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RASSEGNA STAMPA Martedì 25 agosto 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Avgi del 9/08/2015 La presidente dell’ARCI sul quotidiano di Syriza Francesca Chiavacci: Solidarietà alla “Solidarietà per tutte e tutti” e il popolo greco Una campagna di solidarietà alla “Solidarietà per tutte e tutti” e per di più in piena estate ha cominciato il colosso dell’associazionismo culturale e sociale ARCI, che ha quasi 1,3 milioni di membri e centinaia di circoli e associazioni. “Abbiamo raccolto già più di 22 mila euro, grazie anche alle iniziative personali dei nostri membri e amici”, ha detto ad “Avgi” la presidente dell’ARCI Francesca Chiavacci, che vuole visitare a settembre la Grecia per far partire nuove iniziative di solidarietà con il popolo greco. Per la presidente dell’ARCI la Grecia ha offerto una grande occasione per parlare per l’Europa dei popoli, della democrazia, della solidarietà e della giustizia sociale. *In piena estate avete preso la decisione di cominciare una campagna di solidarietà per la Grecia e specialmente con la “Solidarietà per tutte e tutti”… Abbiamo deciso di cominciare la campagna di solidarietà durante la più difficile settimana per la Grecia e l’Europa. Avevamo detto allora che indipendentemente da come andava a finire il Consiglio Europeo e questa storia l’ARCI si doveva trovare al fianco dei greci colpiti dall’austerità. Avevamo visto con piacere i risultati del referendum e l’espressione democratica del popolo greco. Abbiamo sperato che l’Europa accoglieva il messaggio. Sfortunatamente questo non è successo. L’ARCI ha le sue radici nelle società di mutuo soccorso del secolo scorso, alle esperienze dalla dittatura fascista e la resistenza e più tardi quando ha rappresentato il lievito per la creazione dello stato sociale italiano. L’ARCI ha rappresentato la leva per il riconoscimento di tanti dei diritti dei lavoratori, come la tessera sanitaria. *L’ARCI aveva mostrato il suo interesse per le strutture di solidarietà dall’inizio della crisi greca… Quando aveva cominciato la crisi in Grecia l’ARCI aveva preso l’iniziativa, essendo forse la prima grande associazione culturale e sociale che ha visitato la Grecia, ha conosciuto la “Solidarietà con tutte e tutti” e ha seguito da vicino le esperienze delle strutture greche di solidarietà. L’ex presidente di ARCI Paolo Beni, la responsabile delle relaziono internazionali Rafaella Bolini e un gruppo di attivisti aveva incontrato “Solidarietà con tutte e tutti”, l’Ambulatorio Medico e Farmaceutico Sociale Metropolitano di Elliniko ad Atene ed altre strutture di solidarietà. La campagna che abbiamo cominciato il giorno dopo il Consiglio Europeo per raccogliere fondi per sostenere la “Solidarietà con tutte e tutti” ci ha sorpreso, perché anche se siamo nel periodo estivo abbiamo avuto dalla gente una risposta immediata, i semplici cittadini. Lo dico questo perché abbiamo raccolto più di 22 mila euro durante il periodo estivo quando i circoli e le associazioni di ARCI non svolgono le loro attività in pieno a causa delle vacanze. Quello che ci ha fatto impressione è la disponibilità delle persone a livello individuale di offrire il loro sostegno economico alla “Solidarietà con tutte e tutti”. Dalla fine di agosto cominceremmo di organizzare iniziative di solidarietà per raccogliere fondi per la “Solidarietà con tutte e tutti” e non solo. Vogliamo creare un centro di accoglienza per immigrati, visto che la questione della immigrazione rappresenta un problema comune. Vogliamo sostenere la creazione di un Ambulatorio Medico e Farmaceutico Sociale e sostenere dei ragazzi che vogliono aiuto nella scuola. 2 Agli inizi di settembre avremo un incontro con la “Solidarietà con tutte e tutti” ad Atene e credo che troveremo forme di collaborazione. C’è anche la idea di procedere a gemellaggi delle strutture di solidarietà greche con i nostri circoli ed associazioni. *L’ARCI si era cambiato durante la guerra civile nella ex Jugoslavia con una forte presenza di solidarietà ai popoli della ex Jugoslavia. Oggi come vedete la situazione in Europa? La solidarietà ai popoli della ex Jugoslavia ci ha fatta capire tante cose. Oggi l’austerità distrugge l’Europa e la idea dell’Europa dei popoli. Abbiamo bisogno di un’Europa solidale e la Grecia è importante. Abbiamo sottolineato alla nostra campagna dal principio due parole: “Solidarietà” e “Sinistra”. Con la crisi, lo vediamo anche in Italia, il populismo, il nazionalismo, e ancora peggio il fascismo, alzano la testa. In Italia, come anche in Grecia, parlano di una estrema destra sociale. C’è un grande pericolo per la democrazia e i cittadini. Oggi le decisioni per la gente non le prendono i governo ma il settore finanziario influenzando direttamente la vita quotidiana delle persone. Dobbiamo farlo capire alla gente. Il governo italiano, almeno ufficialmente, ha detto che ha sostenuto la Grecia, ma noi crediamo che poteva fare molto di più. È una questione che ci riguarda, come il questione della immigrazione. Sfortunatamente nessuno oggi vuole pensare come europeo. *Lei viene dalla Toscana, la capitale dell’associazionismo e del volontariato italiano, della partecipazione nella vita sociale e di solidarietà. Come possono coesistere il ritorno alla “stato nazionale” e l’idea dell’Europa dei popoli, che ha citato? Le grandi società partecipative e i loro cittadini hanno un’altra idea per l’Europa dei popoli, della solidarietà e della giustizia sociale. Si deve creare un fronte ampio e un movimento a livello europeo per farli capire che non vogliamo andare via dall’Europa, non vogliamo sopportare che decidono altri per noi, non vogliamo questa applicazione dei trattati. I trattati con possono essere interpretati solo con criteri economici. Non possiamo ritornare nel passato. Vogliamo un futuro comune che garantisce il benessere e il progresso sociale. L’Europa che appoggia le guerre vicine e si trova ostaggio del settore finanziario colpisce i suoi cittadini. I popoli pagano il prezzo. Per questo abbiamo cominciato la campagna di solidarietà con la “Solidarietà con tutte e tutti”. Sfortunatamente in diversi paesi l’opinione pubblica non nostra nessun interesse per quello che succede in Europa, non esiste nessuna sensibilità. In Italia abbiamo votato per le elezioni europee e la storia è finita lì. Parliamo per la Grecia o per la questione della immigrazione e credono che sono problemi che non riguardano tutti noi. Quelli che scappano dalla Libia e dalla Siria lo fanno a causa delle guerre che l’Europa si è impegnata attivamente. Il governo italiano non ha fatto molte cose. Avevamo per sei mesi la presidenza dell’Unione Europea e potevano approfittare meglio per mettere alcune questioni bollenti. Da Repubblica Genova del 25/08/2015 Mense scolastiche, genitori contro l'appalto "balneare" La Commissione mense: "Così i bambini continueranno a mangiare cibi su cui abbiamo già obiettato" di MICHELA BOMPANI 3 «Il Comune ha fatto un golpe agostano, lanciando un mega-appalto per le mense delle scuole genovesi che vale quasi 30 milioni di euro e tenendoci fuori da ogni decisione. Così i nostri bambini mangeranno ancora i bastoncini di pesce della Namibia, il riso rumeno e a verdura congelata che arriva dal Belgio»: hanno scritto direttamente al sindaco, i genitori delle diciassette commissioni mensa che compongono la Rete delle Commissioni mensa, riconosciuta dallo stesso Comune lo scorso 13 maggio, durante una commissione consiliare monografica sul tema. E la Rete, che proprio nelle scorse settimane ha inglobato anche l'Arci Genova, l'Aiab Liguria (associazione italiana agricoltura biologica), l'Asci Liguria, un'associazione di coltivatori e la onlus Terra!, denuncia senza giri di parole una situazione che ritiene grave. Accanto a loro, il 19 agosto scorso, tre consiglieri comunali hanno presentato, sullo stesso tema, una mozione al sindaco: «Chiediamo che il bando per l'affidamento del servizio ristorazione scolastica sia limitato soltanto ai lotti in scadenza o oggetto di ricorso, non a tutti i dieci lotti», scrivono al sindaco e alla sua giunta, Antonio Bruno, Fds, Gianpaolo Malatesta, ex Pd civatiano ora nel gruppo misto e la stessa consigliera della Lista Doria, Clizia Nicolella. Se tutti attendevano un bando per due soli lotti, dei dieci in cui è suddiviso tutto il servizio di ristorazione scolastica del Comune di Genova, nessuno pensava che Tursi procedesse a un bando complessivo. E in così breve tempo. Nel mirino dei genitori e degli stessi consiglieri è dunque il grande appalto, da oltre 4 milioni di pasti all'anno che il Comune pubblicherà proprio a fine mese. «Non abbiamo ricevuto alcuna risposta - protesta Antonio Bruno - l'assessorato alla Scuola doveva muoversi prima per fare la gara per bene, non nel pieno d'agosto e di corsa. Chiediamo che il bando che sarà pubblicato a fine agosto affidi gli appalti solo per un anno, in modo da poter costruire una efficente rete con materie biologiche e a chilometro zero in tutte le scuole». La Rete delle commissioni mensa, dopo una serie di sopralluoghi in cui denunciava la bassa qualità del servizio, a maggio è stata invitata a Palazzo Tursi, nella commissione presieduta dall'assessore alla Scuola, Pino Boero, per presentare le proprie rilevazioni e cominciare un percorso di collaborazione con le stesse strutture dell'assessorato per il controllo della qualità del servizio (oltre a quello garantito dal Comune stesso e dalla Asl) e vedendo riconosciuto un proprio ruolo attivo nell'impostazione dei miglioramenti in termini di aumento delle materie prime biologiche, a filiera tracciata e garantita e a chilometro zero, ma anche nella consegna dei cibi veicolati in buone condizioni e con la giusta grammatura. «Siamo stati convocati il 2 luglio - spiega Sabina Calogero,una dei genitori fondatori della Rete - e l'atmosfera era collaborativa. Abbiamo scoperto soltanto ad agosto che l'assessore aveva lanciato un mega-appalto senza rispettare alcuna delle nostre richieste, a parte qualche banale rassicurazione». http://genova.repubblica.it/cronaca/2015/08/24/news/mense_scolastiche_genitori_contro_l _appalto_balneare_-121563442/ Da Il Tirreno.it del 25/08/2015 Casina Rossa, dove il lavoro non manca Una zona ristretta di Montecatini costellata di negozi e servizi. E vicino al bar Giulia che festeggia 10 anni riapre anche il Circolo Arci di Luca Signorini 4 MONTECATINI. Negli ultimi anni in poche occasioni ci siamo ritrovati a parlare di nuove aperture commerciali (se non di multinazionali e grandi aziende). A Montecatini il settore non naviga certo in buone acque, tra chi prova a resistere e chi alla fine deve arrendersi. C'è però una zona che appare in controtendenza: la Casina Rossa, dove assistiamo a una vitalità piuttosto inusuale di questi tempi. Il quartiere residenziale a nord della città sfida la crisi dei consumi. Domenica 30 agosto, per esempio, il bar Giulia di via Bruceto festeggia i dieci anni di attività (fino al 2005 il fondo ha visto un susseguirsi di gestori). I titolari, lafamiglia Flori, nell'occasione organizzano una festa (a partire dalle 19) che sa tanto di rivincita contro gli scettici e contro un mercato che va a rilento (ma non per loro): sono previste una cena a buffet, la torta, le candeline e la musica dal vivo. Accanto a chi taglia un traguardo per niente scontato, c'è anche chi arriva per la prima volta e decide di investire. È il caso di Mirko Silvestri che da inizio settembre riaprirà le porte dello storico circolo Arci della Casina Rossa, lungo viale Fedeli. L'attività è rimasta chiusa dall'inizio dell'estate, dopo sette anni di gestione di Graziano Galligani, che l'aveva rilevata nel 2008. Dopo pochi mesi, i bar del quartiere tornano così ad essere tre (su viale Fedeli c'è anche un'altra storica attività, il bar Bull). Da queste parti resta solo un fondo senza occupanti in via Bruceto: quello dove fino a giugno era aperta una gelateria, che però non ha chiuso i battenti ma anzi si è trasferita in pieno centro, proprio di fianco all'ingresso del teatro Verdi. È alta la concentrazione di esercizi commerciali (e l'offerta per i residenti e turisti) in questo popoloso quadrante cittadino. Da alcuni anni su via Bruceto Mr Food sforna pizze e prepara panini. Poi si aggiungono due forniti minimarket per fare la spesa, un negozio di casalinghi, una macelleria, una parafarmacia, l'edicola e tabacchi Ritual. Oltre alla filiale del Credito Cooperativo della Valdinievole, al ristorante Il Discepolo e all'hotel Casa Rossa. La zona rappresenta in pratica una piccola cittadina fornita di quasi tutti i servizi all'interno della città. Nessun altro quartiere di Montecatini, anche tra i più estesi, può vantare un simile numero di attività in un'area così circoscritta. Chi ci abita, non è costretto a salire su un’automobile. Una luce in un presente ancora nero. Che andrebbe valorizzata, per evitare il rischio di disperdere ciò che si è costruito. http://iltirreno.gelocal.it/montecatini/cronaca/2015/08/24/news/casina-rossa-dove-il-lavoronon-manca-1.11981513 5 INTERESSE ASSOCIAZIONE Del 25/08/2015, pag. 24 Riforma ferma al palo terzo settore in allarme si allontana la svolta lavoro Dopo l' ok della Camera ad aprile, le misure bloccate al Senato Il governo: "Ora acceleriamo su servizio civile e impresa sociale" ROMA Il nervosismo, forse la delusione, sale dalla base. Cooperazione sociale, enti del servizio civile, volontariato temono ormai il binario morto. La legge delega per la riforma del terzo settore, annunciata da Renzi un anno fa come «grande momento di svolta» in conferenza stampa, giace ancora in Senato, dov'è arrivata il 20 aprile, dopo essere stata approvata dalla Camera. E li rimarrà ancora un po', a quanto si capisce. Il sottosegretario pd al Lavoro Luigi Bobba assicura che «ad ottobre andrà in aula», che il ministero «è pronto per lo sprint e sta già lavorando ai primi decreti attuativi, a partire da servizio civile e impresa sociale». Difficile convincere chi quella riforma la attende da vent'anni. Ancora più complicato spiegarlo alla platea ciellina che questa mattina accoglierà il premier al Meeting di Rimini. Il governo puntava sulla riforma anche in termini occupazionali, sbandierando i dati di alcune cooperative secondo i quali un giovane su tre impegnato nel servizio civile viene poi assunto a tempo indeterminato. Il ministro Poletti (al Meeting domani) prometteva i decreti attuativi già rutti nel2015. E la partenza di un primo contingente da 50 mila ragazzi entro l'anno, pagati460 euro al mese ( 100 mila entro il2017, diceva Renzi). «Sarà così, metteremo insieme le risorse di Garanzia giovani e del fondo per il servizio civile», ribadisce ora Bobba. «Partiranno con le vecchie regole, ma partiranno». Ma perché questo ritardo? «Ingorgo parlamentare, problemi di calendario », minimizza. La riforma è finita nel budello della commissione Affari costituzionali del Senato, presieduta da Anna Finocchiaro (che ha fatto slittare al 7 settembre il termine per il deposito degli emendamenti). La stessa sommersa da 500 mila proposte di modifica per la ben più decisiva, per il governo, riforma della Costituzione. Non solo. Palazzo Madama, a quanto si apprende, alla ripresa dei lavori potrebbe essere investito anche della legge sulle unioni civili. Poi dal 15 ottobre toccherà allo tsunami della Finanziaria. Maria Elena Bosch i, ministro per i Rapporti col Parlamento, fiutando l'aria, ha convocato con urgenza i capigruppo di Camera e Senato, Zanda e Rosato, già a fine luglio, chiedendo di accelerare. Il relatore pd al Senato Stefano Lepri, incalzato dal magazine del non profit Vita e dall'invito della base appunto a «fare presto», si n asconde dietro l'urgenza della rifor-ma costituzionale, «mica la riforma della banana fritta». Gli si rimprovera la differenza con il Jobs Act, realizzato in sette mesi. «Nessuna volontà di insabbiare nulla, il testo è buono, va solo migliorato in cinque o sei passaggi». Proprio per placare richieste e critiche, il 6 agosto un decreto del ministero dello Sviluppo economico e una delibera Cipe hanno anticipato un comma dell'articolo 7 della riforma. «Abbiamo creato un fondo rotativo di garanzia da 200 milioni, quattro volte lo stanziamento iniziale, che sarà a ttivato a settembre », spiega Bobba. «Con questo fondo pensiamo di finanziare circa 500 iniziative importanti. Possono accedervi 15 mila cooperative sociali e chiedere da 100 mila euro a 10 milioni a un tasso dello 0.50% per impianti o software e ricerca ». La riforma contiene anche altro. Oltre a l servizio civile universale, la modifica allibro primo del codice civile che traccerà il recinto del terzo settore. Partiti e sindacati fuori. Ma associazioni e fondazioni che svolgono attività commerciale dentro. Purché rispettino nuove norme di trasparenza, obblighi di fatturazione e bilancio e tutela dei terzi. Indispensabili in tempi di 6 Mafia Capitale e scandali coop. Si prevedono poi maggiori e omogenei incentivi fiscali. Senato permettendo. Da Redattore Sociale del 25/08/2015 Lavoro in carcere, Antigone: “Così com’è non aiuta i detenuti” Il presidente dell’associazione, Gonnella, commenta la relazione del Dap sull’occupazione nei penitenziari. “Non è solo un problema di calo di risorse, c’è da cambiare completamente rotta. Lavorare per l’amministrazione non dà dignità e non prepara all’uscita” “Non è tanto, o solo, un problema di risorse: va cambiata completamente la strategia dell’inserimento lavorativo dei detenuti”. Così Patrizio Gonnella, presidente dell’AssociazioneAntigone, reagisce alla relazione presentata dal Dap “sull’attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti” in cui si ammette un drastico calo di risorse per i detenuti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. “Le minori risorse si inseriscono in un trend di carattere generale di riduzione della spesa che riguarda tutti i capitoli di welfare”. Ma non è questo, per Gonnella, il problema principale: “Il punto è che, con o senza risorse, il lavoro per conto dell’amministrazione penitenziaria non è rilevante da un punto di vista curriculare”. In sostanza, non forma i detenuti, non li prepara al rientro in società. “Bisognerebbe cambiare totalmente rotta, sottolinea, - qualificando il lavoro e cercando di reperire nuove risorse coinvolgendo i privati ma anche guardando alle opportunità che vengono dall’Ue. È necessario restituire dignità al lavoro in carcere, che ora oltre che essere scarsamente retribuito è anche troppo standardizzato e non dà alcuna qualifica”. Per Gonnella una possibilità può arrivare dal disegno di legge delega di riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma preoccupa anche il crescente riferimento ai lavori socialmente utili per i detenuti: “Il lavoro per ridare dignità deve essere retribuito” mette in chiaro il presidente di Antigone, che invita anche a rivedere il lessico, per ridare dignità al lavoro in carcere: “Come possiamo continuare a parlare di spesino, scopino? Non sono dignitosi. Così come “mercedi”: perché non parliamo di stipendio?” 7 ESTERI Del 25/08/2015, pag. 4 Syriza perde il suo segretario Grecia. Si dimette Tasos Koronakis: «Partito svalutato dalle scelte di Tsipras» Angelo Mastrandrea In un giorno solo, Alexis Tsipras ha perso il suo successore e pure il predecessore. Nella riunione della segreteria politica di Syriza, alla quale ha partecipato per sostenere che l’obiettivo è «ottenere un mandato chiaro per quattro anni» e che il partito «deve incontrare la società», il premier si è trovato a dover fare i conti con la lettera di dimissioni del segretario Tasos Koronakis, con il quale aveva condiviso la militanza fin dai tempi del G8 di Genova e poi quando si erano ritrovati a essere il primo (Tsipras) segretario della neonata Coalizione della sinistra radicale e l’altro leader del movimento giovanile. Koronakis non è stato tenero con il primo ministro, accusato di aver «svalutato» il partito, non tenendo conto delle decisioni del Comitato centrale (che si era espresso a maggioranza contro il Memorandum) e convocando le elezioni senza tenere in considerazione Syriza, provocando in questo modo la fuoriuscita non solo della minoranza interna, ma l’esplosione dell’intera Coalizione. Nella lettera che si conclude con le dimissioni il segretario non risparmia neppure la Piattaforma di sinistra, pure accusata di avere una «responsabilità significativa» nella «continua svalutazione del partito». Si tratta di una defezione pesante non solo perchè Syriza si ritrova senza segretario nel momento di maggiore difficoltà e neppure per il fatto che Tsipras perde una figura della sua maggioranza, ma soprattutto perché indica come giorno dopo giorno la prima forza politica della Grecia si stia sgretolando, paradossalmente proprio nel momento in cui i sondaggi la davano al massimo storico. Meno sorprendente, invece, è l’endorsement per Unità popolare dell’ultimo segretario del Synaspismos Alekos Alavanos. L’economista che fu tra gli artefici della nascita di Syriza e dello svecchiamento del partito (fu lui a proporre Tsipras alla segreteria) aveva già da tempo abbandonato i suoi compagni e alle elezioni di gennaio aveva sostenuto il piccolo partito di ultrasinistra Antarsya, che non aveva ottenuto il quorum per entrare in Parlamento. Ieri con la sua formazione Piano B (che si richiama apertamente al Grexit) ha stretto un accordo con il leader di Unità Popolare Panagiotis Lafazanis, invitando anche il partito comunista Kke a stringere un’alleanza elettorale. «Noi non consideriamo il Kke come un nostro nemico. Noi non consideriamo nemica alcuna forza di sinistra, progressista e che sia contraria al terzo piano di salvataggio. Al contrario, noi vogliamo formare un grande fronte comune con tutte queste forze», ha detto Lafazanis, che ha accettato il mandato esplorativo dal Presidente della Repubblica Prokopis Pavlopoulos dopo il fallimento del tentativo del leader di Nea Democratia Vangelis Meimarakis. Ma le grane a sinistra per il premier non finiscono qui. Pure l’ex partigiano Manolis Glezos ieri è tornato ad attaccare il suo ex partito: «Non c’è spazio per nessun accordo postelettorale», ha detto, a meno che dal Megaro Maximo (la sede del governo) non si faccia autocritica. A mantenere le distanze dalla neonata Unità Popolare è invece Yanis Varoufakis. In un’intervista a una tv francese l’ex ministro delle Finanze ha detto di sentirsi lontano dalle loro posizioni perché «per loro il ritorno alla dracma è una questione di ideologia». Invece «per la Grecia è meglio rimanere nell’euro, anche se non dobbiamo farlo a ogni costo». Per questo non ha escluso di poter tornare a collaborare con un futuro governo guidato da Syriza, ma solo se cambieranno le politiche economiche. 8 Per il momento non pare che Tsipras abbia alcuna intenzione di tornare sui suoi passi. Alla segreteria del partito il capo del governo ha illustrato le linee guida della campagna elettorale, decise il giorno prima nella riunione con il suo staff di fedelissimi (tra ministri ed esponenti di Syriza): innanzitutto la richiesta di un «mandato chiaro di quattro anni», ma anche la necessità di porre l’accento non tanto sulla «guerra civile» tra ex compagni di schieramento (al contrario di Unità Popolare che intende invece dimostrare che «la sinistra siamo noi») quanto sul programma di governo, antiliberista e contro il blocco d’affari interno, «per una graduale uscita del Paese dai controlli e dai Memorandum». Infine ha sottolineato la necessità di una riorganizzazione del partito e di una sua apertura alla società. Ma su questo punto l’impressione è che sarà necessaria una vera e propria rifondazione. Del 25/08/2015, pag. 25 Tsipras: "Voglio governare 4 anni" Mandato esplorativo a Lafazanis, ma ormai ad Atene è già campagna elettorale ATENE. Adesso tocca all'ex ministro Panagiotis Lafazanis Provare a formare un nuovo governo, e come prevede la Costituzione g reca avrà tempo fino a domani. Sanno tutti che è una formalità utile a rosicchiare qualche giorno di campagna elettorale in più, perché Unità Popolare (il movimento appena nato da una scissione a sinistra di Syriza, diventato subito terzo gruppo parlamentare) non ha i numeri per mettere insieme un nuovo esecutivo il quale, secondo Lafazanis, dovrebbe respingere in blocco il terzo memorandum firmato da Alexis Tsipras. Il presidente della Repubblica Prokopis Pavlopoulos aveva due scelte davanti, dopo le dimissioni del premier e le consultazioni finite in un nulla di fatto affidate venerdì scorso al secondo partito, i conservatori di Nuova Democrazia: passare la palla - tra l'imbarazzo generale- ai neonazisti di Alba Dorata, terzo partito più votato alle elezioni dello scorso gennaio; Si è dimesso il segretario di Syriza in polemica con il premier uscente oppure al gruppo di Lafazanis, terzi per peso parlamentare. Pavlopoulos h a scelto la seconda, scatenando le proteste dell'estrema destra: «Questo è deviazionismo costituzionale», il commento del deputato Ilias Kasidiaris. Un passaggio obbligato, quindi. Il cuore della politica greca è già altrove, tutta protesa com'è a organizzarsi per il voto del 20 (oppure 27) settembre. Syriza è favorita secondo tutti i sondaggi, anche se Bild ne ha pubblicato uno che, s i trasformasse in realtà, equivarrebbe a una prematura fine politica perTsipras, a quel punto costretto alle larghe intese: la "Coalizione della sinistra radicale" al 28 per cento, a soli 4 punti da Nuova Democrazia e i duri e puri d i Lafazanis al1'8 per cento. In più l'ex premier ha dovuto incassare un altro colpo, cioè le dimissioni del segretario di Syriza Tassos Koronakis. Uno della "generazione Alexis"', nata e cresciuta nei sodal forum di inizio anni Duemila , e per questo il suo addio fa rumore: «Le scelte del governo hanno bypassato completamente il partito in questi mesi - ha detto Koronakis -e il memorandum è un pessimo accordo, serve una seria autocritica». Ci sono anche due ministri del governo Tsipras che hanno annunciato d i non voler essere ricandidati alle prossime elezioni, quella dell'Immigrazione Tasia Christodoulopoulou e quello del Commercio Thodoris Dritsas. Mentre dalla sua villa sull'isola di Egina Yanis Varoufakis continua a fendere colpi a Tsipras: «Non mi ha tradito personalmente ma ha tradito il popolo greco». L'ex ministro delle Finanze ha aggiunto che però non passerà con Lafazanis, anche se «nella vita tutto può accadere». L'idea di 9 Tsipras, comunque, è quella d i riproporre un' alleanza post elettorale con la destra dei Greci Indipendenti. «Vogliamo un mandato per governare quattro anni, stavolta in modo stabile - ha spiegato ai suoi, riuniti alla sede d i Syriza - e il programma resta quello di una sinistra radicale di governo, capace di mettere in discussione i dogmi dell'Europa neoliberista». Missione che finora è riuscita solo a livello simbolico. Del 25/08/2015, pag. 1-15 Come rompere la gabbia dei memorandum Il capolavoro retorico delle classi dirigenti tradizionali, dall’inizio della crisi, è stato quello di trasfigurare nel senso comune una crisi del capitalismo finanziario in una crisi del debito pubblico. Ne è derivato che non sono tanto le élites a dover rispondere della loro dissennata gestione del potere, ma sono i popoli a essere messi sul banco degli imputati per aver vissuto “al di sopra delle proprie possibilità”. Su questa narrazione fittizia sono state costruite politiche reali, la cui natura è stata ben nascosta dagli apparati egemonici del capitalismo. Questi apparati hanno fatto passare come necessità oggettive scelte che da un lato hanno avuto un forte impatto redistributivo verso l’alto, dall’altro hanno disegnato un nuovo ordine continentale asimmetrico a vantaggio dei centri forti dell’economia europea. All’interno dei singoli paesi si è determinato un ingente spostamento di risorse dal salario – reale e differito – al capitale, e un’ulteriore concentrazione del potere nelle mani delle élites oligarchiche a scapito del controllo democratico. Su scala continentale si è giunti al contempo a una configurazione gerarchica dell’Unione europea, con una divisione del lavoro sostanzialmente duale, sul modello di quella che ha condotto all’esplosione, nel nostro Paese, della questione meridionale. Le forze popolari e progressiste hanno il compito di smascherare l’artificio retorico attorno al quale le classi dominanti hanno costruito la narrazione della crisi: un’operazione indispensabile per il rilancio di un disegno contro-egemonico su scala continentale. È stata la haute finance a trarre beneficio dalle dinamiche della crisi, lucrando sulla “scarsità” di risorse da essa stessa prodotta con la complicità dei governi. Nel caso della Grecia i cosiddetti “salvataggi” non sono stati altro in realtà che uno strumento per garantire la rendita finanziaria, alimentando il potere di ricatto delle élites del denaro. Le banche europee, a cominciare da quelle tedesche, hanno sin qui prestato denaro ad Atene, che, privata della libertà di indirizzare questi fondi verso reali politiche espansive, si è trovata costretta ad ulteriormente indebitarsi. I provvedimenti imposti dalla Trojka hanno quindi realizzato, mediante una partita di giro, un rafforzamento delle banche private, favorendo al contempo un colossale spostamento di risorse dal welfare alla rendita finanziaria. Le condizioni imposte per il “salvataggio” della Grecia hanno riproposto uno schema universalizzato, dove al primo posto, immancabile, si è collocata la raccomandazione di varare un ampio piano di privatizzazioni. Queste ultime hanno portato con sé due conseguenze. Da un lato, la svendita al capitale metropolitano di asset pregiati delle periferie sconvolte dalla crisi (è di questi giorni la notizia che il gruppo tedesco Fraport si è accaparrato la gestione quarantennale di 14 aeroporti greci). Dall’altro, specie in realtà in cui il capitalismo nazionale dimostra tendenze secolari verso la trasformazione in rendita, una deindustrializzazione funzionale alla riconfigurazione in senso gerarchico della divisione continentale del lavoro. Alle privatizzazioni hanno poi fatto seguito un po’ ovunque le “riforme del lavoro”. Lungi dall’aver determinato una ripresa dell’occupazione, attraverso di esse si è stabilizzato un enorme esercito industriale di riserva, tra le file del quale pescare manodopera dequalifi10 cata e a basso costo per la produzione di semi-lavorati, destinati ad essere assemblati dai grandi gruppi industriali metropolitani. Con l’artificio retorico dell’invecchiamento della popolazione, infine, i governi nazionali sono stati costretti a varare “riforme delle pensioni” che hanno prolungato nel tempo la condizione di sfruttamento della forza-lavoro, garantendo allo stesso tempo lauti dividendi ai grandi gruppi assicurativi privati. Senza una netta inversione di tendenza, questa serie di misure è destinata ad avere un impatto di lunghissimo periodo e a trasformare in profondità lo spazio economico continentale. La crisi modella la costruzione dell’Europa gerarchica, mentre lo strumento del memorandum, moderna Magna Charta, la “costituzionalizza”. Dopo la Grecia è lecito supporre l’aggressione del grande capitale europeo ad altri anelli deboli dell’eurozona. Alcuni segnali in questa direzione si hanno già. Si pensi alla crescita dei colossi finanziari tedeschi, Allianz e Deutsche Bank, i quali stanno acquisendo anche in paesi come il nostro quote crescenti di mercato, al punto che Allianz è il secondo operatore in Italia nel campo delle assicurazioni. Anche per quanto riguarda il nostro mercato finanziario si pone quindi un problema di subalternità al gigante tedesco. Ma l’aspetto determinante per il dispiegarsi dell’egemonia tedesca è la deindustrializzazione del sud Europa, una delle emergenze che andrebbero affrontate nella prospettiva di un’alternativa. Chi pensa che il futuro della Grecia o dell’Italia possa essere trainato dall’agricoltura o dal turismo, se non è in mala fede, rischia comunque di prendere un abbaglio. Non farebbe male ogni tanto rispolverare il pensiero dei nostri grandi statisti del passato. Riprendendo una valutazione di Cavour, all’inizio del Novecento Francesco Saverio Nitti affermava che «l’industria dei forestieri, l’industria degli alberghi sono grandi industrie: ma non possono considerarsi come la base del reddito nazionale. Inoltre un paese che vive dei forestieri tende in certa guisa ad abbassare il suo carattere: tende à un esprit d’astuce et de servilisme funeste au caractère national. L’industria dei forestieri invece è benefica invece in un paese già industriale che può trattare i forestieri su le pied d’une parfaite égalité». Rispetto alla situazione in atto un’inversione di tendenza coinciderà solo con un ribaltamento degli attuali equilibri. Il nodo di fondo da affrontare è sempre lo stesso, il rapporto fra Stato e mercato: il primo deve tornare come in passato ad avere l’ultima parola sulla decisione su cosa, come e per chi produrre, cominciando con il recuperare quella che Beveridge avrebbe chiamato una “signoria sul denaro”, ossia una sottomissione della finanza al controllo democratico. Soltanto così sarà possibile perseguire politiche espansive e rilanciare la produzione industriale e terziaria in tutte le aree d’Europa. L’accentramento dei poteri decisionali in mano ad organismi democraticamente irresponsabili ed un’asimmetrica divisione continentale del lavoro hanno proceduto fin qui di pari passo nella costruzione dell’Europa gerarchica. Solo un processo coordinato di ricostruzione dell’apparato produttivo della periferia continentale potrà innescare un processo opposto e virtuoso di riconfigurazione democratica dell’Europa. Del 25/08/2015, pag. 6 Beirut, non è una tardiva “primavera araba” Libano. Gli slogan scanditi nei giorni scorsi dai manifestanti ricordano quelli delle proteste di cinque anni fa in Tunisia ed Egitto ma il Libano era e resta fortemente condizionato dal settarismo e dalle dinamiche politiche interne e regionali Michele Giorgio Non è il caso di lasciarsi suggestionare dallo slogan che urlavano l’altra sera i libanesi: “Il popolo vuole la caduta del regime”. Parole note un po’ a tutti, scandite cinque anni fa da 11 milioni di tunisini ed egiziani e che fecero crollare i dittatori Zine El Abidine Ben Ali e Hosni Mubarak. Le proteste a Beirut e gli scontri violenti degli ultimi giorni scorsi hanno ben poco in comune con la cosiddetta “primavera araba”, sfociata nel bagno di sangue al quale ora assistiamo in Iraq, Siria, Bahrain, Libia e Kurdistan. Niente accade in modo realmente spontaneo nel Libano piegato sotto il peso del settarismo e delle conseguenze interne della guerra nella confinante Siria e che da 14 mesi non riesce ad eleggere il nuovo capo dello stato. O, per essere più precisi, nessuna protesta di massa può conservarsi a lungo a indipendente e popolare senza le influenze della politica nazionale e regionale. Certo, le manifestazioni di questi giorni sono nate inizialmente da un’esigenza genuina di condanna di un esecutivo — e più in generale di un mondo politico corrotto — incapace di dare una risposta a un bisogno elementare dei cittadini. Ma un malcontento del genere, nato per il problema irrisolto dei rifiuti non raccolti, non arriva all’escalation violenta dell’altra sera, a notti di vera e propria guerriglia urbana. L’intenzione di non pochi manifestanti di sfondare lo schieramento di polizia e di arrivare fin dentro i palazzi del potere, ha avuto un chiaro obiettivo politico: esprimere l’insoddisfazione dello schieramento filo siriano e filo iraniano “8 marzo” contro il primo ministro Tammam Salam sempre più condizionato dai voleri dell’Arabia saudita. Allo stesso tempo la decisione degli attivisti di “You Stink” di revocare le nuove manifestazioni convocate per ieri, rappresenta un accoglimento della volontà dei partiti del fronte “14 marzo”, anti Damasco e anti Tehran, di non offrire opportunità agli avversari politici di sfruttare la rabbia popolare per costringere alle dimissioni il premier. L’assalto tentato domenica sera alle sedi istituzionali sono ammonimenti diretti a chi dentro e fuori dal governo, sotto il peso della pressione di Riyadh, preme con più forza di prima per mettere nell’angolo Hezbollah, “reo” di combattere in Siria dalla parte di Bashar Assad. Tutto è politica in Libano. Fu una finta protesta popolare, ad esempio, la “Primavera di Beirut” — nota come la “Rivoluzione dei cedri”, prima e dopo l’assassinio (nel 2005) del premier sunnita Rafiq Hariri – descritta in Occidente come una lotta per la liberazione del Paese dal controllo siriano. In realtà fu portava avanti solo dai libanesi nemici di Damasco. Altrettanto finta fu la “ribellione del popolo” che Hezbollah e i partiti alleati del fronte “8 marzo” attuarono per mesi, con un campo permanente di migliaia di tende nel centro di Beirut, a partire dal dicembre 2006. Ufficialmente quella protesta chiedeva la caduta del governo filo occidentale di Fouad Siniora rivelatosi “incapace” di guidare il Libano nei giorni delicati dell’offensiva militare israeliana scattata qualche mese prima. In realtà l’obiettivo era affondare Siniora perchè, su pressione degli Stati Uniti, intendeva impegnarsi per il disarmo della guerriglia sciita e per ottenere la condanna di Hezbollah e della Siria, accusata dell’assassinio di Rafiq Hariri, da parte del Tribunale Internazionale per il Libano. La dimensione politica di quest’ultima protesta di cittadini, innescata dall’assenza di un servizio pubblico e poi sfociata in guerriglia urbana contro il governo, si ritrova nei riflessi in Libano del recente accordo di Vienna sul nucleare iraniano. Hezbollah e le formazioni politiche alleate hanno accolto con grande favore l’intesa tra gli Stati Uniti, le altre potenze occidentali e Tehran. Invece altre forze hanno stretto i pugni per la rabbia, perchè convinte a torto o a ragione che la legittimazione internazionale dell’Iran favorirà un riconoscimento di fatto anche del movimento sciita e del ruolo della sua guerriglia in Siria. Dietro le quinte l’Arabia saudita preme sui partiti amici in Libano e sul premier Tammam Salam affinchè vengano contenuti l’”espansionismo iraniano” e il peso degli alleati libanesi di Tehran. L’altra sera in strada a Beirut tra quelli che urlavano contro il primo ministro, non pochi in realtà lanciavano avvertimenti a ministri e partiti legati alla monarchia saudita. E ieri alcuni giornali arabi, vicini a Riyadh, mettevano in guardia dal “tentativo” di Hezbollah di prendere il controllo Libano attraverso le proteste per la mancata raccolta dei rifiuti. 12 Del 25/08/2015, pag. 16 Palmira ferita non a caso Siria. Dopo la demolizione del Leone di Allat salta in aria anche il Tempio di Baalshamin. Un gesto che potrebbe svelare la vera strategia dello Stato islamico, che da un lato distrugge e dall’altro risparmia tutto ciò che può essere fonte di guadagno A qualche giorno dalla tragica esecuzione pubblica di Khaled As’ad, l’ex direttore del sito e del museo di Palmira, una nuova esplosione emotiva scuote gli animi degli studiosi di antichità e di quanti guardano al patrimonio archeologico come orizzonte culturale. Il 23 agosto, l’Osservatorio Nazionale per i Diritti Umani in Siria ha annunciato che i miliziani di Daesh hanno fatto saltare in aria il Tempio di Baalshamin a Palmira, danneggiando gravemente anche il vicino colonnato. A scongiurare l’evento non è bastato l’appello di Irina Bokova, Direttrice Generale Unesco, che tre mesi fa invitava al «cessate il fuoco» per proteggere uno fra i siti più sorprendenti del Mediterraneo. In seguito all’imperdonabile distruzione del monumento dedicato al dio del fulmine e della fertilità, la Bokova ha dichiarato che gli uomini del Califfo stanno compiendo, in Iraq e Siria, le più brutali e sistematiche devastazioni del patrimonio storico mai registrate dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Eppure, tra i due comunicati – quello di fine maggio e quest’ultimo – niente è stato fatto dall’agenzia Onu affinché la celebre città carovaniera, nella lista del World Heritage fin dal 1980 e dal 2013 fra i siti in pericolo, fosse salvaguardata. Nessuna voce «ufficiale» del mondo della cultura si è levata – agli inizi di luglio – quando l’Isis ha giustiziato venticinque soldati dell’esercito regolare nel teatro romano di Palmira, servendosi persino di adolescenti come boia e compiendo – secondariamente – un atto di vilipendio all’edificio che ha ospitato in passato nobili forme d’arte. Il 27 giugno scorso era passata in sordina anche la demolizione del Leone di Allat, la colossale statua risalente al I secolo d.C. posta dalla fine degli anni ’70 a guardia del Museo di Palmira. «La “sentinella” dell’ingresso a Palmira – ci dice Pascal Arnaud, docente di Storia Romana all’Università Lumière-Lyon2 e già consulente Unesco per gli scavi di Beirut – non può considerarsi un obiettivo secondario per l’Isis. “Leone”, in arabo, si dice El-Assade all’epoca di Hafez al-Assad quella scultura era emblema dell’universalismo del partito Baath». «Il sito archeologico di Palmira – continua Arnaud – rappresentava il dominio, da parte del regime, della cultura dei colonizzatori, i quali avevano annientato una città araba medievale per far emergere un patrimonio più antico, spettacolare e maggiormente degno di attenzione». La «sconfitta» di tale cultura coloniale, garanzia di modernità e integrazione al mondo ormai nelle mani della nazione siriana, innescò quel processo ideologico che fece della regina Zenobia la leader di un Fronte di Liberazione Nazionale. In realtà, come sappiamo ora da un recente libro di Annie e Maurice Sartre (Zénobie, de Palmyre à Rome, ed. Perrin 2014), Zenobia – che era la consorte di Settimio Odenato e a lui succedette quale imperatrice romana d’Oriente -, non fomentò le lotte contro i «colonizzatori» ma si oppose a un altro imperatore, Aureliano, con l’ambizione di conquistare il potere assoluto assieme al figlio Vallabato. L’importanza accordata da Hafez al-Assad all’archeologia come strumento di propaganda nazionalista si riflette nella scelta 13 d’installare nel maestoso tempio di Bêl una residenza per il ministro della Cultura, dalla quale mostrare agli ospiti del regime i fasti della nuova Siria. Ma se in giugno i miliziani hanno compiuto la loro vendetta archeologica e politica sul Leone di Palmira, fa riflettere la scelta di preservare proprio quel tempio e scagliarsi invece sul santuario dedicato a Baalshamin, datato al II secolo d.C., un gioiello architettonico ma certamente meno imponente e «caro» al turismo di massa. Le ragioni vanno probabilmente ricercate nella strategia economica dell’Isis, che da una parte distrugge manufatti con vere e proprie messe in scena, dall’altra risparmia tutto ciò che può esser fonte di guadagno. La scelta di far saltare in aria il tempio di Baalshamin risiede forse nelle sue modeste dimensioni e nella sua posizione periferica. Coloro che continuano a credere che l’unico scopo dell’Isis sia cancellare il passato pre-islamico ed esercitare la furia iconoclasta contro gli idoli, dovranno sforzarsi di guardare oltre quest’uso strumentale e – a tratti abbagliante – dell’archeologia. Se finora non ci sono prove che l’ottantaduenne As’ad sarebbe stato torturato e poi barbaramente ucciso perché rifiutatosi di rivelare il nascondiglio di preziosi reperti, appare chiaro che per lo Stato Islamico – come d’altra parte ampiamente documentato da indagini della polizia internazionale – il traffico illegale di reperti sia una delle principali fonti di finanziamento. È anche noto che Daesh venda a caro prezzo licenze per scavi clandestini, compromettendo – come già successo a Dura Europos e Mari – le stratigrafie dei siti ma favorendo la scoperta di manufatti da riacquistare e immettere sul mercato. Mentre facciamo il lutto al tempio di Baalshamin, dobbiamo aspettarci in futuro, altre dimostrazioni di violenza da parte dell’Isis, mirate tuttavia non alla distruzione globale di un patrimonio siriano già fortemente compromesso dalla guerra civile, ma a una destabilizzazione emotiva della comunità internazionale. Per questo, bandiere a mezz’asta e iniziative di commemorazione non ci aiuteranno a onorare uomini e a proteggere monumenti ma continueranno, in mancanza di azioni concrete, ad allontanarli per sempre dal nostro sguardo. Del 25/08/2015, pag. 19 L'Is conquista Sirte e minaccia l'Italia Sharia e terrore, il Califfato crea il suo emirato nell'ex città di Gheddafi: "La Libia è la porta per arrivare a Roma" Sconfitti i salafiti, ora regna la legge degli uomini in nero: corte islamica, classi separate per maschi e femmine Corte islamica e sharia, classi separate per maschi e femmine e un nuovo regime fiscale: la città simbolo del potere di Muhammar Gheddafi, Sirte, il capoluogo beduino in rui nacque il rais, è diventata un e mirato dello Stato islamico. Sconfitti i rivali salafiti che la governavano, una dozzina dei quali sono stati decapitati e crocifissi come monito ai civili, i miliziani fedeli ad Al Baghdadi hanno preso definitivamente il controllo della città sostituendone l'organizzazione amministrativa. E mentre lo Stato islamico avanza sul campo, i tagliagole jihadisti lanciano nuove minacce web all'Italia: «La Libia è la porta per arrivare fino a Roma», titola l'ultima campagna del terrore su Twitter accompagnata da una serie di fotomontaggi che mostrano la capitale italiana in fiamme tra le bandiere nere del califfato. Propaganda, ma i torù sono un'elegia cantata per riscaldare i cuori dei giovani: «Le armi ottomane hanno accerchiato Roma dopo avere conquistato la Libia a sud dell'Italia. Chi vuole prendere Roma e l'Andalusia deve cominciare dalla Libia», avverte nel tweet un combattente dell'ls. Secondo il quotidiano al Wasat membri armati 14 dell'Is sono entrati nei negozi, nelle officine e nelle fabbriche reimmatricolandoli con documenti timbrati dal nuovo emirato e imponendo le loro tasse. Dopo aver chiuso il tribunale, sostituendolo con una Corte islamica che applicherà la Sharia, hanno distribuito volantini con il calendario liturgico e l'elenco delle disposizioni religiose da seguire. E l'Ufficio per l 'educazione dell'Is ha imposto anche un nuovo programma scolastico e ha stabilito la separazione tra studenti e studentesse nelle classi e nelle università. Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti hanno già condannato l'Is per le stragi e le violenze imposte a Sirte. mentre il governo di Tobruk chiede alla Lega araba di colpire militarmente i miliziani islamisti ed esorta il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a revocare il divieto di fornire armi all' esercito libico, un divieto imposto dopo la caduta di Gheddafi. n capo delle forze armate del governo ufficiale di Tobruk, il generale Khalifa Haftar, ribadisce che l'esercito fedele al governo non dispone di armi a sufficienza per contrastare ijihadisti dello Stato islamico a Sirte. Secondo il leader dei Fratelli musulmani libici Bashiral Kubti, invece, le notizie da Sirte sono state volutamente esagerate proprio per giustificare un intervento straniero in Libia. Del 25/08/2015, pag. 1-2 La bolla, il contagio e l'ultima incognita DAL NOSTRO CORRISPONDENTE FEDERICO RAMPINI NEW YORK QUASI come nel 2008, un vento di panico travolge le Borse di tutto il mondo. L'epicentro della crisi è cambiato rispetto a 7 anni fa, stavolta non è l'America ma la Cina. Lo scoppio della bolla speculativa di Shanghai moltiplica i timori sulle conseguenze per l'economia reale. La frenata della crescita cinese ha già contagiato pesantemente tutte le altre economie emergenti. Le svalutazioni competitive si susseguono, e i danni ora lambiscono l'Occidente. IL LUNEDI NERO PARTE DA ORIENTE Dopo il venerdì nero che aveva visto un tracollo di oltre 500 punti nell'indice Dow Jones (a -3 ,58%) e perdite settimanali del 7% sulle piazze europee,le avvisaglie di una giornata drammatica arrivano ancora una volta da Oriente. Alla riapertura della settimana Tokyo e Taiwan, Singapore e l'India, l'Australia e la Nuova Zelanda sono risucchiate nel vortice dell'economia cinese, con cui tutte hanno forti legami d'interdipendenza. Ancora una volta i giochi si decidono a Shanghai, dove il listino frana dell'8,5%. Dall'inizio di questa crisi, in un mese la principale Borsa cinese ha perso il 40%. E' quindi il peggiore crac dopo quello del 2007 -2008. IL DIRIGISMO CINESE NON BASTA A diffondere la paura c'è anche un non-evento. E' il mancato funzionamento di quella "rete di - 10% protezione" pubblica messa in piedi tre settimane fa dal presidente Xi Jinping. I trader di Shanghai, Shenzhen e Hong Kong l'avevano chiamata "la squadra nazionale", con un accento patriottico che tradiva la fiducia in un governo onnipotente. La "squadra nazionale" è un cordone di emergenza composto di banche pubbliche, enti di Stato, fondi pensione, con dietro generosi finanziamenti d ella banca centrale cinese. L'ordine di scuderia: comprare azioni sul mercato per compensare le vendite del popolo dei piccoli risparmiatori. La "squadra nazionale"' ha eseguito le direttive del governo, ma si è rivelata impotente di fronte alla paura di massa. Se la diga del dirigismo cinese non regge di fronte all'onda di piena della psicosi delle vendite, che cosa rimane? Il mondo intero se lo 15 chiede: dall'inizio di questa crisi sino-centrica le Borse globali hanno bruciato 5.000 miliardi di dollari di capitalizzazione. Il governo di Pechino tenta di rassicurare i propri cittadini e il resto del mondo sulla tenuta della propria economia reale, conferma che quest'anno sarà raggiunta una crescita del 7% del Pil. Circolano stime private che parlano di una crescita reale molto inferiore, forse la metà. Di fronte a queste preoccupazioni perfino il cessato allarme tra le due coree ha lasciato indifferenti i mercati. IL PETROLIO Al MINIMI COME NELLA GRANDE CRISI Seguendo l'apertura delle Borse in base ai fusi orari, il lunedì nero si estende rapidamente al Golfo Persico e al Medio Oriente, dove ad affondare i listini di Dubai e Ryad contribuisce un fattore aggiuntivo: è il crollo del petrolio. Il prezzo del greggio scende perfino sotto i 40 dollari al barile, anche questo è un livello che ricor-da la grande recessione del2007- 2008. Oggi come allora, la caduta delle materie prime si trasforma da una manna in una maledizione . Certo per i paesi consumatori di energia è un beneficio la riduzione della bolletta petrolifera. Salvo che in questo caso - proprio come accadeva sette anni fa- dietro il calo del petrolio c'è sia un eccesso di offerta (buona cosa per noi consumatori) sia una debolezza della domanda. Questo secondo fattore si estende a tutte le materie prime come minerali e metalli. Meno domanda uguale minori consumi. Il potere d'acquisto dei paesi emergenti si riduce. E' l'altra faccia della deflazione, quella perversa: s'impoveriscono tutti quei mercati dove il made in Italy (e più in generale tutte le industrie occidentali) hanno cercato e trovato sbocchi negli ultimi anni. Da attendersi, ben presto, anche le ripercussioni politiche? Non va dimenticato che la depressione del 2008 generò, tra l'altro, le primavere arabe. EUROPA VASO DI COCCIO Le Borse del Vecchio continente alla loro riapertura seguono il copione dettato dalla Cina. Ai minimi delle sedute le perdite a Londra, Francoforte e Milano sono dell'ordine del 7%, le chiusure segnano in media meno 5% con Milano che sfiora il 6%. Ad accentuare le paure dell'Europa c'è una specificità valutaria. Quasi un crudele accanimento contro quella parte del mondo che è ancora convalescente dalla grande crisi del 2008. Sta di fatto che da quando la Cina ha iniziato a svalutare la sua moneta, il renminbi oyuan, l'euro ha cominciato a rafforzarsi perlina sul dollaro. Pessima cosa per i paesi esportatori, ma soprattutto per Italia Francia Spagna cioè quelle economie dove le imprese hanno spesso basato la loro competitività sui prezzi (la Germania è un po' meno vulnerabile perché la forza delle sue esportazioni risiede soprattutto sulla qualità tecnologica). Ma perché mai la svalutazione del renminbi fa salire l'euro? Due risposte. Primo, perché il valore delle monete è relativo: stanno crollando quelle di tutti i paesi emergenti che per forza seguono la Cina; i capitali che fuggono dai Brics devono pure investirsi altrove. Secondo, questa crisi sta mettendo in dubbio il rialzo dei tassi americani che aveva sospinto in su il dollaro. L'euro dunque rimane stretto in una morsa implacabile che lo rafforza. Proprio quando l'economia europea avrebbe bisogno di una moneta debole. Si spiega così che la crisi cinese sia stata al centro del vertice di ieri tra Angela Merkel e François Hollande: il vaso di coccio. WALL STREET LIMITA (UN PO') l DANNI San Paolo L'apertura delle Borse americane è al cardiopalmo. L'indice Dow Jones arriva a perdere mille punti in corso di seduta. E' ormai "panic selling" nel gergo tecnico, una di quelle vendite irrazionali in cui la psicologia delle folle diventa più importante dell'economia Alla fine riappaiono un po' di compratori e Wall Street ridimensiona le sue perdite, che restano comunque ragguardevoli: questo agosto 2015 passerà alla storia come il peggior mese dopo il novembre 2008, in quanto a crolli in Borsa. Lo stato d'animo degli investitori è tale che la Cnbc (la più guardata delle tv specializzate nella finanza) manda in onda "Otto a:r se da sapere in un mercato-orso"'. Si definisce "orso"' un ciclo di ribassi che fa perdere oltre il20% del valore azionario. Non ci 16 siamo ancora- in 18 mesi Wall Street ha perso dai massimi oltre il 10% che in gergo è una "correzione"' - ma la Cnbc prepara i suoi spettatori al peggio. LA CASA BIANCA VIENE "INFORMATA" Barack Obama riceve i suoi consiglieri economici per un "briefing"' sull'emergenza dei mercati e la situazione cinese. D Tesoro Usa fa sapere che "vigila da vicino"'. Il portavoce della Casa Bianca,Josh Earnest, fa una dichiarazione ufficiale rivolta a Pechino: «La Cina continui le riforme di mercato rivolte alla flessibilità del cambio». Poi ne aggiunge una per gli investitori nazionali: «L' economia americana oggi è ben più solida che nel 2008». Sulla seconda non c'è alcun dubbio, oggi l'America è la più solida tra le economie mondiali. Forse l'unica ad avere ancora un ruolo. Ma la prima affermazione? Qualcuno dubita che sia opportuno auspicare la flessibilità del renminbi: in questa fase le forze di mercato lo spingono sempre più giù. A dar ragione al portavoce di Obama, però, c'è questo fatto: all'origine dei problemi attuali per l'economia cinese ci fu quel prolungato aggancio del renminbi al dollaro, che portò a una rivalutazione (con perdita di competitività). Se Wall Street limita le perdite in chiusura di seduta, è comunque per un'altra ragione: si rafforza la speranza che la Federai Reserver invii l'aumento dei tassi d'interesse. Fino a poche settimane fa una mini-stretta monetaria era considerata inevitabile. Ma adesso la gelata che arriva da Oriente può rimettere in discussione i programmi della Fed E la Borsa ama il credito facile, il denaro a tasso zero .. FIDUCIA A XI JINPING Un altro elemento inquietante del lunedì nero è proprio quel che esce dal vertice franco-tedesco. Sia la Merkel che Hollande abbondano nelle manifestazioni di fiducia verso Pechino. Testualmente, la cancelliera tedesca si dice sicura che "'la Cina troverà le risposte giuste ... E' già abbastanza singolare che i destini della crescita europea siano appesi alla capacità di stabilizzazione di un regime autoritario. E quali sarebbero le "'risposte giuste"', nel caso della Cina? Era ancora in carica Hu Jintao, il predecessore di Xi Jinping, quando Pechino dovette affrontare il pericolo di una recessione nel 2008, perché la depressione americana ed europea decurtarono le esportazioni made in China. Nel2009 il governo cinese varò una maxi-manovra di investimenti pubblici analoga a quella varata da Obama (e mai varata in Europa). I risultati furono positivi -la Cina non flnì in recessione- ma con qualche eredità negativa. Nel boom di investimenti pubblici, in particolare edilizia e grandi opere, ci sono alcuni germi della bolla speculativa che oggi è scoppiata. Se Pechino non vuole ripercorrere la stessa strada, che risposta rimane? La svalutazione è un'arma ben collaudata per rilanciare la crescita, ma a condizione che il contesto esterno sia favorevole, cioè che ci sia una domanda vigorosa sui mercati di sbocco stranieri. Non è il caso attuale, con l'unica eccezione del mercato Usa. LE INCOGNITE FUTURE. I timori più fondati devono riguardare l'economia reale, non le Borse. Rialzi e ribassi sono fisiologici in Borsa, e non mancano gli argomenti per sostenere che diversi mercati azionari (dagli emergenti agli Usa) fossero arrivati a livelli troppo alti. n problema vero è quel che accade all'occupazione e ai redditi delle famiglie. E anche su questo fronte, non tutti sono sullo stesso piano. La Cina è reduce da un quarto di secolo di boom, se questo rallentamento rimanesse controllato potrebbe essere un "'atterraggio morbido H verso una crescita sostenibile. Di certo la leadership cinese sta fronteggiando un test che non ha precedenti dai tempi di Piazza Tienanmen ( 1989) anche per le incognite sulla tenuta politica e sociale. L'America, reduce dai sei anni di crescita, può anch'essa permettersi una battuta d'arresto. Tutt'al più una recessione americana manderà alla Casa Bianca un repubblicano? Se fosse Donald Trump il mondo intero avrà di che divertirsi fino al 2020 ... La situazione di gran lunga più drammatica è quella dell'Eurozona. Dalla crisi del2008 il Vecchio continente è l'unica area del mondo a non avere ancora conosciuto una ripresa. 17 Dopo lo shock scatenato sette anni fa da Wall Street, le ricette decise a Berlino e a Bruxelles hanno generato altre due ricadute in recessione. Del vertice Merkel-Hollande di ieri l'aspetto più drammatico è l'attesa che la Cina faccia qualcosa. E' come se l'Europa abbia cessato di considerarsi padrona del proprio destino. Come se le tempeste dell’economia globale fossero delle calamità naturali, troppo potenti per essere contrastate. E' in una fase come questa, quando vengono meno i motori di sviluppo dei paesi emergenti, che l'Europa dovrebbe riempire un vuoto. Non ci sono segnali che questo stia per accadere. Del 25/08/2015, pag. 9 Quella sovrabbondanza infinita che destabilizza l’economia globale Paul Krugman, “C’è una grande bolla di risparmio che da più di dieci anni si sposta da un’area all’altra perpetuando l’instabilità finanziaria” Che cosa ha provocato il crollo improvviso delle Borse? Che cosa implica ciò per il futuro? Nessuno lo sa, e non è un buon segno. I tentativi di spiegare le oscillazioni quotidiane delle Borse sono in genere sprovveduti: un sondaggio condotto in tempo reale nel 1987 sul crack delle Borse non riscontrò alcuna prova che avallasse le spiegazioni che gli economisti e i giornalisti avrebbero addotto a posteriori, scoprendo invece che la gente vendeva azioni perché – l’avrete già capito – i prezzi erano in calo. Il mercato azionario, per di più, è una guida tremenda per presagire il futuro dell’economia: Paul Samuelson una volta scherzò dicendo che il mercato aveva previsto nove delle ultime cinque recessioni. E su quel fronte niente è cambiato. Tuttavia, gli investitori sono ovviamente nervosi. E a buon motivo. Negli ultimi tempi le notizie di economia provenienti dagli Stati Uniti sono state buone, anche se non eccellenti, ma il mondo nel suo complesso pare ancora significativamente propenso agli infortuni. Da sette anni (e chissà per quanti altri ancora) stiamo vivendo in un’economia globale che procede barcollando da una crisi all’altra: ogni qualvolta una regione del mondo sembra finalmente rimettersi in sesto, ecco che subito un’altra inizia a traballare. E l’America non può certo isolarsi del tutto da queste calamità globali. Ma perché l’economia continua a incespicare? A prima vista, si direbbe che ci siamo imbattuti in una considerevole quantità di sfortuna. Prima c’è stata la bolla immobiliare, che ha innescato la crisi delle banche. Poi, proprio quando il peggio sembrava passato, l’Europa è entrata in una crisi debitoria e in una recessione che di fatto è una double-dip, una doppia recessione. Alla fine l’Europa ha raggiunto una stabilità precaria e ha ripreso a crescere, ma ecco che in Cina e in altri mercati emergenti, che in precedenza consideravamo solidi pilastri, vanno affiorando grossi problemi. Ricorderete che più di dieci anni fa Bern Bernanke sostenne che l’impennata del deficit commerciale statunitense non era il prodotto di fattori interni, bensì di una “global saving glut”, che potremmo chiamare una “bolla globale di risparmio”: in pratica, una sovrabbondanza di risparmi sugli investimenti in Cina e in altre nazioni in via di sviluppo, trainata in parte dalle reazioni politiche alla crisi asiatica degli anni Novanta che stava arrivando negli Stati Uniti alla ricerca di profitti. Bernanke si preoccupò un poco per il fatto che l’afflusso di capitali non era convogliato in investimenti alle imprese, bensì nel settore immobiliare. Ovviamente, avrebbe dovuto preoccuparsi molto di più (come fecero alcuni di 18 noi). Tuttavia, la sua supposizione secondo la quale il boom immobiliare negli Usa era almeno in parte causato dalla debolezza delle economie estere appare tuttora valida. Naturalmente, il boom divenne una bolla, e quando scoppiò la bolla inflisse danni enormi. Ma c’è dell’altro, la storia non finì lì. Ci fu anche un flusso di capitali dalla Germania e da altri Paesi dell’Europa settentrionale in direzione di Spagna, Portogallo e Grecia. Anche questa si sarebbe rivelata una bolla, e quando la bolla scoppiò nel 2009-2010 accelerò la crisi dell’euro. No, no, la storia non finisce nemmeno a questo punto. Non essendo più America ed Europa destinazioni allettanti, l’eccesso globale di risparmio andò alla ricerca di altre bolle da gonfiare. E le trovò nei mercati emergenti, spingendone le valute ad altezze insostenibili, per esempio il real brasiliano. Tutto ciò non poteva durare, e di fatti non è durato: ci troviamo ora nel bel mezzo di una crisi dei mercati emergenti che ad alcuni osservatori ricorda la situazione degli anni Novanta in Asia. Sì, proprio la stessa dalla quale ha avuto tutto inizio. E dunque: in quale direzione si sposterà l’indicatore della sovrabbondanza? Che domande! Di nuovo verso l’America, dove un afflusso fresco fresco di capitali stranieri ha spinto il dollaro al rialzo, minacciando ancora una volta di rendere non competitiva la nostra industria. Che cosa provoca questa sovrabbondanza globale? Probabilmente, un mix di fattori diversi. La crescita della popolazione sta rallentando in tutto il mondo, e malgrado tutto il gran parlare di tecnologia non sembra proprio che essa stia creando una produttività in eccedenza o una grossa domanda di investimenti delle imprese. L’ideologia dell’austerità, che ha portato a una debolezza della spesa pubblica senza precedenti, ha aggravato ancor più il problema. E per finire, la bassa inflazione in tutto il mondo – che significa bassi tassi di interesse anche quando le economie sono in piena espansione – ha ridotto al minimo i margini per tagliare i tassi quando le economie subiscono un crollo rapido e improvviso. A prescindere da qual è il mix preciso delle varie cause di questo fenomeno, ciò che più conta adesso è che i policy-maker prendano sul serio la possibilità, che chiamerei probabilità, che la nuova normalità sia questa: risparmi in eccedenza e debolezza globale persistente. Ho la sensazione che vi sia una ben radicata mancanza di volontà, perfino tra i funzionari più autorevoli, ad accettare questa realtà. E credo che vi sia anche una sorta di pregiudizio irrazionale contro il concetto stesso di sovrabbondanza globale. Politici e tecnocrati la pensano nello stesso modo: vogliono essere considerati persone serie che prendono decisioni difficili e che scelgono, per esempio, come tagliare programmi popolari e aumentare i tassi di interesse. A loro non piace sentirsi dire che viviamo in un mondo nel quale politiche apparentemente severe non faranno che peggiorare le cose. Eppure è così, e le cose andranno di male in peggio. 19 INTERNI Del 25/08/2015, pag. 5 Chiesa e centrodestra all’attacco del ddl Cirinnà Unioni civili. Delrio: «Il governo tira dritto». Ma Bagnasco ribadisce il no al testo. E nasce una polemica sull’«utero in affitto» Da una parte ci sono gli annunci del premier Matteo Renzi e dei suoi ministri che assicurano l’approvazione entro la fine dell’anno del disegno di legge Cirinnà sulle Unioni civili. Dall’altro le parole del presidente della Cei il cardinale Angelo Bagnasco, che dopo lo stop dato nei giorni scorsi ieri ha ribadito ancora una volta la contrarietà della chiesa al provvedimento. In mezzo gli alfieri della crociata contro l’ equiparazione di diritti tra coppie etero e omosessuali, i parlamentari di Area popolare — primi fra tutti quelli del Ncd di Alfano — ma anche un Pd per niente compatto e convinto sul ddl, al punto che anche tra le sue fila è possibile contare qualche parlamentare incerto sul da farsi. Non accenna certo di diminuire la polemica intorno al ddl Cirinna, che anzi vede la strada per la sua approvazione (il provvedimento è in commissione Giustizia del Senato) sempre più in salita. Le unioni civili non possono essere omologate alla famiglia «perché sono realtà diverse: bisogna riconoscere la diversità delle realtà e trattare le singole realtà secondo la concreta situazione. Omologare automaticamente mi pare che sia contro la logica», ha ripetuto ieri il cardinale Bagnasco definendo «polemiche che non aiutano» gli interventi di quanti hanno letto le sue parole come un’ingerenza da parte della chiesa nel dibattito politico del Paese. «Nessuno può fare delle ingerenze — ha proseguito Bagnasco -: tutti devono portare il proprio contributo rispettando la responsabilità di ciascuno». Il problema è che più che contributi alla discussione, sul ddl stanno piovendo massi destinati a fermare del tutto l’iter della legge. Ieri il ministro Graziano Delrio ha garantito ancora una volta l’impegno del governo a voler andare avanti con l’esame del testo, pur assicurando l’ascolto di tutte le posizioni presenti in parlamento. Più che sufficiente per scatenare le reazioni di una destra che di confrontarsi non ne ha nessuna voglia. E che anzi preferisce dettare lei le regole del gioco. Così Paola Binetti (Ap) ha subito chiesto a Renzi di ritirare il ddl Cirinnà (a proposito di dialogo), seguita dal collega Alessandro Pagano che ha chiesto di sostituire il testo in discussione con la proposta di legge firmata da lui e Maurizio Sacconi sui diritti individuali dei conviventi. Il che per essere chiari significherebbe «no all’equiparazione al matrimonio, no all’adozione gay e no all’orrenda pratica dell’utero in affitto», come ha spiegato la stesso Pagano. Questa dell’«utero in affitto»(in realtà si chiama gestazione di sostegno, ma a destra preferiscono involgarire il linguaggio) è un’altra della motivazioni che i parlamentari di Area popolare accampano nel tentativo di bloccare il ddl Cirinnà. Il senatore Gaetano Quagliarello ha proposto di abolirla per legge, sicuro che poi si troverebbe un’intesa sulle unioni civili. E subito Eugenia Roccella, deputata anche lei di Ap, ha proposto un emendamento al ddl sulle unioni civili che «ne modifichi profondamente l’impostazione». In realtà nel testo in questione è prevista la stepchild adoption, ovvero la possibilità di adottare il figlio del partner, ma nessun via libera all’adozione per i gay né alla gestazione di sostegno. Come conferma il senatore Felice Casson, vicepresidente della commissione Giustizia del Senato che a settembre riprenderà l’esame del testo. «Sono scuse per bloccare il ddl, come ha spiegato più volte in commissione la relatrice del testo», dice. «Chi fa queste affermazioni o non conosce affatto la legge oppure è in malafede». 20 Del 25/08/2015, pag. 13 Capitale sede vacante e nei giorni della bufera Marino scrive memorie tra il Texas e i Caraibi Più che colpevole, assente. In città infuriano le polemiche ma il sindaco rimane oltreoceano dove sta ultimando un libro sui suoi primi due anni in Campidoglio. Non tornerà neanche giovedì quando in Consiglio dei ministri si discuterà la sorte del Comune di FRANCESCO MERLO È così irrilevante che ormai anche le sue dimissioni sarebbero insignificanti. Si è perciò nascosto ai Caraibi per scrivere le sue memorie, libro dei sogni e canto del pastore errante. Ignazio Marino potrebbe rubare il titolo al film dei Fratelli Coen: L'uomo che non c'era. È infatti il loser che mai sta dentro la sua vita, "quella vita - dice il Marino del film che mi ha servito delle carte perdenti o forse non le ho sapute giocare, chissà". Dunque è drammaticamente ovvio che il sindaco-scrittore non sarà presente neppure giovedì prossimo quando il Consiglio dei ministri parlerà di lui ed esaminerà la monumentale relazione del prefetto Gabrielli, la cartografia e la sinossi di mafia capitale, il caso Roma insomma che, purtroppo, non ha la leggerezza fatua e struggente del caso Marino. Ha detto Renzi ad Orfini: "Il sindaco è l'assente che non si può cacciare". Speriamo che questa scrittura gli serva almeno come terapia perché davvero somiglia al barbiere di quel film che "non c'era soprattutto quando c'era". Almeno adesso nel non esserci Marino ha la scusa dei Caraibi "dove il sole è più sole che qua...". Sempre l'altrove di Marino è quello delle canzoni e della commedia all'italiana, esotismo e fusi orari. Quando a Roma è mezzogiorno di fuoco lui dorme, come Paperino ad Honolulu che Paperone non poteva raggiungere perché l'uno si alzava quando l'altro si coricava. Dunque, dopodomani mattina quando di giorno a Roma il Consiglio dei ministri parlerà di lui, Marino scriverà di sé nella notte del Golfo del Messico, "mio diletto amore / non tramonta il sole / al Tahiti Bar". Marino scrive. Da quando è sindaco ogni sera ha preso appunti su quadernetti di colore diverso: il nero per la mafia che non ha visto, il rosso per la rivoluzione che ha promesso, il giallo per i viaggi e per le fughe, il grigio per i giornalisti cattivi, l'arcobaleno per gli incoraggiamenti che ha ricevuto all'estero "dove - mi confidò - mi capiscono e mi applaudono per le stesse ragioni per cui a Roma mi fischiano". Per la verità nel novembre del 2014, quando scoppiò la rivolta della periferia di Tor Sapienza contro gli immigrati, il primo cittadino, che nei comizi elettorali aveva promesso di "trasformare Roma nella città dell'accoglienza", non si accorse di nulla e addirittura l'indomani mattina, mentre infuriava lo scontro, sempre più sconnesso con la realtà volò a Londra (...) E ritirava una laurea ad honorem a Philadelphia nei lunghi giorni di ordinaria follia quando l'intera Roma inseguiva i tre rom che a Primavalle, su un'auto pirata, avevano travolto sette persone e ucciso sul colpo una povera donna. E quando i vigili urbani si diedero tutti insieme malati e scoppiò la rivolta dei certificati falsi, Marino era e rimase a Boston. Anche adesso è negli Stati Uniti, di nuovo a indignarsi attraverso Facebook: "Sono solo contro la mafia". E ha polemizzato con la prefettura e con la questura con post, telefonate, messaggi in bottiglia e lettere dall'esilio. Anche di quel crimine estetico che è stato il funerale dello zio Casamonica ovviamente Marino non ha nessuna responsabilità. Certo, ha mancato gli aerei di ritorno, ha dimenticato che giovedì la sua Roma entrerà in sala operatoria per un intervento a cuore 21 aperto, ma di nuovo è innocente, proprio come il barbiere dei fratelli Cohen che diceva di sé: "Sono un fantasma, non vedo nessuno e nessuno vede me". Diciamo la verità, nella storia politica di Roma non c'era mai stata una vacanza di governo, un vuoto, un vacuo, un'assenza così candida come quella di Marino, marziano con la bici al posto dell'astronave, mai perseguito per qualche delitto ma sempre deriso per tutte le goffaggini, americano a Roma, sindaco delle buche, della sporcizia e del degrado epocale della capitale e ora anche scrittore autoenciclopedico, una nuova e inaspettata maschera romana, un incrocio tra Pierrot e Meo Patacca. "Se rimane Marino in tre anni se magnamo Roma" aveva profeticamnete detto Buzzi, che de Roma è er capomafia. Marino non s'era accorto che la Roma che lui non riusciva a governare era diventata "a mucca che amo munto tanto" né che i consigli comunali e le giunte "devono stare ai nostri ordini perché li pago e vaffanculo". Non vedeva nulla ma intanto per scappare dalle Iene televisive cadeva dalla bici e mentre gridava ai giornalisti che aveva "cose ben più importanti di cui occuparsi" sbatteva la testa sullo stipite. Certo, non c'entra con quel funerale ma l'estetica dei Casamonica è la stessa di er Batman e delle famose feste con le teste di maiale. La volgarità pacchiana e funeraria del clan degli estortori e degli usurai è parente stretta di quella esibita nelle feste private e celebrata come un cult dal Cafonal di Dagospia... E come dimenticare la foto dei porci che grufolavano felici tra i cassonetti nel rione semiperiferico di Boccea? Lo stile di Roma è quello documentato da www.romafaschifo, con i ratti che hanno invaso il quartiere Prati, con le foto delle persone che defecano a cielo aperto dentro la stazione Termini... Casamonica più che zingarismo è neo romanesco, lo stile greve da cui gli italiani vorrebbero ormai allontanarsi, quello stesso che domina nei programmi televisivi. Marino colpevole? No, assente. Al punto che in Texas potrebbe restarci sino a Natale e nessuno se ne accorgerebbe a parte i vignettisti e gli autori di satira che, comunque, sono anch'essi in difficoltà perché Marino è oltre l'ironia di Longanesi sul non esserci, sul non accorgersi e sull'arrivare tardi: "Spiacenti, il nostro inviato speciale si è perduto per causa pioggia". Perciò è insignificante chiedere che Marino si dimetta. Più chiaramente: la campagna per le sue dimissioni che la destra, al di là della demagogia, conduce con molte ragioni, è senza senso politico. Roma infatti è già senza governo, la città è esausta e non può certo permettersi le elezioni durante il Giubileo. E l'idea del commissariamento per mafia, con qualsiasi formula venisse mascherato, è improponibile per la capitale d'Italia. Non può arrivare a tanto il lungo oltraggio che la politica ha commesso contro la città più bella del mondo, rendendola via via corrotta, infetta, ladrona e da ultimo anche mafiosa. Scavalcato, messo tra parentesi, trattato con alzate di spalle e sguardi al cielo, Marino è commissariato sì, ma all'italiana: svuotato, reso superfluo e caraibico, espatriato in patria. Dunque Matteo Orfini gli fa da tutore politico. Franco Gabrielli, al suo posto, si occuperà del Giubileo. Malagò presidia la chimera delle Olimpiadi. La fiaccola della passione civile, di cui Marino fu tribuno di Roma, è passata nelle mani del Papa. E si sa che su Roma il consigliere all'orecchio di Renzi è Francesco Rutelli. Certo, l'ideale sarebbe stata quella legge speciale che proponemmo già nello scorso giugno per sottrarre Roma al Campidoglio e affidarla allo Stato, come Berlino e come Washington. Il commissariamento all'italiana invece è l'ultima stravaganza andreottiana, è la politica fatta di nascosto, è il gioco delle ombre: The Man Who Wasn't There . 22 Del 25/08/2015, pag. 14 Senato, sfida del governo ''Troppi emendamenti andremo subito in aula" Il sottosegretario Pizzetti sulle 513 mila richieste di modifica "Paralizzerebbero la commissione, prospettiva inaccettabile" GIOVANNA CASADIO La montagna di emendamenti alla riforma che trasforma il Senato non si scala, si abbatte. Il governo ha deciso di portare il disegno di legge Boschi direttamente in aula, perché 513 mila proposte di modifica consegnate, catalogate, stampate in commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama sono una mole insostenibile. Spiega Luciano Pizzetti, il sottosegretario de m alle Riforme che segue la partita del nuovo Senato: «È d'obbligo andare in aula subito, non c'è alternativa. Diversamente resteremmo per mesi e mesi impegolati nell'ostruzionismo degli emendamenti in commissione». La decisione è già presa. «Certo - aggiunge il sottosegretario- il tentativo è quello di un appello alla ragionevolezza e alla responsabilità, affinché ci si concentri su pochi emendamenti significativi». Diversamente in aula su può applicare il cosiddetto "canguro" che consente di accorpare gli emendamenti. Ne sono stati perora depositati e da discutere in commissione a settembre 513 mila e 450: un record. Solo la Lega ne ha presentati 510 mila, Forza Italia 1.075, Sei 1.049 e via via a decrescere fino ai 194 dei 5Stelle e 63 del Pd. Nelle 63 modifiche dem, 17 sono della minoranza e rimettono in discussione il pilastro fondamentale della riforma e cioè che il Senato delle autonomie non sarà eletto nelle urne dai cittadini bensì vedrà sui suoi scranni 21 senatori-sindaci e 75 senatori-consiglieri regionali. Pizzetti chiarisce che su questo punto non c’è discussione possibile, è «il fatto fondamentale». Le opposizioni, ma anche la minoranza Pd, aspettano al contrario che il presidente Grasso dica la sua sull'ammissibilità degli emendamenti che permetterebbero di ridiscutere la questione, riaprendo l'esame dell'articolo 2. Chiusura del governo quindi sull'elezione diretta dei nuovi senatori. Ma un'apertura c'è. Riguarda le funzioni ridotte allumi cino del nuovo Senato. I funzionari del Servizio studi di Palazzo Madama lo hanno sottolineato nel dossier in cui fanno le pulci alla riforma. Pizzetti ammette: «Gli interventi fatti sul testo alla Camera sono stati peggiorativi. Però questo è stato dovuto all'alleanza di parte d ella minoranza del Pd con le opposizioni, Palazzo Chigi apre a ritocchi delle competenze. "Ma è stata la minoranza pd alla Camera a peggiorare il testo" 1'8 agosto 2014, la Camera ha dato l'ok 1'11 marzo 2015. in particolare con Forza Italia». Cosa succederà allora? «Sulle funzioni e le competenze del Senato che verrà occorre recuperare l'architettura precedente su funzioni e garanzie», prevede il sottosegretario. Loredana De Petris, di Sei. boccia l'intero impianto: «Sembra un regolamento di condominio, è il caos sul procedimento legislativo ». Miguel Gotor, tra i 25 senatori dem dissidenti, parla di uno sconquasso con le funzioni rimaste al Senato: «Cose che potrebbe fare la Conferenza delle Regioni...». La riforma è un risiko e il governo lo sa. 23 Del 25/08/2015, pag. 15 Salvini avverte Berlusconi "Sì alle primarie" Caos Forza Italia Centrodestra sempre più diviso Tra i forzisti cresce la fronda che vuole le consultazioni interne ROMA. Matteo Salvini sfida Silvio Berlusconi. Dopo il polverone, "primarie sì o primarie no", che ha diviso il leader di Fi dal consigliere politico Giovanni Toti, il segretario del Carroccio - intervistato dal Tg3 - detta tempi e modi alla coalizione di centrodestra «La Lega Nord è favorevole alle primarie di centrodestra, sia a livello nazionale che per le candidature alle prossime comunali nel 2016 perché -afferma Salvini -non è più tempo d i deciderle più nel buio d i qualche stanza». Dunque, nel centrodestra la partita si riapre. Un intervento, quello del segretario della Lega, che spariglia i giochi all'interno di Forza Italia e gela l'ex premier, ancora in vacanza a Villa Certosa insieme a i familiari. Questa volta il leader del Carroccio sembra avere gioco più facile nel braccio di ferro con il leader forzista. Già domenica, a differenza del copione classico, non si era registrato un coro unanime pro Berlusconi. Gli unici ad essere d'accordo con il leader di Fi sono stati Altero Matteoli e Gianfranco Rotondi. Quest'ultimo ha messo nero su bianco: “Dopo il fallimento delle primar ie a sinistra perché Berlusconi dovrebbe rischiare di tuffarsi nel pantano dei gazebo? Berlusconi ha ancora il carisma per mediare tra Lega, Forza Italia e il centro della coalizione. l candidati vincenti ci sono in tutte le città». Sotto strada, però, cresce il malumore di diversi parlamentari: «Non siamo in pochi ad essere per le primarie», sussurano. La maggioranza degli azzurri propende per le primarie per la selezione dei candidati alle amministrative del 2016. Chi non si nasconde è la deputata siciliana Gabriella Giammanco che senza giri di parole dice: «Sono favorevole perché mi sembra una buona occasione per coinvolgere e motivare gli elettori di centrode-stra ai quali si potrebbe anche chiedere d i offrire spunti e proposte di programma». Sulla stessa lunghezza d'onda il senatore Augusto Minzolini: «Le primarie sono un meccanismo obbligato perché non ci sarà accordo all'interno della coalizione ». E in questa occasione anche il Mattinale di Renato Brunetta, che solitamente interpreta l'ortodossia azzurra, apre alle consultazioni p re-amministrative: «Bisogna ritrovar-si per stabilire regole di combattimento: non tra noi ma contro l'avversario. E le primarie, di cui siamo stati i primi a denunciare i limiti, sono uno strumento su cui è bene discutere come extrema ratio quando si rischi di non trovare la quadra. Nessun dogma, ma duttile ragionevolezza ». Per molti la sfuriata di Berlusconi è una sorta di ripicca al protagonismo di Salvini che aveva già candidato Lucia Bergonzoni a sindaco di Bologna, senza interpellare gti alleati azzurri. Ma al netto di Forza Italia, gli altri pezzi di centrodestra convergono con le posizioni di Salvini. Dopo l'intervista di ieri a Repubblica, Raffaele Fitto, leader dei Conservatori e riformisti, torna sulla questione e plaude al segretario del Carroccio: «Da mesi. e ancora stamattina, ho lanciato un appello per le primarie. Dopo il grave errore di Berlusconi, che lo isola, sono molto lieto della risposta positiva di Matteo Salvini. Ora si apra una sfida positiva nel centrodestra». Gli fa eco un'altra stampella della coalizione. Dice Flavio Tosi, sindaco di Verona e leader di Fare: “Al centrodestra, per riavvicinarsi alla gente e tornare ad ascoltare davvero il Paese servono le primarie, anche perché i cittadini hanno diritto di sceglierei! proprio leader e la squadra”. 24 Del 25/08/2015, pag. 29 IL RISVEGLIO TARDIVO DELLA MINORANZA PD STEFANO RODOTÀ NEGli ultimi tempi stiamo assistendo ad un crescendo di dichiarazioni da parte di studiosi e commentatori che definiscono la linea politico- istituzionale di Matteo Renzi plebiscitaria, presidenzialista, autocratica, da uomo solo al comando .. autoritaria. Quel che colpisce in queste dichiarazioni è che spesso provengono da persone che, quando nel marzo dell'anno scorso alcuni si permisero di mettere in guardia contro il rischio della nascita di un sistema autoritario, si stracciarono le vesti, gridarono all'intollerabile forzatura, mostrando ua l'altro di non conoscere la distinzione tra "autoritario"' e"totalitario". Si potrebbe essere soddisfatti di queste tardive resipiscenze, se non fosse che in politica i tempi contano per chi agisce e per chi discute. Non è irragionevole pensare che la tempestiva creazione di un fronte culturale critico avrebbe potuto ind irizzare le riforme istituzionali verso risulta ti più accettabili considerando che erano venute proposte che andavano oltre il muro contro muro. L'occasione è stata perduta da parte di quelli che furono silenziosi o compiacenti. Ma pure da Renzi. che aveva a disposizione indicazioni che avrebbero consentito di ridurre il tasso antidemocratico dell' accoppiata tra legge elettorale e riforma del Senato. Grandi le responsabilità della cultura, ma grandi pure quelle di chi, nelle sedi politiche, ha conosciuto un tardivo risveglio. Oggi la minoranza del Pd si è convertita all'intransigenza, si ingegna nel cercare varchi regolamentari nei quali far passare le sue proposte di modifica, ma è stata incapace di mettere a punto una ragionevole strategia nel momento in cui si approvava la legge elettorale e si avviava la lettura del1ariforma del Senato. Di nuovo incapacità di cogliere la rilevanza del tempo in politica. Non basta fare la buona battaglia, bisogna farla al momento giusto. Comunque si valutino le vicende passate, è difficile negare che siamo di fronte ad una modifica del1a forma di governo, non accompagnata, come dovrebbe essere in democrazia, da una adeguata considerazione degli equilibri costituzionali complessivi. Problema non nuovo, perché il funzionamento del sistema era stato già gravemente alterato soprattutto attraverso le varie manipolazioni delle leggi elettorali. L'urgenza vera, allora, dovrebbe essere la ricostruzione di rapporti tra gli organi dello Stato tale da restaurare almeno gli equilibri perduti. Questa strada non è stata neppure presa in considerazione; i suggerimenti di modificare almeno alcuni aspetti del nuovo Senato per recuperare qualche brandello di garanzia sono stati respinti persino con tracotanza. Oggi la residua "battaglia" per tornare solo a ll'elezione diretta dei senatori può essere poca cosa, se non accompagnata da altre modifiche. Siamo in presenza di un effetto a cascata. n Presidente del Consiglio finisce d'essere un primus inter pares e acquista un potere di pieno controllo del Governo. n Governo declassa il Parlamento a luogo di registrazione. La nuova combinazione Presidente del Consiglio-Governo-Parlamento consente al partito di governo, grazie al doppio effetto maggioritario della legge elettorale, di impadronirsi del controllo di organi d i garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale. L'accentramento di poteri così realizzato rende superflua, almeno nelle intenzioni dichiarate dal Presidente del Consiglio, ogni forma di mediazione politicosociale-dei sindacati, degli stessi partiti ridotti a macchine elettorali, delle istituzioni culturali, del sistema dell'informazione e viene così cancellata la rilevanza di quel potere di controllo diffuso nella società che ha sempre giocato un ruolo essenziale nella vita delle democrazie . Proprio negli ultimi tempi. e di nuovo dopo le ultimissime vicende romane, si 25 è lamentata la perdita degli anticorpi civile e sociali che sono indispensabili per contrastare criminalità, corruzione, privatizzazione delle risorse pubbliche, fuga dal dovere di pagar le tasse. Ma quella perdita è andata di pari passo con l'indebolimento degli anticorpi istituzionali, rappresentati persino con ostentazione come un intralcio all'efficienza e alla rapidità delle de- Humpty Dumpty sedeva sul muro Humpty Dumpty cadde giù duro. Qui hanno giocato un ruolo decisivo una cultura politica e una cultura costituzionale che non sono state capaci di declinare quei temi al di là della risposta sbrigativa e pericolosa dell'accentramento dei poteri. Non si sono degnate della minima attenzione le ricerche sulle difficoltà profonde della democrazia, sì che nella proclamata riforma costituzionale manca ogni significativo cenno alla partecipazione e a quella nuova organizzazione dei poteri sociali che va sotto il nome di "controdemocrazia•. Tutto questo ha fatto sì che l'impresa riformatrice goda oggi di una legittimazione decrescente, che si aggiunge ad una delegittimazione più radicale di cui non si è voluto temer conto. Un cambiamento costituzionale così profondo viene realizzato da un Parlamento eletto con una legge dichiarata illegittima. constatazione che avrebbe dovuto almeno indurre alla massima prudenza e a muoversi sempre con il massimo consenso. Acqua passata? Niente affatto, perché si è costituito un precedente per modifiche costituzionali costruite come esercizio della forza. A chi intende trasformare la critica in azione politica si oppone, con sempre maggiore insistenza, un solo argomento. Sta te preparando il terreno propizio al successo di Salvini o di Grillo. Lasciamo da parte la non onorata storia di questo argomento, sempre sospetto di intenti ricattatori. Si deve riflettere, invece, sul modo in cui è stata concepita e attuata l'azione di governo. Non vi sono alternative - si è detto e si continua a dire. Muovendo da questa incerta certezza, si è adoperato il muro contro muro, tutti gli interlocutori critici sono stati considerati nemici. Una strategia che fatalmente erode il consenso per il Governo. La democrazia non può essere separata dall'esistenza di alternative, soffre ogni monolitismo e, quando si rende difficile il dialogo o non si accetta la costruzione di nuovi soggetti, si è responsabili dell'astensione di massa, della democrazia senza popolo. o del rivolgersi a chiunque sul mercato si presenti come alternativa. 26 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 25/08/2015, pag. 12 Gabrielli assolve tutti: non faccio rotolare teste Vietato al clan fare il bis ''Tanti errori, ora nuove regole perché non accada più" Domani altra messa per il boss: proibito qualsiasi show ROMA L'informazione stavolta è arrivata con 48ore di anticipo e non è stata sottovalutata. D'altra parte. dopo che il funerale di Vittorio Casamonica è finito sulle pagine dei giornali di tutto il mondo, non poteva essere altrimenti. Per questo domani, in occasione dell'attavario (la messa a suffragio di un defunto a 8 giorni dalla morte), i Casamonica si dovranno accontentare di una cerimonia «in forma strettamente privata». Così ha disposto il questore di Roma Nicolò D'Angelo in base all'articolo 27 del testo unico di pubblica sicurezza «Non si può vietare un funerale in un luogo di culto», ricorda il vice questore Luigi De Angelis. Ma all'esterno della chiesa {stavolta la più piccola parrocchia di San Girolamo a Casal Morena, Roma sud), non ci saranno carrozze e cavalli ma forze dell'ordine a presidiare il sagrato. Ad annunciare il provvedimento è il prefetto di Roma Franco Gabrielli che ieri ha messo attorno a un tavolo tutti gli attori (assenti per ferie il questore e il sindaco Ignazio Marino) di quella che ha definito «una vicenda gravissima», una «falla», un «wlnus», un «baco » nel sistema informativo che ha consentito ai Casamonica «di fare ciò che volevano». Non tanto «un messaggio mafioso alla città», quanto «un'ostentazione - spiega Gabrielli della capacità del clan di controllare il territorio». Con un'annotazione in più: «Loro stessi volevano far montare la storia sui mass media. Tutti noi siamo stati un loro strumento inconsapevole ». Una cerimonia che preoccupa non solo per la scarsa «sensibilità» con la quale è stata trattata un'informazione che «c'era, seppure in maniera indiretta» e che tutti conoscevano, dai carabinieri alla polizia. Il problema vero in una città che si prepara ad ospitare daU'8 dicembre milioni di pellegrini per il Giubileo di Papa Francesco, è il controllo dei cieli. Perché se sull'elicottero che i120 agosto ha sparso petali di rosa sulla parrocchia di Don Bosco al Tuscolano, ci fosse stato un terrorista «sarebbe stato un problema per tutti», avverte Gabrielli. «Il tema del sorvolo è molto importante e attiene alla sicurezza nazionale- prosegue - ma questi casi si risolvono con un'attività preventiva di intelligence». Quella che è mancata in questa occasione. Per il resto, Gabrielli (che pure ha chiesto a polizia e carabinieri «di svolgere adeguati accertamenti su profili di carattere disciplinare») assolve tutti: «Non sarò io a far rotolare teste. Se necessario lo farà il ministro». Anche perché «tutti hanno seguito a memoria "la libretta", ed è difficile contestare mancanze». È mancata, appunto, la sensibilità. Per questo, secondo l'ex capo della Protezione civile, serve «un cambio di mentalità». Verrà creato un «gruppo di raccordo informativo » che definisca «un ranking delle notizie che servono». Queste, poi, dal livello più basso viaggeranno rapidamente ai vertici per essere analizzate più attentamente, colmando così le lacune della scorsa settimana. Per quanto riguarda i Casamonica, invece, ci sarà una stretta sulle loro attività («Ma non li scopriamo ora. Dal2010 ne abbiamo arrestati 117») e sui controlli sulle case popolari da loro abusivamente occupate (il 27 Campidoglio ne ha individuate una trentina): <(Dobbiamo fare uno sforzo - conclude Gabrielli per dimostrare che non abbiamo paura dell'ambiente criminale. Ma non in un'ottica di legge del taglione. Del 25/08/2015, pag. 22 Il caso Le ruspe nella Valle dei Templi per smantellare 650 case abusive Agrigento, l’intervento dopo 14 anni di rinvii e carte bollate. Ieri abbattuto il primo muretto AGRIGENTO Hanno provato a fermare le ruspe con l’ultima carta da bollo. Sperando che un vizio di forma potesse bloccare la ripresa delle demolizioni nella Valle dei Templi. Un intoppo di due ore, dopo 14 anni e mezzo di pausa. Perché risale addirittura al gennaio del 2001 il primo intervento sulle case abusive nell’area vicina al Parco archeologico. Più di 650 in tutto, come stabilito da sentenze del 1998 perché in una zona tutelata da vincolo di in edificabilità assoluta. Allora intervenne il Genio militare. Ma i soldati andarono via dopo avere abbattuto le prime quattro case, compresa quella di un professore di ragioneria che morì d’infarto a 63 anni. Il resto della storia è un ping pong di lettere e precisazioni, opposizioni e richieste di chiarimenti rimbalzate per tre lustri fra Comune e Regione, Sovrintendenza e Parco archeologico. Con burocrati ogni volta certi che non spettasse a loro l’ultima parola. Un gioco bloccato due mesi fa dal procuratore aggiunto della Repubblica Ignazio Fonzo che con un categorico ultimatum ha inviato tutti a non perdere altro tempo, pena una sfilza di denuncie per omissioni di atti d’ufficio. Ultimatum arrivato al Comune due giorni prima dell’insediamento del nuovo sindaco, Lillo Firetto, l’unico uomo politico sponsorizzato in campagna elettorale da scrittori come Andrea Camilleri e Simonetta Agnello Hornby. E Firetto, che aveva già cooptato come suo assessore il segretario regionale di Legambiente Mimmo Fontana, ha subito aderito con la gara per trovare una ditta disposta ad abbattere le prime 8 costruzioni «con sentenze passate in giudicato». Le prime otto di un gruppo di trenta orrende case ad un chilometro dalle colonne doriche del Tempio di Giunone, su quel Poggio Muscello dove nel 2001 per un paio di giorni comparvero e sparirono i genieri. Giusto il tempo delle riprese Tv e delle zoomate sulle contrade Maddalusa e Cugno Vela dove poi il ping pong di quel carteggio riuscì a fermare il tempo. Fino a ieri mattina, quando i denti d’acciaio della prima ruspa hanno buttato giù il muro di recinzione che due avvocati hanno cercato di salvare chiedendo ai funzionari della questura di scorta agli operai «la verifica del titolo esecutivo». In poco tempo recuperato dal sostituto procuratore Carlo Cinque, in contatto con Fonzo e con il procuratore Renato di Natale. Poi il via allo smantellamento, sulla stradina sterrata dove pascolava un gregge. Per il momento è andata giù solo una recinzione di tufo giallo. Ma si riprende domani con cinque case, un ovile e un paio di baracche di legno. Certo che si andrà spediti, come assicura Fonzo: «Sì, il dado è tratto. E una volta che si rompe la “quartara”, come qui chiamano il recipiente in terra cotta, sarà difficile dire perché si abbattono questi e non quegli abusi. Insomma è finito il tempo dei palleggiamenti fra Ente Parco, Regione, Comune...». Non mancano però le voci contro. E visto che siamo nella terra di Pirandello ecco esplodere la rabbia contro questi provvedimenti da parte di Giuseppe Arnone, l’avvocato da trent’anni sulla trincea di Legambiente accanto a Fontana, il neo assessore cooptato da Firetto. 28 Battaglia dura. A colpi di manifesti affissi senza risparmiare critiche alla Procura, ai limiti della querela. «Non vedono i veri abusi, non possiamo consentire propaganda e passerelle a poco prezzo...», insiste Arnone mostrando un fabbricato ben più ampio dei primi otto obiettivi. Rilievi respinti da sindaco e procuratore aggiunto che insistono sul metodo. Si continuerà con le trenta abitazioni sulle quali gravano sentenze ormai inappellabili. Poi, il resto. Forse. Perché questa prima tranche costa 80 mila euro. E il Comune non ha fondi per buttare giù 600 costruzioni. RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 25/08/2015, pag. 12 La rivolta dei migranti che blocca la strada per Milano La protesta dei profughi del campo di Bresso: «Ci avete dimenticati». Salvini: via con il primo aereo MILANO Il nemico peggiore di Nassir è la noia, che s’alimenta dell’incertezza. Lui che a 19 anni ha lasciato Kabul, ha attraversato l’Asia e i Balcani per raggiungere l’Italia — «a piedi!» giura — ora vive in una tenda da campo nel centro d’accoglienza di Bresso, alle porte di Milano: «Da cinque mesi sono bloccato qua, senza risposte». In uno spazio angusto condiviso con altre sette connazionali. Ammassati in brandine da campeggio su materassi logori e lenzuola ingiallite, in condizioni igieniche precarie. I vestiti appesi al filo da bucato e un bollitore per l’acqua come unico lusso. C’era anche lui ieri mattina a bloccare le auto tra Milano e Sesto San Giovanni. Assieme a un centinaio di persone uscite dalle tende in strada: per un’ora hanno tagliato a metà viale Fulvio Testi, percorso ogni giorno da migliaia di pendolari che si riversano sulla città. Una manifestazione che era nell’aria, per il montare della frustrazione e dell’attesa. Sarebbe stata organizzata nei giorni scorsi da un gruppo più ristretto di profughi che hanno scritto a penna su pezzi di cartone, trascinando una massa spontanea: «No document, no freedom». Senza documenti sono costretti ad aspettare qui. Qualche momento di tensione con le forze dell’ordine, schierate con scudi e manganelli. Alla fine ha prevalso il dialogo. Tutti maschi questi sans papiers , per la gran parte giovani. Qualche afghano, pachistano e bengalese, ma in maggioranza provenienti dall’Africa subsahariana. Diwara, 34 anni, e Solo, 28, ivoriani, raccontano di essere in questo limbo da otto mesi. «Fa freddo d’inverno, caldo d’estate, e per tutto il giorno non abbiamo nulla da fare». Ma soprattutto: «Quando esaminano la nostra richiesta? Vogliamo cominciare a lavorare». Qualcuno mostrava fotocopie di passaporti da recuperare in Questura. Qualcun altro diceva di essere preoccupato per il rinnovo del permesso di soggiorno scaduto a inizio agosto. «Vogliamo il documento». E condizioni di vita migliori. «Il cibo è scadente, spesso la gente si sente male», dice Asad, 20 anni, della Guinea. Con le prime piogge, il fango ha cominciato a impastarsi con l’erba sui vialetti. Non ci sono dati ufficiali, ma fino a qualche giorno fa si contavano nell’«hub» di Bresso almeno 500 ospiti. Passano di qui, inviati dal Viminale, per essere smistati (priorità a donne e bambini). Solo in questi giorni ne sono arrivati un 29 migliaio, in settimana se ne aspettano tremila. Le strutture d’accoglienza sul territorio lombardo sono sature. Le Commissioni che devono esaminare le domande sono sovraccariche. E tanti richiedenti asilo finiscono per restare qui, nella tendopoli, che dovrebbe essere solo una tappa provvisoria. In questo cortocircuito, trovano spazio le polemiche politiche. Il più veloce è il leader della Lega Nord Matteo Salvini su Facebook: «Vogliono i documenti? Col cacchio! Io li caricherei di peso sul primo aereo, e tutti a casa loro!». Da sinistra fanno notare che le responsabilità sono a Roma, ma anche in Lombardia dove «il governatore Roberto Maroni — accusa il segretario regionale del Pd, Alessandro Alfieri —non ha tenuto fede agli impegni presi». Federico Berni Alessandra Coppola Del 25/08/2015, pag. 7 L’accoglienza va in tilt È crisi anche a Berlino Germania. Problemi «tecnici» e risorse insufficienti, ma anche partiti con le spalle al muro Sebastiano Canetta Tecnicamente inadeguata, finanziariamente ora insufficiente, perfino politicamente impreparata. Di fronte all’emergenza rifugiati, la Germania si scopre nuda e impotente: impossibile assorbire (davvero) 800 mila nuovi «arrivi» previsti nel 2015, continuare a gestire il 40% dei richiedenti asilo dell’intera Unione europea e rispettare fino in fondo le clausole del trattato di Dublino. Dentro al Bundestag il problema è già più drammatico della «tragedia greca» con gli alleati Spd & Cdu che fanno scintille anche a livello locale, i Verdi alle prese con la Realpolitik e la Linke obbligata a rispondere alla più leniniana delle domande. Fuori dal Parlamento, i sondaggi restituiscono la fiducia dei tedeschi sulla tenuta del Paese mentre rimbalza l’eco del ministro dell’interno Thomas de Maizière, convinto della capacità della Germania (cioé del governo) di resistere nel breve periodo all’«imprevedibile» ondata di profughi. Peccato che il «bubbone» sia già scoppiato e il default di Berlino — con buona pace dei cantori del mito dell’efficienza — ormai conclamato. Flop in piena regola che ammacca l’immagine del modello-guida dell’Europa e raggiunge Bruxelles, a cui la Repubblica federale chiederà con urgenza (proprio come Italia e Grecia…) il sistema delle quote. Tuttavia il fallimento nella gestione dell’emergenza ha cause e responsabilità tutte made in Germany: dalle previsioni sballate al budget che copre appena metà del necessario; dalla mancanza di personale specializzato alla corrispondenza non più biunivoca fra stato centrale e i comuni lasciati soli di fronte al problema; fino ai minori non accompagnati che verranno «spalmati» nei Land a partire dal 2016. Il tilt strutturale si tocca con mano ad appena due chilometri dalla Cancelleria, nel cortile dell’Ufficio di stato per gli affari sociali di Berlino (Lageso) a Moabit dove si vagliano le pratiche dei rifugiati. Qui dall’inizio di agosto la coda dei richiedenti asilo si è già trasformata in accampamento macedone e l’assistenza è possibile solo grazie ai volontari Caritas, ai paramedici del Johanniter e agli stessi migranti che danno una mano a «smaltire» uomini e carte. Sarebbe bastato connettere il database centrale con le periferiche locali per evitare la clamorosa forbice tra previsione e realtà: a far saltare la stima degli esperti è stato il sistema di misurazione tutt’altro che preciso. Alla base, pratiche di asilo inoltrate dai Land 30 ai comuni prima della trasmissione al Bundesamt für Migration und Flüchtlinge (Bamf) l’ente federale competente. Risultato: ritardo nella «lavorazione» di oltre 400 mila richieste e raddoppio di stima che sconvolge anche i piani finanziari. Finora lo stanziamento governativo si limitava a circa 5 miliardi di euro, il conto aggiornato ammonta a 8–10 miliardi con il vice cancelliere Spd Sigmar Gabriel che garantisce l’invio di 3 miliardi di pronto impiego. Duplicazione a beneficio degli enti locali: nell’incontro del 24 settembre chiederanno al governo la revisione del contributo federale: non più assegno forfettario incardinato sulla stima di profughi (finora sempre superata) ma rimborso individuale in base alle spese realmente sostenute, cioè in media 10 mila euro a persona secondo l’associazione dei comuni. In più il ministro de Maizière ha dovuto promettere «l’invio di maggiore personale» per velocizzare l’iter burocratico e incassare l’urticante denuncia dei volontari sull’assenza di medical-care per i profughi. In Germania lo smacco organizzativo è già un problema politico. E al Bundestag non basteranno i moniti del presidente Norbert Lammert (Cdu) né gli auspici «per un dibattito sereno e senza scaricabarile» del capogruppo dell’Union, Volker Kauder, a contenere la deflagrazione. Gli alleati di Koalition litigano a Berlino (con la ministra Spd Manuela Schwesig contro de Maizière) ma anche a Monaco, dove il sindaco Spd Dieter Reiter è ai ferri corti con il vice Josef Schmid della Csu per la (opposta) visione dell’emergenza in Baviera. Tutto mentre la nuova legge sull’immigrazione naviga in alto mare e il «piccolo cabotaggio» della maggioranza entra nel mirino dell’opposizione. Il 18 agosto i Verdi hanno presentato il «Piano per migliorare la politica sui rifugiati» e chiesto alla Germania di saper guardare «oltre la paura». Tra le priorità dei Grünen — che sono al governo in 9 dei 16 Land tedeschi — accelerare le procedure di riconoscimento fino alla media di tre mesi, assumere 2.000 nuovi impiegati al Bamf, mettere in campo alternative all’asilo per i profughi dei Balcani occidentali (permesso di soggiorno temporaneo) ed estendere i corsi di integrazione con altri 1.000 mediatori culturali, in attesa di «una nuova normativa che renda più facile ai migranti rispettare i criteri». Progetto ambizioso, forse non così condiviso, almeno secondo Boris Palmer, sindaco Verde di Tubinga, che richiama il partito alla Realpolitik: «Giusto che i Grünen continuino a essere il partito dell’umanità, ma oggettivamente non si può ampliare l’accoglienza mentre aumenta il numero di profughi. Già in passato abbiamo perseguito nobili obiettivi senza occuparci della realtà». Da qui la richiesta-choc di «prepararsi al rimpatrio dei richiedenti asilo che verranno respinti». La posizione della Linke è riassunta dalla portavoce per la politica interna Ursula «Ulli» Jelpke che riporta l’analisi dell’emergenza profughi dall’effetto alle cause. «Di fronte a 800 mila richieste bisogna fermare l’attuale dibattito improduttivo. Germania e Unione europea devono capire che i rifugiati continueranno ad arrivare in gran numero, fino a quando esisteranno i motivi della loro fuga». Del resto, per la deputata della Linke il prezzo da pagare è dovuto: «Per guerre civili, povertà e mancanza di opportunità nei paesi d’origine Europa e Bundesrepublik devono sopportare il peso delle loro responsabilità. Libia e Siria sono investite di un conflitto alimentato con armi europee» ricorda Jepke, «Così come europee sono le flotte che pescano davanti alle coste africane, e privatizzazioni e austerità che producono disoccupazione di massa e povertà». Per la Linke dunque «Che fare?» è chiaro. Come un po’ meno. Intanto, i neonazi hanno tenuto in scacco la polizia (30 agenti feriti negli scontri) a Heidenau, vicino a Dreda, dove c’è un centro di accoglienza per rifugiati siriani. Durissima la reazione di Angela Merkel attraverso il portavoce Steffen Seibert: «È disgustoso vedere come estremisti di destra e neonazisti hanno cercato di diffondere un messaggio d’odio. È infamante che addirittura famiglie con bambini abbiano partecipato alle dimostrazioni anti-profughi». 31 Del 25/08/2015, pag. 1-16 Merkel e Hollande, pressing sull'Italia: subito i centri per le domande d'asilo PARIGI. Un appello all'Italia e alla Grecia per aprire «al più presto» i centri in cui registrare i nuovi richiedenti asilo. Angela Merkel e François Hollande chiedono una «accelerazione» delle procedure promesse dal governo Renzi per organizzare degli "hotspot" che possano servire a smistare i migranti che arrivano nel nostro paese così come in Grecia, dove in parte esistono già. Si tratta di centri in cui le autorità possono distinguere tra chi ha diritto all'asilo politico, e quindi può proseguire verso altri paesi Ue, e chi invece non ha i requisiti e deve essere espulso. La mancata «Non possiamo tollerare ulteriori ritardi» ha rincarato la cancelliera a proposito dell'apertura degli "hotspot". Secondo il presidente francese, la registrazione e la condivisione dei dati dei migranti è la condizione necessaria, la prima tappa necessaria per permettere agli Stati membri di adottare «decisioni precise» sulla concessione dell'asilo politico: ovvero una redistribuzione dei migranti, così come vuole anche il governo italiano. Nessuno vuole più parlare di "quote" dopo il flop del piano proposto dalla Commissione europea prima dell'estate. Piuttosto, Hollande e Merkel usano la parola «Solidarietà»per dire la stessa cosa: una ripartizione più equa dell'onere di accoglienza dei rifugiati tra i 28 paesi membri dell'Ue mentre adesso, sottolineano i due governi, la maggioranza delle richieste pesa su cinque paesi. I due leader invitano i partner Ue a mettere a punto un sistema "unificato", armonizzando le politiche di asilo dei 28. Nessuno vuole più parlare di "quote" dopo il flop del piano proposto dalla Commissione europea prima dell'estate. Piuttosto, Hollande e Merkel usano la parola «Solidarietà»per dire la stessa cosa: una ripartizione più equa dell'onere di accoglienza dei rifugiati tra i 28 paesi membri dell'Ue mentre adesso, sottolineano i due governi, la maggioranza delle richieste pesa su cinque paesi. I due leader invitano i partner Ue a mettere a punto un sistema "unificato", armonizzando le politiche di asilo dei 28. to d'asiloha detto Hollande - in uno spazio di libera circolazione come Schengen non è possibile avere paesi che accolgono più di altri in funzione alla popolazione». Dopo il fallimento del Consiglio europeo di fine giugno, che doveva dare il via a un nuovo piano sull'immigrazione, Francia e Germania vogliono rilanciare il dibattito. «I ministri dell'Interno di Francia e Germania - ha annunciato Hollande · prepareranno un documento comune per fare in modo che con i partner in Europa si possano prendere altre misure sul fronte del fenomeno dei profughi ». centinaia di persone che varcano la frontiera con la Serbia vanno ad aggiungersi ai 7mila passaggi registrati durante il fine settimana in provenienza dalla Macedonia, che sabato ha riaperto la sua frontiera con la Grecia dopo tre giorni di chiusura. La Germania è il paese più esposto alle richieste di asilo, con un previsione record di 800mila candidati quest'anno. Durante la conferenza stampa, la Cancelli era ha condannato "nel modo più forte" le violenze xenofobe commesse durante il fine settimana in Germania. «Il modo in cui estremisti di destra e neonazisti cercano di diffondere il loro messaggio di odio è abietto ». ha dichiarato Merkel, inorridita dal fatto che nei cortei si sono viste anche famiglie con bambini. Secondo Merkel e Hollande non è più possibile avere 28 diversi sistemi di asilo politico. Serve una risposta unica alla più grave emergenza rifugiati che abbia mai colpito l'Unione Europea dalla Seconda Guerra Mondiale. «Dobbiamo creare un sistema unificato d'asilo- ha detto Hollande - in uno spazio di libera circolazione come Schengen non è possibile avere paesi che accolgono più di altri in funzione alla popolazione». Dopo il fallimento del Consiglio europeo di fine giugno, che doveva dare il via a un nuovo piano sull'immigrazione, Francia e Germania 32 vogliono rilanciare il dibattito. «< ministri dell'Interno di Francia e Germania - ha annunciato Hollande · prepareranno un documento comune per fare in moclo che con i partner in Europa si possano prendere altre misure sul fronte del fenomeno dei profughi ». La crisi di rifugiati ha relegato in secondo piano il conflitto in Ucraina, tema inizialmente previsto nell'incontro tra i due leader con il presidente ucraino Petto Poroshenko. Le centinaia di persone che varcano la frontiera con la Serbia vanno ad aggiungersi ai 7mila passaggi registrati durante il fine settimana in provenienza dalla Macedonia, che sabato ha riaperto la sua frontiera con la Grecia dopo tre giorni di chiusura. La Germania è il paese più esposto alle richieste di asilo, con un previsione record di 800mila candidati quest'anno. Durante la conferenza stampa, la Cancelli era ha condannato "nel modo più forte" le violenze xenofobe commesse durante il fine settimana in Germania. «Il modo in cui estremisti di destra e neonazisti cercano di diffondere il loro messaggio di odio è abietto ». ha dichiarato Merkel, inorridita dal fatto che nei cortei si sono viste anche famiglie con bambini. Del 25/08/2015, pag. 9 Centri di raccolta, docce e wifi. Belgrado si apre ai profughi Serbia. 7 mila solo la scorsa notte. Il premier Vucic: «Sbagliato costruire muri» Un altro passo importante lungo la rotta balcanica l’hanno fatto. Un altro paese è stato attraversato da sud a nord nel lungo cammino verso l’Europa. Alle spalle si sono lasciati la Macedonia, che dopo averli chiusi in gabbia sigillando la sua frontiera con la Grecia, sabato notte ha finalmente fatto marcia indietro permettendogli di arrivare in Serbia, nuova tappa di questo assurdo reality della disperazione. Del resto non li ferma nessuno. E loro arrivano a migliaia: le autorità di Belgrado hanno contato 23 mila rifugiati nelle ultime due settimane. 7 mila solo nella notte tra sabato e domenica scorsi, quando Skopje ha finalmente riaperto il confine. Arrivano in treno, in autobus (il governo macedone ne ha messi 70 a disposizione) e in taxi. Chi può noleggia una macchina, la carica all’inverosimile di donne, vecchi e bambini e corre verso la nuova frontiera: l’obiettivo adesso è l’Ungheria, la porta dell’Europa, ma è quello più difficile. In vista della nuova ondata di profughi Budapest sta infatti accelerando la costruzione del muro di 175 chilometri lungo il confine serbo e nei giorni scorsi ha ordinato il trasferimento a sud di alcune migliaia di agenti di polizia. I rifugiati si troveranno così di fronte un muro fatto di acciaio, filo spinato e perfino lamette insieme a un esercito di poliziotti in tenuta antisommossa. Il Paese è «sotto un attacco organizzato», ha detto nei giorni scorsi Janos Lazar, vicepremier del governo di Viktor Orbàn. E, come se non bastasse, per far capire ancora meglio che aria tira per questi disperati in fuga da guerra e dai tagliagole dell’Is ha aggiunto che gli agenti sono stati addestrati per fronteggiare «migranti sempre più aggressivi che arrivano con richieste sempre più decise». «Europa svegliati!», titolava l’altro giorno un suo editoriale il francese Le Monde ricordando come quella dell’immigrazione sia una crisi che si dipana alle nostre frontiere da più di due anni .«Sotto i nostri occhi ma senza che abbiamo voluto vedere che si aggravava di mese in mese». Chi non fa più finta di non vedere (almeno per ora), e (sempre per ora) sembra muoversi in controcorrente rispetto alle isteria xenofobe di altri Paesi, è propria la Serbia. Anziché chiudersi Belgrado ha aperto le sue porte alle migliaia e migliaia di disperati che 33 in queste ore stanno entrando nel Paese allestendo quattro nuovi centri di accoglienza (due a Presevo e Mirotovac, a sud e due a Kanijia e Subotic, a nord vicino al confine con l’Ungheria). Un altro centro verrà invece aperto nei prossimi giorni nella capitale, lungo l’autostrada per l’aeroporto. Come in Macedonia anche qui a tutti i rifugiati verrà concesso un permesso di soggiorno di 72 ore, rinnovabile, per lasciare il Paese. Nel frattempo sempre nella capitale sono stati aperti dieci punti di assistenza igienica dove i profughi possono trovare toilette e docce per lavarsi, insieme a una centro informazione fornito di rete WiFi dove i profughi possono richiedere notizie su come presentare domanda di asilo e ricevere assistenza legale e psicologica. «La nostra risposta alla crisi migratoria non sono i manganelli o gli ordigni assordanti, né l’erezione di muri», ha commentato il viceministro del lavoro e degli affari sociali Nenad Ivanisevic annunciando per i prossimi giorni un nuovo piano del governo per i migranti. Ivanisevic ha ripetuto un concetto espresso nei giorni scorsi dal premier serbo Aleksandar Vucic, anche lui critico nei confronti di Budapest per la scelta di costruire il muro. Scelte, quelle serbe, che hanno permesso a Belgrado di incassare i ringraziamenti dell’Unione europea per il modo in cui affronta la crisi migranti, oltre alla promessa di nuovi aiuti economici. Ieri la questione profughi è stata affrontata anche da un vertice a tre che si è tenuto a Skopje tra i ministri degli esteri di Macedonia, Albania e Bulgaria, che hanno chiesto all’Unione europea una risposta rapida a quanto sta accadendo lungo la rotta balcanica. Del 25/08/2015, pag. 13 Cos’è Schengen? Serve ancora? I controlli ai confini Ue sono aboliti Eppure, anche la Merkel vacilla: l’accordo non è mai stato così fragile Dalle frontiere aperte alle trappole per uomini. Nelle prime ore della tempesta perfetta che ha colpito la Macedonia stretta tra il vuoto di potere in Grecia e la Serbia sigillata dal muro al confine ungherese, poliziotti su mezzi blindati srotolavano filo di ferro lungo i binari che risalgono i Balcani. Un modo per fermare i migranti che seguivano a piedi la strada ferrata verso il Nord dove i dissidenti del Novecento aggiravano un’altra Cortina strisciando nel fango. I profughi del Duemila sperano di trovare una breccia su quella stessa rotta. Ai Paesi candidati all’ingresso nella Ue come Serbia e Macedonia, Bruxelles chiede più controlli per rafforzare le frontiere esterne mentre all’interno vacilla la costruzione fondata sulla libertà di movimento degli individui, principio mutuato dal Trattato di Roma che istituì la Comunità economica, poi Unione politica. Che fine ha fatto Schengen? L’Europa è una Storia di confini, integrità territoriali nega-te e conquistate. Andare oltre l’idea di frontiera, paradigma fondativo delle identità nazionali, non è stato facile. L’abolizione del controllo dei passaporti incontrò subito le resistenze delle stesse capitali che oggi si muovono in ordine sparso sul duplice fronte dell’emergenza immigrazione e del terrorismo internazionale — fenomeni che la retorica xenofoba fonde in un’unica minaccia per tenere alto l’allarme sociale, quando la maggior parte dei migranti fugge dallo stesso fondamentalismo in lotta con l’Occidente. L’Accordo di Schengen fu faticosamente firmato nel 1985 da Belgio, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Germania Ovest, per essere poi integrato e sottoscritto da altri Stati, infine inglobato attraverso il Trattato di Amsterdam nel corpo di leggi dell’Unione. Trent’anni dopo, l’aperta contestazione di quel sistema non è più tabù neanche per i capi di governo di Paesi con una solida tradizione di accoglienza. All’indomani dello sventato attacco al treno Thalys Amsterdam-Parigi il premier belga Charles Michel, 39enne liberale poco incline a derive populiste, ha chiesto «un 34 adeguamento» di Schengen: «L’Accordo è importante per la nostra economia ma ora siamo di fronte a nuove minacce». L’attentato, replica Bruxelles, «non rimette in questione uno dei più grandi risultati della Ue, non negoziabile». L’appello del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker affinché l’Europa trovi «il coraggio collettivo di rispettare gli impegni, anche quando non sono facili né popolari» è il tentativo estremo di arginare una tendenza già in atto, suggellata ieri dalla fuga in avanti della cancelliera tedesca Angela Merkel con il presidente francese François Hollande. Pur invocando «un sistema unificato di diritto d’asilo e una politica migratoria comune», i due leader hanno di fatto superato la concertazione a livello europeo per rivendicare il diritto d’iniziativa degli Stati. Di fronte a «una situazione eccezionale» che i Paesi di ingresso come Italia e Grecia non riescono a gestire e in assenza di una risposta europea rapida e coordinata, le capitali non escludono azioni unilaterali. «L’applicazione del sistema di asilo è il requisito perché funzioni il sistema Schengen» avverte Hollande: se va in tilt il primo, come già avviene con le disfunzioni del Regolamento di Dublino, salta il secondo. Lo stato d’eccezione legittima misure straordinarie. Si spiega così la recente apertura della Merkel alla possibilità di ripristinare i controlli alle porte della Germania che quest’anno aspetta 800 mila richieste d’asilo. Schengen diventa carta negoziale nella partita delle ricollocazioni che si apre a settembre secondo l’Agenda Immigrazione Ue. I Paesi che fino ad oggi hanno accettato più migranti, come Svezia e Austria, minacciano di seguire Berlino se lo sforzo non sarà davvero condiviso. Gli Stati del Centro-Est stanno già restringendo i criteri di ingresso. La cancelliera gioca di sponda con il premier britannico David Cameron, che proprio in questi giorni comincia la manovra di riposizionamento del Regno Unito e la sua personale campagna per cambiare le regole europee in vista del «referendum Brexit». Manca un anno al voto che potrebbe staccare Londra dal continente e il premier parte in tour tra Finlandia, Svezia e Danimarca per sondare un’alleanza di Paesi non-euro. Insieme all’Irlanda, la Gran Bretagna è la sola nazione Ue stabilmente fuori da Schengen grazie alla clausola di opt-out (Bulgaria, Croazia, Cipro e Romania hanno l’obbligo legale di futura adesione all’Area che comprende 22 sui 28 Stati dell’Unione più Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera). Cameron ha annunciato un giro di vite interno sull’immigrazione. Nella trattativa appena partita con Bruxelles accumula vantaggio. Il sistema Schengen non è mai stato tanto fragile. Del 25/08/2015, pag. 1-15 Il capolarato come incentivo Di Michele Prospero Alle parole del presidente del consiglio, per una volta, cominciano a seguire i fatti. In molte occasioni, egli aveva lamentato un eccessivo carico di controlli fiscali, di vincoli amministrativi che si abbattevano su sei milioni di imprese, impedendo loro di produrre ricchezza. Come Tremonti, anche Renzi, nei suoi discorsi pubblici, ha evocato lo spettro di uno Stato di polizia che opprime le aziende e per questo ha proclamato una grande guerra contro la burocrazia invasiva. E almeno queste solenni sfide contro i vigili, le fiamme gialle che indiscreti bussano alle porte delle officine non sono rimasti lettera morta. I dati forniti dai consulenti del lavoro sono molto significativi. Nel 2014, i controlli sono stati 221 mila 476 (e nel 35,9% delle aziende raggiunte, sono emerse irregolarità). Nel 2015, le visite degli ispettori sono scese a 106 mila 849 (con il 29,3% delle imprese pescate in situazioni irregolari). I controlli in un anno sono dimezzati, sebbene l’entità dell’economia sommersa (due milioni di lavoratori in nero) e l’ampiezza delle perdite fiscali per lo Stato (ben 25 35 miliardi l’anno sfumano per l’evasione di contributi previdenziali e di imposte), siano ingenti. Il governo fa di tutto per mantenere alta la soddisfazione delle imprese, entusiaste per il suo operato che sforbicia diritti e taglia beni pubblici per dirottare risorse alle casse aziendali. Oltre ai miliardi di decontribuzioni, di sgravi fiscali, di tagli Irap, le imprese corsare possono contare anche sulla benevola chiusura di un occhio da parte dello Stato sulle loro pratiche illecite. Sono aiuti di Stato diretti o indiretti quelli che tollerano il caporalato, l’economia criminale o in nero, i danni ambientali, l’evasione fiscale e contributiva. Accontentate su tutto, anche sulla licenza di licenziare, previo modico indennizzo monetario, le imprese vivono in una condizione paradisiaca, con il premier che per giunta si dichiara «gasatissimo» da Marchionne. Si spalanca un continuum politica-impresa che fa impallidire la metafora del «meccanismo unico» agitata dai marxisti in anni ormai lontani. Eppure, nonostante il legame di ferro tra il governo e l’impresa, e l’indebolimento perseguito con accanimento del lavoro e del sindacato, la ripresa non c’è e i cupi segnali di declino non spariscono dall’orizzonte. Gli investitori scelgono altri mercati rispetto a quello italiano, dove anche i prodotti finanziari e assicurativi navigano fuori controllo e certi giochi d’azzardo si mantengono lontani da ogni efficace attività sanzionatoria. Il grande impedimento, al superamento della crisi, risiede in ciò che la politica è diventata in questi anni di decadenza e in quello che il capitalismo è sempre stato in Italia. Una politica senza autonomia, e un’impresa senza capacità competitive, strozzano la vita economica. Un governo che si fa largo con il programma della Confindustria (al punto che Squinzi certifica: «Questo governo è una formula uno»), non fa bene all’economia. Perché non è ingrossando il sommerso, gonfiando il nero e abrogando i diritti simbolici del lavoro che si guida la ripresa. Con le nuove misure taglia tasse, annunciate per settembre, il governo ordinerà un ulteriore dimagrimento del pubblico, cioè un ridimensionamento della spesa per la sanità, i servizi, i trasporti, la scuola, la ricerca senza in alcun modo creare nuova occupazione, senza stimolare investimenti produttivi. Il laurismo 2.0 lascerà solo macerie. Questo è, a tutti gli effetti, un governo della stagnazione che, per vincere le elezioni, disperde le risorse scarse disponibili. Per accontentare le imprese che incassano soldi in contanti, l’esecutivo rinuncia a disegnare politiche pubbliche per lo sviluppo sostenibile, accantona ogni progetto per politiche industriali basate sull’innovazione. Mentre con il Jobs Act invoca controlli a distanza sulla vita privata dei lavoratori, il governo allontana la vigilanza sulle pratiche tributarie e contributive delle imprese, che indisturbate proseguono nelle loro opache pratiche criminogene. Un governo di classe. 36 CULTURA Del 25/08/2015, pag. 40 Taxi Driver in Iran Panahi, una guida contro la censura TORNA in mente una questione abbastanza imbarazzante. Possibile che la censura imposta agli artisti dai regimi dittatoriali, come è ancora oggi quello di Teheran, risulti in una certa maniera - anche se è difficile ammetterlo, anzi quasi indicibile- stimolante, produttiva, feconda, addirittura portatrice di ispirazione? Viene sempre alla mente, per esempio, il caso di un cineasta importante come lo spagnolo Carlos Saura il quale ha lasciato probabilmente un segno più incisivo con la sua prima produzione anni 60..70, cioè con Francisco Franco ancora abbastanza saldamente al potere, che non con quella successiva anche se copiosa e di notorietà molto più vasta. Ma di casi per farrenevenire in mente tanti altri, in particolare riguardanti la parte di Europa già costretta sotto il tallone scr vi etico, e ancora più in p articoarticolare la Polonia che nel suo cinema nazionale, dopo la riconquistata libertà democratica, non ha più conosciuto la vivacità di prima. E questo porta a considerare la contraddizione tra repressione e, più o meno tollerati o subiti (da parte degli apparati statali repressivi). fama, prestigio, riconoscimenti internazionali all'opera e alla personalità di artisti perseguitati in patria. In un'altalena che di volta in volta fa di loro una vergogna nazionale e un fiore all'occhiello, perché comunque portano riscontri significativi per la bandiera che rappresentano. Il caso dell'iranianoJafar Panahi (55 anni) ha dell'assurdo. A partire dal suo primo film Il palloncino bianco non ha fatto che collezionare un costante alternarsi tra premi prestigiosi e pesantissimi condizionamenti censori. Il palloncino bianco vince la Caméra d'or di Cannes riservata al miglior debutto e subito dopo con Lo specchio vince il Pardo d'oro di Locarno e, con Il cerchio, il Leone d'oro di Venezia. Il quarto film Oro rosso, premio della giuria nella sezione Un certain renard di Cannes, viene prima designato a rappresentare l'Iran per l’Oscar al miglior film "straniero" e subito dopo ritirato e vietato. Per Offside, bellissima metafora riguardante l'umiliante condizione di emarginazione femminile, Orso d'argento a Berlino e divieto di circolazione in patria. Alla fine del decennio Duemila il gioco si fa ancora più duro. Una catena di arresti. processi- farsa, condanne, proibizioni n on impedisce a Panahi di realizzare clandestinamente (e fortunosamente far uscire dai confini) altri film, fino a questo Taxi Teheran, Orso d'oro a Berlino 2015. Mentre intanto la sua poltrona di giurato a Cannes (2010) resta vuota sotto i riflettori come un segnale di solidarietà e un monito per tutta la durata del festival. poi il Premio Sakharov del Parlamento Europeo viene ritirato da sua figlia, e ora Taxi Teheran - realizzato del tutto "illegalmente" riceve un altro Orso d'oro dalle mani del presidente di giuria Darren Aronofsky. Talento sicuramente, e poi resistenza da vendere. Lo stesso Panahi, che nel film è proprio lui con la sua riconoscibile e riconosciuta identità, guida un'auto pubblica in giro per le congestionate strade e superstrade della capitale iraniana, facendo una quantità di incontri con gente comune (che lo riconosce e lo ammira) egli raccontai fatti suoi, lo coinvolge, gli chiede consigli e pareri. Una girandola di piccola vera umanità che, con il sorriso anche quando la fatica di vivere è evidente, dà la misura piena di un paese e di un popolo stracarico non solo di storia e cultura ma anche di potenzialità che non aspettano altro che di potersi esprimere pienamente. 37 Del 25/08/2015, pag. 40 Bertolucci & C.: "Dovete liberarlo" ROMA. Bernardo Bertolucci dalla sua casa di Trastevere, Ambra Angiolini dalla spiaggia, Fausto Paravidino in un parco pubblico, Alba Rohwacher dallo studio. E poi la regista Laura Bispuri con la sua sceneggiatrice Francesca Manieri. Gli artisti italiani lanciano un appello per la libertà di Jafar Panahi in un video, girato per Repubblica.it, mentre esce Taxi Teheran, il film vincitore dell'Orso d 'oro all'ultima Berlinale. Lo fanno dando voce alle parole che il regista ha scritto in una lettera poetica e commovente che Isabella Rossellini ha letto al festival di Berlino. «Mi hanno privato della possibilità di vedere il mondo per vent'anni. Spero che quando sarò libero, potrò viaggiare in un mondo senza barriere geografiche, etniche e ideologiche, in cui le persone vivano insieme liberamente e pacificamente, indipendentemente dalla loro credenze e convinzioni». Panahi è stato condannato nel 2010 dal tribunale di Teheran per «attività di propaganda lesive dell'immagine della Repubblica Islamica» a 20 anni d'interdizione a dirigere film, scrivere sceneggia ture, rilasciare interviste, recarsi all'estero. In pratica Panahi è stato condannato a un isolamento totale, personale e culturale. Dal quale il regista ha saputo trovare una forma di fuga, girando a casa propria prima il documentario This is not a film e poi il film Closedcurtain. Taxi Teheran è il primo film che il regista ha girato in esterni dal 2010. Del 25/08/2015, pag. 28 CINEMA I film e l’alimentazione Dai fratelli Lumière ai kolossal hollywoodiani la cucina e i momenti conviviali hanno più volte preso il posto delle parole sullo schermo: hanno raccontato psicologie, amori, squilibri sociali. E sogni di riscatto come nei capolavori di Charlie Chaplin Passioni, peccati, miserie e nobiltà Il cibo diventa finestra sul mondo Cibo che fa sognar / Cibo che fa cantar…». Gli avvoltoi affamati di L’era glaciale 2 – Il disgelo , che trasformano la fuga degli animali in un musical con inquietante risvolto famelico, ci aiutano a ricordare le tante facce che il cibo ha saputo assumere nella storia del cinema, momento centrale fin dai primissimi esperimenti dei fratelli Lumière perché nella famosa proiezione al Salon Indien di Parigi del 28 dicembre 1895 — quella che tenne a battesimo ufficialmente la nascita del nuovo mezzo espressivo — faceva bella mostra di sé Le Repas de Bébé , la colazione del piccolo Lumière imboccato da mamma e papà. E se il cinema è diventato finestra su un mondo da scoprire ma anche specchio in cui cercare la propria identità, il cibo ha spesso accompagnato questo viaggio collettivo, facendone emergere qualità e passioni, desideri e paure, sogni e segreti. Alla tavola dei ricchi L’occhio sbarrato di Julia Roberts in Pretty Woman , di fronte alla batteria di coltelli, forchette e cucchiai dei più diversi formati che fanno bella figura sul tavolo apparecchiato è uno degli esempi più indovinati di come il cibo — con le regole del suo galateo — possa diventare un discrimine sociale. Non è solo questione di ricchezza ma anche di educazione, di comportamento, di status. E a volte non basta neppure l’amichevole aiuto del bonario concierge Hector Elizondo per superare l’«esame»: di fronte alla lumaca e alle 38 sue misteriose pinze ci si può solo consolare con una spontanea — e per niente nobile — imprecazione. Tutti giocati sul contrasto tra la ricchezza delle vettovaglie e la rarefazione del cibo, i momenti conviviali della famiglia protagonista di Io sono l’amore di Luca Guadagnino sintetizzano alla perfezione quell’identificazione tra regole della tavola e status sociale che hanno attraversato la storia del cinema, dalle cene hollywoodiane di Pranzo alle otto ai banchetti regali di Le sei mogli di Enrico VIII fino alle raffinate costruzioni di Luchino Visconti nel Gattopardo o La caduta degli dei , maestro insuperato di come il momento della convivialità alimentare possa diventare esibizione di ricchezza e di eleganza. Altre volte, invece, il cibo serve per «scavare» nel passato e far venire a galla quella nobiltà e quella ricchezza — d’animo e di cultura culinaria — che gli accidenti della Storia avevano finito per cancellare. Così è nel Pranzo di Babette di Gabriel Axel (dal racconto di Karen Blixen) dove la domestica che per anni era stata tenuta quasi in disparte si rivela per quello che è veramente — uno chef straordinario — investendo la vincita a una lotteria in un pranzo che nessuno degli invitati dimenticherà più: brodo di tartaruga e vino Amontillado, Blinis Demidoff e Veuve Clicquot 1860, cailles en sarcophages e Clos de Vougeot 1894! … e a quella dei poveri Come per la ricchezza, allo stesso modo il cibo è stato spessissimo usato al cinema come simbolo/segnale di ogni tipo di fame: momentanea, generazionale, storica, accidentale, psicologica, sociale. Su tutti gli affamati del cinema troneggia naturalmente il «cercatore solitario» della Febbre dell’oro a cui Charlie Chaplin ha saputo dare i toni indimenticabili della comicità e della commozione: la scena in cui, dopo averla sapientemente cucinata, si mangia una scarpa, arrotolando una stringa come fosse uno spaghetto non è entrata solo nella storia del cinema ma nella memoria collettiva. Insieme alla fame di Giacomone, a cui il digiuno fa vedere Charlot come un succulentissimo pollo. Anche il cinema italiano ha usato spesso il cibo per parlare del Paese e dei suoi abitanti, come in Ladri di biciclette di De Sica dove la sosta in trattoria per una mozzarella in carrozza ci racconta dell’Italia più di mille discorsi. Cantore di un mondo dimenticato e sofferente, Ermanno Olmi ha osservato con rispetto e delicatezza il mondo contadino, evitando la retorica e lasciando che la poesia trapelasse dalle parole e dai gesti quotidiani, come ha fatto nell’ Albero degli zoccoli nella celeberrima scena in cui la famiglia dei poveri contadini Batisti strofina le fette di polenta su un’unica aringa appesa a un filo in mezzo alla tavola. Più scanzonato e ironico, Eduardo Scarpetta ha dato forma ai sogni di abbondanza di una povera (e affamata) famiglia napoletana in Miseria e Nobiltà che Mario Mattoli ha portato sullo schermo con la collaborazione essenziale di Totò, Enzo Turco, Dolores Palumbo e una giovanissima Valeria Moriconi: quando la tavola vuota della famiglia Sciosciammocca si riempie come per miracolo di ogni ben di Dio, la gioia dei poveri affamati è tale che si mettono a ballare sulla tavola, riempiendosi le tasche di spaghetti! Tu sei quello che mangi Oltre a saziare la fame, il cibo funziona anche come un prezioso indicatore sociale: dimmi come mangi (e che cosa mangi) e ti dirò chi sei. Lo sa benissimo il cinema italiano, almeno dai tempi di I cospiratori del golfo di Guazzoni dove il re napoletano Ferdinando II spiega all’ambasciatore francese la specificità italiana ricorrendo alla ricetta del ragù o da quelli in cui Aldo Fabrizi sceglie la collaboratrice domestica (in Cameriera bella presenza offresi… ) interrogandola sulla ricetta autentica dell’amatriciana. Ma è Un americano a Roma che traccia in maniera definitiva il parallelo tra alimentazione e identità, mettendo Sordi di fronte a una scelta radicale: meglio imitare gli americani «del Kansas City» che si nutrono di latte, mostarda e yogurt o scatenarsi sul «provocatorio» maccherone che occhieggia dal piatto lasciato in cucina dalla mamma? Sappiamo tutti come è andata a 39 finire, aprendo così la strada a una identificazione tra cibo, identità e comportamenti che ha attraversato tutto il cinema, dalle sguaiatezze demenziali dei Blues Brothers Jack e Elwood (che così convincono il musicista diventato maître in un ristorante a seguirli), ai fratelli Pileggi (Tony Shalhoub e Stanley Tucci) in Big Night il cui rigore culinario è lo specchio della loro malinconia esistenziale, fino alle storie in parallelo di Julia&Julia : la prima, Julia Child, paladina di una cucina che non ha paura del colesterolo, vive una vita aperta al piacere e alle gratificazioni; la seconda, Julia Powell, scrittrice frustrata e infelice, si identifica con un mondo che non sa apprezzare quasi nulla, tanto meno il cibo. Amore ed eversione in cucina Ce l’ha insegnato Albert Finney in Tom Jones : mangiare una coscia di pollo può aiutare a conquistare una donna. Così come addentare dai due estremi uno spaghetto: alla fine le bocche non potranno che unirsi come succede in Lilli e il Vagabondo . Allo stesso modo una pizza a forma di cuore — in Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca ) — diventa il mezzo «galeotto» con cui Giannini dichiara il suo amore a Monica Vitti, mentre in Lunchbox la cura con cui una donna confeziona il pranzo svelano all’occasionale destinatario della «schiscetta» le qualità nascoste della misteriosa cuoca. Quattro esempi, va sottolineato, che non hanno bisogno di spiegazioni per far arrivare il loro messaggio perché il cibo prende il posto delle parole, a dimostrare che spesso i discorsi sono inutili di fronte alla passione con cui si confeziona un piatto o lo si gusta. Allo stesso modo le parole non servono per mostrarne la forza eversiva nell’indimenticabile scena di Monty Python – Il senso della vita , dove un ciccione è inarrestabile nell’ingozzarsi e vomitare a ciclo continuo, o ancora nell’esilarante Hollywood Party , dove Peter Sellers trasforma la cena in un’inarrestabile catastrofe. Altre volte, invece, le parole fanno da sottofondo alle immagini: cacofoniche nelle liti gastronomiche tra Gassman e Tognazzi nell’episodio Hostaria dei Nuovi mostri , tentatrici nelle suadenti spiegazioni con cui Juliette Binoche esalta le qualità delle sue creazioni in Chocolat , ma lì il merito non è solo del cibo ma anche della cuoca. Mangiare fino a morire? Resterebbe da ricordare quando il cibo diventa strumento di morte, come per i quattro amici di La grande abbuffata , o grazie alla torta avvelenata di Lo scopone scientifico , o ancora con il diluvio alimentare di Piovono polpette e come scelta salutista che si trasforma nel suo opposto in Hungry Hearts . Ma in questi film il cibo perde le sue qualità più vere e si trasforma in strumento al servizio di una mente malata o perversa o punitiva. Perde la sua identità. E allora in questi casi vien voglia di aprire la dispensa e verificare di persona che il cibo è soprattutto un’altra cosa... 40 ECONOMIA E LAVORO Del 25/08/2015, pag. 6 Contagi per ora evitati, ma è allarme Ripresa e lavoro più deboli in Italia ROMA – La Cina è vicina. E così la ripresa italiana, già debole, rischia di rallentare ulteriormente, lasciando il mercato del lavoro congelato. Rimarremo — prevedibilmente — inchiodati allo “zerovirgola” di crescita del Pil nel 2015 e toccare l’1 per cento nel 2016 (il governo stima l’1,4 per cento) non sarà per nulla semplice. Per ora le previsioni non cambiano, ma non è escluso che la crisi cinese possa pesare pure sulla stesura prossima manovra finanziaria da almeno 25 miliardi di euro. «C’è chi ha abbassato le stime di crescita per il 2016 all’1 per cento, mi pare una previsione ottimistica», commenta l’economista Giacomo Vaciago, docente alla Cattolica di Milano. Il tracollo di ieri, che si somma alle precedenti svalutazioni dello yuan, è una crisi di sistema che determina contraccolpi su tutta l’economia globale. Dunque inevitabilmente anche su quella italiana. Non tanto per l’interscambio commerciale diretto tra i due Paesi, quanto per l’effetto domino, per l’interdipendenza economica mondiale, per la paura di consumatori e imprese di rivivere la recessione del 2008 provocata dal fallimento di Lehman Brothers. Paura che blocca gli acquisti e gli investimenti. E rinvia la creazione di posti di lavoro. Le industrie italiane vendono nel mercato cinese circa 10,5 miliardi di euro su un totale di beni esportati di quasi 400 miliardi (cento in più se ci si estende a considerare ai servizi). Una quota importante ma decisamente lontana dai 30 miliardi, per esempio, destinati alla piazza statunitense, dove gli esportatori italiani si sono orientati con decisione per sfruttare la ripresa. Vanno in Cina innanzitutto macchine utensili (prima voce in generale dell’export italiano), poi i beni di lusso, seguiti da molto lontano dai prodotti dell’agroalimentare, per finire con i mobili. «Prodotti — sostiene Licia Mattioli, vicepresidente di Confindustria per l’internazionalizzazione — con prezzi sostanzialmente anelastici rispetto alle decisioni di politica monetaria di Pechino. D’altra parte non è la classe dei consumatori ricchi ad essere colpita da questa crisi ». A pagare questa crisi, infatti, è la nuova classe media protagonista inconsape- vole dello scoppio della bolla azionaria. Non è la Cina come mercato di sbocco, quindi, che può condizionare l’economia italiana (per quanto è possibile che lo striminzito +0,2 per cento del Pil nel secondo trimestre dell’anno inglobi già la frenata dell’export verso oriente) bensì la Cina come seconda economia mondiale dopo quella statunitense. Perché se dovessero rallentare sistemi che hanno con la Cina scambi ben più rilevanti, come per esempio quello tedesco (presente massicciamente in Cina), per l’Italia, che, a sua volta, ha nella Germania uno dei suoi più importanti partner commerciali, le conseguenze sarebbero diverse. E si tradurrebbero in una nuova frenata della nostra dinamica economica che da decenni, peraltro, si muove a velocità ridotta rispetto a quella della media Ue, con uno scarto stabile intorno allo 0,7 per cento in meno rispetto agli altri. Pensare che per questa via possa riprendere l’occupazione (il tasso di disoccupazione è al 12,7 per cento) non può che diventare allora un’illusione. Certo è che, grazie agli interventi di politica monetaria della Bce di Mario Draghi, lo spread del Btp decennale italiano rispetto al Bund tedesco è rimasto ieri sostanzialmente stabile a 131 punti con i rendimenti sui titoli italiani che calano con beneficio per il Tesoro. Così Filippo Taddei, macroeconomista, responsabile dell’economia e del lavoro del Pd, parla di «una notizia positiva» a proposito della crisi cinese. Positiva sotto un duplice aspetto: 41 quello di finanza pubblica ma anche quello dell’economia reale. Gli investitori — sostiene Taddei — stanno aggiustando il proprio portafoglio di investimenti, si spostano non solo sui titoli pubblici stabili, come quelli tedeschi o americani, ma pure su quelli dei cosiddetti paesi europei periferici virtuosi, Italia e Spagna, appunto. Poi c’è l’aspetto che riguarda l’economia reale: «Nella crisi cinese di stanno indebolendo i produttori di medio livello che, per esempio nel tessile, hanno messo in crisi i nostri piccoli produttori come quelli del distretto di Prato. 42