Untitled - Rizzoli Libri

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Untitled - Rizzoli Libri
FRANCESCO MERLO
StANzA 707
ROMANZO
BOMPIANI
© 2014 Bompiani / RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli, 8 – 20132 Milano
ISBN 978-88-452-7553-1
Prima edizione Bompiani marzo 2014
A Nino, a Tino
“Eva Kant, io ho il dovere di tenervi in vita.”
“Dottore, abbiate un po’ di umanità,
aiutatemi a morire.”
Angela e Luciana Giussani, Diabolik
Se un’ombra scorgete, non è
un’ombra – ma quella io sono.
Potessi spiccarla da me,
offrirvela in dono.
Eugenio Montale
I
Alla scuola per ladri dello zio Gino, Iano e Cristiano avevano
imparato che più le persone sono ricche, importanti e rispettabili e più docilmente si lasciano derubare. Invece Alice de
Kalbermatten lanciò un urlo teatrale e molto poco rispettabile
che Iano soffocò chiudendole la bocca con il palmo della mano
che odorava di sandalo. Mentre le faceva correre la canna della
pistola sulla schiena, le afferrò l’orecchino con i denti e la strattonò a sé con un movimento veloce della bocca. Le fece male,
ma le bisbigliò, con voce giovane e fresca e tuttavia roca, una
voce di tempi perduti o forse di tempi futuri, un “Je suis desolé,
Madame” che lei non apprezzò. Parendole fuori copione, le
arrivò come un cattivo presagio.
Fuori scintillava l’aria di Parigi che la pioggia era riuscita a
lavare dando a ogni cosa la sua forma più piena e rara. La luna
di Montparnasse, nel buio che avanzava ma non era ancora
compatto, sembrava sapere di essere rotonda e chiara, felice di
essere la luna. Il traffico di Boulevard Raspail diventava via via
più scarso e più veloce al ritmo della sera e i gas di scarico sempre
meno coprivano gli odori preziosi del giardino di Square
Boucicaut. La facciata accesa del Bon Marché, l’ombra senza
fessure della giostra ormai chiusa, le luci della metropolitana
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Sèvres-Babylone che inghiottiva i passanti, l’irrealtà non ancora
vivida delle vetrine immobili e la luminosità già rassicurante
della brasserie e del ristorante, tutto, attorno all’hotel Lutetia,
aveva la calma ad alta definizione di un’istantanea, di una scena
colta in un lampo del flash.
La vita e il tempo precipitavano invece nella stanza 707 dove
Alice, come un cavallo che ritrova la stalla, si stava finalmente
ritirando: più comodità che lusso, un gran viavai anonimo, il
Lutetia era l’ideale per non dare nell’occhio.
Era la sua ultima sera a Parigi, un’altra missione della
Dinoponera era finita: lo sceicco Mohamed Ali Alabbar, prestigioso ministro del governo del Dubai, si era rivelato più stupido
ma anche più generoso del previsto.
Al bar dell’albergo Alice aveva mostrato a Eva i messaggi
raffinatissimi che le aveva dedicato, simboli pieni di inventiva e
di colori: “Ti faccio vedere gli sms che mi ha mandato: cento
parole, cento ideogrammi per dire amore.”
C’erano corde intrecciate per comporre la parola Habl, che
è il legame d’amore, l’amore-corda. Danf, l’amore inteso come
male incurabile, sembrava un tumore dell’inchiostro. L’emozione
estrema, Al-jawa, era una frenesia del bianco che annegava e si
afferrava al nero. L’amore come ebbrezza mistica, Sukr, era una
prigione in forma di punto interrogativo. L’amore-tempesta,
Al-houbb as-sa’îk, era un lampo giallo in un mare cobalto.
L’amore travolgente, pazzo e sconvolto, Hiyâm, era un magnifico scarabocchio, un labirinto di punti, un’epitome del segno
dove era facile entrare ma da dove era impossibile uscire.
Eva non credeva ai suoi occhi, era rapita dalla bellezza calligrafica trasmessa per sms: “È un genio dell’amore.”
“È un maniaco della microinformatica coranica. Lo chiamano Nokià Akbar.”
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“Deve avere un telefono speciale.”
“La Nokia lo ha costruito per lui.”
“Ma non c’è l’amore-diamante?”
Alice sorrise: “Certo che c’è, ma non è un ideogramma. È il
più bel diamante che abbia mai visto, una magia della natura,
vedrai. Anche se non ti piace il genere, è irresistibile: una pietra
sacra.” Si guardò attorno e si sentì addosso molti occhi e molte
orecchie di uomo. Indossava una gonna color cipria, una camicetta di seta in tinta e una morbida giacca blu. Come per districarsi si appoggiò allo schienale della sedia e, d’istinto, cambiò
posizione e chiuse l’argomento.
“Nokià Akbar ha ventitré mogli e sessantatré figli.” Aprì le
braccia: “Ma con me...”
Non era acida. Nella vecchia borsa di cuoio, dentro un sacchetto di velluto, aveva il Koh-i-Noor, il diamante di 108.93 carati che
aveva fatto parte della Corona d’Inghilterra, probabilmente il più
ricercato dai collezionisti e da tutte le polizie del mondo.
Eppure, quando aveva girato la chiave della camera 707,
aveva lanciato quella preziosissima borsa sul divanetto con il
sollievo di chi si toglie di dosso una vecchia vita. Poi, con un
movimento pieno di grazia veloce, si era sfilate le ballerine blu,
più espressive di una faccia stanca. Ma quando infine aveva
cercato di richiudere la porta, il piede di Iano era entrato a bloccarla proprio come lo zio Gino diceva che il piede del ladro deve
entrare in una stanza d’albergo, come il seme dello Spirito
Santo: “Vous permettez?”
Alice vide il mocassino marrone e quindi la pistola ma, nonostante i gioielli, a tutto pensò tranne alla possibilità di un’aggressione per rapina. Gli rispose in inglese per metterlo a disagio, e
con disprezzo per fargli capire che non aveva urlato per paura:
“No. Come back tomorrow.”
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Più in alto incontrò la fronte che era una spiaggia, gli occhi
blu larghi e storti, il viso olivastro, e quelle strane sopracciglia
che, come le sue, si prolungavano sino alle tempie. Alice le aveva
ritrovate così solo sui visi di certe donne turche. “Oh, it’s you.”
In quella figura, in quel volto allegro, riconobbe dunque il ragazzo con i lunghi capelli neri che mangiava rillettes al caffè Lutetia,
uno di quelli che le lanciava occhiate: era italiano?
Le ritornò addosso l’atmosfera calda e vibrante di mormorii,
musica, tintinnii di bicchieri, odore di birra e di salsicce di
Strasburgo; lei per prima aveva sorriso e poi si era messa a ridere, ed Eva, che appollaiata su uno sgabello aspirava con la
cannuccia una bevanda giallastra, aveva alzato gli occhi dal giornale nel quale si era persa e aveva cominciato a osservare i tavoli vicini: c’erano molti italiani.
Aveva appena letto che ci sarebbe stata la partita allo Stade
de France: “Italiani e francesi sono pronti all’eterno derby tra
gemelli monovulari, bandiere diverse e nature uguali sempre in
cerca di una rivincita perché gli italiani sono una piccola Francia
meridionale, un decentramento parigino sud-orientale, e i francesi sono un’Italia settentrionale, una protesi romana nordoccidentale.” Aveva smesso di leggere per noia. E annoiata si era
guardata attorno.
“Yes, it’s me.” In un lampo Alice intuì che forse questo suo
aggressore non era uno di quelli che pedinavano la Dinoponera,
forse non era un nemico ma un ladro, un povero ladro e basta.
“May I come in?” chiese Iano. E Alice pensò che l’imbecillità ha spesso pregevoli qualità esteriori, una voce calda e sonora,
uno sguardo aperto anche se storto, una bella persona che sa
camminare bene e mangiare bene e, nel miscuglio di odori che
le era arrivato addosso, c’era anche il collutorio: “Come in, but
don’t wag your tail, entra, ma non scodinzolare.”
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In fondo, sapeva di rischiare anche la rapina maneggiando,
pur senza esibirli, rubini, diamanti, perle e smeraldi. Non si può
luccicare di magnificenza e al tempo stesso essere opachi: non
esistono i gioielli discreti.
Ma poi Alice vide Eva che, solitamente con la schiena dritta e
il passo sicuro, avanzava con gli occhi impauriti, l’aspetto triste
e umiliato, e allora davvero si spaventò. Pensò che era troppo per
un ladro. Dietro la testa bionda dell’amica sorgeva, come uno
spicchio di luna nera, la pistola che Cristiano, una specie di
giovanissimo gigante con l’aria fresca del teppista e uno zainetto
da studente sulle spalle, le puntava alla nuca recitando terzine
dantesche: “... e indi l’altrui raggio si rifonde / così come color
torna per vetro / lo qual di retro a sé piombo nasconde.”
Eva, che aveva vent’anni più di Alice, a cinquantadue anni
era una formidabile avvocatessa di Montpellier che nei tribunali di tutto il mondo difendeva i palestinesi ma non i terroristi
islamici, le minoranze etniche e religiose ma non i talebani,
qualche volta i boss della malavita ma non gli spacciatori e,
ovviamente, la Dinoponera.
E sempre, nel rapporto distratto con la propria bellezza,
diventava la confidente del cliente, il suo capitano e la sua amica.
Come nell’iconografia medievale dei templari condivideva il
suo stesso cavallo e nei momenti caldi del processo finiva con il
farsi amare e con l’amare, non di rado anche fisicamente. Era
un’avvocatessa che vinceva sempre.
Aveva gli occhi neri e i capelli corti e biondo scuri, con molti
fili grigi che non tingeva e che le davano un tocco di magnificenza. C’erano in lei un’inesprimibile dignità e una cordialità squisita. L’età, sul limitare delle cose, era una magica fosforescenza.
Indossava sciarpette di cotone stropicciato e sandali, era spontanea e vivace. Naturalmente indifferente all’apparenza, era
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