Il tributo di Oslo al coraggio di tre donne

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Il tributo di Oslo al coraggio di tre donne
Il tributo di Oslo al coraggio di tre donne
Articolo pubblicato da Il Corriere del Ticino
Ellen Johnson Sirleaf, Leymah Roberta Gbowee e Tawakkol Karman, tre persone straordinarie,
tre storie diverse, ma molto in comune. A loro è stato congiuntamente assegnato il Nobel per la
Pace 2011 e credo che anche quest’anno, come in molte precedenti occasioni, i giurati di Oslo
abbiano fatto un’ottima scelta, proprio perché ampiamente condivisibile. Le nuove Nobel per la
Pace hanno in comune il fatto di essere donne, e ciò sembrerebbe banale, se non fosse che
provengono da paesi ancora fortemente improntati ad un tenace maschilismo, a tratti barbaro.
E proprio nei loro paesi hanno agito, sofferto, lottato non solo e non tanto per i diritti di genere,
ma per quelli di tutti. È stato il caso certamente di Leymah Roberta Gbowee, di etnia Kpellè,
piccola, di carnagione chiara, nata a Monrovia nel 1972, con studi negli USA in Virginia alla
Eastern Mennonite University. Tornata a casa all’inizio della prima guerra civile liberiana nel
1989, decise di impegnarsi coraggiosamente in prima persona nelle più diverse attività
umanitarie. Insieme a Comfort Freeman, entrambe presidenti di due diverse chiese luterane,
fondò la “Women in Peacebuilding Network (Wipnet)”. Straordinaria fu la loro presa di posizione
contro l’allora Presidente Taylor, al quale scrissero a nome delle donne liberiane, una
struggente lettera che “importò” per la prima volta la dottrina della non-violenza in uno stato
annegato nel sangue: “In passato siamo rimaste in silenzio, ma dopo essere state uccise,
violentate, disumanizzate e infettate e aver visto i nostri bambini e le nostre famiglie distrutte, la
guerra ci ha fatto capire che il futuro risiede nel dire no alla violenza e sì alla pace”. La
“Guerriera della Pace” usò ogni arma per giungere ad un iniziale cessate il fuoco condiviso fra
le parti, compresa quella anomala (ma evidentemente determinante) dello sciopero del sesso
che, parole sue, insieme alla preghiera, risultò determinante nello scuotere la coscienza dei
leader al governo. Le sue attiviste furono soprannominate “donne in bianco”, ed organizzarono
incontri di preghiera e manifestazioni per esercitare pressioni crescenti sui delegati delle fazioni
in conflitto e trovare una soluzione pacifica alla guerra in atto. Dopo che il Presidente Taylor
promise di partecipare ai negoziati in Ghana, la Gbowee organizzò sit-in di protesta silenziosa
fuori dal palazzo presidenziale di Accra, per evitare che, lontani dal loro paese, i negoziatori
potessero “dimenticare” le pressioni della società civile. L’azione incisiva del loro movimento
diede un considerevole contribuito al processo di pacificazione, e risultò determinante
nell'elezione a Presidente della Liberia di Ellen Johnson Sirleaf. La notizia dell’assegnazione del
Premio Nobel, l’ha raggiunta ad Accra in Ghana, dove è direttore esecutivo della “Women
Peace and Security Network Africa”, un’associazione che si batte per sostenere le donne nella
prevenzione e risoluzione dei conflitti, anche domestici. È a lei che si deve l’allargamento a tutta
l'Africa occidentale del network “Women in Peace Building Program”. Sicuramente più
istituzionale, ma non meno coraggioso e movimentista, è invece il percorso di vita dell’attuale
Presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf, prima donna a rivestire questo incarico in Africa,
che avrà il privilegio di festeggiare il suo 73° compleanno, (il 29 ottobre pv) in maniera
indimenticabile, ricevendo fra le mani il prestigioso riconoscimento. Arrivata al potere nel 2005,
la "Signora di ferro" è tuttora impegnata nella ricostruzione del suo Paese, devastato da una
spaventosa guerra civile durata quasi 15 anni, che ha fatto circa 250.000 morti e che ha il triste
primato della “istituzionalizzazione” della figura del bambino-soldato. Madre di quattro figli (due
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vivono negli Usa e due in Liberia) e nonna orgogliosa di ben sei nipoti, (alcuni dei quali vivono
ad Atlanta), di formazione economista con un Master ad Harvard nel 1971, scelse nel 1980
l’esilio in Kenya, dopo il putsch contro l'allora presidente William Tolbert. Tornò in patria nel
1985, per partecipare alle elezioni del Senato liberiano, ma per le sue affermazioni fu
condannata a dieci anni di prigione. Rilasciata dopo poco tempo, si trasferì a Washington e
rientrò in Liberia nel 1997 come economista della Banca Mondiale prima, e successivamente
come manager per la Citibank. Sfida una prima volta Charles Taylor alle elezioni presidenziali
del 1997, ottenendo il 10% dei voti, contro il 75% dello stesso Taylor, che poi l'accusa di
tradimento. Finalmente poi, con le prime elezioni libere nel 2005, la Johnson-Sirleaf conquista
la presidenza (grazie anche al contributo determinate degli USA). Di grande impatto fu il suo
intervento (per certi aspetti un discorso storico) alle Camere riunite del Congresso di
Washington, quando chiese il supporto americano per aiutare il suo paese a "divenire un faro
splendente, un esempio per l'Africa e per il mondo di cosa può ottenere l'amore per la libertà".
Entrambe liberiane, queste due donne straordinarie hanno saputo innestare sul tradizionale
asse Washington-Monrovia (non dimentichiamo che la Liberia nacque come stato indipendente
fondato nel 1822 da liberi coloni afro-americani che dedicarono la loro capitale Monrovia, al
Presidente USA Monroe), elementi tipicamente ghandiani e risolutezza femminile africana,
ottenendo risultati davvero inimmaginabili. Spostandoci invece verso est, troviamo un’altra
donna coraggiosa che ha scelto la via della protesta pacifica per cambiare lo stato di cose nel
suo paese, ed in senso più allargato, nell’intera penisola araba. Si tratta di Tawakkol Karman
(32 anni e tre figlie), una giornalista yemenita che ha scelto la non facile strada della convivenza
fra le tradizioni culturali del suo paese e la certezza dei diritti delle donne, in un contesto
difficile, che vede il triste primato dello Yemen nei matrimoni combinati delle bambine sotto i
dieci anni (nonostante la legge lo vieti). Pur militando in un partito conservatore non ha esitato a
sfidare il potere togliendosi il velo, ma conservando la tradizionale veste nera delle donne arabe
(infranse un vero e proprio tabù nel 2004 quando, nel corso di un meeting sulla tutela dei diritti
umani, si tolse il velo chiedendo alle sue compagne di imitarla). Per comprendere appieno il suo
coraggio fuori dal comune, bisognerebbe aver camminato almeno una volta nei vicoli ombrosi,
così tremendamente affascinanti, ma anche così pericolosi, di Sanàa, di Aden, o di Moka ed
aver percepito quel sentimento così intensamente antifemminile, che fa di quella porzione della
penisola araba, un autentico banco di prova per il riscatto della donna in quella parte di mondo.
Così, da ieri, Tawakkol Karman ha conquistato il premio Nobel per la Pace proprio per la sua
lotta contro i pregiudizi di casta maschile dello Yemen (e non solo), ed anche per aver
dimostrato una tenace continuità nel suo impegno con la fondazione dell'associazione
“Giornaliste senza catene”. Non sono mancate le rituali minacce di morte, le confische del
materiale di propaganda ed anche qualche giorno di prigione. Ma si è dimostrata scaltra e
prudente, evitando i diversi tentativi di processo con arresto prolungato da parte del Presidente
Ali Abdallah Saleh che, ironia della sorte, è al potere da 32 anni, proprio come la sua età. Tre
biografie affascinanti per tre icone della storia contemporanea, che indicano chiaramente come
ancora oggi per fortuna non siano venuti meno il coraggio e la determinazione quando si tratta
di combattere per ideali e conquiste che in alcune parti del mondo sono cosa scontata e che
invece in altre aree sono ancora da conquistare faticosamente ed a prezzo di pericolosi rischi.
Se esiste una lezione che dobbiamo trarre dall’assegnazione di questi tre Premi Nobel, ebbene
è quella che probabilmente hanno sortito migliore e più duraturo effetto le lotte per la conquista
della pace e della giustizia sociale quando condotte con la non violenza e l’amore, rispetto a
quelle “armate” per l’esportazione della democrazia. E soprattutto che le donne restano una
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risorsa di straordinario valore alle quali si fa ricorso purtroppo solo quando di uomini non se ne
vedono più in giro, o quando, oltre al coraggio, serve la lucida determinazione degli obiettivi
associata alla capacità di perdonare, non per dimenticare, ma per superare i periodi bui e chi li
ha determinati, per costruire un futuro migliore e soprattutto condiviso.
Alessandro Leto - Il Corriere del Ticino - 9 Ottobre 2011
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