101. Alla fermata
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101. Alla fermata
“Alla fermata” di C.F. Come ogni volta, quando arrivo è scesa la sera. La fermata è sempre la stessa, quella dello stazionamento degli autobus, a piazza Garibaldi. E’ una sera piacevole, leggera, una di quelle sere di fine febbraio in cui non è più inverno, ma non è ancora primavera. Si sta bene. I corsi all’università finiscono intorno alle sette; saluto i compagni, metto le cuffiette nelle orecchie, mi incammino per il rettifilo. Da solo. Percorro il rettifilo rapidamente, lanciando qualche occhiata veloce alle vetrine e alle persone intorno. C’è sempre tanto traffico, a quest’ora, che quando arrivo, ogni volta ho un sottile mal di testa. Mi siedo alla fermata, se c’è posto, o rimango in piedi, appoggiato alla pensilina; mi guardo intorno, guardo le persone che aspettano, come me. A volte provo a seguire i loro discorsi. A volte li commento, anche, mentalmente. Questa cosa mi dà la dimensione precisa della mia solitudine serale, che si protrae fino a quando vado a dormire, dato che vivo da solo. Vivo da solo in un paesino di provincia, orrendo e brutale, come la gente che lo abita. Ma mi sta comodo. L’autobus arriva sempre piuttosto puntuale: ci sono due corse, nei giorni settimanali, una alle 19.05, e una alle 19.40. Di solito prendo la seconda, non faccio mai in tempo a prendere la prima. L’attesa dura una ventina di minuti, poi quando l’autobus è arrivato prendo posto dentro, in attesa che si metta in moto. Quando parte, con la musica in sottofondo, guardo le immagini dal finestrino come se fosse un televisore, e comincio a organizzarmi per il giorno dopo, ripeto mentalmente i miei impegni del mattino, e cosa devo preparare per i corsi, il pomeriggio. Quando siedo alla fermata, o in piedi, mi appoggio alla pensilina, in attesa, penso spesso a lei. Anche se sono mesi che non stiamo più insieme. Non saprei neanche quantificare quanti, perchè non ci ho mai provato, mi sembra una cosa triste e inutile. Mi piace pensare alla nostra storia come ad un evento perso nel mezzo del flusso del tempo. Ripenso a lei anche quando percorro da solo il rettifilo; in effetti, potrei anche aspettare gli altri miei compagni di corso e andare con loro in direzione di piazza Garibaldi, ma non l’ho mai fatto nei mesi scorsi, perchè all’uscita avevo fretta di raggiungerla. Sentirei la loro presenza come una cosa che non mi appartiene. La incontravo ad un angolo dei quattro palazzi poco dopo le sette: io venivo da via Duomo, lei da una traversina. Credo che lavori lì, tuttora. Ma non la incontro mai, anche se i miei orari non sono cambiati. Deve aver cambiato turno. Mi capita, qualche volta, di aspettare due o tre minuti a quell’angolo, sovrappensiero, non mi rendo subito conto che non ho nessuno da aspettare. A volte, percorrendo il rettifilo, ho la sensazione che mi cammini a fianco, e senza accorgermene, le chiedo come ha passato la giornata, o come sta il suo gatto, ma per fortuna mi fermo dopo le prime sillabe: mi accorgo, cercando il suo sguardo, che vicino a me non c’è nessuno. A volte, percorrendo il rettifilo, mi chiedo se in questo momento lei sia felice. Mi chiedo cosa stia facendo in questo momento, a cosa stia pensando. Mi chiedo se capiti anche a lei di pensare a me. Se le capiti così spesso. Mi chiedo se siamo stati davvero felici, insieme, o se si tratta di un’illusione che ho partorito adesso. L’unica certezza, è che mi ero abituato alla sua presenza, ai riti che scandivano la nostra quotidianità, alle consuetudini che hanno accompagnato il nostro rapporto, all’aspettarsi alla fine di ogni lunga giornata, alle passeggiate lungo il rettifilo, alle brevi soste davanti alle vetrine, alle chiacchiere alla fermata mentre attendevamo i rispettivi autobus per tornare a casa. E poi, a volte, succedono cose inaspettate. Per esempio, ho notato che da qualche giorno c’è una persona, una ragazza, che aspetta l’autobus alla mia fermata. A dire il vero, credo che più o meno faccia anche la mia stessa strada. Mi pare di averla vista davanti ad una vetrina del rettifilo, una di queste sere. E’ molto diversa da lei: ha i capelli scuri, ed è bassina, una brunetta. Ha un’espressione immalinconita, ma degli occhietti vivaci. L’ho osservata bene stasera, mentre aspettavo l’autobus. Ero seduto accanto a lei. Ho provato a immaginarmi che tipo dev’essere, ma mi viene difficile. Quanti anni avrà? Torna a casa dall’università, dal lavoro, da qualche altro posto? A cosa è dovuta quell’espressione malinconica? Anche dietro la sua solitudine ci sarà una storia. Chissà qual è. Per pochi, lunghissimi, istanti i nostri occhi si sono incontrati in un silenzioso sguardo. Magari, anche lei si fa delle domande su di me. Si chiede le stesse cose. Sarebbe interessante conoscerla. Chissà, magari una di queste volte proverò a parlarle. Come ogni volta, quando arrivo è scesa la sera. La fermata è sempre la stessa, quella dello stazionamento degli autobus, a piazza Garibaldi. Ma seduta qui stasera, accanto a me, c’è un’altra persona.