“Educare il cuore dell`uomo così come Dio lo ha fatto” Dialogo sull
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“Educare il cuore dell`uomo così come Dio lo ha fatto” Dialogo sull
“Educare il cuore dell’uomo così come Dio lo ha fatto” Dialogo sull’educazione con Marco Bersanelli Bologna, 21 novembre 2012 Luisa Leoni Bassani: buonasera a tutti e grazie per essere intervenuti. Il nostro grazie più grande però va al nostro amico Marco Bersanelli che con pazienza ha pensato di rispondere alla nostra richiesta. Prima di tutto lo presento: Marco Bersanelli è docente di Astrofisica all’Università degli Studi di Milano e collaboratore con l’Istituto Nazionale di Astrofisica e si occupa di cosmologia osservativa e in particolare dell’osservazione dell’universo primordiale attraverso il fondo cosmico di microonde; ha partecipato a due spedizioni scientifiche al Polo Sud e attualmente collabora con l’Agenzia Spaziale Europea. Ci dirai tu cosa c’entra questo tuo lavoro con le stelle con l’altra cosa che fai, perché sei anche Presidente della Fondazione Sacro Cuore di Milano, che è una fondazione che gestisce scuole di vario ordine e grado. Noi abbiamo dato a questo incontro il titolo “Educare il cuore dell’uomo così come Dio lo ha fatto”; questo è stato un punto che ci ha colpito fin dall’origine, è l’espressione sintetica dello scopo del nostro lavoro fin da quando abbiamo deciso di partire con questa avventura della Cooperativa Il Pellicano, che attualmente gestisce due scuole dell’infanzia, la scuola “Pagani” e la scuola “Minelli Giovannini”, e la scuola primaria “Il Pellicano”. Ci è sembrato opportuno rimettere a tema questo punto d’origine perché siamo in una situazione faticosa dal punto di vista dell’educazione ed anche della situazione complessiva nella quale viviamo: la crisi, le difficoltà sul lavoro riobbligano a mettere a tema il perché di una scelta come aprire una scuola come Il Pellicano. Per capirlo meglio bisogna ritornare all’origine. Riflettendo tra noi abbiamo pensato di fare con te un dialogo a partire da delle domande, perché andare all’origine non vuol dire glorificare quel che è stato, ma ricomprendere di cosa c’è bisogno oggi. In quest’ultimo periodo abbiamo fatto al Pellicano un Open Day e l’Open Week per invitare i genitori e quanti siano interessati a vedere la scuola. Una mamma ci ha detto: “Io che devo invitare delle mie amiche, cosa dovrei dire di questa scuola e del perché vale la pena sceglierla?” Riflettendo su questo ci siamo detti che uno dei punti chiave che ci ha caratterizzato fin dal principio è l’attenzione al bambino, alla sua persona, alla sua crescita. Quando abbiamo riflettuto su questo ci è venuto un dubbio, non sull’importanza di questo ma sulla chiarezza dei termini usati, perché mettere al centro il bambino può portare con sé un’ambiguità. Noi ci troviamo di fronte a bambini a scuola, già dall’infanzia, molto incentrati sul proprio bisogno, sempre più in una condizione per cui o si risponde loro subito o vanno in crisi, tanto che diciamo che sono fragili, immaturi. È vero che sono piccoli, ma neanche poi tanto quando sono in quarta/quinta elementare; eppure rimangono incentrati su sé stessi, sui propri bisogni, su come la realtà deve rispondere loro, secondo le loro attese e le loro esigenze. Per questo desideriamo capire, e lo chiediamo a te, cosa vuol dire “mettere al centro un bambino”. Marco Bersanelli: Buonasera. Vi ringrazio per questo invito perché mi fa piacere conoscere di più questa vostra realtà, ed è un piacere risponde anche a un’esigenza che io ho in questo periodo perché, come è stato appena detto, da qualche tempo sono stato coinvolto nel mondo della scuola attraverso una responsabilità al Sacro Cuore di Milano. L’incontro con realtà che da decenni vivono un’esperienza, una passione e una storia di educazione sono per me un arricchimento; sto veramente cercando, insieme agli amici del consiglio di amministrazione che sono stati nominati con me, di entrare nel merito, di capire di più di cosa si tratta. Parto dal titolo: “Educare il cuore dell’uomo così come Dio lo ha fatto”. E’ un richiamo all’origine, sia perché, come dicevi, per andare avanti bisogna ricomprendere qual è l’origine di un’opera; sia perché la frase che avete messo al centro della vostra immagine di educazione esprime l’origine dell’umano: come Dio ha fatto e come fa l’umano. Credo che l’avventura affascinante dell’educare sia questo rendersi conto del “dato” che è l’essere umano, del “dato” che è l’altro con la sua libertà e con la sua ragione, a qualunque livello di maturazione sia. Io non insegno nella scuola ma all’Università, ho un corso anche al primo anno di Fisica quindi vedo quelli che escono dal liceo; ho tre figli che ormai sono grandi perciò li ho visti attraversare la materna, le elementari, e così via fino all’università. Tutti noi, vuoi perché educatori, vuoi perché genitori, vuoi perché persone che hanno a che fare con altri in un cammino umano abbiamo a che fare con questa avventura che è l’educazione. Prima tu mi chiedevi cosa c’entra l’universo con questo: questa è una domanda che io ho dentro. Mi colpisce quando mi sorprendo a pensare come in fondo tutta la storia dell’universo abbia consentito l’emergere di quella creatura che è quell’essere umano che hai davanti, dotato di ragione di libertà. Tutta quanta la storia, 14 miliardi di anni, tutta la tessitura della natura è arrivata al vertice che è quella creatura per la quale s’introduce questo livello vertiginoso della libertà. L’uomo è quel livello della natura in cui la natura diventa autocoscienza. Tutto il cosmo, tutto il tempo e lo spazio è come se portassero nel loro grembo questo essere che è l’uomo, la creatura autocosciente. Mi viene spesso in mente, in questo periodo, quando portavo i miei bambini all’asilo. C’erano le maestre dell’asilo, bravissime. Una mattina una di loro, simpaticamente, mi ha fatto questo commento: “Beato te che adesso vai a studiare le galassie, l’universo che si espande, vai ad osservare il fondo del cosmo e noi siamo qui con questi bambini che piangono e ci fanno disperare”. E mi è venuto da dirle: “Allora non hai capito! Tutto questo universo ha come suo vertice quelle persone, i bambinetti che hai davanti tu!”. Allora si capisce che educare coincide col collaborare alla creazione, perché significa accompagnare quell’ultimo livello di preziosità del creato che è l’essere umano per permettergli di diventare sé stesso. E’ come se tu prendessi in mano l’universo intero, come se tu collaborassi col Creatore a compiere la sua creazione, perché un uomo compiuto è il compiersi della creazione. Questo pensiero mi colpisce in rapporto alla parola d’ordine della vostra scuola “Educare il cuore dell’uomo così come Dio lo ha fatto”. E mi viene in mente quello che il Papa Benedetto XVI ha detto recentemente al Sinodo dei Vescovi: “Solo il precedere di Dio rende possibile il camminare nostro, il cooperare nostro, che è sempre un cooperare, non una nostra pura decisione, perciò è importante sempre sapere che la parola prima, l’iniziativa prima, l’attività vera viene da Dio e solo inserendoci in questa iniziativa divina, solo implorando questa iniziativa divina possiamo anche noi diventare con Lui e in Lui evangelizzatori”, potremmo dire “educatori”, cioè collaboratori dell’emergere dell’umano, collaboratori della sua creazione. Solo inserendoci in un’iniziativa che non è nostra. Per educare il cuore dell’uomo come Dio l’ha fatto, noi vogliamo inserirci nella Sua iniziativa che crea, collaborare affinché l’io maturi secondo la sua natura, anzi vogliamo fare di tutto perché “rimanga” nella sua natura (“come Dio lo ha fatto”), perché non si distacchi, perché non s’inquini quella natura che è rapporto con l’Infinito, che è desiderio di bene. Io m’immedesimo a volte con chi ha a che fare coi bambini, come voi, perché dev’essere una cosa dell’altro mondo; mi piacerebbe da matti provarmi con la sfida dell’avere davanti delle creature umane, che hanno dentro tutta la dotazione dell’umano, cioè il cuore che è in grado di discernere ciò che corrisponde, a un livello elementare, e cominciare ad accompagnare questo secondo la natura di cui questi bambini partecipano, cioè l’umano. Questa origine, questa iniziativa non è soltanto la natura dell’educazione, ma anche il cuore di una scuola, dell’opera-scuola. Me ne accorgo ora al Sacro Cuore: il più grave rischio sarebbe dare per scontata l’origine di quella realtà, identificandola quindi con qualcosa di acquisito, con qualcosa del passato di cui dobbiamo rintracciare il ricordo per poter essere coerenti a un certo principio. Questo indebolisce, perché una possibilità educativa che sia efficace richiede una sorgente presente, la sorgente di uno sguardo presente, non può essere un principio o un’ortodossia a cui ci aggrappiamo e che dobbiamo rispettare. Una scuola é efficace soltanto se chi la vive ha il respiro di una presenza che attira e modifica e rieduca noi adulti, e ci interroga continuamente su quale sia lo scopo vero della scuola, e quindi sostiene il modo in cui cerchiamo di rispondere ai bisogni e alle esigenze (la didattica, l’amministrazione, prendere le decisioni, decidere le priorità su come investire le risorse preziosissime in questo tempo di crisi…) Questo dipende dall’immagine di scopo che abbiamo dell’opera, non è scontato… A che cosa attingere per perfezionare il proprio modo di insegnare, come fare i conti con i propri limiti? Ogni anno iniziando il corso in università capisco che è insufficiente il modo in cui insegno, sento il bisogno di rendere più persuasivo, di far nascere di più nei ragazzi la domanda alla quale poi tento di rispondere, perché si può fare una lezione perfetta ma perfetta solo in superficie, perché non smuove la curiosità dei ragazzi. E così nasce la domanda: dove attingere per correggere il proprio modo di insegnare, come non lasciarsi scivolare in una scontatezza, in un accontentarsi? Queste sono domande che hanno a che fare con la coscienza che abbiamo dell’opera educativa che stiamo vivendo. L’educare è in un certo senso l’opera più grande di tutte, più della ricerca che io faccio, perché è collaborare direttamente con la creazione, è prendersi cura del vertice per cui tutto esiste che è la libertà di uno, non la libertà come concetto, la libertà di quel ragazzino lì. Se uno vivesse con questa coscienza sarebbe uno spettacolo; non è che risolverebbe tutti i problemi sindacali o di precarietà, ma avrebbe come una statura, una coscienza di dignità che cambierebbe sensibilmente la società, il mondo attorno, a cominciare dl luogo in cui si trova. Don Julian Carron è intervenuto qualche tempo fa alla Compagnia delle Opere in cui parlava dell’imperfezione dell’opera come una coscienza senza della quale non si può vivere bene l’opera. Ogni opera, anche un’opera straordinaria come una scuola, è imperfetta; bisogna avere il gusto di rintracciare questo come esperienza e non avere paura dell’imperfezione, a cominciare da ciascuno di noi, nei nostri limiti per esempio nell’insegnare, perché la coscienza dell’imperfezione apre una ferita che non è disperazione ma un desiderio di compimento. Quando succede che uno fa fatica a riconoscere l’imperfezione del proprio ricercare, del proprio insegnare, del proprio lavorare o dell’opera di cui è responsabile, poco o tanto? Quando fa fatica a rendere questa percezione un aiuto anziché uno scandalo e un peso? Quando tutta la sua consistenza coincide con quello che fa, quando si sente misurato da quello, perciò è importante rendersi conto dell’imperfezione dell’opera e del fatto che c’è qualcosa di più grande di quell’opera a cui il mio io è appoggiato, senza del quale faccio fatica a riconoscere la realtà così com’è e allora sono sulla difensiva. Questo non è il modo in cui Dio ha creato il cuore dell’uomo: lo ha creato per riconoscere il vero, non per difendersi. Ma devo arrivare alla vostra domanda: cosa vuol dire mettere al centro il bambino? Luisa Leoni Bassani: hai già cominciato a rispondere. Hai detto una cosa enorme: se noi avessimo più consapevolezza del fatto che quel bambino è il vertice della creazione, l’orizzonte sarebbe un altro. Marco Bersanelli: infatti, va benissimo dire che dobbiamo mettere al centro il bambino (cosa sta al centro di tutto il reale se non l’umano?) Ma cosa vuole dire avere cura e attenzione per quel bambino? Cosa vuol dire nella mia vita mettere al centro un altro? Cosa vuol dire che metto al centro mia moglie, o il mio studente, nella mia vita? Attenzione, ci può essere un’ambiguità! C’è un mettere al centro il bambino che è come se rischiasse di isolare il bambino, di separare quello bimbo lì che è il vertice della creazione dal destino per cui quel bambino è stato fatto, dal compimento, da ciò che realizza quel bambino. Se io metto al centro il bambino in quanto tale, o mia moglie, viene fuori tutta la pretesa che c’è dentro questo mio “mettere al centro”, e poi succede che tutti i bisogni vengono fuori come bisogni parziali, non si coglie più il bisogno ultimo, la domanda vera. La richiesta nel bambino spesso si esprime come capriccio, ma il capriccio fa parte di quella insistenza che va educata, cioè va ricondotta a ciò che riconosci come il vero centro, cioè il destino di quel bambino. Altrimenti noi invece che tirar fuori e far camminare rischiamo di adagiarci su un livello limitato e alla fine limitante. Luisa Leoni Bassani: quando noi lavoriamo con questi bambini ci muoviamo nel tentativo di rispondere nel modo più intelligente possibile a come questi bambini funzionano dal punto di vista psicologico, affettivo, cognitivo e abbiamo messo tutte le nostre energie nel diventare competenti in questo e ci siamo trovati spiazzati perché tutta questa competenza non ci dà il risultato sperato: è vero che c’è una fragilità nel bambino, ma aiuta tanto a capire quando hai detto che così lo isoli. Non è la risposta a queste competenze che rende forti. Se dici al bambino “Sei il vertice della creazione” cominci a capire che devi cercare la forza non nella perfezione di come funziona. Marco Bersanelli: quello che è al centro della nostra attenzione come educatori è quel bambino in cammino verso il suo bene, verso il bene suo. Per dire questo in un modo che non sia una formula vuota questa frase, “Il bene di quel bambino”, serve un istante di struggimento per il loro bene. È lo stesso per i miei studenti, per la moglie o il figlio. Qual è il punto che nessuna competenza può sostituire né può in un certo senso aiutare? È che per sperimentare su di sé quell’istante di struggimento per il bene di quei bambini bisogna che uno faccia un’esperienza di bene; non “abbia fatto” chissà quando, ma che sia ingaggiato ora in un’esperienza di bene. Non vuol dire che le cose gli vanno bene, ma che è ingaggiato in una sfida in cui è al centro il suo bene. Non perché gli va bene, ma perché cammina. Se la competenza che noi mettiamo in campo non è al servizio, non è dentro questo sguardo, rischiamo di pretendere una sostituzione indebita, rischiamo di chiedere alla tecnica quello che la tecnica non è per natura in grado di dare. Questo non toglie nulla all’uso intelligente degli strumenti e di tutte le competenze. Ma non c’è nulla che possa essere sostituito a questa coscienza di un bene presente per sé, analogamente a quel che succede nell’essere padre e madre. Luisa Leoni Bassani: m’interessa moltissimo andare avanti su questa questione. Io faccio la neuropsichiatra infantile: il punto se l’umanità di questi bambini c’è e io devo solo favorire il suo sviluppo o se invece sei tu che gliela metti dentro, è all’origine della mia passione per i bambini piccolissimi. Mi ha interessato enormemente la tua storia col satellite Planck in quanto credo sia lo stesso desiderio, cioè l’andare a vedere cosa ci sia all’origine dell’universo. Dato che l’uomo è il vertice e quindi il centro dell’universo, scoprire cosa c’è all’origine dell’universo è come scoprire cosa c’è all’origine dell’uomo, per capire la verità su chi sono. A me ha sempre mosso questo. In certi incontri coi nostri bambini intuiamo una profondità di umanità che non ha niente a che vedere con ciò che hanno acquisito in termini di conoscenza intesa sia come informazioni che acquisizioni. È una profondità che spiazza perché la loro umanità si svela. Una mamma mi diceva che ha sperimentato tanti asili ed ha trovato in tutti l’attenzione al bambino: nella nostra scuola però l’attenzione al bambino non è accompagnata e non coincide con una enfatizzazione delle sue competenze (com’è bravo, come disegna bene …). Questa domanda ce la siamo fatta anche rispetto alle elementari: l’attenzione al talento, mettere al centro le capacità, etc. Quando diciamo che educare è tirar fuori ciò che un bambino è, ci sembrava il punto più alto cui arrivare, invece tu ci ridici che il punto chiave non è questo, se no il bambino che è in apparenza privo di una competenza o deficitario non può mai essere al centro dell’universo. Eppure se porta la sua umanità è lo stesso il vertice. Marco Bersanelli: a me pare che ciascuno di noi nasca come creatura da “altro”, e sia educato da “altro”. Quando prima dicevo che l’educazione è una collaborazione alla creazione, intendevo qualcosa di diverso da un automatismo vegetale, come il seme che si sviluppa e diventa una pianta (quella se mai è una utile immagine). Educare è tirare fuori quello che c’è, ma è un rapporto umano che tira fuori quello che c’è e questo rapporto ha un’incidenza su ciò che viene fuori, eccome! Don Giussani lo diceva sempre: “Se io non avessi avuto il padre che al seminario mi suonava il pianoforte, se io non avessi incontrato certe persone … se Giovanni e Andrea non avessero incontrato per caso quel giorno Gesù …” sarebbe stata tutt’un’altra storia. Ciò che noi diventiamo è dentro l’iniziativa di un Altro che ti raggiunge dentro a un rapporto: questo è il dramma e il fascino dell’educazione. Quindi noi contribuiamo ad essa in modo vero non aggiungendo qualcosa di nostro, ma essendo stimolo all’altro, anche al bambino, perché venga fuori quello che lui è. Ma non è che questo non dipenda da te, dipende eccome! Per esempio, è verissima questa cosa che dici che il bambino piccolo ha una profondità che spiazza, ha una semplicità che è profonda, che spiazza perché è profonda, perché ha qualcosa di invincibile dentro, di puro, di cui capisci di aver bisogno e per questo ti spiazza. Uno scienziato capisce di aver bisogno di quella purezza di sguardo, uno che fa ricerca e ama la ricerca capisce benissimo che per essere migliore nella sua ricerca avrebbe bisogno di una dose superiore di quella purezza che vede in suo figlio piccolo, oltre che della competenza e dell’esperienza che ha maturato come adulto, avrebbe bisogno di quella adesione più incondizionata al dato che da adulto spesso si fa più fatica ad avere. Quando una scuola è ben riuscita? Quando ottiene lo scopo? Siamo sicuri che è misurando il bambino nei termini della capacità di fare cose? Attenzione, non sto assolutamente svalutando tale livello, ma sto dicendo che dobbiamo stare attenti perché da qui dipende tanto del nostro modo di pensare la scuola e l’insegnamento. Mi pare che ci sia un livello fondamentale e prioritario (e lo dico anche da professore di fisica, non riconducibile alle coordinate degli elementi di conoscenza acquisiti, che è l’interesse per il reale, la capacità di stupirsi delle cose, la genuina curiosità per il vero e per il bello, la tenacia di questa capacità di appassionarsi alle cose non sporadicamente, ma come modo dello sguardo sulle cose e quindi come metodo. Il problema è che questo è più difficile da misurare in un test a crocette. Vedendo come arrivano i nuovi studenti a Fisica, noto che spesso quelli che hanno i problemi più gravi sono quelli che sanno tante cose perché hanno fatto il liceo scientifico ed hanno imparato le derivate e gli integrali e quindi per loro è più facile, hanno lo strumento; passato però questo bonus di vantaggio rispetto ai loro colleghi che magari hanno fatto altre scuole, nel giro di sei mesi chi sono quelli che emergono come tenuta, come orizzonte? Sono quelli in cui si vede che è stato impostato un certo sguardo sulle cose, un metodo, una certa capacità di rendersi conto se hanno capito o no una cosa. Questa capacità critica fondamentale viene dal vedere questa cosa in atto, non è una cosa che si possa spiegare. Luisa Leoni Bassani: questo è per me importantissimo, perché c’è come un virus che aleggia nell’aria per cui man mano che questi bambini crescono il rischio è che diventino disinteressati a tutto. È uno dei punti interrogativi più grossi che abbiamo dentro la realtà delle scuole. I nostri arrivano piccoli, ma già dobbiamo in qualche modo fare una certa fatica per catturarli. Io ho una nipotina di quattro anni che ha preso una foglia grande dal cortile di casa mia, l’ha dipinta ed è diventata bellissima, poi l’ha portata a scuola. L’altro giorno vedo che viene a casa mia e butta in terra la foglia, la sua bella foglia, ed io mi ero già fatta il “teorema” da neuropsichiatra infantile, ma lei mi dice: “Tanto poi si secca; l’ho riportata a casa”. Come si fa a tenerli aperti a questo modo di vedere la foglia, così connessa? Questa è la domanda grande che abbiamo ( mentre noi cerchiamo delle tecniche!): come si fa a farli appassionare? Come si fa a renderli tesi alla realtà? Questa è una domanda che noi teniamo aperta, contro una specie di virus che ci attacca. Mi collego ora per farti l’altro gruppo di domande che avevamo preparato, che secondo me è connesso a questo appena detto. Tu prima hai accennato ad un atteggiamento difensivo verso la realtà. Le nostre scuole sono scelte spesso perché sono considerate un buon ambiente; i nostri sono bambini molto protetti, molto curati, e le famiglie ci chiedono un aiuto spesso partendo da questa posizione difensiva, come a dire “perchè il mio bambino non venga intaccato da questo virus che è dentro il mondo, lo metto da te così tu lo difendi”. Mi sembra che in questa posizione ci sia insito il virus stesso. Parliamo tante volte di “rischio educativo”, ma anche le parole a volte diventano obsolete, le abbiamo dette e poi non capiamo cosa vogliano dire. Marco Bersanelli: con i figli questo si vede tantissimo, uno vuole evitar loro certi pericoli, ma nello stesso tempo certi pericoli ci sono e la cosa più importante di cui come genitori assennati possiamo renderci conto è che non ha senso sperare che per tutta la vita questi figli stiano lontani dai pericoli, ma occorre che maturino in sé un giudizio per cui arrivino a giudicare quelli come “pericoli”. Come arrivare lì? Io penso sia proprio l’arte dell’educatore quella di giocare, nel senso profondo del termine, di osare, di compromettersi nel rapporto in modo da condurre una partita di sostegno a questo cammino. Qual è il problema allora? È che detto così, uno non sa mai bene cosa fare. C’è una bellissima pagina di Peguy, del padre che tiene il bimbo che sta imparando a nuotare e che non sa mai quanto sostenere il peso del bambino. Lo scopo è che impari a nuotare, ma non vuoi che anneghi .. ma se togli la mano annega … e se lo tieni su troppo non impara a nuotare! C’è questo dramma, che è come il dramma del parto: non è che puoi togliere il dolore del parto, non è che puoi aspettarti un universo in cui questo dramma non è dato. Uscendo dall’immagine, anche io mi faccio a volte questa domanda: che cosa alla fine rompe l’indugio, pone un’entrata, pone una discontinuità? Risponderei così: il mio rischio, essere e stesso, il fatto che io intervenga con tutto quello che sono e offra la mia presenza interamente per quello che è, me la giochi. Coi figli si capisce: c’è un momento in cui è come se la tua presenza come parola e come gesto si debba rischiare. Se no sembra sempre che il rischio sia quello dell’altro, invece il rischio è anche il mio. Luisa Leoni Bassani: questa dinamica la conosci se guidi una squadra, e guidare un gruppo di insegnanti non è diverso. Questa imperfezione dell’opera è una provocazione, vedi le tue maestre e pensi che se facessero in un altro modo sarebbe meglio. Però se loro non possono mai dire la loro imperfezione, rischiarla e imparare … farai tutto sempre tu? La nostra opera è nata da un gruppo di genitori ed insegnanti, i genitori sono un elemento fondamentale per noi, vogliamo costruire quest’opera insieme perché non è possibile lavorare con dei bambini senza tener conto della centralità dei genitori per la loro crescita. Nello stesso ci ritroviamo a volte con una delega grossa addosso e quindi a scuola questa è una domanda aperta, per noi rispetto alle famiglie e per le famiglie rispetto agli insegnanti: ciascuno deve consentire all’altro di rischiare sé stesso, mentre c’è la tentazione di sostituirsi, magari vedendo che l’altro “non è capace” secondo l’idea che hai in testa. E invece l’altro non può che rischiare lui. Questa è una dinamica mai risolta, forse puoi aiutarci a vedere meglio. Marco Bersanelli: per esperienza vedo che la cosa più importante, sia per i genitori che per gli insegnanti, è che non venga mai meno quell’istante di struggimento per il bene di quel bambino lì, di tuo figlio, perché anche con tuo figlio non è automatico questo sguardo puro, anzi la tentazione del possesso dell’immagine si annida più facilmente proprio dove l’attaccamento, naturalmente parlando, è più forte. E così è per l’insegnante che si fa un’immagine di quella che è la sua riuscita come insegnante, perché uno riflette sé stesso nell’esito che vede. L’esperienza di sguardo sul bene dell’altro viene dall’esperienza che uno fa su di sé, di sentirsi voluto lui. E’ in questo (faccio una piccola parentesi) che entra qualcosa di unico in una scuola che nasce da un’esperienza cristiana, non nel fatto che in quanto scuola cristiana ha dei contenuti diversi o uno scopo diverso. Lo scopo, è lo scopo di una scuola: lo scopo di una scuola è far venir fuori degli uomini, non è far venir fuori degli uomini con una certa idea in testa, o far venir fuori degli uomini che siano cristiani-cattolici, non è questo lo scopo di una scuola cattolica! Lo scopo di una scuola cattolica è far venir fuori degli uomini, in modo che se incontreranno un’esperienza vera siano attrezzati per riconoscerla e seguirla. Don Giussani una volta a degli esercizi per preti disse, a uno che gli chiedeva cosa dovessero fare per essere preti veramente, “Dovete essere uomini”. In questa possibilità non garantita di vivere quell’istante di struggimento per il bene dell’altro da cui tutto dipende, chi fa un’esperienza cristiana (esperienza cristiana, non chi ha un’appartenenza associativa a questo o quello) chi vive un’esperienza presente di figliolanza è aiutato a quello sguardo lì, gli è più facile sorprendersi in quello sguardo lì, di uno che non fa quell’esperienza. Allora ecco che una scuola che nasce da questo tipo di esperienza, di sguardo, di intensità, di umanità, proprio perché coglie il mistero dell’altro come vertice di quello che Dio ha fatto, commosso da questo, forse è più in grado di tirar fuori degli uomini. Questa è la verifica: non tirar fuori della gente con la stessa maglietta, che vota lo stesso partito! Abbiamo bisogno di veder compiersi la creazione secondo degli orizzonti che son più grandi di quello che noi c’immaginiamo. Il cristianesimo è questa strada. Luisa Leoni Bassani: Tu hai così risposto anche alla domanda: cosa vuol dire che siamo una scuola cattolica. Cosa c’è di diverso l’hai detto. Mi sembra importantissimo avere questa consapevolezza: abbiamo messo questa frase perché desideriamo proprio tirar fuori degli uomini e questo è l’intento di Nostro Signore verso di noi. Per questo siamo cristiani, perché Cristo prende noi e ci fa diventare più uomini, più noi stessi, fino a che possiamo con libertà tirar fuori o non tirar fuori il nostro talento. Marco Bersanelli: Uno dei privilegi che abbiamo è che la Fondazione Sacro Cuore è in rapporto diretto con la Fraternità di Comunione e Liberazione, di cui don Julian Carron è presidente, e allora abbiamo un rapporto un po’ privilegiato con Carron, di cui siamo indegni. Abbiamo fatto una cena del CdA con lui, recentemente, dove il tema era proprio qual è lo scopo di una scuola come la nostra, e lui ci ha detto: “Uno studente che frequenti il Sacro Cuore, mi piacerebbe che venisse fuori con un uso della ragione, con una capacità di apertura alla totalità del reale che gli consentisse di spalancare tutto il suo umano”: degli uomini! Non ha detto “che venissero fuori tanti di CL”, neanche “tanti cattolici”: questa se mai è una grazia che può accadere. E continuava: “Io mi auguro che io professore, facendo il professore, possa ridestare l’interesse nei miei studenti per quello che dico perché è questo il punto che manca oggi: la crisi è così incidente sull’io che adesso non ci sono più persone interessate.” La grande sfida per noi è la presenza che ciascuno di noi è di fronte ai ragazzi che abbiamo davanti, ciò che noi portiamo. Luisa Leoni Bassani: ti ringraziamo tantissimo per quello che ci hai detto, per questa consapevolezza dello scopo che ci è più chiara per l’esperienza che ci hai riportato.