Leggi il primo capitolo dell`opera in traduzione italiana

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Leggi il primo capitolo dell`opera in traduzione italiana
Risguardi Editorial Scouting
André de Leones, Brasile
Dentes Negros
Editora Rocco, 2011
Traduzione dal portoghese di Vincenzo Barca
PRIMO BLOCCO / ossa
Qui nessuno ha avuto un’infanzia, dice lei. E adesso siamo avvelenati fino alle ossa.
Non è esattamente la tipica conversazione da bar tra due persone che si sono appena
conosciute. La ragazza seduta alla sinistra di Hugo ha davvero voglia di dire qualcosa, ci sta
provando. Lui cerca di ricordare il suo nome, che lei gli ha detto quando lui è arrivato e si è seduto
al tavolo e un comune conoscente, di cui ugualmente non riesce a ricordare il nome, li ha
presentati.
Con un’occhiata circolare, Hugo controlla chi è seduto al tavolo. Sono quasi tutte facce
conosciute, colleghi di lavoro che si godono l’happy hour di un mercoledì, vigilia di un ponte
prolungato, ed è come se lui sapesse e non sapesse i loro nomi, o come se sapesse e sentisse che
questo (il fatto di sapere i nomi) non significa niente.
Non si possono dire amici, persone davvero vicine, sono colleghi della stessa rete riuniti dopo
il lavoro, quando a qualcuno è venuto in mente di telefonargli e lui, solo in casa, abbastanza
depresso e molto annoiato, ha intravisto la possibilità di uscire un po’ come qualcosa di buono e
salutare.
La ragazza è molto giovane e ne fuma una dietro l’altra. Da quando lui è arrivato e si è seduto
accanto a lei e ha deciso di bere la stessa cosa (arak), hanno attaccato un tipico discorso da bar su
quello che si deve o non si deve bere al giorno d’oggi, quali sono le migliori marche e i migliori tipi
di bevande, e hanno convenuto sul fatto che la schiacciante maggioranza delle birre nazionali sono
diventate puro veleno.
Io bevevo birra da ragazzino, disse lui. Era un’altra cosa, non questa mondezza che fanno ora
usando orzo sintetico e non so che altro.
Da ragazzino?, chiese lei.
Da ragazzino. Nella mia oziosa adolescenza da città di provincia. O forse sarebbe il caso di dire,
nella mia infanzia tardiva.
Fu allora che lei rise e disse:
Qui nessuno ha avuto un’infanzia. E adesso siamo avvelenati fino alle ossa.
E subito dopo completò:
O a cominciare da loro. Dalle ossa, dico.
Hugo non si aspettava un’uscita del genere. Infanzia, accidenti!, ossa, avvelenamenti.
Un’allusione diretta al Disastro, alla devastazione recente. Serio, la osserva bere un piccolo sorso
di arak, fare una smorfia, dare una lunga tirata alla sigaretta.
Come ti chiami, scusa? Me lo sono dimenticato.
Renata, sorride lei. Renata Campos.
Ha la pelle bianca, i capelli neri, corti, e gli occhi a mandorla. Porta occhiali da vista e tiene la
sigaretta accesa come John Travolta in quel vecchio film di John Woo. E dice:
Anch’io ho dimenticato il tuo nome.
Hugo. Hugo Silva.
Lavori anche tu alla TV, Hugo Silva? Non me la ricordo, la tua faccia.
Il mio nome.
Il tuo nome?
Faccio lo sceneggiatore. Nel caso, ti ricorderesti piuttosto il mio nome.
Nel caso?
Nel caso ti ricordassi.
E perché questo non è il caso?
Perché non guardi i programmi che scrivo io.
No?
No.
E che programmi sono?
Comici. Il sabato sera, la domenica pomeriggio. Comicità sgangherata. Le stesse situazioni,
ripetute ogni puntata, risate registrate, tormentoni e cose del genere.
Non vedo i programmi che scrivi tu, Hugo Silva.
L’avevo immaginato.
L’hai detto tu.
L’ho detto io.
Lei spegne la sigaretta e ne accende subito un’altra. Hugo si guarda di nuovo intorno e ripete
mentalmente i nomi delle persone sedute al tavolo. Piccoli blackout mentali. Riflessi dei suoi sedici,
diciassette, diciotto anni, quando c’era a disposizione una miriade di droghe, nuove e vecchie,
tutte liberate, tutte a portata della mano e della tasca di ognuno, con la concorrenza che tirava giù
i prezzi. Hugo, ragazzo appena arrivato dalla provincia, solo nella più grande città del paese, per un
po’ aveva esagerato. Ma tutti esageravano a quel tempo, dieci, dodici anni prima, e tutti
sembravano, o di fatto erano, soli nella più grande città del paese.
Io ho avuto un’infanzia, dice lui.
E com’è stata?
Normale.
E che diavolo vuol dire?, ride lei.
Non lo so.
Chiedi ai tuoi genitori. Magari lo sanno.
Non posso.
Non c’è bisogno che aggiunga altro. Lei intuisce. Lui non può chiedere ai genitori. Lei capisce,
soffia il fumo, dice:
Mi dispiace molto.
Tranquilla.
Di dov’erano?
Del Goiás. Anch’io sono del Goiás. Ho passato la mia infanzia lì.
Il Goiás è stato distrutto.
Sì. Il Goiás è stato distrutto. Non esiste più.
Il luogo della tua infanzia.
Ho capito dove vuoi arrivare.
Io non voglio arrivare da nessuna parte, Hugo.
Il sole sta tramontando da qualche parte. Renata tiene in mano la sigaretta come John
Travolta in un vecchio film di John Woo e non vuole arrivare da nessuna parte. Ora lui non riesce a
smettere di guardarla. È molto giovane, fuma continuamente. Chiacchiera, beve la stessa cosa che
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beve lui, anzi, è lui che beve la stessa cosa che beve lei, lui è arrivato dopo, abbastanza depresso,
annoiato, uscire un po’, ciao, come va?, piacere.
Io sono di Bahia. La mia città aveva lo stesso nome di questo bar, lo sai?
Ibotirama.
Ibotirama. La mia famiglia tutta quanta. Era questo che intendevo dire. Il posto da dove venivo,
le persone con cui ero cresciuta. La mia infanzia era lì, in quel posto e in quelle persone. Il posto è
stato distrutto, le persone non esistono più.
Ma prima hai detto che non abbiamo avuto un’infanzia.
Esatto.
Invece l’abbiamo avuta. L’abbiamo avuta e l’abbiamo persa.
Lei ci pensa su un poco, dà una boccata. E sorride
Perché ridi?, chiede lui.
Sorrido.
D’accordo. Perché sorridi?
Perché ci conosciamo da un quarto d’ora appena e stiamo già parlando di queste cose. Non è
la più tipica conversazione da bar. Per lo meno, non tra due persone che si sono appena
conosciute.
Mi sa che ne chiedo un altro. Tu ne vuoi un altro?
Perché no?
Hanno unito tre tavoli e ora sono quattordici, sedici se contiamo Renata e Hugo, ma sono
quattordici persone che parlano male dei colleghi di lavoro assenti e dei capi e fanno programmi
per il ponte e chiedono ancora da bere e pensano di ordinare qualcosa da mangiare o uno
stuzzichino mentre il bar si riempie sempre di più e le cravatte si allentano e tutti respirano
sollevati, liberi, leggeri, e il prossimo lunedì sembra lontano e inconcepibile quanto l’estinto stato
dell’Acre.
C’era una battuta che circolava tra i tavolini dei bar di São Paulo sullo stato dell’Acre, anzi non
era nemmeno una battuta, ma quel tipo di storiella grassa con tutti i preconcetti che hanno quelli
di São Paulo nei confronti di posti distanti, posti che non sono e non saranno (e non sarebbero
mai) come São Paulo, e la gente parlava di cose della cui esistenza dubitava, cose che si pensava
nemmeno esistessero, leggende, e una di queste era lo stato dell’Acre. A Hugo dava fastidio
perché a volte parlavano allo stesso modo del Goiás. Gli dava fastidio e si riprometteva di tornare
al suo paese natale una volta che avesse finito l’università, tornare nel Goiás, dai genitori, dagli
amici, a casa.
Ma non aveva mai terminato l’università, aveva cominciato a scrivere per la televisione, a
guadagnare bei soldi, e poi era successo il Disastro e lo stato del Goiás, così come quello dell’Acre,
non esiste più, cancellato.
Perché ci conosciamo da un quarto d’ora soltanto e stiamo già discutendo di queste cose.
La cosa curiosa fu che, non appena lei disse questo, tutti e due tacquero. Hugo e Renata,
seduti fianco a fianco, con i loro bicchierini di arak, improvvisamente non hanno più niente da dirsi,
non hanno la minima voglia di dire qualcosa e per un po’ stanno ad ascoltare i discorsi degli altri,
fingendo interesse, fingendo di capire tutto, e qualcosa lui la capisce davvero, quel tizio, l’ispettore
di produzione, è uno stronzo, senti che cosa mi ha fatto, altre no. Renata fuma una sigaretta dietro
l’altra, un pacchetto intero in uno spazio di minuti, come qualcuno che è in ansia perché la moglie
lì accanto sta partorendo e ci sono state complicazioni, mi dispiace, signore, ma…
Raccontami qualcosa della tua infanzia, chiede lei dopo un po’.
Della mia infanzia?
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Della tua infanzia normale, non della tua infanzia tardiva, sorride lei.
Perché?
Voglio essere certa che non l’hai perduta.
Non l’ho perduta.
Allora raccontami qualcosa.
Non saprei cosa raccontare. Non so quello che tu vuoi sentire.
Io voglio sentire quello che tu mi vuoi raccontare. Non deve essere per forza chissà quale
grande storia. A dire la verità, preferirei persino che fosse una storia piccola, banale. Una cosa
qualunque. Tipo, il tuo primo giorno di scuola.
Non me lo ricordo.
Non ti ricordi il primo giorno di scuola?
No, io… beh, certe cose non me le ricordo. La mia memoria è abbastanza difettosa, e ogni
tanto ho dei piccoli blackout. Per qualche secondo mi dimentico le cose, magari cose stupide.
Che ti sei fumato?
Lui ride. Lei ha colto nel segno.
Ho inalato parecchio cury anni fa.
Cury? Io l’ho provato una o due volte. Mi dava mal di testa. Dicono che ti brucia il cervello.
Perdita di memoria, cose del genere.
Tu che cosa usi?
Io sono tradizionalista: fumo marijuana ogni tanto.
Marijuana? Ma non si pianta per lo meno da cinque anni.
Sintetica, caro.
Beh, certo, ride lui. Piantine di plastica.
Quasi.
Hugo beve un sorso e per un attimo si vede seduto sul tappeto di una stanza spaziosa a
fumare marijuana con Renata, e dice:
Okay, ti racconto.
Si appoggia allo schienale della sedia e lei fa lo stesso. I discorsi degli altri scompaiono. Gli altri
clienti del bar scompaiono. Il bar scompare, Augusta, le macchine, São Paulo scompare. Renata
guarda fisso il viso di Hugo, che guarda invece per terra. Guarda per terra e comincia a raccontare.
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