo Stato, come Berlino e come Washington. Il commissariamento
all'italiana invece è l'ultima stravaganza andreottiana, è la politica fatta di nascosto, è il
gioco delle ombre: The Man Who Wasn't There .
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Del 25/08/2015, pag. 14
Senato, sfida del governo
''Troppi emendamenti andremo subito in
aula"
Il sottosegretario Pizzetti sulle 513 mila richieste di modifica
"Paralizzerebbero la commissione, prospettiva inaccettabile"
GIOVANNA CASADIO
La montagna di emendamenti alla riforma che trasforma il Senato non si scala, si abbatte.
Il governo ha deciso di portare il disegno di legge Boschi direttamente in aula, perché 513
mila proposte di modifica consegnate, catalogate, stampate in commissione Affari
costituzionali di Palazzo Madama sono una mole insostenibile. Spiega Luciano Pizzetti, il
sottosegretario de m alle Riforme che segue la partita del nuovo Senato: «È d'obbligo
andare in aula subito, non c'è alternativa. Diversamente resteremmo per mesi e mesi
impegolati nell'ostruzionismo degli emendamenti in commissione». La decisione è già
presa. «Certo - aggiunge il sottosegretario- il tentativo è quello di un appello alla
ragionevolezza e alla responsabilità, affinché ci si concentri su pochi emendamenti
significativi». Diversamente in aula su può applicare il cosiddetto "canguro" che consente
di accorpare gli emendamenti. Ne sono stati perora depositati e da discutere in
commissione a settembre 513 mila e 450: un record. Solo la Lega ne ha presentati 510
mila, Forza Italia 1.075, Sei 1.049 e via via a decrescere fino ai 194 dei 5Stelle e 63 del
Pd. Nelle 63 modifiche dem, 17 sono della minoranza e rimettono in discussione il pilastro
fondamentale della riforma e cioè che il Senato delle autonomie non sarà eletto nelle urne
dai cittadini bensì vedrà sui suoi scranni 21 senatori-sindaci e 75 senatori-consiglieri
regionali. Pizzetti chiarisce che su questo punto non c’è discussione possibile, è «il fatto
fondamentale». Le opposizioni, ma anche la minoranza Pd, aspettano al contrario che il
presidente Grasso dica la sua sull'ammissibilità degli emendamenti che permetterebbero
di ridiscutere la questione, riaprendo l'esame dell'articolo 2. Chiusura del governo quindi
sull'elezione diretta dei nuovi senatori. Ma un'apertura c'è. Riguarda le funzioni ridotte
allumi cino del nuovo Senato. I funzionari del Servizio studi di Palazzo Madama lo hanno
sottolineato nel dossier in cui fanno le pulci alla riforma. Pizzetti ammette: «Gli interventi
fatti sul testo alla Camera sono stati peggiorativi. Però questo è stato dovuto all'alleanza di
parte d ella minoranza del Pd con le opposizioni, Palazzo Chigi apre a ritocchi delle
competenze. "Ma è stata la minoranza pd alla Camera a peggiorare il testo" 1'8 agosto
2014, la Camera ha dato l'ok 1'11 marzo 2015. in particolare con Forza Italia». Cosa
succederà allora? «Sulle funzioni e le competenze del Senato che verrà occorre
recuperare l'architettura precedente su funzioni e garanzie», prevede il sottosegretario.
Loredana De Petris, di Sei. boccia l'intero impianto: «Sembra un regolamento di
condominio, è il caos sul procedimento legislativo ». Miguel Gotor, tra i 25 senatori dem
dissidenti, parla di uno sconquasso con le funzioni rimaste al Senato: «Cose che potrebbe
fare la Conferenza delle Regioni...». La riforma è un risiko e il governo lo sa.
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Del 25/08/2015, pag. 15
Salvini avverte Berlusconi "Sì alle primarie"
Caos Forza Italia
Centrodestra sempre più diviso
Tra i forzisti cresce la fronda che vuole le consultazioni interne
ROMA. Matteo Salvini sfida Silvio Berlusconi. Dopo il polverone, "primarie sì o primarie
no", che ha diviso il leader di Fi dal consigliere politico Giovanni Toti, il segretario del
Carroccio - intervistato dal Tg3 - detta tempi e modi alla coalizione di centrodestra «La
Lega Nord è favorevole alle primarie di centrodestra, sia a livello nazionale che per le
candidature alle prossime comunali nel 2016 perché -afferma Salvini -non è più tempo d
i deciderle più nel buio d i qualche stanza». Dunque, nel centrodestra la partita si riapre.
Un intervento, quello del segretario della Lega, che spariglia i giochi all'interno di Forza
Italia e gela l'ex premier, ancora in vacanza a Villa Certosa insieme a i familiari. Questa
volta il leader del Carroccio sembra avere gioco più facile nel braccio di ferro con il leader
forzista. Già domenica, a differenza del copione classico, non si era registrato un coro
unanime pro Berlusconi. Gli unici ad essere d'accordo con il leader di Fi sono stati Altero
Matteoli e Gianfranco Rotondi. Quest'ultimo ha messo nero su bianco: “Dopo il fallimento
delle primar ie a sinistra perché Berlusconi dovrebbe rischiare di tuffarsi nel pantano dei
gazebo? Berlusconi ha ancora il carisma per mediare tra Lega, Forza Italia e il centro
della coalizione. l candidati vincenti ci sono in tutte le città». Sotto strada, però, cresce il
malumore di diversi parlamentari: «Non siamo in pochi ad essere per le primarie»,
sussurano. La maggioranza degli azzurri propende per le primarie per la selezione dei
candidati alle amministrative del 2016. Chi non si nasconde è la deputata siciliana
Gabriella Giammanco che senza giri di parole dice: «Sono favorevole perché mi sembra
una buona occasione per coinvolgere e motivare gli elettori di centrode-stra ai quali si
potrebbe anche chiedere d i offrire spunti e proposte di programma». Sulla stessa
lunghezza d'onda il senatore Augusto Minzolini: «Le primarie sono un meccanismo
obbligato perché non ci sarà accordo all'interno della coalizione ». E in questa occasione
anche il Mattinale di Renato Brunetta, che solitamente interpreta l'ortodossia azzurra,
apre alle consultazioni p re-amministrative: «Bisogna ritrovar-si per stabilire regole di
combattimento: non tra noi ma contro l'avversario. E le primarie, di cui siamo stati i primi
a denunciare i limiti, sono uno strumento su cui è bene discutere come extrema ratio
quando si rischi di non trovare la quadra. Nessun dogma, ma duttile ragionevolezza ».
Per molti la sfuriata di Berlusconi è una sorta di ripicca al protagonismo di Salvini che
aveva già candidato Lucia Bergonzoni a sindaco di Bologna, senza interpellare gti alleati
azzurri. Ma al netto di Forza Italia, gli altri pezzi di centrodestra convergono con le
posizioni di Salvini. Dopo l'intervista di ieri a Repubblica, Raffaele Fitto, leader dei
Conservatori e riformisti, torna sulla questione e plaude al segretario del Carroccio: «Da
mesi. e ancora stamattina, ho lanciato un appello per le primarie. Dopo il grave errore di
Berlusconi, che lo isola, sono molto lieto della risposta positiva di Matteo Salvini. Ora si
apra una sfida positiva nel centrodestra». Gli fa eco un'altra stampella della coalizione.
Dice Flavio Tosi, sindaco di Verona e leader di Fare: “Al centrodestra, per riavvicinarsi
alla gente e tornare ad ascoltare davvero il Paese servono le primarie, anche perché i
cittadini hanno diritto di sceglierei! proprio leader e la squadra”.
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Del 25/08/2015, pag. 29
IL RISVEGLIO TARDIVO DELLA MINORANZA
PD
STEFANO RODOTÀ
NEGli ultimi tempi stiamo assistendo ad un crescendo di dichiarazioni da parte di studiosi
e commentatori che definiscono la linea politico- istituzionale di Matteo Renzi plebiscitaria,
presidenzialista, autocratica, da uomo solo al comando .. autoritaria. Quel che colpisce in
queste dichiarazioni è che spesso provengono da persone che, quando nel marzo
dell'anno scorso alcuni si permisero di mettere in guardia contro il rischio della nascita di
un sistema autoritario, si stracciarono le vesti, gridarono all'intollerabile forzatura,
mostrando ua l'altro di non conoscere la distinzione tra "autoritario"' e"totalitario". Si
potrebbe essere soddisfatti di queste tardive resipiscenze, se non fosse che in politica i
tempi contano per chi agisce e per chi discute. Non è irragionevole pensare che la
tempestiva creazione di un fronte culturale critico avrebbe potuto ind irizzare le riforme
istituzionali verso risulta ti più accettabili considerando che erano venute proposte che
andavano oltre il muro contro muro. L'occasione è stata perduta da parte di quelli che
furono silenziosi o compiacenti. Ma pure da Renzi. che aveva a disposizione indicazioni
che avrebbero consentito di ridurre il tasso antidemocratico dell' accoppiata tra legge
elettorale e riforma del Senato. Grandi le responsabilità della cultura, ma grandi pure
quelle di chi, nelle sedi politiche, ha conosciuto un tardivo risveglio. Oggi la minoranza del
Pd si è convertita all'intransigenza, si ingegna nel cercare varchi regolamentari nei quali
far passare le sue proposte di modifica, ma è stata incapace di mettere a punto una
ragionevole strategia nel momento in cui si approvava la legge elettorale e si avviava la
lettura del1ariforma del Senato. Di nuovo incapacità di cogliere la rilevanza del tempo in
politica. Non basta fare la buona battaglia, bisogna farla al momento giusto. Comunque si
valutino le vicende passate, è difficile negare che siamo di fronte ad una modifica del1a
forma di governo, non accompagnata, come dovrebbe essere in democrazia, da una
adeguata considerazione degli equilibri costituzionali complessivi. Problema non nuovo,
perché il funzionamento del sistema era stato già gravemente alterato soprattutto
attraverso le varie manipolazioni delle leggi elettorali. L'urgenza vera, allora, dovrebbe
essere la ricostruzione di rapporti tra gli organi dello Stato tale da restaurare almeno gli
equilibri perduti. Questa strada non è stata neppure presa in considerazione; i
suggerimenti di modificare almeno alcuni aspetti del nuovo Senato per recuperare qualche
brandello di garanzia sono stati respinti persino con tracotanza. Oggi la residua "battaglia"
per tornare solo a ll'elezione diretta dei senatori può essere poca cosa, se non
accompagnata da altre modifiche. Siamo in presenza di un effetto a cascata. n Presidente
del Consiglio finisce d'essere un primus inter pares e acquista un potere di pieno controllo
del Governo. n Governo declassa il Parlamento a luogo di registrazione. La nuova
combinazione Presidente del Consiglio-Governo-Parlamento consente al partito di
governo, grazie al doppio effetto maggioritario della legge elettorale, di impadronirsi del
controllo di organi d i garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte
costituzionale. L'accentramento di poteri così realizzato rende superflua, almeno nelle
intenzioni dichiarate dal Presidente del Consiglio, ogni forma di mediazione politicosociale-dei sindacati, degli stessi partiti ridotti a macchine elettorali, delle istituzioni
culturali, del sistema dell'informazione e viene così cancellata la rilevanza di quel potere di
controllo diffuso nella società che ha sempre giocato un ruolo essenziale nella vita delle
democrazie . Proprio negli ultimi tempi. e di nuovo dopo le ultimissime vicende romane, si
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è lamentata la perdita degli anticorpi civile e sociali che sono indispensabili per contrastare
criminalità, corruzione, privatizzazione delle risorse pubbliche, fuga dal dovere di pagar le
tasse. Ma quella perdita è andata di pari passo con l'indebolimento degli anticorpi
istituzionali, rappresentati persino con ostentazione come un intralcio all'efficienza e alla
rapidità delle de- Humpty Dumpty sedeva sul muro Humpty Dumpty cadde giù duro. Qui
hanno giocato un ruolo decisivo una cultura politica e una cultura costituzionale che non
sono state capaci di declinare quei temi al di là della risposta sbrigativa e pericolosa
dell'accentramento dei poteri. Non si sono degnate della minima attenzione le ricerche
sulle difficoltà profonde della democrazia, sì che nella proclamata riforma costituzionale
manca ogni significativo cenno alla partecipazione e a quella nuova organizzazione dei
poteri sociali che va sotto il nome di "controdemocrazia•. Tutto questo ha fatto sì che
l'impresa riformatrice goda oggi di una legittimazione decrescente, che si aggiunge ad una
delegittimazione più radicale di cui non si è voluto temer conto. Un cambiamento
costituzionale così profondo viene realizzato da un Parlamento eletto con una legge
dichiarata illegittima. constatazione che avrebbe dovuto almeno indurre alla massima
prudenza e a muoversi sempre con il massimo consenso. Acqua passata? Niente affatto,
perché si è costituito un precedente per modifiche costituzionali costruite come esercizio
della forza. A chi intende trasformare la critica in azione politica si oppone, con sempre
maggiore insistenza, un solo argomento. Sta te preparando il terreno propizio al successo
di Salvini o di Grillo. Lasciamo da parte la non onorata storia di questo argomento, sempre
sospetto di intenti ricattatori. Si deve riflettere, invece, sul modo in cui è stata concepita e
attuata l'azione di governo. Non vi sono alternative - si è detto e si continua a dire.
Muovendo da questa incerta certezza, si è adoperato il muro contro muro, tutti gli
interlocutori critici sono stati considerati nemici. Una strategia che fatalmente erode il
consenso per il Governo. La democrazia non può essere separata dall'esistenza di
alternative, soffre ogni monolitismo e, quando si rende difficile il dialogo o non si accetta la
costruzione di nuovi soggetti, si è responsabili dell'astensione di massa, della democrazia
senza popolo. o del rivolgersi a chiunque sul mercato si presenti come alternativa.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 25/08/2015, pag. 12
Gabrielli assolve tutti: non faccio rotolare
teste
Vietato al clan fare il bis
''Tanti errori, ora nuove regole perché non accada più"
Domani altra messa per il boss: proibito qualsiasi show
ROMA L'informazione stavolta è arrivata con 48ore di anticipo e non è stata
sottovalutata. D'altra parte. dopo che il funerale di Vittorio Casamonica è finito sulle
pagine dei giornali di tutto il mondo, non poteva essere altrimenti. Per questo domani,
in occasione dell'attavario (la messa a suffragio di un defunto a 8 giorni dalla morte), i
Casamonica si dovranno accontentare di una cerimonia «in forma strettamente
privata». Così ha disposto il questore di Roma Nicolò D'Angelo in base all'articolo 27
del testo unico di pubblica sicurezza «Non si può vietare un funerale in un luogo di
culto», ricorda il vice questore Luigi De Angelis. Ma all'esterno della chiesa {stavolta la
più piccola parrocchia di San Girolamo a Casal Morena, Roma sud), non ci saranno
carrozze e cavalli ma forze dell'ordine a presidiare il sagrato. Ad annunciare il
provvedimento è il prefetto di Roma Franco Gabrielli che ieri ha messo attorno a un
tavolo tutti gli attori (assenti per ferie il questore e il sindaco Ignazio Marino) di quella
che ha definito «una vicenda gravissima», una «falla», un «wlnus», un «baco » nel
sistema informativo che ha consentito ai Casamonica «di fare ciò che volevano». Non
tanto «un messaggio mafioso alla città», quanto «un'ostentazione - spiega Gabrielli della capacità del clan di controllare il territorio». Con un'annotazione in più: «Loro
stessi volevano far montare la storia sui mass media. Tutti noi siamo stati un loro
strumento inconsapevole ». Una cerimonia che preoccupa non solo per la scarsa
«sensibilità» con la quale è stata trattata un'informazione che «c'era, seppure in
maniera indiretta» e che tutti conoscevano, dai carabinieri alla polizia. Il problema vero
in una città che si prepara ad ospitare daU'8 dicembre milioni di pellegrini per il
Giubileo di Papa Francesco, è il controllo dei cieli. Perché se sull'elicottero che i120
agosto ha sparso petali di rosa sulla parrocchia di Don Bosco al Tuscolano, ci fosse
stato un terrorista «sarebbe stato un problema per tutti», avverte Gabrielli. «Il tema del
sorvolo è molto importante e attiene alla sicurezza nazionale- prosegue - ma questi
casi si risolvono con un'attività preventiva di intelligence». Quella che è mancata in
questa occasione. Per il resto, Gabrielli (che pure ha chiesto a polizia e carabinieri «di
svolgere adeguati accertamenti su profili di carattere disciplinare») assolve tutti: «Non
sarò io a far rotolare teste. Se necessario lo farà il ministro». Anche perché «tutti
hanno seguito a memoria "la libretta", ed è difficile contestare mancanze». È mancata,
appunto, la sensibilità. Per questo, secondo l'ex capo della Protezione civile, serve
«un cambio di mentalità». Verrà creato un «gruppo di raccordo informativo » che
definisca «un ranking delle notizie che servono». Queste, poi, dal livello più basso
viaggeranno rapidamente ai vertici per essere analizzate più attentamente, colmando
così le lacune della scorsa settimana. Per quanto riguarda i Casamonica, invece, ci
sarà una stretta sulle loro attività («Ma non li scopriamo ora. Dal2010 ne abbiamo
arrestati 117») e sui controlli sulle case popolari da loro abusivamente occupate (il
27
Campidoglio ne ha individuate una trentina): <(Dobbiamo fare uno sforzo - conclude
Gabrielli per dimostrare che non abbiamo paura dell'ambiente criminale. Ma non in
un'ottica di legge del taglione.
Del 25/08/2015, pag. 22
Il caso
Le ruspe nella Valle dei Templi per
smantellare 650 case abusive
Agrigento, l’intervento dopo 14 anni di rinvii e carte bollate. Ieri
abbattuto il primo muretto
AGRIGENTO Hanno provato a fermare le ruspe con l’ultima carta da bollo. Sperando che
un vizio di forma potesse bloccare la ripresa delle demolizioni nella Valle dei Templi. Un
intoppo di due ore, dopo 14 anni e mezzo di pausa. Perché risale addirittura al gennaio del
2001 il primo intervento sulle case abusive nell’area vicina al Parco archeologico. Più di
650 in tutto, come stabilito da sentenze del 1998 perché in una zona tutelata da vincolo di
in edificabilità assoluta. Allora intervenne il Genio militare. Ma i soldati andarono via dopo
avere abbattuto le prime quattro case, compresa quella di un professore di ragioneria che
morì d’infarto a 63 anni. Il resto della storia è un ping pong di lettere e precisazioni,
opposizioni e richieste di chiarimenti rimbalzate per tre lustri fra Comune e Regione,
Sovrintendenza e Parco archeologico. Con burocrati ogni volta certi che non spettasse a
loro l’ultima parola. Un gioco bloccato due mesi fa dal procuratore aggiunto della
Repubblica Ignazio Fonzo che con un categorico ultimatum ha inviato tutti a non perdere
altro tempo, pena una sfilza di denuncie per omissioni di atti d’ufficio. Ultimatum arrivato al
Comune due giorni prima dell’insediamento del nuovo sindaco, Lillo Firetto, l’unico uomo
politico sponsorizzato in campagna elettorale da scrittori come Andrea Camilleri e
Simonetta Agnello Hornby. E Firetto, che aveva già cooptato come suo assessore il
segretario regionale di Legambiente Mimmo Fontana, ha subito aderito con la gara per
trovare una ditta disposta ad abbattere le prime 8 costruzioni «con sentenze passate in
giudicato». Le prime otto di un gruppo di trenta orrende case ad un chilometro dalle
colonne doriche del Tempio di Giunone, su quel Poggio Muscello dove nel 2001 per un
paio di giorni comparvero e sparirono i genieri.
Giusto il tempo delle riprese Tv e delle zoomate sulle contrade Maddalusa e Cugno Vela
dove poi il ping pong di quel carteggio riuscì a fermare il tempo. Fino a ieri mattina,
quando i denti d’acciaio della prima ruspa hanno buttato giù il muro di recinzione che due
avvocati hanno cercato di salvare chiedendo ai funzionari della questura di scorta agli
operai «la verifica del titolo esecutivo». In poco tempo recuperato dal sostituto procuratore
Carlo Cinque, in contatto con Fonzo e con il procuratore Renato di Natale.
Poi il via allo smantellamento, sulla stradina sterrata dove pascolava un gregge. Per il
momento è andata giù solo una recinzione di tufo giallo. Ma si riprende domani con cinque
case, un ovile e un paio di baracche di legno. Certo che si andrà spediti, come assicura
Fonzo: «Sì, il dado è tratto. E una volta che si rompe la “quartara”, come qui chiamano il
recipiente in terra cotta, sarà difficile dire perché si abbattono questi e non quegli abusi.
Insomma è finito il tempo dei palleggiamenti fra Ente Parco, Regione, Comune...». Non
mancano però le voci contro. E visto che siamo nella terra di Pirandello ecco esplodere la
rabbia contro questi provvedimenti da parte di Giuseppe Arnone, l’avvocato da trent’anni
sulla trincea di Legambiente accanto a Fontana, il neo assessore cooptato da Firetto.
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Battaglia dura. A colpi di manifesti affissi senza risparmiare critiche alla Procura, ai limiti
della querela. «Non vedono i veri abusi, non possiamo consentire propaganda e
passerelle a poco prezzo...», insiste Arnone mostrando un fabbricato ben più ampio dei
primi otto obiettivi. Rilievi respinti da sindaco e procuratore aggiunto che insistono sul
metodo. Si continuerà con le trenta abitazioni sulle quali gravano sentenze ormai
inappellabili. Poi, il resto. Forse. Perché questa prima tranche costa 80 mila euro. E il
Comune non ha fondi per buttare giù 600 costruzioni.
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 25/08/2015, pag. 12
La rivolta dei migranti che blocca la strada
per Milano
La protesta dei profughi del campo di Bresso: «Ci avete dimenticati». Salvini: via
con il primo aereo
MILANO Il nemico peggiore di Nassir è la noia, che s’alimenta dell’incertezza. Lui che a 19
anni ha lasciato Kabul, ha attraversato l’Asia e i Balcani per raggiungere l’Italia — «a
piedi!» giura — ora vive in una tenda da campo nel centro d’accoglienza di Bresso, alle
porte di Milano: «Da cinque mesi sono bloccato qua, senza risposte». In uno spazio
angusto condiviso con altre sette connazionali. Ammassati in brandine da campeggio su
materassi logori e lenzuola ingiallite, in condizioni igieniche precarie. I vestiti appesi al filo
da bucato e un bollitore per l’acqua come unico lusso.
C’era anche lui ieri mattina a bloccare le auto tra Milano e Sesto San Giovanni. Assieme a
un centinaio di persone uscite dalle tende in strada: per un’ora hanno tagliato a metà viale
Fulvio Testi, percorso ogni giorno da migliaia di pendolari che si riversano sulla città. Una
manifestazione che era nell’aria, per il montare della frustrazione e dell’attesa. Sarebbe
stata organizzata nei giorni scorsi da un gruppo più ristretto di profughi che hanno scritto a
penna su pezzi di cartone, trascinando una massa spontanea: «No document, no
freedom». Senza documenti sono costretti ad aspettare qui. Qualche momento di tensione
con le forze dell’ordine, schierate con scudi e manganelli. Alla fine ha prevalso il dialogo.
Tutti maschi questi sans papiers , per la gran parte giovani. Qualche afghano, pachistano
e bengalese, ma in maggioranza provenienti dall’Africa subsahariana. Diwara, 34 anni, e
Solo, 28, ivoriani, raccontano di essere in questo limbo da otto mesi. «Fa freddo d’inverno,
caldo d’estate, e per tutto il giorno non abbiamo nulla da fare». Ma soprattutto: «Quando
esaminano la nostra richiesta? Vogliamo cominciare a lavorare». Qualcuno mostrava
fotocopie di passaporti da recuperare in Questura. Qualcun altro diceva di essere
preoccupato per il rinnovo del permesso di soggiorno scaduto a inizio agosto. «Vogliamo il
documento». E condizioni di vita migliori. «Il cibo è scadente, spesso la gente si sente
male», dice Asad, 20 anni, della Guinea. Con le prime piogge, il fango ha cominciato a
impastarsi con l’erba sui vialetti. Non ci sono dati ufficiali, ma fino a qualche giorno fa si
contavano nell’«hub» di Bresso almeno 500 ospiti. Passano di qui, inviati dal Viminale, per
essere smistati (priorità a donne e bambini). Solo in questi giorni ne sono arrivati un
29
migliaio, in settimana se ne aspettano tremila. Le strutture d’accoglienza sul territorio
lombardo sono sature. Le Commissioni che devono esaminare le domande sono
sovraccariche. E tanti richiedenti asilo finiscono per restare qui, nella tendopoli, che
dovrebbe essere solo una tappa provvisoria. In questo cortocircuito, trovano spazio le
polemiche politiche. Il più veloce è il leader della Lega Nord Matteo Salvini su Facebook:
«Vogliono i documenti? Col cacchio! Io li caricherei di peso sul primo aereo, e tutti a casa
loro!». Da sinistra fanno notare che le responsabilità sono a Roma, ma anche in
Lombardia dove «il governatore Roberto Maroni — accusa il segretario regionale del Pd,
Alessandro Alfieri —non ha tenuto fede agli impegni presi».
Federico Berni
Alessandra Coppola
Del 25/08/2015, pag. 7
L’accoglienza va in tilt
È crisi anche a Berlino
Germania. Problemi «tecnici» e risorse insufficienti, ma anche partiti
con le spalle al muro
Sebastiano Canetta
Tecnicamente inadeguata, finanziariamente ora insufficiente, perfino politicamente impreparata. Di fronte all’emergenza rifugiati, la Germania si scopre nuda e impotente: impossibile assorbire (davvero) 800 mila nuovi «arrivi» previsti nel 2015, continuare a gestire il
40% dei richiedenti asilo dell’intera Unione europea e rispettare fino in fondo le clausole
del trattato di Dublino. Dentro al Bundestag il problema è già più drammatico della «tragedia greca» con gli alleati Spd & Cdu che fanno scintille anche a livello locale, i Verdi alle
prese con la Realpolitik e la Linke obbligata a rispondere alla più leniniana delle domande.
Fuori dal Parlamento, i sondaggi restituiscono la fiducia dei tedeschi sulla tenuta del
Paese mentre rimbalza l’eco del ministro dell’interno Thomas de Maizière, convinto della
capacità della Germania (cioé del governo) di resistere nel breve periodo
all’«imprevedibile» ondata di profughi. Peccato che il «bubbone» sia già scoppiato e il
default di Berlino — con buona pace dei cantori del mito dell’efficienza — ormai conclamato. Flop in piena regola che ammacca l’immagine del modello-guida dell’Europa e raggiunge Bruxelles, a cui la Repubblica federale chiederà con urgenza (proprio come Italia
e Grecia…) il sistema delle quote.
Tuttavia il fallimento nella gestione dell’emergenza ha cause e responsabilità tutte made in
Germany: dalle previsioni sballate al budget che copre appena metà del necessario; dalla
mancanza di personale specializzato alla corrispondenza non più biunivoca fra stato centrale e i comuni lasciati soli di fronte al problema; fino ai minori non accompagnati che verranno «spalmati» nei Land a partire dal 2016.
Il tilt strutturale si tocca con mano ad appena due chilometri dalla Cancelleria, nel cortile
dell’Ufficio di stato per gli affari sociali di Berlino (Lageso) a Moabit dove si vagliano le pratiche dei rifugiati. Qui dall’inizio di agosto la coda dei richiedenti asilo si è già trasformata in
accampamento macedone e l’assistenza è possibile solo grazie ai volontari Caritas, ai
paramedici del Johanniter e agli stessi migranti che danno una mano a «smaltire» uomini
e carte. Sarebbe bastato connettere il database centrale con le periferiche locali per evitare la clamorosa forbice tra previsione e realtà: a far saltare la stima degli esperti è stato il
sistema di misurazione tutt’altro che preciso. Alla base, pratiche di asilo inoltrate dai Land
30
ai comuni prima della trasmissione al Bundesamt für Migration und Flüchtlinge (Bamf)
l’ente federale competente. Risultato: ritardo nella «lavorazione» di oltre 400 mila richieste
e raddoppio di stima che sconvolge anche i piani finanziari.
Finora lo stanziamento governativo si limitava a circa 5 miliardi di euro, il conto aggiornato
ammonta a 8–10 miliardi con il vice cancelliere Spd Sigmar Gabriel che garantisce l’invio
di 3 miliardi di pronto impiego. Duplicazione a beneficio degli enti locali: nell’incontro del 24
settembre chiederanno al governo la revisione del contributo federale: non più assegno
forfettario incardinato sulla stima di profughi (finora sempre superata) ma rimborso individuale in base alle spese realmente sostenute, cioè in media 10 mila euro a persona
secondo l’associazione dei comuni. In più il ministro de Maizière ha dovuto promettere
«l’invio di maggiore personale» per velocizzare l’iter burocratico e incassare l’urticante
denuncia dei volontari sull’assenza di medical-care per i profughi.
In Germania lo smacco organizzativo è già un problema politico. E al Bundestag non
basteranno i moniti del presidente Norbert Lammert (Cdu) né gli auspici «per un dibattito
sereno e senza scaricabarile» del capogruppo dell’Union, Volker Kauder, a contenere la
deflagrazione. Gli alleati di Koalition litigano a Berlino (con la ministra Spd Manuela Schwesig contro de Maizière) ma anche a Monaco, dove il sindaco Spd Dieter Reiter è ai ferri
corti con il vice Josef Schmid della Csu per la (opposta) visione dell’emergenza in Baviera.
Tutto mentre la nuova legge sull’immigrazione naviga in alto mare e il «piccolo cabotaggio» della maggioranza entra nel mirino dell’opposizione.
Il 18 agosto i Verdi hanno presentato il «Piano per migliorare la politica sui rifugiati»
e chiesto alla Germania di saper guardare «oltre la paura».
Tra le priorità dei Grünen — che sono al governo in 9 dei 16 Land tedeschi — accelerare
le procedure di riconoscimento fino alla media di tre mesi, assumere 2.000 nuovi impiegati
al Bamf, mettere in campo alternative all’asilo per i profughi dei Balcani occidentali (permesso di soggiorno temporaneo) ed estendere i corsi di integrazione con altri 1.000
mediatori culturali, in attesa di «una nuova normativa che renda più facile ai migranti
rispettare i criteri». Progetto ambizioso, forse non così condiviso, almeno secondo Boris
Palmer, sindaco Verde di Tubinga, che richiama il partito alla Realpolitik: «Giusto che
i Grünen continuino a essere il partito dell’umanità, ma oggettivamente non si può
ampliare l’accoglienza mentre aumenta il numero di profughi. Già in passato abbiamo perseguito nobili obiettivi senza occuparci della realtà». Da qui la richiesta-choc di «prepararsi
al rimpatrio dei richiedenti asilo che verranno respinti». La posizione della Linke è riassunta dalla portavoce per la politica interna Ursula «Ulli» Jelpke che riporta l’analisi
dell’emergenza profughi dall’effetto alle cause. «Di fronte a 800 mila richieste bisogna fermare l’attuale dibattito improduttivo. Germania e Unione europea devono capire che i rifugiati continueranno ad arrivare in gran numero, fino a quando esisteranno i motivi della
loro fuga». Del resto, per la deputata della Linke il prezzo da pagare è dovuto: «Per guerre
civili, povertà e mancanza di opportunità nei paesi d’origine Europa e Bundesrepublik
devono sopportare il peso delle loro responsabilità. Libia e Siria sono investite di un conflitto alimentato con armi europee» ricorda Jepke, «Così come europee sono le flotte che
pescano davanti alle coste africane, e privatizzazioni e austerità che producono disoccupazione di massa e povertà». Per la Linke dunque «Che fare?» è chiaro. Come un
po’ meno. Intanto, i neonazi hanno tenuto in scacco la polizia (30 agenti feriti negli scontri)
a Heidenau, vicino a Dreda, dove c’è un centro di accoglienza per rifugiati siriani. Durissima la reazione di Angela Merkel attraverso il portavoce Steffen Seibert: «È disgustoso
vedere come estremisti di destra e neonazisti hanno cercato di diffondere un messaggio
d’odio. È infamante che addirittura famiglie con bambini abbiano partecipato alle dimostrazioni anti-profughi».
31
Del 25/08/2015, pag. 1-16
Merkel e Hollande, pressing sull'Italia: subito
i centri per le domande d'asilo
PARIGI. Un appello all'Italia e alla Grecia per aprire «al più presto» i centri in cui registrare
i nuovi richiedenti asilo. Angela Merkel e François Hollande chiedono una «accelerazione»
delle procedure promesse dal governo Renzi per organizzare degli "hotspot" che possano
servire a smistare i migranti che arrivano nel nostro paese così come in Grecia, dove in
parte esistono già. Si tratta di centri in cui le autorità possono distinguere tra chi ha diritto
all'asilo politico, e quindi può proseguire verso altri paesi Ue, e chi invece non ha i requisiti
e deve essere espulso. La mancata «Non possiamo tollerare ulteriori ritardi» ha rincarato
la cancelliera a proposito dell'apertura degli "hotspot". Secondo il presidente francese, la
registrazione e la condivisione dei dati dei migranti è la condizione necessaria, la prima
tappa necessaria per permettere agli Stati membri di adottare «decisioni precise» sulla
concessione dell'asilo politico: ovvero una redistribuzione dei migranti, così come vuole
anche il governo italiano. Nessuno vuole più parlare di "quote" dopo il flop del piano
proposto dalla Commissione europea prima dell'estate. Piuttosto, Hollande e Merkel
usano la parola «Solidarietà»per dire la stessa cosa: una ripartizione più equa dell'onere di
accoglienza dei rifugiati tra i 28 paesi membri dell'Ue mentre adesso, sottolineano i due
governi, la maggioranza delle richieste pesa su cinque paesi. I due leader invitano i
partner Ue a mettere a punto un sistema "unificato", armonizzando le politiche di asilo dei
28. Nessuno vuole più parlare di "quote" dopo il flop del piano proposto dalla
Commissione europea prima dell'estate. Piuttosto, Hollande e Merkel usano la parola
«Solidarietà»per dire la stessa cosa: una ripartizione più equa dell'onere di accoglienza
dei rifugiati tra i 28 paesi membri dell'Ue mentre adesso, sottolineano i due governi, la
maggioranza delle richieste pesa su cinque paesi. I due leader invitano i partner Ue a
mettere a punto un sistema "unificato", armonizzando le politiche di asilo dei 28. to d'asiloha detto Hollande - in uno spazio di libera circolazione come Schengen non è possibile
avere paesi che accolgono più di altri in funzione alla popolazione». Dopo il fallimento del
Consiglio europeo di fine giugno, che doveva dare il via a un nuovo piano
sull'immigrazione, Francia e Germania vogliono rilanciare il dibattito. «I ministri dell'Interno
di Francia e Germania - ha annunciato Hollande · prepareranno un documento comune
per fare in modo che con i partner in Europa si possano prendere altre misure sul fronte
del fenomeno dei profughi ». centinaia di persone che varcano la frontiera con la Serbia
vanno ad aggiungersi ai 7mila passaggi registrati durante il fine settimana in provenienza
dalla Macedonia, che sabato ha riaperto la sua frontiera con la Grecia dopo tre giorni di
chiusura. La Germania è il paese più esposto alle richieste di asilo, con un previsione
record di 800mila candidati quest'anno. Durante la conferenza stampa, la Cancelli era ha
condannato "nel modo più forte" le violenze xenofobe commesse durante il fine settimana
in Germania. «Il modo in cui estremisti di destra e neonazisti cercano di diffondere il loro
messaggio di odio è abietto ». ha dichiarato Merkel, inorridita dal fatto che nei cortei si
sono viste anche famiglie con bambini. Secondo Merkel e Hollande non è più possibile
avere 28 diversi sistemi di asilo politico. Serve una risposta unica alla più grave
emergenza rifugiati che abbia mai colpito l'Unione Europea dalla Seconda Guerra
Mondiale. «Dobbiamo creare un sistema unificato d'asilo- ha detto Hollande - in uno
spazio di libera circolazione come Schengen non è possibile avere paesi che accolgono
più di altri in funzione alla popolazione». Dopo il fallimento del Consiglio europeo di fine
giugno, che doveva dare il via a un nuovo piano sull'immigrazione, Francia e Germania
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vogliono rilanciare il dibattito. «< ministri dell'Interno di Francia e Germania - ha
annunciato Hollande · prepareranno un documento comune per fare in moclo che con i
partner in Europa si possano prendere altre misure sul fronte del fenomeno dei profughi ».
La crisi di rifugiati ha relegato in secondo piano il conflitto in Ucraina, tema inizialmente
previsto nell'incontro tra i due leader con il presidente ucraino Petto Poroshenko. Le
centinaia di persone che varcano la frontiera con la Serbia vanno ad aggiungersi ai 7mila
passaggi registrati durante il fine settimana in provenienza dalla Macedonia, che sabato
ha riaperto la sua frontiera con la Grecia dopo tre giorni di chiusura. La Germania è il
paese più esposto alle richieste di asilo, con un previsione record di 800mila candidati
quest'anno. Durante la conferenza stampa, la Cancelli era ha condannato "nel modo più
forte" le violenze xenofobe commesse durante il fine settimana in Germania. «Il modo in
cui estremisti di destra e neonazisti cercano di diffondere il loro messaggio di odio è
abietto ». ha dichiarato Merkel, inorridita dal fatto che nei cortei si sono viste anche
famiglie con bambini.
Del 25/08/2015, pag. 9
Centri di raccolta, docce e wifi. Belgrado si
apre ai profughi
Serbia. 7 mila solo la scorsa notte. Il premier Vucic: «Sbagliato costruire
muri»
Un altro passo importante lungo la rotta balcanica l’hanno fatto. Un altro paese è stato
attraversato da sud a nord nel lungo cammino verso l’Europa. Alle spalle si sono lasciati la
Macedonia, che dopo averli chiusi in gabbia sigillando la sua frontiera con la Grecia,
sabato notte ha finalmente fatto marcia indietro permettendogli di arrivare in Serbia, nuova
tappa di questo assurdo reality della disperazione.
Del resto non li ferma nessuno. E loro arrivano a migliaia: le autorità di Belgrado hanno
contato 23 mila rifugiati nelle ultime due settimane. 7 mila solo nella notte tra sabato
e domenica scorsi, quando Skopje ha finalmente riaperto il confine. Arrivano in treno, in
autobus (il governo macedone ne ha messi 70 a disposizione) e in taxi. Chi può noleggia
una macchina, la carica all’inverosimile di donne, vecchi e bambini e corre verso la nuova
frontiera: l’obiettivo adesso è l’Ungheria, la porta dell’Europa, ma è quello più difficile.
In vista della nuova ondata di profughi Budapest sta infatti accelerando la costruzione del
muro di 175 chilometri lungo il confine serbo e nei giorni scorsi ha ordinato il trasferimento
a sud di alcune migliaia di agenti di polizia. I rifugiati si troveranno così di fronte un muro
fatto di acciaio, filo spinato e perfino lamette insieme a un esercito di poliziotti in tenuta
antisommossa. Il Paese è «sotto un attacco organizzato», ha detto nei giorni scorsi Janos
Lazar, vicepremier del governo di Viktor Orbàn. E, come se non bastasse, per far capire
ancora meglio che aria tira per questi disperati in fuga da guerra e dai tagliagole dell’Is ha
aggiunto che gli agenti sono stati addestrati per fronteggiare «migranti sempre più aggressivi che arrivano con richieste sempre più decise».
«Europa svegliati!», titolava l’altro giorno un suo editoriale il francese Le Monde ricordando
come quella dell’immigrazione sia una crisi che si dipana alle nostre frontiere da più di due
anni .«Sotto i nostri occhi ma senza che abbiamo voluto vedere che si aggravava di mese
in mese». Chi non fa più finta di non vedere (almeno per ora), e (sempre per ora) sembra
muoversi in controcorrente rispetto alle isteria xenofobe di altri Paesi, è propria la Serbia.
Anziché chiudersi Belgrado ha aperto le sue porte alle migliaia e migliaia di disperati che
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in queste ore stanno entrando nel Paese allestendo quattro nuovi centri di accoglienza
(due a Presevo e Mirotovac, a sud e due a Kanijia e Subotic, a nord vicino al confine con
l’Ungheria). Un altro centro verrà invece aperto nei prossimi giorni nella capitale, lungo
l’autostrada per l’aeroporto. Come in Macedonia anche qui a tutti i rifugiati verrà concesso
un permesso di soggiorno di 72 ore, rinnovabile, per lasciare il Paese. Nel frattempo sempre nella capitale sono stati aperti dieci punti di assistenza igienica dove i profughi possono trovare toilette e docce per lavarsi, insieme a una centro informazione fornito di rete
WiFi dove i profughi possono richiedere notizie su come presentare domanda di asilo
e ricevere assistenza legale e psicologica. «La nostra risposta alla crisi migratoria non
sono i manganelli o gli ordigni assordanti, né l’erezione di muri», ha commentato il viceministro del lavoro e degli affari sociali Nenad Ivanisevic annunciando per i prossimi giorni un
nuovo piano del governo per i migranti. Ivanisevic ha ripetuto un concetto espresso nei
giorni scorsi dal premier serbo Aleksandar Vucic, anche lui critico nei confronti di Budapest
per la scelta di costruire il muro. Scelte, quelle serbe, che hanno permesso a Belgrado di
incassare i ringraziamenti dell’Unione europea per il modo in cui affronta la crisi migranti,
oltre alla promessa di nuovi aiuti economici. Ieri la questione profughi è stata affrontata
anche da un vertice a tre che si è tenuto a Skopje tra i ministri degli esteri di Macedonia,
Albania e Bulgaria, che hanno chiesto all’Unione europea una risposta rapida a quanto sta
accadendo lungo la rotta balcanica.
Del 25/08/2015, pag. 13
Cos’è Schengen? Serve ancora?
I controlli ai confini Ue sono aboliti Eppure, anche la Merkel vacilla:
l’accordo non è mai stato così fragile
Dalle frontiere aperte alle trappole per uomini. Nelle prime ore della tempesta perfetta che
ha colpito la Macedonia stretta tra il vuoto di potere in Grecia e la Serbia sigillata dal muro
al confine ungherese, poliziotti su mezzi blindati srotolavano filo di ferro lungo i binari che
risalgono i Balcani. Un modo per fermare i migranti che seguivano a piedi la strada ferrata
verso il Nord dove i dissidenti del Novecento aggiravano un’altra Cortina strisciando nel
fango. I profughi del Duemila sperano di trovare una breccia su quella stessa rotta. Ai
Paesi candidati all’ingresso nella Ue come Serbia e Macedonia, Bruxelles chiede più
controlli per rafforzare le frontiere esterne mentre all’interno vacilla la costruzione fondata
sulla libertà di movimento degli individui, principio mutuato dal Trattato di Roma che istituì
la Comunità economica, poi Unione politica. Che fine ha fatto Schengen?
L’Europa è una Storia di confini, integrità territoriali nega-te e conquistate. Andare oltre
l’idea di frontiera, paradigma fondativo delle identità nazionali, non è stato facile.
L’abolizione del controllo dei passaporti incontrò subito le resistenze delle stesse capitali
che oggi si muovono in ordine sparso sul duplice fronte dell’emergenza immigrazione e del
terrorismo internazionale — fenomeni che la retorica xenofoba fonde in un’unica minaccia
per tenere alto l’allarme sociale, quando la maggior parte dei migranti fugge dallo stesso
fondamentalismo in lotta con l’Occidente. L’Accordo di Schengen fu faticosamente firmato
nel 1985 da Belgio, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Germania Ovest, per essere poi
integrato e sottoscritto da altri Stati, infine inglobato attraverso il Trattato di Amsterdam nel
corpo di leggi dell’Unione. Trent’anni dopo, l’aperta contestazione di quel sistema non è
più tabù neanche per i capi di governo di Paesi con una solida tradizione di accoglienza.
All’indomani dello sventato attacco al treno Thalys Amsterdam-Parigi il premier belga
Charles Michel, 39enne liberale poco incline a derive populiste, ha chiesto «un
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adeguamento» di Schengen: «L’Accordo è importante per la nostra economia ma ora
siamo di fronte a nuove minacce». L’attentato, replica Bruxelles, «non rimette in questione
uno dei più grandi risultati della Ue, non negoziabile».
L’appello del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker affinché l’Europa trovi
«il coraggio collettivo di rispettare gli impegni, anche quando non sono facili né popolari» è
il tentativo estremo di arginare una tendenza già in atto, suggellata ieri dalla fuga in avanti
della cancelliera tedesca Angela Merkel con il presidente francese François Hollande. Pur
invocando «un sistema unificato di diritto d’asilo e una politica migratoria comune», i due
leader hanno di fatto superato la concertazione a livello europeo per rivendicare il diritto
d’iniziativa degli Stati. Di fronte a «una situazione eccezionale» che i Paesi di ingresso
come Italia e Grecia non riescono a gestire e in assenza di una risposta europea rapida e
coordinata, le capitali non escludono azioni unilaterali. «L’applicazione del sistema di asilo
è il requisito perché funzioni il sistema Schengen» avverte Hollande: se va in tilt il primo,
come già avviene con le disfunzioni del Regolamento di Dublino, salta il secondo. Lo stato
d’eccezione legittima misure straordinarie. Si spiega così la recente apertura della Merkel
alla possibilità di ripristinare i controlli alle porte della Germania che quest’anno aspetta
800 mila richieste d’asilo. Schengen diventa carta negoziale nella partita delle
ricollocazioni che si apre a settembre secondo l’Agenda Immigrazione Ue. I Paesi che fino
ad oggi hanno accettato più migranti, come Svezia e Austria, minacciano di seguire
Berlino se lo sforzo non sarà davvero condiviso. Gli Stati del Centro-Est stanno già
restringendo i criteri di ingresso. La cancelliera gioca di sponda con il premier britannico
David Cameron, che proprio in questi giorni comincia la manovra di riposizionamento del
Regno Unito e la sua personale campagna per cambiare le regole europee in vista del
«referendum Brexit». Manca un anno al voto che potrebbe staccare Londra dal continente
e il premier parte in tour tra Finlandia, Svezia e Danimarca per sondare un’alleanza di
Paesi non-euro. Insieme all’Irlanda, la Gran Bretagna è la sola nazione Ue stabilmente
fuori da Schengen grazie alla clausola di opt-out (Bulgaria, Croazia, Cipro e Romania
hanno l’obbligo legale di futura adesione all’Area che comprende 22 sui 28 Stati
dell’Unione più Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera). Cameron ha annunciato un
giro di vite interno sull’immigrazione. Nella trattativa appena partita con Bruxelles
accumula vantaggio. Il sistema Schengen non è mai stato tanto fragile.
Del 25/08/2015, pag. 1-15
Il capolarato come incentivo
Di Michele Prospero
Alle parole del presidente del consiglio, per una volta, cominciano a seguire i fatti. In molte
occasioni, egli aveva lamentato un eccessivo carico di controlli fiscali, di vincoli amministrativi che si abbattevano su sei milioni di imprese, impedendo loro di produrre ricchezza.
Come Tremonti, anche Renzi, nei suoi discorsi pubblici, ha evocato lo spettro di uno Stato
di polizia che opprime le aziende e per questo ha proclamato una grande guerra contro la
burocrazia invasiva. E almeno queste solenni sfide contro i vigili, le fiamme gialle che indiscreti bussano alle porte delle officine non sono rimasti lettera morta. I dati forniti dai consulenti del lavoro sono molto significativi. Nel 2014, i controlli sono stati 221 mila 476 (e
nel 35,9% delle aziende raggiunte, sono emerse irregolarità). Nel 2015, le visite degli
ispettori sono scese a 106 mila 849 (con il 29,3% delle imprese pescate in situazioni
irregolari). I controlli in un anno sono dimezzati, sebbene l’entità dell’economia sommersa
(due milioni di lavoratori in nero) e l’ampiezza delle perdite fiscali per lo Stato (ben 25
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miliardi l’anno sfumano per l’evasione di contributi previdenziali e di imposte), siano
ingenti. Il governo fa di tutto per mantenere alta la soddisfazione delle imprese, entusiaste
per il suo operato che sforbicia diritti e taglia beni pubblici per dirottare risorse alle casse
aziendali. Oltre ai miliardi di decontribuzioni, di sgravi fiscali, di tagli Irap, le imprese corsare possono contare anche sulla benevola chiusura di un occhio da parte dello Stato
sulle loro pratiche illecite. Sono aiuti di Stato diretti o indiretti quelli che tollerano il caporalato, l’economia criminale o in nero, i danni ambientali, l’evasione fiscale e contributiva.
Accontentate su tutto, anche sulla licenza di licenziare, previo modico indennizzo monetario, le imprese vivono in una condizione paradisiaca, con il premier che per giunta si
dichiara «gasatissimo» da Marchionne. Si spalanca un continuum politica-impresa che fa
impallidire la metafora del «meccanismo unico» agitata dai marxisti in anni ormai lontani.
Eppure, nonostante il legame di ferro tra il governo e l’impresa, e l’indebolimento perseguito con accanimento del lavoro e del sindacato, la ripresa non c’è e i cupi segnali di
declino non spariscono dall’orizzonte. Gli investitori scelgono altri mercati rispetto a quello
italiano, dove anche i prodotti finanziari e assicurativi navigano fuori controllo e certi giochi
d’azzardo si mantengono lontani da ogni efficace attività sanzionatoria.
Il grande impedimento, al superamento della crisi, risiede in ciò che la politica è diventata
in questi anni di decadenza e in quello che il capitalismo è sempre stato in Italia. Una politica senza autonomia, e un’impresa senza capacità competitive, strozzano la vita economica. Un governo che si fa largo con il programma della Confindustria (al punto che
Squinzi certifica: «Questo governo è una formula uno»), non fa bene all’economia. Perché
non è ingrossando il sommerso, gonfiando il nero e abrogando i diritti simbolici del lavoro
che si guida la ripresa. Con le nuove misure taglia tasse, annunciate per settembre, il
governo ordinerà un ulteriore dimagrimento del pubblico, cioè un ridimensionamento della
spesa per la sanità, i servizi, i trasporti, la scuola, la ricerca senza in alcun modo creare
nuova occupazione, senza stimolare investimenti produttivi. Il laurismo 2.0 lascerà solo
macerie. Questo è, a tutti gli effetti, un governo della stagnazione che, per vincere le elezioni, disperde le risorse scarse disponibili. Per accontentare le imprese che incassano
soldi in contanti, l’esecutivo rinuncia a disegnare politiche pubbliche per lo sviluppo sostenibile, accantona ogni progetto per politiche industriali basate sull’innovazione. Mentre con
il Jobs Act invoca controlli a distanza sulla vita privata dei lavoratori, il governo allontana la
vigilanza sulle pratiche tributarie e contributive delle imprese, che indisturbate proseguono
nelle loro opache pratiche criminogene. Un governo di classe.
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CULTURA
Del 25/08/2015, pag. 40
Taxi Driver in Iran
Panahi, una guida contro la censura
TORNA in mente una questione abbastanza imbarazzante. Possibile che la censura
imposta agli artisti dai regimi dittatoriali, come è ancora oggi quello di Teheran, risulti in
una certa maniera - anche se è difficile ammetterlo, anzi quasi indicibile- stimolante,
produttiva, feconda, addirittura portatrice di ispirazione? Viene sempre alla mente, per
esempio, il caso di un cineasta importante come lo spagnolo Carlos Saura il quale ha
lasciato probabilmente un segno più incisivo con la sua prima produzione anni 60..70, cioè
con Francisco Franco ancora abbastanza saldamente al potere, che non con quella
successiva anche se copiosa e di notorietà molto più vasta. Ma di casi per farrenevenire in
mente tanti altri, in particolare riguardanti la parte di Europa già costretta sotto il tallone scr
vi etico, e ancora più in p articoarticolare la Polonia che nel suo cinema nazionale, dopo la
riconquistata libertà democratica, non ha più conosciuto la vivacità di prima.
E questo porta a considerare la contraddizione tra repressione e, più o meno tollerati o
subiti (da parte degli apparati statali repressivi). fama, prestigio, riconoscimenti
internazionali all'opera e alla personalità di artisti perseguitati in patria. In un'altalena che
di volta in volta fa di loro una vergogna nazionale e un fiore all'occhiello, perché comunque
portano riscontri significativi per la bandiera che rappresentano. Il caso dell'iranianoJafar
Panahi (55 anni) ha dell'assurdo. A partire dal suo primo film Il palloncino bianco non ha
fatto che collezionare un costante alternarsi tra premi prestigiosi e pesantissimi
condizionamenti censori. Il palloncino bianco vince la Caméra d'or di Cannes riservata al
miglior debutto e subito dopo con Lo specchio vince il Pardo d'oro di Locarno e, con Il
cerchio, il Leone d'oro di Venezia. Il quarto film Oro rosso, premio della giuria nella
sezione Un certain renard di Cannes, viene prima designato a rappresentare l'Iran per
l’Oscar al miglior film "straniero" e subito dopo ritirato e vietato. Per Offside, bellissima
metafora riguardante l'umiliante condizione di emarginazione femminile, Orso d'argento a
Berlino e divieto di circolazione in patria. Alla fine del decennio Duemila il gioco si fa
ancora più duro. Una catena di arresti. processi- farsa, condanne, proibizioni n on
impedisce a Panahi di realizzare clandestinamente (e fortunosamente far uscire dai
confini) altri film, fino a questo Taxi Teheran, Orso d'oro a Berlino 2015. Mentre intanto la
sua poltrona di giurato a Cannes (2010) resta vuota sotto i riflettori come un segnale di
solidarietà e un monito per tutta la durata del festival. poi il Premio Sakharov del
Parlamento Europeo viene ritirato da sua figlia, e ora Taxi Teheran - realizzato del tutto
"illegalmente" riceve un altro Orso d'oro dalle mani del presidente di giuria Darren
Aronofsky. Talento sicuramente, e poi resistenza da vendere. Lo stesso Panahi, che nel
film è proprio lui con la sua riconoscibile e riconosciuta identità, guida un'auto pubblica in
giro per le congestionate strade e superstrade della capitale iraniana, facendo una
quantità di incontri con gente comune (che lo riconosce e lo ammira) egli raccontai fatti
suoi, lo coinvolge, gli chiede consigli e pareri. Una girandola di piccola vera umanità che,
con il sorriso anche quando la fatica di vivere è evidente, dà la misura piena di un paese e
di un popolo stracarico non solo di storia e cultura ma anche di potenzialità che non
aspettano altro che di potersi esprimere pienamente.
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Del 25/08/2015, pag. 40
Bertolucci & C.: "Dovete liberarlo"
ROMA. Bernardo Bertolucci dalla sua casa di Trastevere, Ambra Angiolini dalla spiaggia,
Fausto Paravidino in un parco pubblico, Alba Rohwacher dallo studio. E poi la regista
Laura Bispuri con la sua sceneggiatrice Francesca Manieri. Gli artisti italiani lanciano un
appello per la libertà di Jafar Panahi in un video, girato per Repubblica.it, mentre esce
Taxi Teheran, il film vincitore dell'Orso d 'oro all'ultima Berlinale.
Lo fanno dando voce alle parole che il regista ha scritto in una lettera poetica e
commovente che Isabella Rossellini ha letto al festival di Berlino. «Mi hanno privato della
possibilità di vedere il mondo per vent'anni. Spero che quando sarò libero, potrò
viaggiare in un mondo senza barriere geografiche, etniche e ideologiche, in cui le
persone vivano insieme liberamente e pacificamente, indipendentemente dalla loro
credenze e convinzioni». Panahi è stato condannato nel 2010 dal tribunale di Teheran
per «attività di propaganda lesive dell'immagine della Repubblica Islamica» a 20 anni
d'interdizione a dirigere film, scrivere sceneggia ture, rilasciare interviste, recarsi
all'estero. In pratica Panahi è stato condannato a un isolamento totale, personale e
culturale. Dal quale il regista ha saputo trovare una forma di fuga, girando a casa propria
prima il documentario This is not a film e poi il film Closedcurtain. Taxi Teheran è il primo
film che il regista ha girato in esterni dal 2010.
Del 25/08/2015, pag. 28
CINEMA
I film e l’alimentazione
Dai fratelli Lumière ai kolossal hollywoodiani la cucina e i momenti conviviali hanno
più volte preso il posto delle parole sullo schermo: hanno raccontato psicologie,
amori, squilibri sociali. E sogni di riscatto come nei capolavori di Charlie Chaplin
Passioni, peccati, miserie e nobiltà Il cibo diventa finestra sul mondo
Cibo che fa sognar / Cibo che fa cantar…». Gli avvoltoi affamati di L’era glaciale 2 – Il
disgelo , che trasformano la fuga degli animali in un musical con inquietante risvolto
famelico, ci aiutano a ricordare le tante facce che il cibo ha saputo assumere nella storia
del cinema, momento centrale fin dai primissimi esperimenti dei fratelli Lumière perché
nella famosa proiezione al Salon Indien di Parigi del 28 dicembre 1895 — quella che tenne
a battesimo ufficialmente la nascita del nuovo mezzo espressivo — faceva bella mostra di
sé Le Repas de Bébé , la colazione del piccolo Lumière imboccato da mamma e papà.
E se il cinema è diventato finestra su un mondo da scoprire ma anche specchio in cui
cercare la propria identità, il cibo ha spesso accompagnato questo viaggio collettivo,
facendone emergere qualità e passioni, desideri e paure, sogni e segreti.
Alla tavola dei ricchi
L’occhio sbarrato di Julia Roberts in Pretty Woman , di fronte alla batteria di coltelli,
forchette e cucchiai dei più diversi formati che fanno bella figura sul tavolo apparecchiato è
uno degli esempi più indovinati di come il cibo — con le regole del suo galateo — possa
diventare un discrimine sociale. Non è solo questione di ricchezza ma anche di
educazione, di comportamento, di status. E a volte non basta neppure l’amichevole aiuto
del bonario concierge Hector Elizondo per superare l’«esame»: di fronte alla lumaca e alle
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sue misteriose pinze ci si può solo consolare con una spontanea — e per niente nobile —
imprecazione. Tutti giocati sul contrasto tra la ricchezza delle vettovaglie e la rarefazione
del cibo, i momenti conviviali della famiglia protagonista di Io sono l’amore di Luca
Guadagnino sintetizzano alla perfezione quell’identificazione tra regole della tavola e
status sociale che hanno attraversato la storia del cinema, dalle cene hollywoodiane di
Pranzo alle otto ai banchetti regali di Le sei mogli di Enrico VIII fino alle raffinate
costruzioni di Luchino Visconti nel Gattopardo o La caduta degli dei , maestro insuperato
di come il momento della convivialità alimentare possa diventare esibizione di ricchezza e
di eleganza. Altre volte, invece, il cibo serve per «scavare» nel passato e far venire a galla
quella nobiltà e quella ricchezza — d’animo e di cultura culinaria — che gli accidenti della
Storia avevano finito per cancellare. Così è nel Pranzo di Babette di Gabriel Axel (dal
racconto di Karen Blixen) dove la domestica che per anni era stata tenuta quasi in disparte
si rivela per quello che è veramente — uno chef straordinario — investendo la vincita a
una lotteria in un pranzo che nessuno degli invitati dimenticherà più: brodo di tartaruga e
vino Amontillado, Blinis Demidoff e Veuve Clicquot 1860, cailles en sarcophages e Clos de
Vougeot 1894!
… e a quella dei poveri
Come per la ricchezza, allo stesso modo il cibo è stato spessissimo usato al cinema come
simbolo/segnale di ogni tipo di fame: momentanea, generazionale, storica, accidentale,
psicologica, sociale. Su tutti gli affamati del cinema troneggia naturalmente il «cercatore
solitario» della Febbre dell’oro a cui Charlie Chaplin ha saputo dare i toni indimenticabili
della comicità e della commozione: la scena in cui, dopo averla sapientemente cucinata, si
mangia una scarpa, arrotolando una stringa come fosse uno spaghetto non è entrata solo
nella storia del cinema ma nella memoria collettiva. Insieme alla fame di Giacomone, a cui
il digiuno fa vedere Charlot come un succulentissimo pollo.
Anche il cinema italiano ha usato spesso il cibo per parlare del Paese e dei suoi abitanti,
come in Ladri di biciclette di De Sica dove la sosta in trattoria per una mozzarella in
carrozza ci racconta dell’Italia più di mille discorsi. Cantore di un mondo dimenticato e
sofferente, Ermanno Olmi ha osservato con rispetto e delicatezza il mondo contadino,
evitando la retorica e lasciando che la poesia trapelasse dalle parole e dai gesti quotidiani,
come ha fatto nell’ Albero degli zoccoli nella celeberrima scena in cui la famiglia dei poveri
contadini Batisti strofina le fette di polenta su un’unica aringa appesa a un filo in mezzo
alla tavola. Più scanzonato e ironico, Eduardo Scarpetta ha dato forma ai sogni di
abbondanza di una povera (e affamata) famiglia napoletana in Miseria e Nobiltà che Mario
Mattoli ha portato sullo schermo con la collaborazione essenziale di Totò, Enzo Turco,
Dolores Palumbo e una giovanissima Valeria Moriconi: quando la tavola vuota della
famiglia Sciosciammocca si riempie come per miracolo di ogni ben di Dio, la gioia dei
poveri affamati è tale che si mettono a ballare sulla tavola, riempiendosi le tasche di
spaghetti!
Tu sei quello che mangi
Oltre a saziare la fame, il cibo funziona anche come un prezioso indicatore sociale: dimmi
come mangi (e che cosa mangi) e ti dirò chi sei. Lo sa benissimo il cinema italiano,
almeno dai tempi di I cospiratori del golfo di Guazzoni dove il re napoletano Ferdinando II
spiega all’ambasciatore francese la specificità italiana ricorrendo alla ricetta del ragù o da
quelli in cui Aldo Fabrizi sceglie la collaboratrice domestica (in Cameriera bella presenza
offresi… ) interrogandola sulla ricetta autentica dell’amatriciana. Ma è Un americano a
Roma che traccia in maniera definitiva il parallelo tra alimentazione e identità, mettendo
Sordi di fronte a una scelta radicale: meglio imitare gli americani «del Kansas City» che si
nutrono di latte, mostarda e yogurt o scatenarsi sul «provocatorio» maccherone che
occhieggia dal piatto lasciato in cucina dalla mamma? Sappiamo tutti come è andata a
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finire, aprendo così la strada a una identificazione tra cibo, identità e comportamenti che
ha attraversato tutto il cinema, dalle sguaiatezze demenziali dei Blues Brothers Jack e
Elwood (che così convincono il musicista diventato maître in un ristorante a seguirli), ai
fratelli Pileggi (Tony Shalhoub e Stanley Tucci) in Big Night il cui rigore culinario è lo
specchio della loro malinconia esistenziale, fino alle storie in parallelo di Julia&amp;Julia :
la prima, Julia Child, paladina di una cucina che non ha paura del colesterolo, vive una vita
aperta al piacere e alle gratificazioni; la seconda, Julia Powell, scrittrice frustrata e infelice,
si identifica con un mondo che non sa apprezzare quasi nulla, tanto meno il cibo.
Amore ed eversione in cucina
Ce l’ha insegnato Albert Finney in Tom Jones : mangiare una coscia di pollo può aiutare a
conquistare una donna. Così come addentare dai due estremi uno spaghetto: alla fine le
bocche non potranno che unirsi come succede in Lilli e il Vagabondo . Allo stesso modo
una pizza a forma di cuore — in Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca ) —
diventa il mezzo «galeotto» con cui Giannini dichiara il suo amore a Monica Vitti, mentre in
Lunchbox la cura con cui una donna confeziona il pranzo svelano all’occasionale
destinatario della «schiscetta» le qualità nascoste della misteriosa cuoca.
Quattro esempi, va sottolineato, che non hanno bisogno di spiegazioni per far arrivare il
loro messaggio perché il cibo prende il posto delle parole, a dimostrare che spesso i
discorsi sono inutili di fronte alla passione con cui si confeziona un piatto o lo si gusta. Allo
stesso modo le parole non servono per mostrarne la forza eversiva nell’indimenticabile
scena di Monty Python – Il senso della vita , dove un ciccione è inarrestabile
nell’ingozzarsi e vomitare a ciclo continuo, o ancora nell’esilarante Hollywood Party , dove
Peter Sellers trasforma la cena in un’inarrestabile catastrofe. Altre volte, invece, le parole
fanno da sottofondo alle immagini: cacofoniche nelle liti gastronomiche tra Gassman e
Tognazzi nell’episodio Hostaria dei Nuovi mostri , tentatrici nelle suadenti spiegazioni con
cui Juliette Binoche esalta le qualità delle sue creazioni in Chocolat , ma lì il merito non è
solo del cibo ma anche della cuoca.
Mangiare fino a morire?
Resterebbe da ricordare quando il cibo diventa strumento di morte, come per i quattro
amici di La grande abbuffata , o grazie alla torta avvelenata di Lo scopone scientifico , o
ancora con il diluvio alimentare di Piovono polpette e come scelta salutista che si
trasforma nel suo opposto in Hungry Hearts . Ma in questi film il cibo perde le sue qualità
più vere e si trasforma in strumento al servizio di una mente malata o perversa o punitiva.
Perde la sua identità. E allora in questi casi vien voglia di aprire la dispensa e verificare di
persona che il cibo è soprattutto un’altra cosa...
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ECONOMIA E LAVORO
Del 25/08/2015, pag. 6
Contagi per ora evitati, ma è allarme Ripresa
e lavoro più deboli in Italia
ROMA – La Cina è vicina. E così la ripresa italiana, già debole, rischia di rallentare
ulteriormente, lasciando il mercato del lavoro congelato. Rimarremo — prevedibilmente —
inchiodati allo “zerovirgola” di crescita del Pil nel 2015 e toccare l’1 per cento nel 2016 (il
governo stima l’1,4 per cento) non sarà per nulla semplice. Per ora le previsioni non
cambiano, ma non è escluso che la crisi cinese possa pesare pure sulla stesura prossima
manovra finanziaria da almeno 25 miliardi di euro. «C’è chi ha abbassato le stime di
crescita per il 2016 all’1 per cento, mi pare una previsione ottimistica», commenta
l’economista Giacomo Vaciago, docente alla Cattolica di Milano.
Il tracollo di ieri, che si somma alle precedenti svalutazioni dello yuan, è una crisi di
sistema che determina contraccolpi su tutta l’economia globale. Dunque inevitabilmente
anche su quella italiana. Non tanto per l’interscambio commerciale diretto tra i due Paesi,
quanto per l’effetto domino, per l’interdipendenza economica mondiale, per la paura di
consumatori e imprese di rivivere la recessione del 2008 provocata dal fallimento di
Lehman Brothers. Paura che blocca gli acquisti e gli investimenti. E rinvia la creazione di
posti di lavoro.
Le industrie italiane vendono nel mercato cinese circa 10,5 miliardi di euro su un totale di
beni esportati di quasi 400 miliardi (cento in più se ci si estende a considerare ai servizi).
Una quota importante ma decisamente lontana dai 30 miliardi, per esempio, destinati alla
piazza statunitense, dove gli esportatori italiani si sono orientati con decisione per sfruttare
la ripresa. Vanno in Cina innanzitutto macchine utensili (prima voce in generale dell’export
italiano), poi i beni di lusso, seguiti da molto lontano dai prodotti dell’agroalimentare, per
finire con i mobili. «Prodotti — sostiene Licia Mattioli, vicepresidente di Confindustria per
l’internazionalizzazione — con prezzi sostanzialmente anelastici rispetto alle decisioni di
politica monetaria di Pechino. D’altra parte non è la classe dei consumatori ricchi ad
essere colpita da questa crisi ». A pagare questa crisi, infatti, è la nuova classe media
protagonista inconsape- vole dello scoppio della bolla azionaria. Non è la Cina come
mercato di sbocco, quindi, che può condizionare l’economia italiana (per quanto è
possibile che lo striminzito +0,2 per cento del Pil nel secondo trimestre dell’anno inglobi
già la frenata dell’export verso oriente) bensì la Cina come seconda economia mondiale
dopo quella statunitense. Perché se dovessero rallentare sistemi che hanno con la Cina
scambi ben più rilevanti, come per esempio quello tedesco (presente massicciamente in
Cina), per l’Italia, che, a sua volta, ha nella Germania uno dei suoi più importanti partner
commerciali, le conseguenze sarebbero diverse. E si tradurrebbero in una nuova frenata
della nostra dinamica economica che da decenni, peraltro, si muove a velocità ridotta
rispetto a quella della media Ue, con uno scarto stabile intorno allo 0,7 per cento in meno
rispetto agli altri. Pensare che per questa via possa riprendere l’occupazione (il tasso di
disoccupazione è al 12,7 per cento) non può che diventare allora un’illusione.
Certo è che, grazie agli interventi di politica monetaria della Bce di Mario Draghi, lo spread
del Btp decennale italiano rispetto al Bund tedesco è rimasto ieri sostanzialmente stabile a
131 punti con i rendimenti sui titoli italiani che calano con beneficio per il Tesoro. Così
Filippo Taddei, macroeconomista, responsabile dell’economia e del lavoro del Pd, parla di
«una notizia positiva» a proposito della crisi cinese. Positiva sotto un duplice aspetto:
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quello di finanza pubblica ma anche quello dell’economia reale. Gli investitori — sostiene
Taddei — stanno aggiustando il proprio portafoglio di investimenti, si spostano non solo
sui titoli pubblici stabili, come quelli tedeschi o americani, ma pure su quelli dei cosiddetti
paesi europei periferici virtuosi, Italia e Spagna, appunto. Poi c’è l’aspetto che riguarda
l’economia reale: «Nella crisi cinese di stanno indebolendo i produttori di medio livello che,
per esempio nel tessile, hanno messo in crisi i nostri piccoli produttori come quelli del
distretto di Prato.
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