A Eva ea Gino, a mamma e papà. Voi siete la mia storia
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A Eva ea Gino, a mamma e papà. Voi siete la mia storia
A Eva e a Gino, a mamma e papà. Voi siete la mia storia, voi siete la mia costante ispirazione. Io sono vostro. non avere paura dei libri 1. Mia madre – la viennese che negli anni Sessanta indossava la sfacciataggine della libertà per le mormoranti vie di Appiano Gentile – aveva l’abitudine di bruciare i libri. Con il posacenere sul materasso e una pila di romanzi sul comò, in bilico come il palazzo di Inferno di cristallo, a Eva bastavano un paio di pagine per trasformare una sigaretta in una torre di cenere: un soffio di distrazione ed ecco che lapilli incandescenti finivano per bruciare punti e virgole, annerire paragrafi o creare crateri profondi quanto interi capitoli. Ma se non fosse stato per le sigarette, i suoi libri sarebbero comunque inceneriti per autocombustione: mia madre rimaneva sveglia fino alle quattro a leggere Johannes Mario Simmel, Han Suyin o Chaim Potok, riponendoli solo quando le pagine erano roventi. Al suo fianco dormiva Gino, mio padre, litografo e pompiere. Il fuoco non era l’unico a marchiare i libri di mia madre. Eva – la viennese che si era liberata di un servizio di piatti per far spazio agli amati romanzi d’ambientazione parigina di Gábor von Vaszary – imbeveva 15 christian mascheroni i suoi libri di Coca-Cola, ne impregnava le copertine di maionese o salsa di cren e li sfiniva con improbabili segnalibri, come fermacapelli o lime per le unghie. Ancora adesso la rivedo, a letto, con la testa inclinata sulla spalla, mentre cede al sonno, vinta dall’emozione di un finale o dalle carezze che Pearl S. Buck, John Steinbeck e Hans Fallada le davano nel silenzio della notte. Sette anni fa mi sono trasferito in un appartamento mansardato e vi ho portato dentro i settantaquattro scatoloni dei nostri libri. Quando ho riaperto il primo mia madre ne è sbucata fuori all’improvviso, e si è subito guardata attorno, con la sua aria da lettrice indomabile. Sapevo cosa le passava per la mente: voleva accertarsi che vivessi in un posto dove i suoi libri, oltre duemilacinquecento, sarebbero stati al riparo. Ho aperto un volume a caso, uno di quei Kriminalroman della serie Jerry Cotton che lei comprava a pochi scellini, e ho soffiato sulla copertina. C’erano una macchia d’inchiostro e l’odore di fumo conservato fra le pagine. È stato uno dei primi che ho sistemato sugli scaffali. Ma a onor del vero, a battezzare la mia libreria è stato Martin Eden di Jack London, edizione Garzanti 1978. È stato in quel momento, nell’attimo in cui la libreria prendeva vita, che ho visto lo sguardo di mia madre rasserenarsi. Mi ha detto che sarebbe andato 16 non avere paura dei libri tutto bene e mi ha sorriso. Quindi è evaporata, è tornata ad essere un ricordo. Sono passati dieci anni dalla sua scomparsa e ancora adesso il miglior modo per parlarle è sfogliare i libri che hanno reso speciale la nostra vita. Si chiama come la prima donna, mia madre, Eva. Di cognome fa Cerny. In ceco cerna significa nero, quindi Eva Nero: Dashiell Hammett l’avrebbe amata fino all’ultimo goccio di whisky. E sono sicuro che se Bradbury l’avesse conosciuta, se avesse ammirato i suoi occhi verdi e devastanti, avrebbe fumato una sigaretta insieme a lei leggendo Fahrenheit 451. È stata lei a farmi capire che i libri non potevano essere semplicemente letti: andavano stravolti. Quando avevo cinque anni mi leggeva, ogni sera, qualche pagina di Alice nel paese delle meraviglie. Poi, prima di augurarmi la buonanotte, a libro chiuso, mi chiedeva di immaginare che cosa stesse facendo Alice in quell’istante ed io mi inventavo un mondo parallelo a quello di Lewis Carroll, nel quale Alice incontrava i miei personaggi e viveva nuove avventure. Non importava se, la sera successiva, Alice faceva altro, perché quell’altro era meraviglioso, era scritto, era dentro le pagine, mentre la mia fantasia era galleggiante, e senza l’invisibile filo di lana che mia madre le legava intorno per ancorarla alla memoria, probabilmente sarebbe andata perduta. È stato forse per questo che ho cominciato a scrivere racconti a sei anni: volevo che le mie storie fossero trattenute nelle pagine di un libro e che un giorno potessero essere divorate, 17 christian mascheroni mangiate, bevute e bruciate dalla bellezza intellettuale di mia madre. Mia madre che aveva paura di tante cose, persino di se stessa, mia madre che di una sola cosa, per certo, non aveva paura. Ricordo un pomeriggio. Avevo undici anni, ero appena tornato da scuola. La maestra ci aveva chiesto di scegliere un libro da portare in classe e da raccontare. Così io spalancai l’Armadio in salotto che conteneva centinaia di volumi e incominciai a buttarli per terra – in casa mia, al primo piano di una caserma dei pompieri, i libri erano corpi da consumare con famelica curiosità. Mi sdraiai a pancia sotto e presi ad accarezzare le copertine, a familiarizzare con i loro nomi e a chiedere a mia madre di raccontarmene le storie in breve. Mi colpì la faccia di un libro. Era una faccia saccheggiata dal dolore, lontana dalla dolcezza dei volti paffuti dei libri per bambini. Era La pelle di Curzio Malaparte. Decisi che volevo leggerlo. Sapevo che era un libro da grandi, ma volevo scoprire cosa si nascondeva sotto la pelle di quel libro. Eppure, quando le proposi di leggere in classe il romanzo dalla copertina dolorosa, la maestra per poco non svenne. Tornai a casa avvilito, perplesso. Non sapevo che un libro potesse spaventare un adulto a tal punto da farlo sbiancare. Cercai risposte in mia madre e lei – la viennese che amava godersi le parole con lo stesso ardore col quale ballava Satisfaction dei Rolling Stones – mi 18 non avere paura dei libri guardò dritto negli occhi e mi disse una cosa che non avrei mai dimenticato. Non avere paura dei libri. Passò la mano sulla copertina de La pelle, alleviando il dolore del titolo e lavando via le ferite dei paragrafi. Poi mi disse di leggerlo e basta, e che se mi fossi imbattuto in qualcosa che non capivo mi avrebbe aiutato lei a non averne paura. Forse è anche per questo che i libri, ancora oggi, mi rasserenano. Ogni volta che ne prendo uno rivedo la mano di mia madre che li accarezza come accarezzava me, con lo stesso fuoco, con la stessa necessità di bruciare insieme all’inferno piuttosto che di restare impassibili di fronte alle parole, al senso, alla punteggiatura della vita. Ho un appartamento pieno di libri bruciati, molti dei quali ancora ardenti. Ma non ho paura. Non voglio domare le fiamme. 19