Alla ricerca del senso della vita. Un`ipotesi psicobiologica

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Alla ricerca del senso della vita. Un`ipotesi psicobiologica
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2003
Alla ricerca del senso della vita
Un’ipotesi psicobiologica su relazione
terapeutica e cambiamento
Manuela Tremante
Quel che si dimentica è come se non fosse mai successo, ed i ricordi reali o illusori
erano talmente tanti che per lei fu come vivere due volte.
Isabel Allende, La figlia della fortuna
Questo scritto prende spunto da una fascinazione nata all’incirca venti
anni fa, quando, orientandomi nel complesso mondo di modelli e teorie, ho
scoperto che la psicosomatica corrispondeva in un certo senso alla mia
personale tendenza a vedere l’essere umano come un insieme, a volte
davvero complicato (!), di connessioni e relazioni che, efficacemente o no, si
esprimono in movimenti, vissuti, esperienze ed emozioni.
Il modello psicosomatico e, ancora più approfonditamente, le conoscenze
psiconeuroimmunologiche, ci consentono di addentrarci all’interno del
complesso mondo che noi rappresentiamo, seguendo strade e percorsi oggi
illuminati chiaramente dalle scoperte neuroscientifiche.
Oltre a ciò, è stato mio intento cogliere aspetti comuni a diversi
orientamenti teorici e psicoterapeutici, con lo scopo di mantenere questa
visione complessa ed articolata dell’uomo, pure integrando linee di pensiero
relative allo sviluppo della personalità e al suo cambiamento, nelle quali mi
riconosco.
L’ipotesi che, al presente, ha attivato la mia attenzione è quella proposta
dallo psicologo americano Daniel Goleman (sicuramente a tutti noto per il
suo Intelligenza emotiva; Goleman, 1995), il quale, in un suo scritto del 1985,
esamina sotto diversi punti di vista quello che egli definisce il più ambiguo
dei processi mentali e che chiama autoinganno, illusione, bugia.
In che modo il mondo psicologico e quello biologico agiscono e si
connettono all’interno di ognuno di noi, per permetterci di comprendere
l’esperienza che stiamo facendo, riconoscere il sentimento che stiamo
provando, dare significato alla nostra realtà?
E come accade, inoltre, che tutto questo divenga difficile, se non
impossibile; come accade che noi costruiamo una realtà diversa dal reale, ma
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della quale sosteniamo la veridicità come se fosse l’unica possibile; come
accade che parti della nostra esperienza presentino dei vuoti, delle lacune
cosicché la nostra consapevolezza diventi parziale?
«Parte cieca», spiega Goleman, «è la metafora fisiologica con cui si indica
l’incapacità di vedere le cose come sono in realtà. In fisiologia la parte cieca è
quel vuoto nel nostro campo visivo connaturato alla struttura dell’occhio.
Dietro ad ogni bulbo oculare c’è un punto dove il nervo ottico, che arriva dal
cervello, si attacca alla retina. In questo punto mancano le cellule che
coprono il resto della retina per registrare la luce che arriva attraverso il
cristallino. Come risultato in quel punto della visuale c’è un vuoto nelle
informazioni inviate al cervello. La parte cieca non registra nulla» (Goleman,
1985; trad. it. p. 1).
Solitamente noi non siamo consapevoli delle parti cieche perché un occhio
compensa quello che l’altro non vede. È interessante l’esame che L. Marchino
fa delle parole vedere e guardare. Quest’ultima ha il significato di stare in
guardia. «È quindi implicita nel guardare una aspettativa minacciosa che
implica un preconcetto cioè un’idea che precede ed influenza la visione. […]
Vedere, dal latino videre deriva a sua volta dal radicale indoeuropeo weid e
dal sanscrito veda: io so. Vedere è sapere. Se c’è visione non c’è illusione.
Vedo dunque so, ma guardo per confrontare le mie aspettative preconcette
con la realtà dei fatti, il mio sapere cristallizzato con la nuova sorgente di
sapere che ho di fronte agli occhi: la realtà» (Marchino, 1995, p. 108).
Al contrario, quando neghiamo un’esperienza, allontaniamo l’attenzione
da ciò che spaventa o nascondiamo a noi stessi un sentimento, a livello
psicologico il nostro funzionamento ricorda quello della parte cieca: come se
alla nostra capacità di essere consapevoli mancassero quelle cellule che
servono per registrare la composizione della nostra realtà interiore.
C. Rogers (Rogers, 1965-66) descrive molto bene cosa accade all’interno del
processo di sviluppo della personalità: l’essere umano tende naturalmente
verso l’autoconservazione e quindi la sopravvivenza, lo sviluppo,
l’evoluzione. Tendente alla migliore attuazione di sé, ogni organismo ricerca
la soddisfazione dei propri bisogni; inizialmente il bambino, e per un periodo
sostanzialmente più lungo rispetto ad altre specie viventi, dipende in questo
dall’adulto, punto di riferimento per la protezione e l’accudimento.
Il bambino diventerà quindi molto sensibile nel percepire come garantirsi
l’accettazione e la relazione, e come al contrario evitare il rifiuto dell’adulto
significativo, che sia il genitore come pure una persona sostitutiva. Imparerà
a regolare il proprio comportamento così da essere accettabile ed amabile. E
se questo dovrà significare reprimere o cancellare parti di sé che non
vengono riconosciute né apprezzate o addirittura fortemente criticate, allora
tenderà a modificare il proprio modo d’essere, diventerà accettabile alle
condizioni che gli verranno richieste, strutturerà un’immagine ideale
assomigliandole sempre di più, teso nello sforzo di ricercare e ricevere
amore, considerazione o stima.
Il personale criterio di valutazione sarà sostituito da quello dell’adulto
significativo, ed egli si considererà apprezzabile ed amabile solo se
corrisponderà a quel modello.
Eppure, come scrive M. Gargiulo nel suo articolo Esperienza e
simbolizzazione, «l’unico modo che la persona ha per eliminare una parte
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vitale che pure esiste è quello di non percepirla più o di modificarne la
percezione per renderla accettabile» (Gargiulo, 1994). L’immagine che ne
scaturisce comprende tutte le parti, sia quelle accettate, sia quelle modificate,
ma esclude rigorosamente quelle rifiutate.
Tesi parallela sostiene A. Miller in Il dramma del bambino dotato e la
ricerca del vero sé quando dice «Ogni vita è piena di illusioni proprio perché
la verità ci appare insopportabile» (Miller, 1994; trad. it. p. 11).
La Miller, distaccandosi progressivamente dalle posizioni teoriche e
tecniche più tradizionali della psicoanalisi, teorizza come, nella primissima
infanzia, il bambino metta in atto alcune strategie che gli consentono di
garantirsi la sopravvivenza, tra cui il conformarsi alle aspettative e ai bisogni
di chi si prende cura di lui, e la repressione delle reazioni che sembrerebbero
spontanee in conseguenza del rifiuto, come sentimenti di gelosia, rabbia,
paura e protesta.
Questo bambino sviluppa l’arte di tenere lontani da sé sentimenti che egli
potrebbe permettersi di vivere solo se chi è con lui lo accetta e lo comprende,
includendo nell’accettazione anche i suoi sentimenti ed il modo in cui li
esprime.
Al contrario, se il rischio è quello di perdere l’amore e la considerazione
della madre o della figura di riferimento, farà come se non esistessero. «Essi
comunque rimarranno nel suo corpo, memorizzati come informazioni»
(Miller, 1994; trad. it. p. 19).
Ecco come A. Lowen descrive il grave esito di un simile processo,
riferendosi ad un caso da lui trattato. «Allora domandai di nuovo ad Erich
che sentimenti avesse. – Sentimenti! - esclamò – Non ho sentimenti. Io
programmo il mio comportamento: quello che mi importa è l’efficienza»
(Lowen, 1983; trad. it. p. 13).
In questo processo, l’ipotesi è che l’attenzione abbia un ruolo
fondamentale. Il flusso delle informazioni viene costantemente filtrato ed
integrato a livello della consapevolezza. Sembra però che noi siamo anche in
grado di deviare l’attenzione e sembra che in questa operazione intervenga il
dolore interagendo con le capacità attentive.
L’area da esplorare, per comprendere meglio le modalità del processo di
distorsione della percezione, è quella del sistema cerebrale per la percezione
del dolore.
Quello che Goleman chiama baratto tra dolore e consapevolezza avviene a
livello neuronale, in quanto il cervello sembra avere la facoltà di rendere
sopportabile il dolore, diminuendo parallelamente la consapevolezza. Quello
che noi definiamo dolore potrebbe essere non solo fisico, ma anche
presentarsi sotto forma di sentimenti inaccettabili, ansia, stress, ingiurie alla
propria autostima, segreti dolorosi o inconfessabili, fatti minacciosi o
imbarazzanti divenuti parte della propria vita.
Dello stesso parere Antonio Alberto Semi. «Con la parola illusione intendo
riferirmi al classico fenomeno dispercettivo in forza del quale un insieme di
sensazioni viene elaborato in forma distorta, producendo una percezione
diversa da quella che normalmente si dovrebbe avere. […] La funzione di
giudizio viene almeno momentaneamente alterata […], la coscienza del
soggetto accetta in questo modo contenuti rappresentativi altrimenti
inaccettabili» (Semi, in Saraval, 2003, pp. 45-47).
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Entrai in uno “stato di sogno” nel quale non provavo né dolore, né terrore.
David Livingstone, Missionary Travels
L’uomo sembra avere la capacità di rispondere al dolore inibendone gli
effetti.
Il dolore ha un apparato nervoso ed alcuni circuiti neuronali specifici. La
psicologia del dolore può portarci a percorrere strade anche diametralmente
opposte. Andare dal dentista o prepararsi al parto sono operazioni che
prevedono entrambe momenti di grande dolore. È pur vero che le emozioni
collaterali a queste esperienze, sia prima che dopo l’evento, possono
modificare radicalmente il significato: se nel primo caso la paura può
condizionare fino all’evitamento, nel secondo caso la gioia a volte quasi
consente di ridimensionare le sensazioni avvertite pochi minuti prima.
Probabilmente in una sorta di valutazione che il cervello fa della
percezione del dolore, questa sensazione associata ad una emozione
piacevole ci permette di tollerarlo di più che quando il dolore è puro, caso in
cui le risposte ipotizzabili sono rappresentate da paura ed evitamento.
«Per decenni i ricercatori espressero riserve sul metodo di applicare
all’uomo le scoperte basate sulle reazioni degli animali in laboratorio.
Un’analisi più approfondita degli apparati del dolore negli uomini e negli
animali rivelò che il sistema si era formato così anticamente nell’evoluzione
che gli animali primitivi come i molluschi dividevano con l’uomo il modello
base» (Goleman, 1985; trad. it. pp. 20, 21).
Le ricerche neurologiche hanno dimostrato come, stimolando direttamente
alcuni tratti dell’apparato dolorifico, si provoca dolore mentre,
sollecitandone altri, il dolore si calma. Addirittura, stimolando una zona
specifica del cervello di un ratto, è stato possibile condurre un intervento
chirurgico allo stomaco senza anestetici.
L’analgesia, cioè la riduzione della sensibilità al dolore, e la percezione
dello stesso sembrerebbero quindi fare parte del medesimo sistema
(Goleman, 1985).
La scoperta delle morfine cerebrali, le endorfine, un gruppo di
neurotrasmettitori che hanno sul cervello la stessa azione degli oppiacei e,
successivamente, la scoperta di altri oppioidi (classe che include non solo le
endorfine, ma anche altre sostanze chimiche del cervello) addirittura più
potenti nell’inibizione del dolore, ci hanno permesso di comprendere l’azione
naturalmente balsamica che il cervello opera sulla sensibilità al dolore.
Oppiacei come morfina ed eroina percorrono le stesse vie delle endorfine; la
loro efficacia è dovuta alla struttura molecolare simile a quella degli oppioidi
prodotti dal cervello.
Endorfine e morfina quindi inducono la medesima sensazione di euforia.
Alcuni studi sviluppatisi conseguentemente alla scoperta delle endorfine si
interessarono di ricercare quali situazioni potessero provocare, a livello
endogeno, la liberazione di queste sostanze. La conclusione fu che lo stesso
stress psichico scatena la liberazione di endorfine (studenti che dovevano
affrontare esami impegnativi presentavano alti livelli di endorfina). «È
ragionevole pensare che lo stress puramente psicologico debba far scattare
nel cervello le stesse risposte del dolore biologico» (Goleman, 1985; trad. it.
p. 22).
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Fu Hans Selye, nel 1936, a dare una definizione significativa del concetto
di stress, identificandolo come «la risposta aspecifica dell’organismo ad ogni
richiesta effettuata su di esso» (Biondi, 1997, p. 22).
In sostanza, una sindrome da adattamento in cui, a seguito di osservazioni
sperimentali, Selye osservava numerose modificazioni neurofisiologiche che
sembravano denunciare una relazione tra lo stimolo esterno minaccioso,
definito stressor, e la reazione biologica all’interno dell’organismo, definita
risposta di stress: una risposta adattiva che consente all’organismo di disporsi
ad affrontare l’evento, ma che può diventare patogena se la condizione si
protrae nel tempo.
Selye individuò nella secrezione di ACTH (ormone adrenocorticotropo) uno
degli elementi fondamentali della risposta di stress; successivamente si è
scoperto che anche gli oppioidi, ed in particolare le endorfine, entrano in
gioco insieme all’ACTH, ma quando Selye formulò la sua teoria non si
conoscevano molti neurotrasmettitori e le endorfine erano completamente
sconosciute.
Ulteriori ricerche di psicofisiologia e psiconeuroimmunologia arricchirono
il concetto di stress.
J. Mason, all’inizio degli anni ’70, accettava la teoria di Selye ma, ad
integrazione di essa formulò l’ipotesi che gli stimoli psicosociali e biologici
inducessero la risposta di stress, attraverso la mediazione dell’eccitamento
emozionale da essi prodotto (Pancheri, 1980).
Nello stesso periodo, R. Lazarus osservava gli aspetti psicologici coinvolti
nella risposta di stress nell’uomo. In particolare avanzò l’ipotesi che le
differenze di risposta tra gli individui fossero condizionate dalla
«valutazione cognitiva del significato dello stimolo […]. Se dunque uno
stimolo non è valutato come rilevante per l’individuo, a livello conscio od
inconscio, non si verifica attivazione emozionale» (Pancheri, 1980, p. 28).
Oggi è stato chiarito come il sistema limbico, in connessione col sistema
ipotalamo-ipofisiario, sia il centro di coordinazione e di controllo della
reazione di stress. L’attivazione emozionale sembra esprimersi su tre diversi
livelli: la risposta biologica centrale (osservabile in un’alterazione dei sistemi
neurotrasmettitoriali classici e dei neuropeptidi modulatori), la risposta
biologica
periferica
(attraverso
le
modificazioni
neurovegetative,
neuroendocrine, neuromuscolari, immunologiche e peptidergiche) e la
risposta psicologico-comportamentale direttamente connessa con le
precedenti: la finalità di questo processo è quella di «garantire l’adattamento
dell’organismo al mutare dinamico delle risposte ambientali» (Biondi, 1997,
p. 78).
In quest’ottica anche il dolore o la minaccia dello stesso possono costituire
eventi che, se valutati come rilevanti, innescano la reazione di stress.
E qui, parlando di dolore, non s’intende solo quello fisico, ma anche quello
psicologico.
In questa dinamica, l’attenzione sembra avere un ruolo fondamentale.
L’attenzione, quando è focalizzata, tende ad eliminare, ignorare o
diminuire l’influenza delle distrazioni.
Goleman descrive come in studi recenti le difficoltà d’attenzione
riconosciute nella schizofrenia siano state messe in relazione con un altro
aspetto di questa malattia: la capacità superiore alla norma di tollerare il
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dolore (Goleman, 1985). Esperimenti condotti da Buschbaum e dai suoi
collaboratori hanno provato che, nello schizofrenico, il deficit d’attenzione e
la tolleranza al dolore sono in relazione ad un anormale funzionamento del
sistema endorfinico.
Sottoposti a stimolazioni elettriche su un punto del braccio, gli
schizofrenici risultavano meno sensibili al dolore, se comparati ad un gruppo
di controllo.
Questo faceva sospettare una maggior produzione di endorfine negli
schizofrenici. Ad essi vennero successivamente somministrate dosi di
naltrexone, una sostanza che blocca l’emissione di endorfine da parte del
cervello. Ripetendo l’esperimento precedente la sensibilità al dolore degli
schizofrenici risultò triplicata. Inoltre il naltrexone mostrò un altro aspetto
interessante, quello di migliorare le loro capacità attentive fino a riportarle a
livelli normali. Sembra che tale effetto si presenti anche in soggetti normali, i
quali mostrano un sensibile miglioramento dell’attenzione.
Successivi esperimenti condotti dal gruppo di Buschbaum dimostrarono
come anche l’ACTH sia coinvolto nell’interazione dolore-attenzione. Sia
l’ACTH che le endorfine vengono secreti in condizioni di stress: le endorfine
diminuiscono la sensibilità al dolore ed abbassano la soglia dell’attenzione,
dando al soggetto la possibilità di considerare meno rilevante la situazione.
L’ACTH produce l’effetto opposto: migliora l’attenzione, rende più sensibili al
dolore e questo sembra essere in qualche modo collegato alla diminuzione
delle endorfine.
«Le endorfine e l’ACTH […] fanno parte esattamente dello stesso pacchetto
neurochimico che serve ad affrontare il dolore […]. Durante la risposta di
stress le due sostanze chimiche vengono liberate dalla ghiandola pituitaria.
Ma l’ACTH scorre nel corpo più velocemente. […] Le endorfine sono più lente.
[…]. La prima risposta all’allarme ci mette all’erta contro il pericolo, la
seconda ci mette in grado di dimenticare il dolore» (Goleman, 1985, pp. 27,
28).
Quindi ACTH ed endorfine entrano in gioco durante la risposta di stress
ma, in relazione alla quantità dell’uno o dell’altra, noi saremo più attenti o
meno sensibili al dolore.
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ENDORFINE
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ACTH
Fig. 1 – Differenza nella capacità attentiva e nella percezione del dolore relativamente alla secrezione di
endorfine e ACTH (ormone adrenocorticotropo).
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Nel caso di inibizione del dolore ed abbassamento del livello di attenzione,
lo scopo sembra quello: in sostanza, quando l’attenzione diminuisce anche il
dolore è meno percettibile.
In sintesi, il sistema del dolore e quello dell’attenzione, pur se spesso
studiati da discipline diverse, risultano in stretta connessione in quanto
regolati dalle stesse strutture anatomiche, identici neurotrasmettitori e
sistemi di trattamento delle informazioni.
Con Goleman potremmo ipotizzare che il modello legame doloreattenzione sia applicabile anche al campo psicologico.
L’uomo moderno non è soggetto al dolore fisico così frequentemente come
lo era l’uomo di epoche passate; molto più comunemente egli soffre di altro
genere di ferite, come ansia, lutti e senso di perdita, solitudine, depressione.
«La tattica del cervello di fronteggiare il dolore fisico mettendo la sordina
alla coscienza si offre come l’architrave per affrontare anche le ferite
psicologiche e sociali» (Goleman 1985, p. 34).
La prospettiva di Alice Miller offre supporto alla precedente ipotesi. Ad un
certo punto del percorso terapeutico è possibile rendersi conto di come siano
stati precedentemente trattati i propri sentimenti di rabbia e frustrazione,
inclusa l’angoscia che spesso ne consegue. Come se quello fosse stato
creduto l’unico modo di sopravvivere, realizziamo che abbiamo soffocato
stati d’animo e bisogni, che abbiamo minimizzato la portata della nostra
esperienza o che, addirittura, non ne abbiamo assolutamente percepito il
significato profondo. Il bambino che così ha costruito il suo modo di reagire
al dolore, da adulto a poco a poco comincia a rendersi conto che «quando è
commosso, impressionato o triste, cerca disperatamente di distrarsi» (Miller,
1990, p. 25).
Se il processo terapeutico progredisce «si viene sorpresi da sentimenti che
si sarebbe preferito non percepire, ma ormai è troppo tardi, la sensibilità per
i propri moti affettivi si è ormai risvegliata, non si torna indietro» (Miller,
1990, p. 26).
L’ipotesi è che fino a quel momento, probabilmente, abbiamo utilizzato
una strategia che ci ha permesso quindi di sopravvivere alla sofferenza
psicologica ed allo stress cronico ad essa legato. L’attenzione selettiva in
grado di escludere la minaccia e quindi l’eccitazione, l’allarme, l’attivazione
ad essa collegati, dona sollievo, anestetizza.
In Lowen troviamo una teorizzazione che, in maniera articolata, descrive
come costruiamo e sosteniamo questa strategia a cui viene dato il nome di
illusione (Lowen, 1967, 1972, 1975).
Il nostro personale sistema di posizioni difensive, quello che crediamo
essere il miglior compromesso possibile per sopravvivere e cioè la struttura
caratteriale, si forma conseguentemente ad «esperienze infantili che, in una
certa misura, hanno minato i sentimenti di sicurezza e di accettazione di sé
dell’individuo» (Lowen, 1975; trad. it. p. 156).
Paura, disperazione, angoscia, senso di impotenza si trasformano, «la
mente cerca di rovesciare la realtà sfavorevole e inaccettabile creando
immagini e sogni» (Lowen, 1967, p. 25). Nella fantasia o nel nostro sognare
ad occhi aperti lasciamo che la mente porti a termine il suo preciso compito:
ribaltare la realtà così intollerabile.
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Il prodotto di tutto ciò sono proprio le illusioni, adoperate a
compensazione di quell’offesa al sé che ogni carattere ritiene di aver subito
(fig. 2).
Tipo Caratteriale
Diritto Negato
Illusione o Ideale dell’Io
Schizoide
Diritto di esistere come Io sono il mio pensiero
organismo
individuale, Io sono una persona speciale
senza minaccia di ostilità o
rifiuto
Orale
Diritto di avere bisogno di Io ho tanto da dare agli altri e
nutrimento e sostegno
sono per questo al centro
dell’attenzione
Psicopatico
Diritto di essere autonomo e Io ho potere, sono molto
indipendente, di non essere importante, non ho bisogno di
soggetto ai bisogni di altri
supporto
Masochista
Diritto di essere indipendente Sono
bravo,
comprensivo,
attraverso l’affermazione di pronto a sacrificarmi per
sé
compiacerti
Rigido
Diritto di amare e desiderare Sono libero se non mostro il
sessualmente
muovendosi mio amore
liberamente
verso
la
soddisfazione
di
questi
bisogni di intimità
Fig. 2 - Le Illusioni corrispondenti alla negazione dei Diritti Fondamentali con riferimento alla caratterologia
loweniana.
Certo è che «l’energia dirottata sull’illusione o sullo scopo irreale non è
disponibile per la vita quotidiana nel presente. Risulta dunque menomata la
capacità di far presa sulla realtà della propria situazione» (Lowen, 1975; trad.
it. p. 156).
La costruzione di una realtà alternativa, illusoria, la negazione e
l’allontanamento dal proprio vissuto, l’incapacità di riconoscerlo e dargli un
nome, sembrerebbero operare a livello psicologico esattamente così come le
endorfine agiscono sull’esclusione dell’attenzione.
Quello che si crea è un buco, una lacuna, una parte cieca, dirottando
l’attenzione da realtà od informazioni evocatrici d’ansia.
È interessante la definizione di Carloni: «L’illusione rappresenta dunque il
più comune tentativo di autoterapia tranquillante e sintomatica, laddove il
sintomo è l’emozione comune a ogni sorta di sofferenza psichica, chiamata
ansia o angoscia. Si potrebbe convenire sul fatto che queste due varietà della
stessa emozione sono diverse sia per la maggiore gravità cui fa pensare la
seconda sia per l’attivismo, per quanto inconcludente, che caratterizza la
prima rispetto alla passività, quasi una paralisi, della seconda; sia, infine, per
un’altra differenza che sembra consistere nello spazio che l’ansia lascia al
futuro della speranza in confronto con la disperante immanenza
dell’angoscia. Orbene, è proprio nello spazio dell’attesa e della speranza che
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ansietà e illusione si incontrano e reciprocamente si nutrono» (Carloni, in
Saraval, 2003, p. 89).
Ulric Neissen, studioso dei meccanismi dell’attenzione e della memoria,
sostiene che tutti usiamo strategie di questo genere: possiamo decidere di
evitare la consapevolezza di esperienze dolorose, non utilizziamo quelle
strategie che solitamente adoperiamo per ricordare e sembra che possiamo
diventare estremamente abili in questo. In un certo senso, dove si legano
nodi di dolore si forma la lacuna che agisce svolgendo la sua azione
protettiva del sistema del sé dall’ansia. Ricercatori russi degli anni ’70
evidenziarono il meccanismo della lacuna: su soggetti esposti alla proiezione
subliminale di una lista di parole, alcune delle quali cariche di significato
emotivo, si notò come essi mostravano elevata difficoltà nel riferire di quelle
parole, ma al tempo stesso le rilevazioni delle onde cerebrali,
contemporaneamente effettuate, rivelavano segni di marcata risposta
(Goleman, 1985).
Utilizzando le precedenti osservazioni teorico-sperimentali, sembrerebbe
che l’alessitimico abbia adottato la strategia della lacuna in forma altamente
specializzata.
Peter Sifneos coniò il termine all’inizio degli anni ’70 (dal greco alfa come
mancanza, lexis come parola e thymos come emozione) per indicare tutti
coloro che sembrano non avere capacità di consapevolizzare né tantomeno
dare nome ai propri sentimenti.
Si potrebbe addirittura credere che non ne abbiano se si osserva la loro
incapacità di descrivere od esprimere un’emozione. Hanno difficoltà a
discriminare tra sensazioni fisiche e sentimenti, e difficilmente riescono a
descrivere quelli degli altri.
Realmente però essi provano sentimenti, il problema è che non riescono a
sapere di che sentimento si tratta e dimostrano incapacità nell’esprimerlo.
Non sanno che emozione stanno provando, anche nello stesso momento in
cui stanno facendo l’esperienza. Oppure avvertono una confusione di
sensazioni e di emozioni alle quali non sanno però attribuire senso. «Quando
qualcosa – o più probabilmente qualcuno – stimola in loro un’emozione, essi
trovano l’esperienza sconcertante e travolgente, qualcosa da evitare ad ogni
costo. Quando i sentimenti li travolgono, causano loro un grande disagio al
punto di stordirli» (Goleman, 1995, p. 74).
Diventa però difficile definire di che genere sia quel qualcosa che
avvertono, mentre al contrario, spesso si lamentano riportando particolari
ben precisi di sensazioni e malesseri fisici, sottoponendosi a lunghi ma non
risolutivi esami clinici per dare risposta e significato a disagi e sofferenza
che sono però di natura psicologica.
Nel tentativo di spiegare l’origine dell’alessitimia, venne ipotizzato un
difetto nell’integrazione tra sistema limbico (sede anatomica delle emozioni)
e la neocorteccia (luogo dell’elaborazione cognitiva).
Questa ipotesi non ha ricevuto successive conferme sperimentali, ma è
stata recentemente riconosciuta da Sifneos, il quale propone una distinzione:
una alessitimia primaria, in cui si suppone il difetto anatomo-fisiologico, ed
una alessitimia secondaria o pseudo alessitimia, riconducibile ad «arresti
evolutivi ed esposizione a spaventosi attacchi ambientali durante l’infanzia o
più tardi nella vita» (Trombini, Baldoni, 1999, p. 79).
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Altri ancora ipotizzano che il tratto alessitimico sia espressione di una
strategia atta a difendere dalla depressione e dall’angoscia legate a processi
di perdita del legame significativo. Nel complesso, queste persone risultano
essere apparentemente ben adattate e conformi alle regole sociali. Lavorano,
hanno amici, hanno una relazione, pur se in maniera superficiale o
fortemente dipendente, con una qualità emotiva scarsa.
Nelle situazioni stressanti, invece di consapevolizzare il proprio disagio
tendono a ricorrere al consumo eccessivo di alcool, cibo, droghe o farmaci,
possono accusare disturbi fisici, oppure sviluppano una malattia organica
(Trombini, Baldoni, 1999).
Dal punto di vista fisiologico sembra comunque che un’emozione sorga
prima che l’individuo diventi consapevole.
Normalmente, soggetti sottoposti alla visione di figure raffiguranti animali
che temono, dicono di non provare paura quando già i sensori apposti sulla
pelle registrano l’aumento d’attività delle ghiandole sudorifere.
L’attività emozionale diventerà poi così elevata da permettere al soggetto
di diventare consapevole e, nel momento in cui questo avviene, si verifica
anche la sua registrazione a livello della corteccia frontale (Goleman, 1995).
La parte cieca che impedisce di vedere, la lacuna che protegge
dall’angoscia, il sentimento che ci illudiamo di non provare sono palliativi
che non modificheranno ciò da cui ci sentiamo minacciati.
Obiettivo della psicoterapia può essere quello di ripristinare e rafforzare
proprio il processo di autoconsapevolezza, e quindi anche la possibilità che
nella memoria e nella storia di sé compaiano tutti gli elementi integrati della
propria esperienza.
Una corretta simbolizzazione che riconosca all’esperienza dignità e valore.
Laddove, a partire dal rinnovato «senso del sé (autocoscienza,
autoespressione e padronanza di me stesso)» (Lowen, 1975; trad. it. p. 93), la
persona riscopra il potere di andare verso la vita, alla conquista di quel senso
profondo che ognuno di noi merita di trovare nel suo esistere.
Lei, invece, non solo non lo aveva dimenticato, ma ricordava con precisione certosina
ogni minimo dettaglio di quanto era successo e ogni parola detta o sussurrata.
L’unica cosa che aveva cancellato dalla sua mente era la delusione di essere stata
ingannata
Isabel Allende, La figlia della fortuna
La relazione terapeutica è rappresentata in Rogers come chiave di volta del
cambiamento in terapia. Quelle che egli definì necessarie e sufficienti, sono
condizioni che, all’interno della relazione, contribuiscono alla creazione del
clima che facilita il cliente nel suo processo. Laddove l’atteggiamento
empatico consente al terapeuta centrato sul cliente di comprendere
profondamente il mondo intimo e personale dell’altro, pure la capacità di
accettare l’altrui esperienza senza condizioni, unitamente alla capacità di
contatto autentico con sé, determinano la condizione relazionale in cui «il
cliente possa abbassare le difese; possa sentirsi finalmente e nuovamente
libero di esplorare e ritrovare il vero sé» (Rogers, 1980, p. 134).
Anche all’interno dell’approccio bioenergetico, rappresentato da A. Lowen,
si discute sulla importanza di instaurare una relazione con il proprio cliente
che non includa più atteggiamenti (e quindi tecniche) del tipo «attacco alle
difese, smantellamento dei blocchi e demolizione della maschera del
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ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2003
paziente (termini ben noti nel glossario reichiano)» (Moselli, 1990, p. 191);
così come W. White crede che le problematiche relative alla relazione clienteterapeuta possano essere elaborate e risolte «attraverso l’accettazione e la
comprensione» (Moselli, 1990, p. 90).
Con riferimento a quanto esaminato precedentemente, sembra avere
significato quello che Rogers definisce stato di incongruenza, quella
condizione cioè in cui il cliente porta «una discrepanza fra l’esperienza reale
dell’organismo e l’immagine del sé» (Rogers, 1961; trad. it., p. 52), ovvero
come egli si rappresenta nell’esperienza.
La persona che arriva alla terapia difficilmente riconosce i propri reali
bisogni, le distorsioni a livello percettivo si sono rigidamente strutturate, le
parti cieche hanno preso sufficiente spazio, e il modello ideale a cui tende è
probabilmente molto distante dalle sue reali potenzialità.
In un contesto psicoterapeutico dal quale sono assenti atteggiamenti
punitivi e giudizi di valore che il terapeuta esprime nei confronti del proprio
cliente, l’allarme non scatta perché la minaccia non esiste, e il cliente ritrova
la mobilità che gli permetterà di esplorare vissuti ed atteggiamenti personali.
Un terapeuta coinvolto in una relazione così caratterizzata tende a
mostrarsi non come rappresentazione di sé, ma come persona
profondamente e liberamente se stessa, la cui esperienza reale è accessibile
alla coscienza; riconosce le potenzialità di autoregolazione e di crescita del
cliente, ne accoglie l’esperienza in quanto altra e non avrà bisogno di dirigere
il cambiamento attraverso l’espressione di valutazioni e giudizi.
«Si può leggere o ascoltare da cima a fondo una terapia senza trovare più
di una mezza dozzina di casi in cui le idee del terapeuta su qualsiasi punto
risultino evidenti», sostiene Rogers in un suo articolo del ’47 (Rogers, «Da
Persona a Persona», 2000, p. 8).
L’esposizione del cliente a questo tipo di atteggiamenti sembra influenzare
un cambiamento così orientato: la comprensione, l’accettazione e
l’autenticità che egli sperimenta nella terapia gli consentono di esplorarsi in
maniera sempre meno distorta e superficiale, confrontandosi con «problemi
profondi e sentimenti nascosti perfino a se stesso» (Rogers, «Da Persona a
Persona», 2000, p. 9).
Le strategie di protezione divengono più flessibili e tende a modificarsi
quell’idea secondo cui «posso confrontarmi solo con un’immagine perfetta e
ripulita; le cose sporche avvengono dietro le quinte» (Goleman, 1985; trad. it.
p. 118).
La facciata cede, l’esperienza interiore si fa più accessibile, «il risultato […]
è la scoperta di atteggiamenti che il cliente ha vissuto ma ha tenuto fuori
dalla sua coscienza» (Rogers, 1951; trad. it. p. 71).
All’interno del processo terapeutico, l’immagine del sé del cliente tende a
modificarsi per incorporare queste nuove percezioni, non più avvertite come
una minaccia, non più responsabili di quell’angoscia profonda che ancor
prima di essere consapevolizzata attiva quel sistema di distorsione che
consente di modificare, negare, dimenticare o escludere la propria
esperienza.
La ristrutturazione del sé, così come Rogers descrive il processo, «può
comportare un cambiamento molto lieve, nei casi in cui le esperienze negate
siano poco in contrasto con il sé; oppure può richiedere la più drastica
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ristrutturazione, nella quale il sé, in quanto tale e nella sua relazione con la
realtà, viene modificato al punto che pochi aspetti ne rimangono inalterati.
Nel primo caso può esserci un disagio lieve. Nel caso della ristrutturazione
radicale, il cliente può passare attraverso la sofferenza più tormentosa e una
totale e caotica confusione. Questa sofferenza può essere associata a
strutturazioni della personalità che cambiano rapidamente: un giorno si è
una persona nuova e il giorno dopo si risprofonda nel vecchio sé, per poi
scoprire che qualche episodio irrilevante ridà alla nuova struttura del sé una
posizione di predominio» (Rogers, 1951; trad. it., p. 73).
Ecco come un cliente descrive la sua esperienza terapeutica: «Sentivo
molto più profondamente di quanto possa descrivere che avevo raggiunto un
punto molto lontano da qualsiasi cosa che io avessi mai conosciuto. [...]
C’erano disperazione, paura e dolore, molto più forti di quanto avessi sentito
prima» (Rogers, 1951; trad. it., p. 75).
Un po’ come sotto effetto del naltrexone la persona nel tempo matura non
solo una maggiore sensibilità, recuperando la capacità di avvertire e
riconoscere le sensazioni, così come le emozioni dando loro senso; ma anche
una maggiore resistenza, la capacità di mantenere nel tempo il contatto con il
sentimento pure se significativamente gravoso e difficile, come angoscia o
dolore, in questo modo, quasi come se i livelli di ACTH crescessero e le
endorfine diminuissero, il cliente sembra ripristinare e rafforzare le sue
capacità di focalizzazione sull’esperienza, la luce rischiara la vista, le lacune
si riducono, la memoria torna, diventa più possibile guardare alla propria
esperienza, riconoscendola ed integrandola, pure con i suoi contenuti di
paura, panico disperazione.
Come sostiene J. Mayer, psicologo americano tra coloro che hanno
teorizzato l’intelligenza emotiva, «l’autoconsapevolezza può essere una
forma di attenzione, non reattiva e non critica, verso i propri stati interiori»
(Goleman, 1995, p. 69).
Credo che tutto questo possa accadere quando nella relazione il terapeuta
crea quelle condizioni che garantiscono al cliente la libera e completa
esplorazione di ogni porzione della sua esperienza; astenendosi da
rassicurazioni come pure da valutazioni e giudizi, sostenendo il cliente nel
suo viaggio dove incontrerà la paura, per poterla vedere, riconoscere ed
integrare; riducendo sensibilmente lo stato cronico di allarme e il senso di
costante minaccia che egli avverte, e in conseguenza del quale evita e fugge.
Il terapeuta ha già conosciuto le tante dimensioni di questo viaggiare e per
questo «ha imparato a riconoscere i pericoli e sa come affrontarli; è anche un
amico che quando la strada si fa difficile offrirà sostegno e farà coraggio»
(Lowen, 1975; trad. it., p. 90).
Avendo concluso il viaggio, o essendo comunque molto avanti nel
percorso, come auspica Lowen, questo terapeuta possiederà «un solido senso
di sé. Deve essere […] abbastanza fondato nella realtà del proprio essere»
(Lowen, 1975; trad. it., p. 91).
Altrimenti il rischio è che terapeuta e cliente perpetuino la storia,
compiacendosi a vicenda, evitando ostilità e frustrazione, nascondendosi
l’uno agli occhi dell’altro così come a se stessi, paradossalmente includendo
nella relazione l’elemento della dipendenza che nutre l’immagine del
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terapeuta, fortemente gratificato dal fatto di sentirsi così speciale, capace,
necessario ed insostituibile.
«Se il terapista può recuperare e vivere il contatto con il suo vero sé,
esprimendo se stesso nella terapia probabilmente questo servirà da impulso
al paziente per fare altrettanto, realizzando la possibilità di esistere a
prescindere dal dissenso e dal consenso che gli derivano nell’incontro con gli
altri» (Moselli, Tremante, in Moselli, 1988, p. 186).
Il terapeuta capace di contatto con sé, e quindi con la varietà e le
differenze che lo caratterizzano; in grado di essere quello che è; quando ha
fiducia che l’altro possa riconoscere i suoi veri bisogni, a partire dalla propria
saggezza organismica e non da ciò che si presume gli altri si aspettino
ponendo condizioni alla personale crescita; il terapeuta reale più che ideale
offrirà al proprio cliente la relazione in cui ritrovarsi e rispettarsi, degno di
stima e vicino al suo vero sé.
E quindi, il senso della vita?
Una domanda complessa per ogni essere umano ed aperta a molteplici
risposte.
Uno spunto di riflessione: senso come significato, ma anche come sentire. E
riconoscere la realtà originale e profonda, il mistero affascinante del nostro
mondo interno, l’esperienza che diventa guida.
La vita.
Preziosa.
Rogers direbbe PIENA.
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