Le case dei poveri - Dipartimento di Scienze sociali e politiche

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Le case dei poveri - Dipartimento di Scienze sociali e politiche
Le case dei poveri: ricominciare ad annodare i fili
Antonio Tosi
(in La vita nuda, a cura di A. Bonomi, Triennale Electa, Milano, 2008, pp. 151-162)
“Una casa per tutti” è ormai un obiettivo problematico anche per quelle classi che – destinatarie
delle provvidenze dello stato sociale – hanno goduto in passato di una relativa sicurezza abitativa. I
processi di impoverimento e la crescita della vulnerabilità di vaste componenti della società per un
verso, per un altro verso l’avvento delle politiche neo-liberali a partire dagli anni ’70 (e in Italia
anche la pluridecennale latitanza delle politiche pubbliche dal campo abitativo) hanno comportato
una estensione del disagio e del rischio abitativo che non ha risparmiato neppure porzioni
importanti di “classi lavoratrici” (i tradizionali destinatari dell’edilizia sociale) e di ceti medi (la cui
sicurezza e benessere abitativo è stato una costante preoccupazione delle politiche abitative).
E’ una novità, questa, che ripropone il rapporto tra povertà e povertà abitativa 1 e il ruolo che le
politiche possono svolgere nel rompere questo rapporto. L’intreccio con la povertà è un vettore
fondamentale della nuova questione abitativa. Invece di una rinnovata esplorazione di questi nessi,
tuttavia, l’estensione della povertà abitativa rischia di riproporre, nelle immagini e nelle politiche,
una considerazione estensiva del “sociale” (tradizionale, come vedremo, nel nostro paese): che non
distingue tra i diversi tipi di disagio, tra le diverse urgenze, che non si preoccupa di articolare le
politiche a seconda dei bisogni né di valutare l’efficacia differenziale delle diverse misure sociali. 2
Una tradizione
Mentre è proprio dalla povertà intesa nel senso più letterale e restrittivo che occorre partire: questo
consente di capire perché la povertà abitativa è così “difficile”, e di capire cosa le forme estreme di
esclusione rappresentano oggi nel quadro della nuova questione abitativa. L’esclusione abitativa dei
poveri costituisce la componente più dura della questione: non solo nel senso che per i poveri le
difficoltà sono più severe, ma anche perché il trattamento della loro esclusione costituisce una sfida
particolarmente difficile per le politiche.
Dietro la difficoltà di rendere disponibili case decenti per i poveri possiamo immaginare ostacoli
sistemici e avvertiamo il peso di una lunga tradizione (Benjaminsen, Tosi 2007). Modelli e pratiche
consolidate pesano negativamente sui modi di affrontare la questione e ostacolano i tentativi di
innovazione. Pesa una tradizione di maltrattamento abitativo dei poveri. Dopo tutto, l’esclusione dei
gruppi marginali da decenti sistemazioni abitative è stata la regola nella storia dello housing.
Conviene che ci interroghiamo su questa tradizione storica, ripetutamente rinnovata lungo il secolo
delle politiche abitative, e che oggi potrebbe trovare nuove ragioni nella crisi del welfare state.
Anzitutto costituisce questa tradizione l’esclusione intenzionale dei poveri dai benefici del (buon)
abitare: lungo tutta la storia dello housing, i poveri sono stati in qualche misura intenzionalmente
esclusi dai provvedimenti abitativi oppure sono stati oggetto di interpretazioni riduttive dell’abitare.
1
Adotterò qui, quando ciò non crei confusione, il termine “povertà abitativa” come termine generale per indicare
l’insieme delle situazioni di difficoltà, dalle forme estreme (esclusione abitativa) a quelle di normale disagio a quelle
che possiamo definire di rischio abitativo.
2
Il variegato catalogo delle misure sociali proposto oggi in Italia comprende tra l’altro: le facilitazioni per l’acquisto di
una casa in proprietà, le misure per l’incremento dell’offerta in affitto, i sostegni monetari agli inquilini a basso reddito,
la gestione dell’“emergenza sfratti”, il rilancio dell’edilizia pubblica, il potenziamento delle strutture di accoglienza…
E’ sempre esistito, nella tradizione del social housing, un trattamento differenziale delle popolazioni
povere o marginali: programmato, perseguito dalle politiche, non accidentale. M. Bernardot (2005)
ha documentato il carattere sistematico di un caso estremo, quello che chiama il logement contraint:
“spazi designati istituzionalmente per essere destinati provvisoriamente a funzioni di accoglienza e
di residenza di popolazioni definite come indesiderabili e inutili […] Lungi dall’essere eccezionale,
questo appare come un elemento ricorrente del repertorio di presa in carico pubblica e privata di
certe popolazioni. Malleabile, esso può funzionare a seconda delle circostanze come una punizione
o un ‘setaccio’ di selezione ma anche come una risorsa pratica e di routine per fare fronte a bisogni
alloggiativi non previsti”.
Anche fuori dalle sue forme estreme, il trattamento differenziale di popolazioni marginali è stato
parte costante della storia dell’intervento sociale dello stato. Nella maggior parte dei regimi di
welfare europei l'edilizia sociale non ha avuto come popolazioni di riferimento i più poveri o i più
bisognosi di case, quanto i “lavoratori”. Lungo tutta la storia delle politiche sociali le popolazioni
marginali sono state piuttosto oggetto di un trattamento assistenziale e regolativo che non li
prevedeva come destinatari di case, bensì di strutture speciali: dormitori, centri di accoglienza,
istituti, campi nomadi ecc. Da questo punto di vista le soluzioni speciali che sotto varie etichette
(accoglienza, emergenza ecc.) sono state tradizionalmente previste per i poveri indicavano una loro
esclusione dal campo delle politiche abitative: assistenza e controllo; non case ma strutture
alloggiative ad hoc e a standard ridotti; percorsi separati da quelli previsti per la popolazione in
generale. E questa riduzione dell’abitare rappresentava, attraverso la inferiorizzazione delle
soluzioni abitative adottate, l’espressione dello status limitativo conferito alle popolazioni ai
margini, della loro marginalità socio-istituzionale.
Naturalmente la marginalità abitativa dei poveri non è dovuta soltanto alla intenzionale,
programmatica selezione/esclusione operata dalle politiche. Essa è anche l’esito dell’interpretazione
che viene data dei bisogni abitativi dei poveri e della generale configurazione delle politiche sociali
e abitative, che si rivela particolarmente inadeguata per i poveri: così ad esempio per la visione
quantitativa e fisicistica dei bisogni abitativi, per l’universalismo astratto della tradizione
amministrativa ecc.
Tutte queste diverse ragioni continuano a influenzare l’impianto delle politiche abitative sociali:
nella maggior parte dei paesi europei i problemi abitativi dei poveri continuano ad essere mal
trattati. In Italia questo è particolarmente evidente. A fronte di una rappresentazione della domanda
in termini di un “sociale” esteso e indifferenziato, ma con un inequivocabile accento sui problemi
dei ceti medi e medio-bassi, le popolazioni marginali continuano ad essere anche ai margini delle
rappresentazioni della domanda abitativa: destinatarie di scarsi interventi, e spesso di interventi che
non sono di tipo abitativo, in molti casi affidate alle politiche assistenziali o a quelle di ordine
pubblico come se i loro problemi non avessero un legame diretto con le lacune dell’offerta abitativa.
Sulle conseguenze negative di questi impianti, anche quando non si tratta di conseguenze intese, si
possono fare molti esempi. Un primo caso riguarda gli effetti contraddittori o perversi che possono
derivare dall’applicare alle popolazioni marginali criteri generali, come ad esempio gli standard
previsti per la popolazione nel suo complesso. L’applicazione formalistica, meccanica, di modelli
generali di “qualità abitativa” può essere non soltanto inefficace ma anche peggiorare le condizioni
di coloro cui vengono applicati. Nella misura in cui ignora il concreto quadro in cui si realizza la
prescrizione della qualità - non tiene cioè conto del gioco che si instaura tra la condizione di
marginalità abitativa/sociale dei destinatari e i limiti insiti nei dispositivi delle politiche -
l’introduzione di modelli formali non solo impone sugli interessati un peso irrealistico, ma può
aggravarne le condizioni.3
Un secondo esempio, sul versante opposto al precedente, è la riduzione qualitativa che può risultare
dalle soluzioni speciali. L’idea che per popolazioni marginali sia opportuno ricorrere a criteri
specifici di qualità è una costante della storia dello housing. L’idea può semplicemente conseguire
dall’osservazione che standard codificati possono per certe popolazioni essere inappropriati. Il
ricorso a criteri specifici utilizza però una serie molto ampia di argomentazioni: viene giustificato
con riferimento a bisogni speciali come il bisogno di ricovero in situazioni di emergenza; esigenze
particolari di protezione; il bisogno di reinserimento sociale ecc. L’idea è alla base dei vari tipi di
soluzioni “speciali”: dove speciale può riferirsi alla tipologia abitativa (forme differenti da quelle
ordinarie) oppure alla fornitura di servizi (accompagnamento ecc.) che qualificano l’offerta
abitativa in modo da renderla più efficace nel conseguire uno specifico obiettivo: di reinserimento,
protezione ecc.
L’esperienza delle strutture di accoglienza e di ospitalità temporanea documenta ampiamente tanto
le buone ragioni per il ricorso a criteri/soluzioni specifiche quanto gli effetti riduttivi dello
“specialismo”: esso può comportare ulteriori elementi di inappropriatezza (per esempio può
ostacolare lo stesso obiettivo di reinserimento che la soluzione speciale si suppone realizzi: BuschGeertsema, Sahlin 2007), ed è comunque esposto al rischio di costituire soluzione di qualità
inferiore, il che rende evidente il legame tra lo specialismo e le logiche sopra ricordate della
tradizione del trattamento abitativo dei poveri: le soluzioni speciali come indicative di una loro
esclusione dal campo delle politiche abitative, il loro affidamento alle politiche assistenziali e
regolative. Nelle sistemazioni speciali in effetti possono riversarsi non solo la ricerca di soluzioni
più adatte, ma anche altre funzioni di policy: controllo e disciplinamento, realizzazione di specifici
modelli di integrazione, o anche semplicemente preoccupazioni di contenimento dei costi.
Questa varietà di motivazioni e funzioni significa comunque che il ricorso a forme speciali viene di
norma dilatato ben al di là delle sue obiettive ragioni.
Una rivoluzione incompiuta
La crisi che negli anni ’70-’80 coinvolgeva, con la crisi del welfare state, le politiche abitative e i
modelli abitativi portati dal moderno (v. Tosi 1994) apriva uno spazio per un più adeguato
approccio allo housing dei poveri. Un esteso movimento introduceva nelle politiche e nell’azione
locale nuove pratiche, capovolgendo molte delle tradizionali nozioni che erano state alla base delle
politiche: una “rivoluzione abitativa”, come è stato detto (con qualche enfasi). Il movimento si
faceva carico dei problemi storici portati dalle politiche e dall’abitare moderno: i limiti di
adeguatezza delle soluzioni offerte rispetto ai bisogni degli abitanti; la difficoltà di includere i
3
In molti paesi, tra cui l’Italia, gli standard abitativi previsti per il soggiorno, per le regolarizzazioni o per i
ricongiungimenti familiari significano costi abitativi sproporzionati o adeguamento fittizio alla prescrizione. Nel caso
dei ricongiungimenti familiari, come è stato osservato anche per l’Italia, un onere irrealistico per gli interessati può
tradursi nella inefficacia della prescrizione: dopo il ricongiungimento la famiglia lascia l’appartamento “regolare” e
torna all’abitazione sottostandard da cui proviene. L’inefficacia della prescrizione tuttavia non è innocua. I circoli
viziosi che possono instaurarsi tra requisiti abitativi e condizioni legali per il soggiorno, in presenza della difficoltà di
accedere ad alloggi “a norma”, sono stati documentati per molti paesi. Per la Francia lavoratori sociali e responsabili di
associazioni hanno spesso descritto come il gioco combinato del riferimento a standard abitativi e dei meccanismi di
aiuto previsti per le popolazioni svantaggiate abbia effetti perversi: con il risultato che il sistema degli aiuti – invece di
accrescere le possibilità di accedere ad un alloggio decente – “costituisca un sistema generatore di esclusione”
(Rubellin-Devichi 1988).
poveri tra i beneficiari delle politiche abitative. Si trattava in definitiva dei due significati che il
termine “sociale” assume quando applicato ai problemi abitativi: l’idea che le case e i modi di
abitare debbano essere congruenti con i bisogni dell’abitante, rispondere alle sue esigenze e ai suoi
desideri; l’idea che una casa decente debba essere garantita a tutti, anche a coloro che non sono in
grado di accedervi attraverso i meccanismi del mercato. Connettendo i due significati il movimento
offriva inedite opportunità per una considerazione più efficace dei bisogni dei poveri. Anche se
questa “rivoluzione” aveva una portata più ampia, i problemi dei poveri più direttamente la
motivavano, in un rinnovato impegno nei confronti dell’esclusione abitativa, che in quegli anni
andava assumendo una nuova estensione e conformazione: la nuova, più ricca identificazione
dell’abitare su cui il movimento lavorava sembrava avere nei riguardi dei poveri una efficacia
potenziale maggiore.
Ancorché si trattasse di un movimento notevolmente complesso e variegato, vi erano alcuni comuni
bersagli: le forme di controllo centralistico tipiche della tradizione delle politiche e della produzione
abitativa; i modelli - concezioni abitative e modi di produrre le abitazioni - che si sono affermati
con la modernità e che sono stati il riferimento fondamentale delle politiche. Entrambi i temi
mettevano in discussione la tradizione regolativa-assistenziale nel trattamento dei problemi abitativi
dei poveri. Il bersaglio teorico era la riduzione dell’ abitare a momento a sé, separato dalla
complessiva esperienza dell’abitante, identificabile con l’oggetto-prodotto in cui si svolge l’attività
abitativa; e la cui produzione è determinata, secondo criteri razional-universalistici, da apparati
specializzati che nei riguardi degli abitanti si comportano secondo i principi di esternalità che sono
tipici dell’approccio amministrativo ai bisogni. Questi tratti apparivano particolarmente
inappropriati per i poveri. La riduzione fisico-quantitativa e la separazione dell’abitare si rivelavano
particolarmente incoerenti con le condizioni di vita dei poveri.
Nelle retoriche del movimento, la discontinuità rispetto alla tradizione era rappresentata da ciò che
veniva indicato con i termini di abitare e di abitante. In questo senso il movimento riprendeva una
idea che aveva una lunga tradizioni nella riflessione critica sulla casa: che al di là delle sue
dimensioni fisico-oggettuali, “abitare” è attività e significato, azione, relazione. Il punto essenziale
era la riaffermazione, contro la riduzione moderna, del carattere processuale dell’abitare - non un
oggetto, ma atto e processo; non attività specializzata, ma relazione complessa con un ambiente implicando, da tutti i punti di vista, un ruolo attivo dell’abitante nel risolvere i propri problemi
abitativi e nella produzione del proprio ambiente abitativo. Questa riproposta - se da un lato
riaffermava le ragioni della libertà e del potere di abitare - dall’altro estendeva il campo
problematico e includeva come dimensioni essenziali dell’azione abitativa tutti i fattori che possono
rendere appropriate le soluzioni: il rapporto con il quartiere e le relazioni di convivenza; le
interazioni tra l’alloggiare e le molteplici dimensioni della vita quotidiana; il modo di produrre l’
abitazione, ecc.
Fino a che punto questa sfida è stata raccolta? Certamente diversi elementi sono entrati nelle
pratiche e nelle politiche, ma nel complesso - se guardiamo alle differenti, contrastanti evoluzioni
del movimento e all’applicazione che hanno avuto quei principi, possiamo parlare – quanto meno –
di una rivoluzione incompiuta: in particolare per quanto riguarda le politiche pubbliche. Si è trattato
fin qui di applicazioni parziali, selettive: spesso riassorbite nella continuità con gli schemi
convenzionali, oppure svuotate dalla loro collocazione nelle logiche neo-liberistiche che hanno
condizionato le politiche dagli anni ’80 in poi. Per un altro verso la portata innovativa di quei
principi è stata indebolita dalla loro precoce cristallizzazione entro schemi che sono diventati
popolari, ma la cui popolarità riduce lo spazio per un loro uso creativo e attento alle condizioni e ai
criteri che conferiscono efficacia ai modelli: così ad esempio per l’idea di “integrazione” degli
interventi e delle politiche.
I limiti dell’influenza che il movimento ha esercitato sulle politiche possono essere riscontrati per
entrambe le accezioni di “sociale”. Per quanto riguarda l’inclusione dei poveri tra i beneficiari delle
politiche abitative, cambiamenti sostanziali hanno riguardato soltanto alcuni paesi (v. Ballain,
Maurel 2002): in generale però la selezione dei destinatari continua per molti versi a marginalizzare
i poveri. E l’innovazione delle politiche – in risposta alle nuove domande ma anche alle logiche del
ripiegamento neo-liberale - fornisce al trattamento differenziale dei poveri nuove ragioni.
In Italia si può osservare (nel discorso, non necessariamente nelle concrete politiche, data l’esiguità
delle risorse investite sulla casa sociale) come la persistente preferenza storica per i problemi dei
ceti medio-bassi possa oggi dare luogo ad un trattamento differenziale che relega di nuovo l’area
della povertà/marginalità in situazione di svantaggio. Nel discorso che accompagna i programmi
regionali per l’affitto (v. Tosi 2006), la designazione dei destinatari - che riprende le rituali
elencazioni con cui da noi si usa identificare le “fasce deboli” – non fa che riprendere i tradizionali
riferimenti delle politiche abitative italiane: un sociale esteso e indifferenziato e nello stesso tempo
una propensione a evidenziare i problemi di ceti medi/medio-bassi. Se poi si guarda alla gamma
delle tipologie che vengono previste per i diversi destinatari, per quanto riguarda sia il prodotto
offerto sia le modalità della produzione, si intravede una sorta di polarizzazione tra medi/mediobassi da un lato e poveri dall’altro. Per i primi, l’affitto è pensato attraverso un ampio ricorso a
meccanismi (e operatori) di mercato, e vi è una più chiara continuità tra affitto e accesso alla
proprietà (forme di affitto che possono tradursi in proprietà). Per i secondi (a parte le misure del tipo
Fondo sociale per l’affitto) è più spesso prevista una edilizia sociale, prodotta essenzialmente
attraverso risorse pubbliche, insieme con varie forme di sistemazioni temporanee e di strutture di
accoglienza, assegnate con titoli speciali: in larga misura un’assistenza a parte, separata dal corpo
delle stesse misure di edilizia sociale.4
Quanto all’altra accezione del “sociale”, la ricerca di coerenza tra casa e bisogni, che la
“rivoluzione abitativa” affidava alle virtù di una più ricca idea di abitare - azione, relazione,
iniziativa degli abitanti, oltre che spazio-oggetto - è evidente che l’indicazione solo marginalmente
è stata recepita dalle politiche e dalle peraltro innovative proposte introdotte dal terzo settore e dagli
attori locali.
Certamente l’introduzione di pratiche di sostegno e di accompagnamento sociale e la diffusione di
approcci “integrati”, che coniugano offerta edilizia e misure sociali, testimoniano una distanza da
una visione fisicista/oggettuale del problema. Così come lo sviluppo di iniziative associative e di
terzo settore, a volte arricchite di notevoli dimensioni partecipative, documentano un nuovo
rapporto tra politiche abitative e società civile e un ruolo più attivo dell’iniziativa degli abitanti.
Così come la valorizzazione del territorio e del locale come ingrediente dell’azione abitativa e i
tentativi di integrazione tra politiche abitative/sociali e politiche urbane/di quartiere indicano una
maggiore consapevolezza del carattere spazio-relazionale dell’abitare.
E tuttavia i limiti della conversione sono evidenti se si guarda ad esempio al modo ideologico con
cui l’idea di azione integrata si è imposta alle politiche, il suo diventare paradigma emarginando gli
interrogativi sulle sue condizioni di efficacia (e lasciando quasi intatta la separazione tra le
burocrazie preposte alle politiche settoriali, e ancora piuttosto solida la logica assistenziale degli
4
Qualcosa di simile è stato osservato per altri paesi europei: secondo J. Donzelot (2005) le nuove politiche neo-liberali
separano i poveri dalla corrente principale dell’accesso alla casa, consegnandoli ad una gestione specializzata del
settore dell’affitto che li marginalizza. [Nella contrazione dell’edilizia pubblica in corso in tutti i paesi] si osserva uno
“sgretolamento” ad entrambi gli estremi. Da un lato “per incoraggiare le persone a uscire dal welfare, vengono istituite
politiche che rendono più facile l’accesso alla proprietà della casa […]. Sull’altro lato, la gestione delle sistemazioni in
affitto viene sub-contrattato a ONG specializzate nel fornire sistemazioni abitative a una popolazione impoverita”.
interventi), o alla stessa debolezza del terzo settore abitativo e alla scarsa connessione (in assenza
delle forme tradizionali di movimento) tra le azioni degli attori non istituzionali. 5
Dove i limiti sono più evidenti è nell’integrazione tra politiche abitative sociali e politiche urbane:
la considerazione del territorio e del locale è avvenuta in Italia replicando schemi della tradizione
urbanistica e aderendo acriticamente al nuovo quartierismo che ha rappresentato in questi anni un
paradigma tanto per le politiche sociali che per quelle urbane. L’“urbanizzazione” del problema
casa - il problema ricondotto alle sue dimensioni urbane e assorbito nelle politiche
urbane/urbanistiche - è stato largamente sostenuto dalle politiche nazionali di riqualificazione e da
quelle di rigenerazione dei quartieri in difficoltà. L’idea che le politiche abitative siano ormai
assorbibili nelle politiche urbane rischia di essere a maggior ragione fuorviante data la tradizionale
tendenza a incentrare le politiche urbane sugli aspetti urbanistici ed edilizi: come avviene tanto nei
programmi di riqualificazione urbana che in quelli per la rigenerazione dei quartieri. Ricondotta a
queste dimensioni l’urbanizzazione della questione casa risulta particolarmente inadeguata per le
componenti più propriamente sociali della domanda. Più in generale l’ urbanizzazione del
problema, riconducendo così l’“abitare” a vecchie tradizioni, lo tramuta da istanza critica in
riciclaggio di vecchi schemi disciplinari: lasciando irrisolti gli interrogativi su quale contributo le
politiche urbane possono effettivamente dare al trattamento della povertà abitativa e a quali
condizioni.
Fuori luogo
Per la loro capacità di rappresentare i problemi dei poveri e per il potenziale sovvertimento delle
politiche e delle pratiche che la più ricca rappresentazione dell’“abitare” racchiude, le intuizioni
della “rivoluzione abitativa” possono considerarsi un vero e proprio contromodello non solo nei
confronti della tradizione, ma anche degli sviluppi che in seguito si sono manifestati nel trattare la
questione abitativa.
5
La stessa idea di intervento integrato - nel senso di multidimensionale – è da mettere in discussione se si pretende di
applicarla come criterio universale delle politiche. L’intreccio con processi di impoverimento significa certamente
anche introdurre nelle politiche abitative principi di integrazione. Ma oggi la popolarità del modello dell’azione
integrata rischia di farne una ideologia, che dà per scontato che sempre comunque le politiche e gli interventi debbano
essere integrati, trasversali, multidimensionali. Come è invece evidente nel campo abitativo, vi sono molte situazioni in
cui l’intervento richiesto può/deve essere settoriale: molte persone e famiglie hanno semplicemente bisogno di una casa,
senza che qualcuno debba “combinare” per conto loro la risposta a questo bisogno con la risposta ad altri bisogni.
(Naturalmente nessuna obiezione se con il termine “integrato” si intende affermare la necessità di coordinamento tra
politiche ecc.).
Problematico è anche l’altro significato del principio di integrazione delle politiche, l’integrazione tra azione pubblica e
azione privata: che si manifesta nell’insistenza sul coinvolgimento del settore privato come una regola per le politiche
abitative, anche sociali. Quanto appropriato è questo principio, quanto applicabile è questa regola quando si tratta di
dare risposta ad un problema la cui cifra principale è quella della povertà? Certamente la costruzione di una “nuova
edilizia sociale” significa oggi coinvolgere differenti operatori e risorse e partnership e negoziazione tra pubblico,
privato e terzo settore. Ma una volta affermata la necessità di questa pluralizzazione dei soggetti, degli strumenti, delle
risorse, non si vede come si possa uscire da questa situazione senza una forte responsabilità pubblica. La pluralizzazione
presenta almeno due punti critici: la debolezza del terzo settore abitativo (che ha giocato un ruolo importante
nell’innovare la filosofia dell’edilizia sociale, ma non è riuscito finora a consolidarsi in misura paragonabile a ciò che
avviene in altre aree delle politiche sociali); e l’incertezza sul contributo che il privato di mercato può effettivamente
dare alla produzione di alloggi sociali. L’ipotesi e le pratiche del ricorso al privato da un lato sembrano basarsi su
assunti ideologici che danno per scontata comunque una loro produttività sociale, dall’altro rivelano una semplice resa a
cause di forza maggiore: l’impossibilità di affrontare oggi il problema con le sole risorse pubbliche.
Oggi la ricerca di efficacia delle politiche si situa in un quadro profondamente modificato rispetto
ad allora: in particolare, per quanto ci riguarda, per l’estensione e ancor più per le nuove
articolazioni che la povertà e la povertà abitativa hanno assunto.
Un primo ordine di cambiamenti è dato dallo sviluppo, a partire dai decenni ’70-’80, delle nuove
povertà abitative. L’intreccio con i nuovi processi di impoverimento ha modificato la fisionomia
della questione abitativa, costituendone la novità. A ragione l’analisi ha insistito su questo intreccio
e ad esso ha ricondotto il modificarsi delle forme della deprivazione abitativa 6. Come viene
comunemente osservato, si tratta non solo dell’estensione, ma anche di una complessificazione della
domanda insoddisfatta, una sua maggiore articolazione. Un dato cruciale per una efficace
costruzione delle politiche è il delinearsi, sui due opposti versanti dell’area della deprivazione, in
aggiunta al normale “disagio abitativo”, di due ambiti che rendono ragione della complessificazione
delle figure dei portatori di bisogno: da un lato un’area di esclusione in senso stretto, di situazioni
cioè di non-casa: persone che non hanno alcuna sistemazione, o sistemazioni così precarie da non
poter essere considerate propriamente abitative; dall’altro lato le situazioni di rischio abitativo, che
ora si estendono anche a segmenti di popolazione in precedenza non toccati da questo tipo di
problemi.
Gli sviluppi successivi hanno poi messo in evidenza evoluzioni non scontate di queste articolazioni:
da un lato una permeabilità tra poveri e ceti medi, che rende difficile determinare in modo statico
l’estensione della povertà e mantenerne le tradizionali identificazioni sociologiche; da un altro lato
una permeabilità o indistinzione tra marginalità, esclusione, povertà.
Tra le popolazioni indicate con termini quali povertà estrema o esclusione sociale, un nucleo
particolarmente importante in questa sede – per le novità che segnala nei processi di esclusione e
nelle politiche - è dato da figure come le componenti marginali dell’immigrazione, gli homeless di
strada, i rom. La definizione di “fuori luogo”, in molti dei significati con cui l’espressione è stata
proposta (Sayad, Revelli, ecc.), può rendere diversi aspetti delle condizioni di queste popolazioni:
sradicamento ed erranza, esclusione dalle politiche, mancato riconoscimento della pienezza dei diritti
di cittadinanza.
Queste figure suggeriscono un cambiamento del quadro della marginalità sociale e del trattamento
che ne viene fornito dalle politiche, che sembra configurare una nuova fase dei processi e delle
politiche dell’integrazione. C’è una crescita visibile oggi di popolazioni che non trovano un posto
nel sistema delle politiche e dell’assistenza. Dietro, e lo si può osservare in tutte le società europee,
sono nuovi processi di esclusione, che possono essere osservati tanto sul versante delle popolazioni
marginalizzate che su quello delle modalità di fronteggiamento da parte del sistema dell’assistenza
e delle politiche pubbliche. Rom, homeless, immigrati sono in questo senso figure esemplari.
In Italia per gli homeless di strada vi sono due dati significativi. Dopo il radicale cambiamento degli
anni ’80-‘90 (quando al tradizionale “barbone” subentravano le figure della nuova marginalità
sociale), sono comparse in seguito nuove figure i cui profili non corrispondono a quello del “senza
dimora” che è al centro della costruzione del problema in Italia. Prima gli immigrati homeless:
6
Il dibattito sull’esclusione sociale, che ha accompagnato la ricomparsa della povertà in Europa in questi due decenni,
ha fornito alcuni elementi essenziali per rendere conto della natura della nuova povertà abitativa. In primo luogo esso
invita a portare l’attenzione sui processi di grande scala che producono esclusione e sui vettori alla base dei processi di
esclusione; in secondo luogo insiste sul carattere processuale e multidimensionale della povertà, e sulla varietà dei
percorsi di esclusione; infine sottolinea la estensione dell’area a rischio di esclusione. Esclusione è un processo di
“disaffiliazione” (Castel 1995) che nei suoi esiti estremi esclusione configura un’uscita dalla società, una rottura dei
legami con la società: ma il fenomeno è virtualmente più problematico di quanto non dica la consistenza attuale
dell'esclusione, le popolazioni a rischio sono ben più ampie di quelle già escluse.
immigrati senza casa che non hanno quei problemi di marginalizzazione e ancor meno quei tratti di
destrutturazione personale che caratterizzano molti senza dimora – sono semplicemente poveri
senza casa. Per loro la mancanza di casa può essere nient’altro che una fase nella strada verso
l’integrazione nella nuova società. 7 In seguito si scopre che tra coloro che vivono sulla strada vi
sono, e aumentano, persone caratterizzate da biografie profondamente differenti da quelle del senza
dimora “tipico”: persone che non hanno storie pregresse di emarginazione, ma esperienze di vita
“normali” (Bergamaschi 2004): semplicemente poveri. Immigrati, poveri: figure per le quali è
impossibile continuare nel paradigma che attribuisce a fragilità individuali la caduta nella
homelessness.
Quanto ai rom i dati problematici rinviano più direttamente alle politiche. Dei 150.000 (?) rom e
sinti che vivono in Italia soltanto percentuali minori trovano soluzioni accettabili ai loro problemi
abitativi/insediativi. Dal punto di vista delle oggettive condizioni, la situazione per molti continua
ad essere di homelessness vera e propria. Su questa situazione vi sono state in questi anni diverse
denunce di organismi internazionali 8. L’attuale congiuntura (che vede un inasprimento delle
tensioni, ma anche esplicite aggressioni nei confronti degli insediamenti rom, e un discorso
pubblico anti-zingari che ha ripreso inedito vigore anche nelle parole di responsabili politici)
aumenta gli ostacoli alla ricerca di pratiche positive. Le difficoltà sono rafforzate, sul versante delle
politiche pubbliche, dalla preminenza che le preoccupazioni securitarie hanno assunto come
orizzonte delle politiche. Una linea che a livello locale si traduce nell’assicurare numeri chiusi,
riduzione degli insediamenti rom, controllo delle presenze irregolari, sradicamento degli
insediamenti abusivi: uno schema “difensivo” che riduce gli spazi per una reale politica integrativa
(Tosi 2007)
Nel caso dell’immigrazione, infine, l’argomento tocca quello dei nuovi arrivi. In tutti i paesi, i
nuovi flussi hanno una composizione più eterogenea: secondo l’ipotesi delle three waves of
migration proposta da P. White (1993) - dalle migrazioni per lavoro ai processi di ricongiungimento
familiare al “movimento post-industriale” - nella terza wave troviamo componenti che non
prevedono quella ricerca di stabilizzazione che era comune nelle migrazioni da lavoro; oppure
situazioni problematiche a causa della particolare carenza di copertura: ad esempio rifugiati e
richiedenti asilo, che in Europa aumentano proprio nel momento in cui si irrigidiscono le chiusure
della Fortezza Europa. In Italia le implicazioni problematiche sono ben visibili nel campo abitativo,
dove registriamo due nuovi dati (in realtà soltanto in parte riconducibili ai nuovi flussi): la citata
7
Già nel 2000 la ricerca della Commissione di indagine sull’esclusione sociale sulle persone senza dimora collocava al
46,2% la percentuale di stranieri tra le persone senza dimora. Nel 2002, una indagine svolta dalla Fiops (Federazione
degli organismi che operano con le persone senza dimora) registrava la crescita massiccia di immigrati tra gli utenti dei
servizi per le persone senza dimora. Per il 43% dei servizi interpellati gli immigrati rappresentano più del 50%
dell’utenza.
8
Il Rapporto sul rispetto dei diritti umani in Italia presentato dal Commissario per i diritti umani del Consiglio
d’Europa del gennaio 2006 contiene tra le raccomandazioni conclusive quella di istituire un programma nazionale con
l’obiettivo di offrire condizioni di vita dignitose ai rom che vivono in bidonville. Nell’Aprile 2006 il Comitato Europeo
per i Diritti Sociali ha emesso un pronunciamento in cui accusa l’Italia di negare sistematicamente il diritto di rom e
sinti ad un alloggio adeguato. Secondo il Comitato le politiche abitative per rom e sinti “puntano a separare questi
gruppi dal resto della società italiana e a tenerli artificialmente esclusi”, “bloccano qualsiasi possibilità di integrazione e
condannano i rom a subire il peso della segregazione su base razziale”. Inoltre vengono denunciate condizioni abitative
estremamente inadeguate in molti insediamenti, che sono una minaccia per la salute e per la stessa vita dei residenti nei
campi. Il Comitato ritiene che costituiscano violazione dell’articolo 31 (diritto all’abitazione) della Carta Sociale
Europea l’inadeguatezza dei campi sosta per rom e sinti nomadi, gli sgomberi forzati e le altre sanzioni ad essi associati
e la mancanza di soluzioni abitative stabili. Per quanto riguarda gli sgomberi il Comitato mette sotto accusa non soltanto
la pratica dello sgombero ma anche le modalità con cui essi vengono attuati dalle autorità italiane, che - denuncia il
Comitato - distruggono i beni degli abitanti, adoperano un “linguaggio denigratorio e offensivo” e umiliano gli sfrattati.
In molti casi, le persone cacciate restano senza casa, mentre i rom stranieri vengono espulsi collettivamente.
incidenza di situazioni di homelessness tra gli immigrati, e la comparsa di insediamenti illegali nelle
grandi città.
Entrambi i processi rivelano punti di particolare debolezza dei nostri processi integrativi e delle
politiche, e la possibilità che nuovi punti di rottura si stiano costituendo a seguito dei cambiamenti
in corso. La cui portata è evidente per quanto riguarda l’immigrazione: che oggi comprende alcune
componenti che non arrivano neanche alla prima soglia della rete dell’assistenza: le mense, i
dormitori; gli strumenti minimi dell’integrazione e del controllo per loro non funzionano. I flussi
clandestini inoltre stanno diventando in qualche modo strutturali. Finora la irregolarità è stata in
qualche modo fisiologica e le politiche sono state in grado di trattarla e di farla/lasciarla evolvere
verso l’integrazione (la storia reale dell’immigrazione è fatta in gran parte di percorsi di successo
iniziati nella irregolarità). Oggi sembra più difficile trattare positivamente la irregolarità. Negli
ultimi anni la costruzione del problema immigrazione, in Italia come in altri paesi, ha visto una
flessione delle preoccupazioni per l’inserimento degli immigrati a favore delle preoccupazioni di
controllo dell’immigrazione. Questo in un quadro in cui le preoccupazioni “sicuritarie” sono
cresciute: e l’interdipendenza con il sicuritario cospira contro le politiche di integrazione.
Il rapporto che queste forme di povertà hanno con lo spazio urbano è un elemento essenziale per
cogliere le tendenze in corso. I fuori luogo non entrano nei sistemi categoriali in uso per descrivere
la disuguaglianza e la segregazione urbana: rispondono a principi di separazione differenti,
occupano lo spazio urbano diversamente da quanto previsto dalle morfologie convenzionali:
attraverso i percorsi dell’erranza e la presenza negli spazi pubblici; attraverso una residenzialità,
come quella delle baraccopoli, che ha poco a che fare con quelle della comune povertà e con quelle
trattate dalle politiche di lotta alla povertà (ad esempio le politiche di quartiere). I nuovi processi di
controllo dello spazio urbano, che sono una notevole determinante del costituirsi dei “fuori luogo”,
li coinvolgono in modi diversi, realizzando territori dell’esclusione differenti.
Per gli homeless di strada è un territorio che interferisce in modo problematico con il “normale”
spazio urbano. Gli homeless di strada non hanno un loro spazio, separato da quello degli abitanti
della città: la loro è una presenza in spazi “abitati”, gli spazi nei quali si sviluppa la quotidianità
normale della vita urbana, e nei quali i senza dimora sono appunto “fuori luogo”: estranei, in
qualche modo intrusi.
Un altro tipo di intrusione, che identifica un’altra forma di homelessness, è possibile nelle città:
l’occupazione di luoghi inabitabili, come avviene per la maggior parte degli insediamenti illegali. In
questo caso lo spazio diventa anche elemento di identificazione: abitare in questi luoghi distingue
un immigrato da altri immigrati: l’illegalità della condizione abitativa si aggiunge alla illegalità
della presenza nel territorio nazionale.
I due tipi di spazio sono oggetto di interventi di controllo differenti, che hanno poste politiche
diverse e obiettivi diversi. In ogni caso rimandano ad alcune significative novità nel trattamento
della povertà. Il primo tipo di territorio rimanda alla tendenza, osservata in molti paesi, alla
restrizione dell’uso dello spazio pubblico, di cui sono vittime gli homeless di strada e i vari tipi di
popolazioni “pericolose” o “indesiderabili” (Doherty e altri 2008). Il controllo dello spazio in
questo caso è inteso a normalizzare, come si vede per le misure di contrasto dell’accattonaggio: se
gli homeless sono destinatari di misure di controllo è appunto a causa della loro presenza in spazi
“abitati”, nei quali essi sono “fuori luogo”. Il disordine che il controllo degli spazi pubblici intende
prevenire e reprimere evoca nel discorso delle politiche due diversi tipi di preoccupazione: il decoro
degli spazi urbani da un lato, la sicurezza dall’altro. I due tipi di preoccupazione riassumono la
varietà di pressioni che sono dietro la tendenza a restringere e limitare il diritto allo spazio pubblico:
il crescente allarme sicurezza, la conversione degli spazi pubblici per rendere la città più attraente
per consumatori benestanti e visitatori, e per rispondere alle richieste di disciplinamento e di
sicurezza delle classi benestanti, come sostiene la tesi della revanchist city (v. Sahlin 2006)
Per gli insediamenti illegali, la chiave principale che definisce il comportamento delle
amministrazioni è l’assenza di presa in carico: indifferenza, occultamento, e un assunto di
intrattabilità politica della questione.
Particolarmente significativo nell’indicare una realtà di violazione del diritto all’abitare, lo
sgombero non esaurisce affatto le politiche delle amministrazioni nei confronti degli insediamenti
illegali, e non ne restituisce appieno il senso principale. Tutto sommato, gli sgomberi sono meno
frequenti di quanto la occhiuta contabilità delle amministrazioni – che al censimento continuo degli
insediamenti illegali dedicano molte energie - potrebbe far pensare. E quando agli sgomberi si
ricorre, ciò avviene con la totale consapevolezza che essi non risolvono il problema. Lo sgombero è
una ricetta che rimanda al carattere simbolico delle politiche, e in questa direzione va ricercata
l’eventuale efficacia di questa misura. Ma nel complesso prevale nell’atteggiamento delle
amministrazioni una sorta di presupposto di “intrattabilità” della questione, e la strategia sembra
piuttosto quella di una invisibilizzazione di questi insediamenti. La difficoltà delle amministrazioni
a trattare l’ “informale” riflette in questo caso anche una intrattabilità politica del problema.
D’altra parte è questo schema politico che rende comprensibili atteggiamenti per altri versi
contrastanti con le ragioni dell’amministrare: l’“indifferenza” nei confronti della sorte di coloro che
vengono sgomberati; il paradosso di rendere homeless delle persone in nome del rispetto di standard
abitativi (gli sgomberi sono spesso formalmente giustificati con riferimento a standard igienicosanitari ecc.): un paradosso che però diventa comprensibile se si tiene conto che le persone
implicate appartengono a specifici gruppi come i rom e gli immigrati, soprattutto illegali.
Entrambi i casi indicano un cambiamento profondo nella costruzione sociale della povertà e nella
considerazione delle popolazioni marginali da parte delle politiche. (Per questo è importante
rivolgere l’attenzione alle definizioni: i nuovi processi di controllo possono essere visti come
“conflitti sulle definizioni – of people, places and acts”: Sahlin 2006). Definiti in termini di ordine
pubblico e di decoro dello spazio urbano gli homeless di strada vengono sottratti alle politiche
sociali. La rimozione di immigrati e zingari dallo spazio pubblico – come anche il loro abbandono
nelle baraccopoli - può farsi intenzione di espulsione dalla comunità: stigmatizzati e considerati
“estranei e superflui al doppio livello dell’economia e delle politiche” (Wacquant 2003), diventano
parte di quelle popolazioni eccedenti (Bauman 1998, Castel 1995 ecc.) che rischiano di essere
abbandonati – lasciati cadere –dalle politiche sociali/integrative delle società post-moderne. “Fuori
luogo” significa anche estraneità delle/alle politiche: una tangibile distanza delle politiche dalle
nuove situazioni di marginalità.
La nuova congiuntura di crisi – con la “crisi del welfare state” - apre inedite possibilità di riduzione
delle politiche di protezione/integrazione. Il più significativo elemento politico è la possibilità che nel
nuovo scenario trovino spazio ipotesi di riduzione della cittadinanza, l’abbandono del principio di
“responsabilità collettiva illimitata” che ha caratterizzato il welfare state (Castel 1995): una ipotesi
di società che pensa diritti sociali limitati per le popolazioni marginali designate.
Ancora una volta la dimensione abitativa assume il ruolo di rivelatore. Come si è accennato, la
condizione abitativa ha sempre rappresentato un indicatore fondamentale della cittadinanza, e la
consegna delle popolazioni marginali a soluzioni assistenziali, di emergenza, di “accoglienza”, ha
rappresentato la marginalità socio-istituzionale dei poveri. In questo senso, la recente ricomparsa di
un certo favore per soluzioni speciali, temporanee o di emergenza (Ballain, Maurel 2002) potrebbe
indicare il rischio di una rilegittimazione di trattamenti differenziali, di una relegazione delle
soluzioni abitative assegnate a popolazioni povere o marginali.
Riannodare i fili
Se il quadro è ormai distante da quello in cui prendeva forma la “rivoluzione abitativa”, tuttavia il
valore di contromodello di quelle intuizioni rimane. Anzi la rilevanza di alcune indicazioni è oggi
più evidente, e di fronte al rischio di una logica di riduzione dei diritti e di un nuovo
differenzialismo abitativo, le ragioni per riprendere a ragionare su queste indicazioni si sono fatte
più urgenti. Cercherò di riassumere, con riferimento al caso italiano, alcuni punti critici che, lungo
le linee sopra discusse, possono costituire una base minima per innovare le politiche e il sistema
housing.
(a) Occorre ridefinire le priorità tenendo conto della nuova fisionomia della povertà abitativa.
Il rapporto fra le diverse componenti della domanda - per un verso il rapporto fra componenti
“basse” e marginali e componenti medie/medio-basse della domanda, per un altro verso fra
trattamento delle situazioni di rischio e trattamento delle situazioni di disagio conclamato (le due
cose soltanto in parte si sovrappongono) - costituisce un punto altamente problematico. Il nuovo
intreccio tra processi di impoverimento e povertà abitativa comporta di combinare nel trattamento i
diversi aspetti della questione: affrontare in modo sistematico le situazioni di rischio; e costruire
politiche abitative “molto sociali” (è il termine che ha accompagnato il rinnovamento delle
politiche in Francia negli anni ’90) nei confronti delle situazioni di grande disagio o di disagio
conclamato: che significa offerte molto economiche, la fornitura, in molti casi, di
accompagnamento sociale; una stretta integrazione con le politiche sociali e con quelle di lotta
contro la povertà. Certamente un problema concettualmente ed empiricamente difficile, come
sempre quando si tratta di combinare le ragioni della prevenzione con quelle degli interventi
riparativi: tanto più nell’attuale congiuntura storica in cui la centratura sull’estremo disagio
rappresenta in molti paesi il ripiegamento neo-liberale delle politiche – riduzione delle popolazioni
obiettivo, abbandono delle forme estese di protezione, con ovvie conseguenze sulla capacità di
prevenzione delle politiche. Un problema difficile inoltre perché il coinvolgimento delle classi
medie in situazioni di rischio e di povertà abitativa complica la stratificazione sociale dei bisogni e
ne impedisce una definizione nei termini tradizionali.
Ma in Italia la questione va affrontata prendendo atto che oggi nell’impianto delle politiche il
trattamento delle due esigenze è squilibrato. Le situazioni di rischio tendono ad essere più e meglio
rappresentate che non le situazioni di disagio conclamato, soprattutto di quelle estreme: in parte
come conseguenza del persistere dello storico squilibrio, nell’attenzione dei costruttori di politiche,
tra segmenti di popolazione “bassi” e segmenti medi e medio-bassi. In questo quadro le componenti
basse rischiano di essere ancora una volta marginalizzate. Se si considerano le dimensioni del
fenomeno e le politiche in corso, è lecito quindi proporre una ridefinizione delle politiche che
riconosca priorità, almeno per un periodo, alle situazioni più gravi e all’intervento rivolto alle aree
“basse” o marginali della domanda: situazioni di urgenza, disagi particolarmente gravi, situazioni di
esclusione abitativa strutturale, situazioni cioè in cui l’esclusione abitativa esprime e si combina con
situazioni di esclusione/emarginazione sociale. Superare questo squilibrio non comporta soltanto
una modifica delle quantità di risorse rivolta alle diverse aree di bisogno: presuppone anche una
innovazione culturale nel trattamento della marginalità abitativa. L’obiettivo è di favorire un’uscita
dall’approccio assistenziale che ancora caratterizza molto intervento per questi segmenti di
popolazione, orientandoli verso logiche più abitative.
(b) Per affrontare questi problemi, l’attuale configurazione delle politiche abitative sociali rischia di
essere inadeguata: politiche genericamente sociali – pensate con in mente l’insieme della
popolazione in situazioni di bisogno - non possono bastare. E’ sulla base di questa constatazione
che è nata l’idea di politiche abitative “molto sociali”. Le normali misure sociali possono rispondere
a situazioni di reale disagio, che le politiche devono certamente affrontare, e possono avere una
preziosa funzione preventiva: ma - come d’altra parte mostra tutta la storia delle politiche - esse non
risolvono necessariamente le situazioni più problematiche. Per le quali è necessario pensare a forme
di protezione specifiche, che rappresentino garanzie certe nella soddisfazione di bisogni elementari:
previsione di livelli essenziali, safety nets per le situazioni di urgenza e di mancanza di alloggio,
sistemazioni immediate per i senza casa ecc.; eventualmente regimi speciali di garanzia ispirati alla
nozione di diritti esigibili ecc.
(c) “Pensare case”: questo il principio generale per dare casa ai poveri. Non centri di accoglienza o
dormitori o campi nomadi, ma soluzioni abitative: le quali possono essere abitazioni nelle forme
ordinarie/convenzionali, oppure anche scostarsene: purché realizzino principi abitativi. 9
Le forme speciali devono ridursi alle situazioni in cui ne è evidente l’utilità: come si è accennato, in
molti casi, anche di marginalità estrema, l’assegnazione a soluzioni speciali non si giustifica, se non
perché non sono disponibili vere case. “La grande maggioranza di coloro che sono senza casa hanno
il potenziale per vivere in abitazioni e alcuni avranno bisogno di sostegno sociale per realizzare
questo obiettivo […]. La riduzione della homelessness e del supposto bisogno di sistemazione
temporanea deve essere accompagnata da importanti misure nel campo delle politiche abitative e
dei servizi sociali. Prima di tutto devono essere rese disponibili e accessibili in quantità sufficiente
case normali. Inoltre è necessario un adeguato sostegno sociale per coloro che hanno problemi, ma
è importante notare che questo può essere offerto in modo flessibile”, non c’è un legame necessario
tra ricevere sostegno sociale ed essere ospitati in forme speciali come centri di accoglienza ecc.
(Busch-Geertsema, Sahlin 2007).
Una volta preso atto delle critiche dello specialismo e dell’abuso che viene fatto delle soluzioni
speciali, va anche riconosciuto lo spazio effettivo che queste soluzioni possono avere. “Anche in un
sistema molto migliorato, può esserci ancora il bisogno di una certa offerta di sistemazioni
temporanee e di certi tipi di strutture di accoglienza”. Situazioni di emergenza, specifiche domande
di cura/reintegrazione, esigenze particolari di protezione possono trovare sistemazione in forme
abitative che si discostano da quelle ordinarie (forme abitative: anche le soluzioni speciali devono
realizzare il più possibile principi abitativi). “In ogni caso è essenziale organizzare le sistemazioni
temporanee in modo non-stigmatizzato (per esempio usando appartamenti che siano distribuiti
all’interno dello stock abitativo normale); assicurare una qualità abitativa adeguata (non c‘è ragione
perché le sistemazioni ‘a bassa soglia’ debbano essere di bassa qualità); fornire il sostegno
necessario ai residenti che ne hanno bisogno (vestiti, documenti, problemi di salute, problemi
finanziari, bisogno di cura, isolamento sociale ecc.); assicurare che la sistemazione temporanea sia
mantenuta temporanea” (ibidem).
9
Perché realizzino principi abitativi è possibile che le soluzioni debbano scostarsi dalle forme ordinarie. Il dibattito
sugli insediamenti rom e sinti esemplifica bene questo punto (v. Tosi 2007). Non è tanto questa o quella tipologia
abitativa/insediativa a decidere l’adeguatezza di una soluzione bensì la realizzazione dei principi che “fanno una casa”:
il carattere familiare dell’insediamento e la costituzione di uno spazio esplicitamente domestico, la possibilità di
disporre di uno spazio/territorio su cui esercitare il proprio controllo, il carattere autodeterminato della produzione del
proprio ambiente abitativo. Questi principi possono realizzarsi anche con tipologie differenti da quelle convenzionali o
prevalenti nelle nostre società (la fissità della residenza in case). Le tradizionali formule amministrative, il campo
nomadi convenzionale, negano questi principi, negano agli insediamenti uno statuto abitativo. Lo stesso carattere
amministrativo del campo esclude quel controllo sul proprio spazio che è un carattere necessario dell’abitare. In
generale il controllo intrusivo, sia dei campi pubblici che di quelli spontanei, lo sgombero che ammette la distruzione
delle roulotte (non solo delle baracche abusive) sono pratiche che denotano la normale sottrazione dell’abitare di queste
popolazioni ad uno statuto abitativo. Come lo è, per quanto riguarda i campi pubblici, la condizionalità dell’accesso o
della permanenza (la frequenza scolastica dei figli ecc.). Dello statuto abitativo è parte essenziale la sicurezza
insediativa e territoriale: la possibilità di fermarsi senza più l’incubo degli sgomberi; la sicurezza del titolo di
occupazione; ecc.
Le sistemazioni temporanee costituiscono una domanda importante, che per alcune forme rimane
scoperta. Questo è dovuto anche agli esiti contraddittori della stessa evoluzione positiva dell’offerta
di servizi. La cultura dei servizi si è mossa complessivamente a favore di interventi “per
l’integrazione” (piani individualizzati e contrattati per il re-inserimento, percorsi integrati ecc.): una
evoluzione che certamente ha significato il tentativo di superare il tradizionale approccio
assistenziale e di emergenza, ma la cui dominanza rischia ora di avere conseguenze contraddittorie
per le persone in situazioni di marginalità/povertà. Perché ad esempio non riconosce facilmente le
situazioni di disagio che non hanno bisogno di reinserimento o per le quali non esiste una previsione
istituzionale di percorsi adatti. Oppure perché svaluta gli interventi a bassa soglia. Nel campo
abitativo la conseguenza paradossale di questa evoluzione è stata la riduzione dell’offerta di
emergenza/temporanea, di quell’offerta di posti-letto accessibili senza condizioni, che nelle nostre
città era rappresentata dalla rete dei dormitori, e che non ha trovato un adeguato equivalente
funzionale nella nuova offerta di servizi.
(d) In che modo la più ricca concezione dell’abitare che è stata utilizzata per criticare pratiche e
politiche può tradursi in indicazioni operative e realizzare per questa via un più adeguato
trattamento abitativo dell’area della povertà?
Questa concezione comporta l’estensione e una profonda modifica delle politiche abitative sociali.
Se da un lato ne lasciano intatto il nucleo tradizionale - promuovere l’accesso alla casa -, dall’altro
introducono un requisito di efficacia del tutto estraneo alle politiche tradizionali. “The important
thing about housing is not what it is but what it does in the lives of its inhabitants”: così Colin
Ward ai tempi della “rivoluzione abitativa” felicemente prefigurava la conversione delle politiche.
Si tratta di introdurre misure che si preoccupino di trattare la “performatività” della
casa/dell’abitare: alla fine l’esito potrebbe essere il dissolvimento delle politiche abitative in una
pluralità di politiche costruite sulle specifiche figure che formano la domanda: dove figure sono tipi
di popolazione e ancor più profili di bisogno, che richiedono di essere ricavati processualmente,
quindi introducendo nozioni temporali, come i tipi di percorsi, le carriere abitative ecc.
“Cosa la casa fa nella vita dei suoi abitanti” definisce una regola molto importante per l’abitare dei
poveri, che solleva delicati problemi teorici. Gli eventi abitativi non possono essere apprezzati se
non riconoscendo il carattere di processo dell’abitare. L’accento si sposterebbe così dall’abitazione
- dai connotati fisico-spaziali dell’abitazione - alle interazioni tra l’alloggiare e le molteplici
dimensioni che costituiscono la condizione di vita e la sua possibilità di evolversi. Lungi dal potere
essere apprezzata limitatamente ad un determinato momento del tempo, la stessa “qualità abitativa”
rinvia alle dinamiche della condizione e dell’esperienza abitativa: cosa esse rappresentano in una
traiettoria abitativa, in un percorso di reintegrazione ecc. 10
10
Per questo tipo di verifiche disponiamo di una serie di concetti come strategie familiari, strategie di sopravvivenza,
strategie di fronteggiamento: sono altrettanti strumenti teorici per definire la “qualità abitativa” tenendo conto delle
interferenze tra i modelli perseguiti dalle politiche e l’esperienza degli abitanti. Il perseguimento di principi esterni può
interferire negativamente con le strategie degli abitanti. L’affollamento per esempio richiede di essere valutato entro la
strategia di costi-benefici adottata dalla famiglia: in una strategia familiare l’affollamento può essere “preferibile” ad un
investimento finanziario sulla casa.
Si capisce così che le spinte al miglioramento abitativo possono risultare irrazionali per le popolazioni povere. Per i
paesi del Terzo mondo un’ampia letteratura ha messo in guardia sulla possibilità che il miglioramento abitativo peggiori
gli equilibri di vita degli abitanti degli slums. Può capitare che la pressione migliorativa esercitata dai vari operatori non
si accordi con le gerarchie di interessi degli abitanti. Può essere del tutto razionale, per i poveri delle città del terzo
mondo, che, prima della casa, nella loro gerarchia di obiettivi vengano l’occupazione, la scuola per i figli ecc. Ma il
problema può essere posto anche nei paesi industrializzati. Nelle strategie abitative degli immigrati ad esempio il
“normale” percorso di miglioramento può essere in competizione con strategie familiari/migratorie, che suggeriscono
una compressione della qualità abitativa: il benessere abitativo scambiato con i vantaggi derivanti dalla riduzione dei
costi.
Le critiche sopra ricordate – le conseguenze contraddittorie dell’universalismo astratto applicato ai
poveri; gli esiti riduttivi dello specialismo – evocano un tema importante, ripetutamente sollevato
nel dibattito sull’abitare delle popolazioni marginali: il ruolo del settore e dei processi informali e le
modalità di trattare l’informale da parte delle amministrazioni locali.
Il settore informale può essere visto come un ripiego imposto dalla mancanza di alternative, e nello
stesso tempo come una risorsa: per usare la terminologia che nei paesi del Terzo mondo ha
rivoluzionato le politiche negli anni ’70 segnando l’avvento delle politiche di self-help , può essere
visto come una “soluzione” oltre che come un “problema”. I canali informali sono risorsa
importante per accedere ad un’abitazione. Le sistemazioni nell’informale sono sempre state
considerate una importante least bad solution. E anche nelle forme più drammatiche (bidonvilles,
slums) l’informale mantiene connotazioni di investimento e di risorsa che le politiche non possono
ignorare.
Come rapportarsi all’informale da parte delle amministrazioni è dunque questione vitale nella
ricerca di soluzioni per popolazioni marginali. Ed è un rapporto è difficile. Dietro quella che appare
una generale difficoltà delle Amministrazioni a rapportarsi positivamente con i processi informali,
c’è la strutturale distanza tra le logiche dell’informale e l’ethos del servizio formale che è alla base
dell’azione amministrativa (Donald Schon (1989) ha fornito una approfondita analisi dei dilemmi e
paradossi che l’intervento pubblico deve affrontare di fronte all’informale.
Il caso degli insediamenti illegali è esemplare. Per questi insediamenti la norma sembra essere:
ignorare o distruggere: l’atteggiamento normale delle amministrazioni si muove tra l’indifferenza −
ignorare e rendere socialmente invisibili gli insediamenti illegali − e la repressione, di cui lo
sgombero costituisce l’esito estremo. A rigore un positivo trattamento di questi insediamenti
dovrebbe prendere in considerazione due possibilità: la riqualificazione dell’insediamento; oppure,
nei casi in cui soltanto l’uscita dalla baraccopoli può consentire il miglioramento delle condizioni di
vita degli abitanti, una loro ricollocazione in altre situazioni residenziali. In nessun paese queste due
soluzioni sono comuni nei comportamenti delle amministrazioni: rappresentano anzi rare eccezioni.
Nel caso dello sgombero la distruzione dell’insediamento è raramente accompagnata da una
ricollocazione degli abitanti. (È questa una pratica, come si è visto, che è costata all’Italia ripetute
condanne da parte di organizzazioni internazionali: “gli sgomberi forzati sono eseguiti dalle autorità
senza fornire adeguate alternative abitative alle famiglie rom”).
Rarissimi sono i progetti di riqualificazione dell’insediamento. Eppure sui vantaggi degli interventi
di riqualificazione degli insediamenti abusivi c’è un’ampia letteratura, che mette in evidenza come
tali insediamenti possano costituire sistemi di risorse importanti, risorse relazionali, oltre che
economiche: accumulazioni significative che gli abitanti hanno costruito attraverso la loro vita
nell’insediamento e che lo sgombero condanna all’annientamento. Come mostra l’esperienza dei
progetti di upgrading di insediamenti informali nei paesi del Terzo mondo, interventi anche di
modesta entità (allacciamenti, realizzazione di misure di sicurezza ecc.), poco o pochissimo costosi,
potrebbero produrre situazioni incomparabilmente migliori per la maggior parte degli insediamenti.
Anche se bisogna ammettere che le virtù dell’informale sono state spesso sopravvalutate, è dunque
del tutto evidente il carattere irrazionale, a volte paradossale che sgomberi e sradicamento degli
insediamenti informali hanno quasi di norma. Non solo perché “non risolvono il problema” ma
anche perché distruggono delle (possibilità di) soluzioni: rompono un sistema di pratiche,
distruggono risorse. “Il paradosso è che oggi si discute di come progettare comunità autoprodotte
mentre nello stesso tempo le comunità autoprodotte crescono ed esistono spontaneamente”
(Soerensen 2003).
Il riferimento all’informale permette di aggiungere qualche ulteriore indicazione, prendendo motivo
dall’eccesso di istituzionalizzazione in cui si muove la ricerca di soluzioni. Ancora il dibattito sugli
insediamenti rom fornisce diversi suggerimenti, a partire dal dibattito in corso sul superamento dei
campi nomadi.
La critica del campo nomadi è anche critica della logica amministrativa della produzione
dell'insediamento. Il punto di vista convenzionale sui campi li vede come operazioni integralmente
pubbliche, nel senso che le amministrazioni decidono, progettano e realizzano i campi, li realizzano
con risorse pubbliche, mantengono la proprietà dei campi, stabiliscono dei regolamenti, sorvegliano
l’attuazione di questi regolamenti ecc. Una prassi inutilmente onerosa per l’Amministrazione, e una
prassi che nega principi elementari dell’abitare e requisiti ovvi di efficacia delle politiche sociali,
quindi contestabile sul piano dei risultati: perché significa una rigidità progettuale che non lascia
spazi di iniziativa agli abitanti, nessun uso delle loro risorse e delle loro capacità, nessuna
considerazione per la differente dotazione di risorse di cui i destinatari dispongono.
Tuttavia il rischio di reintrodurre con le nuove formule un eccesso di determinazione
amministrativa e di investire in misura eccessiva sul settore pubblico come risolutore della
questione è presente anche negli approcci innovativi. Conviene dunque insistere su di un diverso
ruolo del pubblico, secondo principi di facilitazione 11, e sull’opportunità di investire maggiormente
sulle capacità di autorganizzazione di rom e sinti e sulle risorse della società civile;
Dunque deistituzionalizzare le soluzioni: ma anche assicurare un certo grado di latenza affinché le
soluzioni possano essere inventate, realizzate, e nuovi spazi di solidarietà costruiti. Si tratta di
salvaguardare nei processi insediativi un grado di informalità. L’informalità è una risorsa, come
accennato: e “il ricorso all’informale è sempre stata una corrente importante dell’azione sociale”,
una pratica per molti versi vantaggiosa e che “la formalizzazione crescente dell’azione pubblica
oggi mette a rischio”, con conseguenze in termini “di costo, di inadeguatezza, di effetti perversi”
(Barthélémy 1995, 159).
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11
Coinvolgendo i modi di produzione dell'insediamento e le relative responsabilità, la critica dei campi converge con le
ragioni di una filosofia che ha trovato un certo credito nel campo delle politiche abitative e delle politiche sociali: l'idea
di una amministrazione pubblica che svolga ruoli di sostegno, di facilitazione - che piuttosto che “dare” soluzioni,
metta in grado gli interessati di produrne, facendo affidamento su, e valorizzando, le loro risorse e le loro capacità. Nel
caso dei rom, per l'amministrazione si tratterebbe di creare le condizioni per l'insediamento, offrendo facilitazioni di
base che possano essere sviluppate a seconda delle esigenze, facendo affidamento sulle risorse degli interessati,
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