leggi tutto - Jura Gentium
Transcript
leggi tutto - Jura Gentium
Jura Gentium CULTURA DEI DIRITTI E LAVORO DELLA MEMORIA SU I CONTI CON IL PASSATO DI PIER PAOLO PORTINARO Ilaria Possenti All’indomani della catastrofe totalitaria Hannah Arendt scriveva che «il diritto ad avere dei diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe esser garantito dall’umanità stessa», ma «non è affatto certo che questo sia possibile»1. Nutrendo scarsa fiducia nei «benintenzionati tentativi umanitari di ottenere nuove dichiarazioni dei diritti umani dalle organizzazioni internazionali», Arendt rifuggiva dall’ipotesi cosmopolitica kantiana e propendeva semmai per il dubbio di Trasimaco sul ‘giusto’ come interesse del più forte: «è perfettamente concepibile, e in pratica politicamente possibile, che un bel giorno un’umanità altamente organizzata e meccanizzata decida in modo democratico, cioè per maggioranza, che per il tutto è meglio liquidare certe sue parti»2. Una via d’uscita da questa impasse si sarebbe poi aperta in Vita Activa, che sottolinea l’irruenza e l’irreversibilità delle azioni umane, insieme al funzionamento della polis come organizzazione della memoria3. In una prospettiva arendtiana, potremmo dire, i diritti non hanno fondamento, poiché le Dichiarazioni universali implicano una scelta che niente e nessuno può garantire una volta per tutte. Ma questa ‘infondatezza’, a ben vedere, ha tutta la consistenza di una costruzione storica che si sedimenta nella cultura, nelle pratiche e nelle strutture sociali: certamente un diritto può essere oggi affermato e domani negato; eppure nessuna comunità politica, dopo averlo introdotto, potrà cancellarlo come se niente fosse - come se l’evento della sua affermazione non fosse 1 H. Arendt, The Origins of Totalitarianism (19511), New York, The World Publishing Company, 1958; trad. it. Le origini del totalitarismo, Milano, Comunità, 1999, p. 298. 2 Ivi, p. 299. 3 Cfr. H. Arendt, The Human Condition, Chicago, University of Chicago Press, 1958; ed. or., Vita Activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1988, capitolo V, in particolare prgg. 25-28 e 32-33. 1 Jura Gentium mai accaduto. A meno che, si intende, quella comunità non sia in grado di produrre oblìo totale e inconsapevolezza della memoria. Quale memoria, per quale cultura «La cultura dei diritti - scrive Portinaro nel capitolo conclusivo del suo libro - si alimenta alla memoria del passato. La promessa dei diritti è correlata alla memoria dei torti: detto altrimenti, la storia dei diritti è la storia della consapevolezza dei soprusi patiti e dei mali commessi» (p. 202). Poiché ‘memoria’ si dice in molti modi, tuttavia, due domande si impongono: quale uso della memoria vive nelle pratiche politiche e giuridiche più diffuse? E di quale uso della memoria può alimentarsi la ‘cultura dei diritti’? La cultura, diversamente da quanto suppone un culturalismo diffuso, è un processo e non un possesso: è un lavoro di ‘coltivazione’. Nel caso della cultura dei diritti, se questa espressione rinvia all’ ‘universalismo dei titolari’, non può che essere il lavoro di una pluralità di attori, a partire da coloro che ad ogni latitudine attivano conflitti per i diritti. Per questo è importante che Portinaro colleghi la cultura dei diritti al tema ricoeuriano del ‘lavoro della memoria"4. Si tratta di comprendere, infatti, di quale uso della memoria abbiamo bisogno per una cultura dei diritti che sia un processo partecipato e plurale, non un’arma nelle mani di qualcuno. Non potrei e non saprei discutere in dettaglio un aspetto prezioso del libro, e cioè la storia di quelle pratiche politiche e giuridiche che fin dall’antica Grecia, ben prima del sorgere di una cultura dei diritti, provano a confrontarsi col ‘male politico’ all’indomani della sua disfatta (dopo la caduta di un regime tirannico come dopo una guerra civile). Vorrei però ricordare di quali pratiche si tratti: Portinaro richiama prima di tutto la vendetta nei confronti degli esecutori, cui sono affini i provvedimenti di 4 Il riferimento è a P. Ricoeur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Paris, Le Seuil, 2006; trad. it., La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Cortina, 2003. V. anche Id., «Memoria. Storia. Oblio», in D. Iannotta (a cura di), Paul Ricoeur in dialogo. Etica, giustizia, convinzione, Torino, Effatà, 2008: intervento di Paul Ricoeur alla Conferenza Internazionale «Haunting memories? History in Europe after Authoritarianism», Budapest, 8 maggio 2003; la versione italiana è tratta dalla traduzione francese: cfr. Id., «Mémoire, histoire, oubli», Esprit, (2006), 3-4. 2 Jura Gentium ‘epurazione’; in secondo luogo, la ‘soluzione giudiziaria del passato’, ovvero l’elaborazione della memoria dei torti che passa attraverso i processi a responsabili di crimini specifici; in terzo luogo, i provvedimenti di amnistia, spesso di ampie proporzioni e pubblicamente motivati dalla necessità di reagire alla catastrofe con una ritrovata moderazione politica; infine, quelle pratiche odierne che, a partire dalle riparazioni di guerra e dai risarcimenti alle vittime, propongono strategie di riconciliazione che passano anche attraverso una pubblica ricostruzione ed esposizione dei fatti, come accaduto in tempi recenti con le ‘Commissioni verità e riconciliazione’. Portinaro ricorda che queste strategie, oggi discusse come ‘giustizia di transizione’, si inscrivono entro un inedito moral frame della politica e del diritto internazionale: esse si basano sull’idea che ricostruire ed esporre pubblicamente i torti commessi e subiti consenta di superare in tempi ragionevoli la ferita inferta alla comunità, nel suo insieme, dalla spaccatura tra vittime e carnefici. D’altra parte, non è così evidente che ‘il bene’ delle vittime si identifichi con una rapida reintegrazione nella società che le ha martirizzate, né che una ‘riconciliazione’ istituzionalizzata e cadenzata eviti i rischi di un ritorno del ‘rimosso’. Anche per questo, credo, Portinaro solleva dei dubbi sulla fretta di riconciliare (fretta di ‘democratizzare’ e ‘liberalizzare’?), mentre considera il ‘lavoro della memoria’, che richiede tempo, impegno e energia, come una condizione indispensabile per la cultura dei diritti: «I risarcimenti materiali e il ristabilimento della verità sono condizioni necessarie ma non sufficienti per la riconciliazione. Il ’lavoro della memoria’ è la terza indispensabile condizione che, in considerazione dell’inadeguatezza delle altre politiche del passato, è venuto acquistando nel corso degli anni sempre maggiore rilevanza» (p. 202). Ma in cosa consiste questo lavoro? E, aggiungerei, deve necessariamente essere identificato con pratiche di ricerca e confronto sociale dotate di finalità ‘pedagogiche’, come quelle che emergono nelle cosiddette ‘politiche della memoria’? La riflessione di Portinaro ci consente, intanto, di chiederci quale sia il rapporto che vendetta, amnistia, processi, riconciliazione intrattengono con la memoria, e se quel rapporto aiuti o meno a coltivare i diritti. Esiste un modo semplificato di rispondere a questa domanda: si potrebbe dire, infatti, che la vendetta ci inchioda al passato, e le 3 Jura Gentium sentenze dei giudici pure; che l’amnistia cancella la memoria dei torti, e che anche le strategie di riconciliazione, in fin dei conti, puntano solo a far dimenticare. Simili semplificazioni, d’altra parte, corrispondono a modalità storiche con cui quelle pratiche si sono presentate. Non di rado le ‘rese dei conti’ sono state anche giudiziarie, hanno creato visioni stereotipate e controproducenti della distinzione tra il giusto e l’ingiusto (basti pensare alla ‘giustizia dei vincitori’), e hanno sclerotizzato la memoria, rimuovendo forme di consapevolezza critica come quelle che Primo Levi ha in vari modi cercato di sollecitare: ad esempio, riflettendo sul fatto che tra carnefici e vittime si estende una vasta ‘zona grigia’5, la cui rimozione aiuta i primi ben più di quanto possa aiutare le seconde, perché impedisce il compito della comprensione. La cristallizzazione della memoria, mi pare, non aiuta la cultura dei diritti perché non costruisce storie attendibili, storie umane e dunque storie complesse, in grado di tenere insieme la ricostruzione dei fatti con gli inevitabili margini di ambiguità dell’intreccio, e l’identificazione dei personaggi, a partire dai responsabili, con le loro umane ambivalenze. Una memoria ipersemplificata produce stereotipi e può facilmente consentire a chi si considera erede e possessore della cultura dei diritti, in quanto vittima o in quanto tutore, di brandire i diritti come arma legittima per ogni forma di guerra alle violazioni (magari viste oramai da posizioni di forza, o selezionate in base a interessi diversi e congiunturali). Anche l’amnistia e la riconciliazione rischiano, d’altra parte, di fare un uso della memoria che nuoce alla cultura dei diritti. Percorrere le strade dell’oblio può infatti portare a promuovere l’impunità e a coprire le complicità. Rispetto alle amnistie, Portinaro ricorda come questo genere di ‘rinuncia alla resa dei conti’ avvenga spesso in virtù di valutazioni strategiche e di più o meno evidenti interessi di parte (l’interesse a ottenere riparazioni e risarcimenti, ma anche quello a non far emergere complicità indirette): in quanto ‘reciproco oblìo dei torti patiti’, l’amnistia può infine eludere completamente il problema della responsabilità. Un rischio analogo pare implicito anche nelle strategie della riconciliazione, riconducibili a un modello di relazioni mnestiche che Aleida Assmann chiama «ricordare per 5 Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986. 4 Jura Gentium dimenticare»6. Questo modello, osserva Portinaro, «non usa la memoria per fissare apotropaicamente un evento del passato, ma come strumento terapeutico per soddisfare l’esigenza di andare oltre (leave behind and go beyond)» (p. 208); ci sia avvia così verso una forma di perdono politico collettivo che, proprio come accade nel perdono individuale, dovrebbe in teoria azzerare la storia. Su questo fronte, dunque, il lavoro della memoria rischia di produrre non cristallizzazioni e stereotipi, ma forme dirette (aministia) o indirette (riconciliazione) di oblìo. Per queste ragioni il libro si chiude sul registro dell’insoddisfazione rispetto alle strategie di riconciliazione, che da un lato sembrano tese a superare l’alternativa tra giustizia politica e pura amnistia, o tra cristallizzazione e oblìo immediato del passato, ma dall’altro non sembrano promuovere un rapporto con la memoria adeguato alla cultura dei diritti. La memoria dialogica Quando richiama la necessità di un ‘lavoro della memoria’, Portinaro rinvia immediatamente alla duplice preoccupazione di Paul Ricoeur, che ne La memoria, la storia, l’oblìo riflette tanto sui rischi di una sclerotizzazione quanto sui rischi di un sovraccarico e di una saturazione della memoria. Il lavoro della memoria, potremmo dire, non coincide semplicemente col dovere di ricordare, perché questo potrebbe anche sfociare in una sorta di compulsione: da una parte, in un flusso continuo e collettivo di coscienza che non riesce a dar forma a un racconto, con effetti paralizzanti per gli attori sociali e per la cultura dei diritti; dall’altra, in una chiusura della contesa basata su puri rapporti di forza, capaci magari di imporre la storia dei Lager come giustificazione delle moderne ‘guerre umanitarie’. Limitarsi a scatenare le ‘Erinni della memoria’, questo è il punto, non giova necessariamente alla coltivazione dei diritti. Per questo, credo, Portinaro rinvia a un lavoro della memoria operante nel senso di un determinato modello mnestico, che Aleida 6 A. Assmann, «From Collective Violence to a Common Future», in R. Wodak, G. Auer Borea, ed., Justice and Memory, Wien, Passagen, 2009. 5 Jura Gentium Assmann chiama «dialogic remembering». Mi domando tuttavia se non valga la pena di provare a leggere il ‘lavoro della memoria’ nei termini di una ‘memoria dialogica’ che non si lega necessariamente alle etiche dialogiche e comunicative - come mi sembra che Paul Ricoeur ci consenta di fare, in particolare, con la riflessione di Sé come un altro su identità, memoria e narrazione7. In questa prospettiva, quello che manca alle ‘politiche della memoria’, o almeno all’ossessione contemporanea per il ricordo, è la sollecitazione della capacità dialogica della memoria, che appartiene al carattere dialogico della soggettività e si esprime in narrazioni non ‘deboli’ (in cui i responsabili appaiono meno responsabili), ma complesse (in cui i responsabili sono responsabili, per quanto l’intreccio di cui sono al centro abbia margini estesi, che sconsigliano di chiudere una volta per tutte il lavoro della memoria e della comprensione, come di istituire analogie improvvisate con storie e contesti diversi). Una cultura dei diritti plurale e partecipata, inevitabilmente animata da contraddizioni e conflitti, non può alimentarsi di narrazioni tanto pacificate e pacificanti da apparire sospette, che identificano i ‘buoni’ e i ‘cattivi’ emulando i modelli stereotipati e ipercoerenti del folklore; né può alimentarsi di narrazioni tanto ardite da apparire improponibili come forme di convivenza sociale; di storie, cioè, pluralizzate e sature a tal punto da disgregare l’intreccio e la soggettività degli attori, un po’ come accade in quei modelli letterari in cui la realtà semplicemente scorre e si affastella, fino a minare ogni tipo di forma e coerenza (dal Musil citato da Paul Ricoeur fino ai tanti romanzi in cui, nel corso del Novecento, sfilano uomini e donne ‘senza qualità’). Le narrazioni basate sulla memoria dialogica sfuggono ai due rischi della ‘sclerotizzazione’ e della ‘saturazione’ perché restano tanto complesse quanto sono complessi il mondo sociale e i suoi attori, come può accadere in un romanzo di Tolstoj o Dostoevskji. Se pensiamo alla memoria sociale, questo è in fondo il caso di certe narrazioni di ‘resistenza’, in cui la convinzione di aver giustamente difeso dei diritti può convivere con la difficoltà di riproporre nel contesto presente, o di rivendicare con leggerezza, gli atti compiuti nel corso di quella lotta. 7 Faccio qui riferimento alle tesi sulla soggettività sviluppate in P. Ricouer, Soi-même comme un autre, Paris, Le Seuil, 1990; trad. it., Sé come un altro, Milano, Jaca Book, 1993, con particolare riferimento ai capitoli Quarto, Quinto e Sesto. 6 Jura Gentium Probabilmente, la memoria sociale contribuisce alla cultura dei diritti finché mantiene elevate capacità dialogiche. Queste capacità non obbligano a far saltare o a far infine dimenticare, come in una sorta di ideologia a rovescio, le distinzioni elaborate tra il giusto e l’ingiusto, o quelle appurate tra vittime e carnefici; ma consentono di difendere quelle distinzioni in modo non ideologico, grazie all’esplicitazione e alla valutazione continua, e non a una comoda rimozione, degli argomenti che potrebbero mettere in discussione alcuni aspetti, oppure la loro banale riproposizione in condizioni storiche e sociali diverse. Da questo punto di vista, forse il ‘lavoro sulla memoria’ è un lavoro cognitivo ben prima che etico. Non riguarda tanto la coscienza morale (conscience, Gewissen), quanto la coscienza come consapevolezza dialogica o critica (consciusness, Bewußtsein)8. Ciò non significa dimenticare la sofferenza delle vittime; significa, semmai, ricordarla con un rispetto più profondo, un rispetto che si esprime anche nella consapevolezza dei vincoli epistemologici insiti nel discorso delle e sulle vittime. Quando parla della ‘vergogna’ provata nel farsi testimone di Auschwitz, ad esempio, Primo Levi ci ricorda che appartenere alla cerchia dei ‘salvati’ pone alcuni limiti alla possibilità di identificarsi coi ‘sommersi", ovvero di parlare in loro nome9. In questa prospettiva, forse, la memoria dialogica non si identifica con certe pratiche piuttosto che con altre, ma riguarda il modo in 8 9 Cfr. H. Arendt, The Life of the Mind, New York, Harcourt, Brace and Jovanovich, 1978; trad. it. La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 285-86. Nella conferenza su «Memoria. Storia. Oblio», cit., lo stesso Ricoeur, che pure sviluppa il tema della memoria nel quadro di una più ampia visione etica, si preoccupa di distinguere il ‘lavoro della memoria’, inteso come nozione psicologico-cognitiva derivata da quella freudiana di Erinnerungsarbeit (che caratterizza la «lotta da condurre contro la coazione a ripetere, fissata sotto la pressione di resistenze solidamente costituite»), dal ‘dovere della memoria’, inteso come nozione morale, che guarda alla giustizia dovuta alle vittime. Parlando di lavoro della memoria, Ricoeur intende «serbare e trasporre» qualcosa della nozione freudiana di Erinnerungsarbeit, connessa anche al tema dell’elaborazione del lutto, «nel campo della memoria storica» e della «dimensione critica della conoscenza storica». Il lavoro della memoria, potremmo dire, mantiene vivo il dialogo interiore della coscienza storica, dispiegando una propria energia riflessiva e critica, che in un certo senso prescinde dall’assunzione morale dei doveri verso le vittime (laddove il problema, oserei dire allontanandomi da Ricoeur, è nuovamente un problema critico: che cosa è ‘giusto’ nei confronti delle vittime? qual è o sarebbe il loro punto di vista, e come parla chi parla in loro nome?). Cfr. P. Levi, op. cit., pp. 64-65. Per questa interpretazione della ‘vergogna dei salvati’ mi permetto di rinviare a I. Possenti, «Stranieri della memoria. Hannah Arendt e Primo Levi», Critica sociologica, (2005), 154-55. 7 Jura Gentium cui ogni pratica politica, giuridica o sociale può essere attuata. Non sempre il processo a un criminale politico si risolve in un processo politico, e la verità giudiziaria in una narrazione stereotipata degli eventi - benché sia questa, come Portinaro riconosce, una tendenza diffusa e non facilmente confutabile del diritto penale internazionale. Analogamente, non sempre un’amnistia si risolve in una liquefazione della storia e delle responsabilità degli attori - e in effetti, ricorda Portinaro, l’antico imperativo politico di ‘non ricordare il male’ non implica proibizioni rivolte alla memoria sociale, bensì una rinuncia all’uso della memoria in sede giudiziaria, e cioè la rinuncia ad adire le vie legali. Fare i conti con il passato ci sollecita così, per vie diverse, a pensare il lavoro della memoria in termini non riducibili al puro dovere di ricordare o, viceversa, alla pura opportunità di dimenticare. Il tema della memoria dialogica emerge qui come un tema importante; forse troppo importante, però, per essere affrontato immediatamente in una prospettiva morale, senza tenere conto della sua complessità epistemologica, come spesso sembra accadere nelle etiche dialogiche e discorsive. La memoria dialogica, oserei dire, è prima un modo in cui possiamo funzionare, come attori sociali alle prese con la conoscenza storica, che un valore morale; e non impone di ‘non chiudere mai i conti’, ma induce a chiuderli in modo ‘consapevole’. Quel che ha valore morale, forse, è la nostra capacità o incapacità di dare spazio alla memoria dialogica e alla complessità storica e sociale che ne deriva senza rimuovere, ma anzi assumendo come dato inaggirabile, tutti i suoi attriti e conflitti. 8