Sezioni Unite 2005 – Nullità intese restrittive

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Sezioni Unite 2005 – Nullità intese restrittive
GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA
Intese restrittive
CASSAZIONE CIVILE, sez. un., 4 febbraio 2005, n. 2207
Pres. Carbone - Rel. Berruti - P.M. Iannelli (conf.) - Compagnia Assicuratrice Unipol s.p.a. (avv.ti Tonucci,
Frignani, Irti) c. R. (avv. De Pascale)
Concorrenza - Divieto di intese restrittive della libertà di concorrenza - Dichiarazione di nullità - Risarcimento del
danno - Legittimazione attiva dei consumatori finali - Competenza della Corte d’appello
(Art. 33, c. 2, l. 287/90)
L’intesa vietata ha una possibile valenza plurioffensiva e può pertanto ledere, oltre alla struttura concorrenziale del mercato, anche il patrimonio del singolo, concorrente o meno dell’autore o degli autori dell’intesa. La legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti di mercato,
ovvero di chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere
competitivo.
Chi allega il comportamento di mercato tenuto da un imprenditore tale da ledere la struttura concorrenziale del medesimo e ne chieda dunque la dichiarazione di nullità, presupposto dell’eventuale risarcimento,
deve rivolgersi alla Corte d’appello.
La ratio della dichiarazione di nullità di cui all’art. 33 l. n. 287/90 è di togliere alla volontà anticoncorrenziale «a monte» ogni funzione di copertura formale dei comportamenti «a valle», e dunque di impedire il
conseguimento del frutto della intesa consentendo anche nella prospettiva risarcitoria la eliminazione dei
suoi effetti.
…Omissis…
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso la U. deduce la violazione dell’art. 33, comma 2, della legge n 287 del
1990 e dell’art. 2033 c.c. nonché la motivazione omessa, illogica ed insufficiente sul punto del rigetto della
sua eccezione di incompetenza per materia del giudice
adito. Sostiene che il primo giudice ha errato nel ritenere che legittimati alla azione prevista dalla legge antitrust possano essere solo gli imprenditori esclusi dal
cartello e pertanto da questo danneggiati, ed ha errato
ancora nel qualificare l’azione in parola come restitutoria e dunque estranea alla previsione di cui all’art. 33
della l. antit. Sostiene infatti che la legge ha attribuito
alla Corte d’appello in unico grado di merito una competenza, ratione materiae, che prescinde dai soggetti che
esercitano il relativo diritto. Deduce pure che siffatto
criterio di competenza non può essere eluso attraverso
la qualificazione della domanda come restitutoria anziché risarcitoria, giacché anche la restituzione del cosiddetto sovrapprezzo seguirebbe ad una nullità, almeno
derivata, del contratto concluso tra la società assicuratrice ed il cliente automobilista, e l’accertamento di tale nullità è devoluto alla Corte d’appello.
1.a. Osserva il collegio che le due questioni proposte,
quella relativa alla legittimazione ad agire e quella relativa alla posizione giuridica dei contratti conclusi tra
impresa assicuratrice e cliente “a valle” dell’accordo illecito tra gli imprenditori, costituiscono aspetti del medesimo problema. Ciò in quanto la posizione giuridica
del terzo, estraneo all’intesa, che afferma di averne subito gli effetti ne determina la legittimazione ad agire. Tali questioni vanno trattate, pertanto, con una visione
complessiva della materia che, movendo da una corretta nozione di intesa, consenta di definire la posizione di
quegli che non vi ha partecipato.
1.b. La legge n 287 del 1990, come è noto, rappresentò
una novità nel panorama nazionale che, pur nella vigenza del Trattato Ce e dunque anche dei principi desumibili dagli artt. 85 (oggi 81) e ss., era tuttavia imperniato sulla logica codicistica della concorrenza sleale, e
dunque sulla tutela dell’imprenditore dalla attività scorretta del concorrente. Infatti benché anche la tutela
suddetta si sia evoluta nella interpretazione della dottrina e dei giudici facendo sì che si attenuasse fortemente
l’originaria impronta deontologica e corporativa e si
prendesse atto della nozione costituzionale del mercato
come luogo della libertà di impresa che attribuisce un rilievo pubblico anche al conflitto interindividuale (Cass.
n. 11859/97), essa conserva il carattere fondamentale di
strumento di tutela del corretto rapporto di concorrenza.
La sussistenza di siffatto rapporto tra le parti che controvertono innanzi al giudice è il presupposto della sua
operatività e mantiene pertanto la dimensione essenzialmente interindividuale dei conflitti. La normativa
che difende l’imprenditore dalla concorrenza sleale,
dunque, ancorché la si possa ritenere consapevole della
dimensione necessariamente concorrenziale del mercato, provvede pur sempre alla riparazione dello squilibrio
che ad uno specifico rapporto di concorrenza viene cagionato dalla scorrettezza di un concorrente.
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La novità del Trattato CE è stata l’introduzione della
tutela della struttura e della logica competitiva del mercato. Questo, in quanto luogo nel quale si esplicita la
pretesa di autoaffermazione economica della persona
attraverso l’esercizio della impresa, è perciò stesso luogo
della competizione, cosicché ogni comportamento di
mercato, che riduce tale competitività perché diminuisce la possibilità per chiunque di esercitare liberamente
la propria pretesa di autoaffermazione, è illecito.
In particolare, poiché l’esercizio della concorrenza presuppone l’autonomia delle imprese concorrenti nell’esercizio delle rispettive scelte di mercato, è illecito ogni
fatto che porta a ridurre questa autonomia, assimilando
o avvicinando i comportamenti di mercato all’esecuzione di accordi antecedenti ovvero comunque conformandoli oggettivamente ad un certo grado di collaborazione che sostituisce o riduce la competizione.
1.c. Detta affermazione merita qualche ulteriore considerazione.
L’art. 2 della legge antitrust chiarisce che “sono considerati intese” una serie di comportamenti, come gli accordi, le pratiche concordate ed addirittura le deliberazioni di consorzi ed associazioni di imprese. Essi sono
vietati se hanno “per oggetto o per effetto di ridurre o
falsare in modo consistente il gioco della concorrenza...” Pertanto se al di là della loro veste giuridico formale, tali attività in realtà mirano ad eliminare ovvero
addirittura eliminano o riducono la autonomia di mercato dei soggetti che le compiono, esse integrano l’illecito di cui si tratta.
La norma si conclude, al n. 3, con la perentoria statuizione: “le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”.
L’elencazione del n. 2 dell’art. 2 in parola, considerata
esemplificativa, sorregge la lettura della norma innanzi
anticipata giacché consente all’interprete di delineare i
tipi dei comportamenti anticompetitivi. Le fattispecie
elencate, e cioè la fissazione diretta o indiretta dei prezzi
di acquisto o di vendita ovvero di altre condizioni contrattuali, l’impedimento e la limitazione della produzione o dello sbocco o dell’accesso al mercato, l’impedimento degli investimenti e dello sviluppo tecnico delle
imprese, tutte le forme di ripartizione dei mercati o delle fonti di approvvigionamento, l’applicazione di condizioni ingiustificatamente diverse a categorie di imprenditori omogenee, l’imposizione nei contratti con i concorrenti di prestazioni prive di relazione con la natura
del rapporto, sono classici comportamenti anticompetitivi. La loro funzione è di sostituire all’esercizio individuale, e perciò stesso libera del potere di impresa, un
potere esercitato collettivamente, estraneo alle forme
societarie nelle quali si esercita l’impresa collettiva ed
esente dai controlli che la legge in proposito prevede.
Tali pratiche rafforzano la posizione dei loro autori riducendo l’efficacia della concorrenza da parte degli esclusi
ed eliminando quella tra i partecipi.
1.d. Va osservato ancora che la legge n. 287 del 1990, la
quale ai sensi della prima parte dell’art. 1 deve essere
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letta come attuazione dell’art. 41 Cost., deve peraltro
essere interpretata in base ai principi dell’ordinamento
comunitario. Pertanto in armonia con la norma del
Trattato (vedi quanto alla cosiddetta regola de minimis
nel diritto comunitario della concorrenza causa Sirena,
40/70 sent 18 febbraio 1971 e causa Volk n. 5/69, sent.
9 luglio 1969) essa fa rilevare una dimensione quantitativa della intesa traducendola in carattere della stessa.
La legge vieta le intese che abbiano per effetto o per oggetto di impedire, restringere o falsare “in maniera consistente” il gioco della concorrenza “all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante”.
La norma ripete quasi letteralmente il tenore dell’art.
61 del Trattato, salvo che per la norma comunitaria la
rilevanza quantitativa è data ovviamente dall’ambito
comunitario. Ma ciò che conta rispetto al problema
che ne occupa è il rilievo dimensionale della fattispecie, che si spiega con il fatto che oggetto della tutela
della legge n. 287 del 1990, come già del Trattato, è appunto la struttura concorrenziale del mercato di riferimento, la quale ragionevolmente non viene messa in
discussione da un comportamento che per quanto ontologicamente rispondente alla fattispecie di cui si tratta, per la sua dimensione, non incide significativamente sull’assetto che trova.
In definitiva, poiché, come è stato scritto argutamente,
la legge non si occupa dell’intesa tra i barbieri di piccolo paese, il dato quantitativo conferma che oggetto immediato della tutela della legge non è il pregiudizio del
concorrente ancorché questo possa essere riparato dalla
repressione della intesa (cfr. quanto al pregiudizio al
commercio comunitario, presupposto di applicabilità
dell’art. 81, causa Grundig n 58 del 1964, sentenza 13
luglio 1966, e causa Montecatini, C 235/92, sentenza 8
luglio 1999, ex multis), bensì un più generale bene giuridico.
Tuttavia tale più ampia tutela accordata dalla legge nazionale antitrust, in armonia con il Trattato, non ignora
la plurioffensività possibile del comportamento vietato
(cfr. Cass. n. 827 del 1999). Un’intesa vietata può ledere anche il patrimonio del singolo, concorrente o meno
dell’autore o degli autori della intesa. Ciò spiega che la
legge n. 287 del 1990 all’art. 33, che contiene tanto
una norma di giurisdizione, quanto una norma di competenza, si preoccupi con quest’ultima di individuare
anche il giudice dell’accertamento della nullità, che è il
presupposto della eliminazione del pregiudizio in una
prospettiva esplicitamente risarcitoria.
La legge infatti mentre affida al G.A. (Tar del Lazio) la
giurisdizione sulle impugnative avverso le deliberazioni
della Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, stabilisce pure che: «Le azioni di nullità e di risarcimento del danno, nonché i ricorsi intesi ad ottenere
provvedimenti di urgenza in relazione alla violazione
delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV sono promossi davanti alla Corte d’appello competente per territorio».
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Alla Corte d’appello, dunque, deve rivolgersi chi allega
il comportamento di mercato tenuto da un imprenditore tale da ledere la struttura concorrenziale del medesimo, e dunque ne chieda la dichiarazione di nullità presupposto dell’eventuale risarcimento (Cass. n. 827 del
1999).
1.e. Va appena osservato che siffatta struttura della giurisdizione che comunque risale alla repressione della
intesa appare datata, perché influenzata dalla impostazione che al momento in cui la legge venne emanata
era dominante. La previsione, che risale alla concezione del doppio binario di tutela di cui alla legge sul
Contenzioso amministrativo del 1865 n. 2248 artt. 4 e
5, non a caso appare coerente con quella contenuta
nella legge comunitaria n. 142 del 1992 che, all’art. 13,
regolando la tutela giurisdizionale conseguente alla
violazione della normativa comunitaria in materia di
appalti pubblici, stabiliva che il risarcimento del danno poteva essere domandato al G.O. da parte di quegli
che avesse ottenuto dal G.A. l’annullamento dell’atto
amministrativo.
Detta norma è stata abrogata dall’art. 35 ultimo comma
del d.lgs. n. 80 del 1998 (abrogazione confermata dall’art. 7 lettera c) della legge n. 205 del 2000), ma soprattutto l’assetto della giurisdizione ancora riconoscibile agli inizi degli anni novanta è stato superato dalla
legge e dalla giurisprudenza del giudice delle leggi (Corte cost. nn. 204 del 2000 e 281 del 2004). Ciò contribuisce a spiegare come, attribuendo al G.A. la giurisdizione sull’atto di AGCM, e dunque nell’ambito di questa il potere di dire se l’intesa affermata si è realizzata, la
legge antitrust n. 287 del 2000 abbia voluto accorciare
il giudizio di merito introdotto da una domanda di nullità e il conseguente risarcimento del danno stabilendo
un unico grado innanzi alla Corte d’appello competente per territorio. Cosicché anche quegli che non ha partecipato al giudizio innanzi al Tar, perché non ha resistito alla impugnativa della sanzione irrogata da
AGCM, proposta dall’affermato autore della intesa, o
non vi ha potuto partecipare perché in quella sede era
carente di interesse, si trova a perdere un grado di giudizio allorché si rivolge al GO. Situazione processuale che
non trova ostacoli di carattere costituzionale (art. 125
Cost.), e che comunque appare coerente con l’esigenza
di favorire la sollecita soluzione di controversie che attengono all’assetto del mercato.
1.f. Sembra a questo punto al collegio di potere esprimere talune conclusioni, utili alla soluzione dei quesiti
ad esso sottoposti.
La diversità di ambito e di funzione tra la tutela codicistica della concorrenza sleale e quella innanzi detta della legge antitrust esclude si possa negare la legittimazione alla azione davanti al G.O. ai sensi dell’art. 33 n. 2
della legge n. 287 del 1990, al consumatore, terzo estraneo alla intesa. Contrariamente a quanto ritenuto da
Cass. 17475 del 2002, la legge antitrust non è la legge
degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti
del marcato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere.
Pare opportuno notare peraltro che mentre siffatta
esclusione della legittimazione in parola non è prevista
espressamente dalla legge, questa peraltro, all’art. 4, laddove prevede il potere discrezionale della AGCM di
autorizzare un’intesa che possiede i caratteri che giustificherebbero il divieto, indica tra i presupposti della discrezionalità “il beneficio del consumatore”. La legge
dunque non ignora, nella materia della intesa, l’interesse del consumatore al punto da prevedere una ipotesi in
cui esso, alla cui tutela la ideologia antitrust è funzionale, può essere tutelato per un “periodo limitato” addirittura da un allentamento del divieto del più classico
comportamento anticoncorrenziale.
Il consumatore, che è l’acquirente finale del prodotto
offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la
produzione del bene. Pertanto la funzione illecita di
una intesa si realizza per l’appunto con la sostituzione
del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente. E ciò quale che sia lo
strumento che conclude tale percorso illecito. A detto
strumento non si può attribuire un rilievo giuridico diverso da quello della intesa che va a strutturare, giacché
il suo collegamento funzionale con la volontà anticompetitiva a monte lo rende rispetto ad essa non scindibile.
Va detto pure, atteso il rilievo interpretativo dei principi dell’ordinamento comunitario nella materia, che la
sentenza della Corte di giustizia, Courage, (n. 453 del
1999) tende ad ampliare l’ambito dei soggetti tutelati
dalla normativa sulla concorrenza, in una prospettiva,
sembra al collegio, che valorizza proprio le azioni risarcitorie, quali mezzi capaci di mantenere effettività alla
struttura competitiva del mercato.
1.g. È appena il caso di precisare dal momento che la
sentenza impugnata sembra sovrapporre le due figure,
che quanto fin qui espresso non è contraddetto dalla
considerazione dell’abuso di posizione dominante, che è
fattispecie diversa da quella che rileva nella controversia e che dunque non viene in esame.
1.h. Nella delineata prospettiva dunque il contratto cosiddetto “a valle” costituisce lo sbocco della intesa, essenziale a realizzarne gli effetti. Esso in realtà, oltre ad
estrinsecarla, la attua.
È ben vero, come si fa rilevare in atti, che la legge vieta
anche le intese che abbiano anche solo per “oggetto” la
distorsione di cui si tratta, oltre che per “effetto”, ma
ciò si spiega in considerazione del doppio livello di intervento che essa prevede, quello amministrativo della
AGCM e quello riparatorio di cui alla azione di nullità
e risarcimento. L’Autorità Garante è organo di Amministrazione, ancorché caratterizzato da ampiezza di poteri sui generis. Essa opera anche in vista di un pericolo,
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e dunque in considerazione della esigenza economica di
prevenire l’effetto distorsivo del fenomeno di mercato.
Il giudice, che dirime controversie e non si occupa di
fenomeni, può essere officiato solo in presenza o in vista
almeno di un pregiudizio. Dunque innanzi alla Corte
d’appello deve essere allegata un’intesa di cui si chiede
la dichiarazione di nullità, ed altresì il suo effetto pregiudizievole, il quale rappresenta l’interesse ad agire dell’attore secondo i principi del processo, da togliere attraverso il risarcimento.
Il contratto cosiddetto “a valle”, ovvero il prodotto offerto al mercato, del quale si allega, come nel caso di
specie, la omologazione agli altri consimili prodotti offerti nello stesso mercato, è tale da eludere la possibilità di scelta da parte del consumatore. La realizzazione consapevole di siffatta situazione rientra in modo
strutturale nel comportamento oggettivo di mercato
che giustifica la azione individuale di cui all’art. 33.
Pertanto la previsione del risarcimento del danno sarebbe meramente retorica se si dovesse ignorare, considerandolo circostanza negoziale distinta dalla cospirazione anticompetitiva e come tale estranea al carattere illecito di questa, proprio lo strumento attraverso
il quale i partecipi alla intesa realizzano il vantaggio
che la legge intende inibire. Se un’intesa fosse ancora
nelle intenzioni dei partecipi e non avesse dato ancora
luogo ad alcun effetto, mentre vi sarebbe spazio, a parte la difficoltà dell’indagine, per la proibizione e la
sanzione da parte di AGCM, giacché la legge, giova
rammentare, vieta gli accordi che abbiano per oggetto
oltre che per effetto la distorsione della concorrenza,
non vi sarebbe interesse da parte di alcuno ad una dichiarazione di nullità ai sensi dell’art. 33 della legge n.
287 del 1990, la cui ratio è di togliere alla volontà anticoncorrenziale “a monte” ogni funzione di copertura
formale dei comportamenti “a valle”. E dunque di impedire il conseguimento del frutto della intesa consentendo anche nella prospettiva risarcitoria la eliminazione dei suoi affetti.
1.i. Non conduce a conclusione diversa nemmeno la
considerazione della fattispecie restitutoria di cui all’art.
2033 c.c.
Come è noto essa si distingue dalla fattispecie risarcitoria di cui all’art. 2043 c.c. per l’assenza di qualunque
profilo di colpa o dolo nell’accipiens (Cass. 3060 del
1984). Orbene, una parte che chiede dichiararsi la nullità di una intesa, allega un fatto illecito nella cui struttura vi è l’elemento psicologico del dolo o della colpa.
Pertanto, quale che sia la forma della domanda di ripristino della situazione patrimoniale che si assume lesa,
essa prescinde dalla fattispecie di indebito oggettivo.
Quegli che chiede la restituzione di ciò che ritiene di
avere pagato in esecuzione di un negozio concluso per
effetto della intesa nulla, allega pur sempre quest’ultima
e l’impossibilità giuridica che essa produca effetti.
Ritiene pertanto la Corte, poiché la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico
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integra, almeno potenzialmente il danno ingiusto ex
art. 2043c.c. (S.U. n. 500 del 1999), che colui che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione a monte, ancorché non sia partecipe ad un rapporto di concorrenza
con gli autori della collusione, ha a propria disposizione, l’azione di cui all’art. 33 della legge n. 287 del 1990.
Cosicché, pare utile precisare conclusivamente, a qualificare la domanda ed a determinare la competenza nel
caso che ne occupa è la richiesta di accertamento di
una intesa e quindi di dichiararla nulla, presupposto
della domanda di eliminarne gli effetti anche attraverso
l’eliminazione del sovrapprezzo.
Pertanto, poiché le sentenze del giudice di pace ancorché emesse secondo equità sono soggette al rispetto delle norme di rito tra le quali quelle che attengono alla
competenza del giudice (Cass. 10486 del 2001 ex
multis) e dei principi informatori della materia (Cass. n.
743 del 2005) quali nella specie quelli che definiscono
l’intesa vietata e la sua struttura e, rispetto a questa, le
posizioni dei terzi, il motivo esaminato è fondato. Pertanto, la competenza a conoscere della causa, è della
Corte d’appello di Napoli, come peraltro, sia pure in subordine, chiede la stessa ricorrente. Ciò in quanto il
privato ha adito il Giudice di pace di Avellino ai sensi
degli artt. 19 e 20 c.p.c., come pure afferma la ricorrente, ovvero invocando i fori alternativi da esse norme
previsti.
... Omissis ...
GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA
LA TUTELA CIVILE ANTITRUST DOPO LA SENTENZA N. 2207/05:
LA CASSAZIONE ALLA RICERCA DI UNA DIFFICILE ARMONIA
NELL’ASSETTO DEI RIMEDI DEL DIRITTO DELLA CONCORRENZA
di Ilaria Pagni
Le Sezioni Unite sciolgono i tradizionali nodi problematici della relazione tra disciplina della concorrenza
e tutela del soggetto estraneo all’intesa, ma aprono
nuovi fronti al dibattito. L’attenzione si sposta sul
rapporto - che nella pronuncia della Corte assume un
significato non perspicuo - tra accertamento della
nullità e azione risarcitoria.
Alcuni spunti offerti dalla Cassazione aiutano a ricomporre il mosaico delle tutele previste o semplicemente evocate dall’art. 33 della legge n. 287/90,
consentendo, a parere dell’Autrice, di inserire nella
sfera di competenza della Corte d’appello l’azione di
accertamento dell’illiceità della condotta e dell’obbligo di non tenere ulteriori comportamenti lesivi,
l’azione inibitoria, l’azione di nullità e quella restitutoria, e infine l’azione di risarcimento del danno, indipendentemente da chi, impresa o consumatore, tali azioni vada a proporre.
1. È norma tanto ambigua, quella su cui è intervenuta la Cassazione nella sentenza che si commenta, da
giustificare i continui interrogativi e le inevitabili polemiche che fin dall’inizio ha sollevato. (1) Il cerchio
aperto dalle sentenze delle sezioni semplici tra il 2002 e
il 2003 (2) prova così a chiudersi, anche se a questo
punto occorre una rimeditazione finale su quale sia, attualmente, l’assetto dei rimedi civili nell’art. 33 della l.
10 ottobre 1990, n. 287.
La norma, com’è noto, disciplina la competenza giurisdizionale in presenza di violazioni della normativa antitrust, attribuendo in modo espresso alla giurisdizione ordinaria e alla competenza ratione materiae della Corte
d’appello i soli giudizi di nullità e risarcimento del danno,
nonché i ricorsi intesi ad ottenere provvedimenti d’urgenza in relazione alle suddette violazioni. La previsione
di un giudizio in unico grado dinanzi alla Corte, unita all’indicazione, nominatim, delle singole azioni proponibili,
ha prodotto quell’inestricabile intreccio tra problemi di
tutele e attribuzioni di competenza che, in questi anni,
ha costretto gli interpreti a tentare per le vie più diverse
la ricomposizione del sistema, senza esiti soddisfacenti.
Due sono i quesiti che soprattutto hanno affaticato
la giurisprudenza, inducendo alle risposte più disparate
nell’attesa di un pronunciamento della Corte Suprema:
se il legislatore del ‘90 intendesse escludere dal novero
delle azioni ammissibili quelle che non ha riconosciuto
espressamente al giudice ordinario - prima fra tutte, la
domanda inibitoria rivolta a contrastare in via definitiva, e non già soltanto cautelare e provvisoria, l’azione
lesiva - o se, invece, la norma avesse natura meramente
esemplificativa, con la conseguenza (ulteriore) di demandare ogni rimedio esperibile alla speciale competenza della Corte d’appello; questione, questa, che si è
intrecciata non senza confusioni con l’altra, dell’individuazione dei legittimati alle azioni che reagiscono alla
condotta anticoncorrenziale, stante l’incertezza sui soggetti, diversi dall’imprenditore concorrente pregiudicato dalla pratica vietata, cui sia possibile estendere le forme di tutela contemplate dalla legge.
Il tutto condizionato dall’oggettiva difficoltà di stabilire, in un contesto normativo che sotto questo profilo non brillava certo per chiarezza, se i rimedi immaginati all’art. 33 (e, in particolare, l’azione risarcitoria e
quella inibitoria, ponendo la nullità problemi diversi, di
rapporto tra l’accordo illecito raggiunto a monte e i
contratti stipulati a valle) presupponessero la lesione di
diritti che l’ordinamento già altrove riconosce o se invece, proprio attraverso le previsioni sostanziali della l.
n. 287/90, siano stati attribuiti diritti soggettivi nuovi,
dal peculiare contenuto, ai soggetti coinvolti a vario titolo nelle dinamiche mercantili (per esempio, il diritto
della controparte di un’impresa a che questa eserciti la
propria attività nel pieno rispetto delle regole di correttezza nella competizione).
Note:
(1) Indicativo, in proposito, è il dibattito, dai toni particolarmente accesi, che è stato ospitato tra lo scorso e questo anno sulle pagine della rivista Danno e Responsabilità, e che denota le difficoltà con cui deve fare i
conti ogni tentativo - compreso quello odierno della Cassazione - di razionalizzare l’assetto dei rimedi civili in materia antitrust (cfr. C. Castronovo, Antitrust e abuso di responsabilità civile, ivi, 2004, 469 ss., e Id., Responsabilità civile antitrust: balocchi e profumi, ibid., 1165 ss.; M. Libertini,
Ancora sui rimedi civili conseguenti a violazioni di norme antitrust, ibid., 933
ss. Id.; Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), ivi, 2005,
237).
(2) Con le pronunce della prima sezione, 9 dicembre 2002, n. 17475, in
questa Rivista, 2003, 3, 339, con nota di I. Nasti, Tutela risarcitoria del
consumatore per condotta anticoncorrenziale: una decisione difficile; e ibid.,
747, con nota di M. Negri, Risarcimento del danno da illecito antitrust e foro per la tutela del consumatore (la Cassazione non dilegua i dubbi nella vicenda RCauto); vedila inoltre in Foro it., 2003, I, 1121 ss., con commento di A. Palmieri, Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del
consumatore finale: argomenti «extravagantes» per un illecito inconsistente;
e di E. Scoditti, Il consumatore e l’antitrust; e della terza sezione, ord. 17
ottobre 2003, n. 15538, in Foro it., 2003, I, 2938 (vedila anche in Id.,.
2004, I, 466 ss., con commenti di R. Pardolesi, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibnitz a Sansone?; F. Ferro-Luzzi jr. Prolegomeni in tema di
mercato concorrenziale e «aurea aequitas» (ovvero delle convergenze parallele); e G. Guizzi, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori. Una relazione ancora da esplorare; nonché in Riv. dir. comm. 2003, 330
ss., con commenti di G. Vettori, Consumatori e mercato, A.M. Azzaro,
Intese restrittive della concorrenza e (contr)atti in danno del consumatore, e
M.R. Maugeri, Sulla tutela di chi conclude un contratto con un’impresa che
partecipa ad un’intesa vietata)
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GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA
Tale era, insomma, la congerie delle questioni evocate dall’art. 33, comma 2, l. n. 287/90 che difficilmente, anche dopo l’intervento delle sezioni unite, potremo
dire di essere arrivati al capolinea. Nonostante lo sforzo
profuso, infatti, non prevedo che la sentenza della Cassazione riuscirà a sopire del tutto il dibattito provocato
da una disciplina che corre sul filo dell’acrobazia tra novità (la necessità di regolare il conflitto di interessi tra
imprese e consumatori) e tradizione (l’essere rivolta alla
concorrenza, che come tale è categoria dell’impresa).
Né riuscirà ad eliminare fino in fondo la sensazione
che, in questa materia, a differenza che in altre, la tutela specifica e quella risarcitoria siano accomunate dallo
stesso destino: quello di trovarsi in un limbo nel quale
l’intreccio tra problemi di competenza e di legittimazione, da un lato, e l’incertezza tra tipicità e atipicità dell’azione, dall’altro, hanno fatto perdere, almeno fino ad
oggi, la speranza di recuperare qualsiasi coerenza all’assetto dei rimedi avverso l’illecito antitrust.
Tuttavia la pronuncia in commento un significativo passo avanti l’ha compiuto, sicché conviene partire
da quello, pur nella convinzione che la Cassazione si sia
mossa alla ricerca di una semplicità difficile da raggiungere, nell’attuale complessità del nostro diritto processuale antitrust.
2. La sentenza n. 2207/05 ha sciolto il conflitto
creatosi in seno alla Corte sull’appartenenza o meno alla competenza in unico grado della Corte d’appello della controversia promossa dal consumatore, che chieda
la nullità di un’intesa restrittiva della concorrenza o il
risarcimento dei danni ad essa conseguenti.
Sulla questione, e più in generale sulla posizione
dei consumatori rispetto all’illecito antitrust, la Corte di
cassazione si era pronunciata in due diverse occasioni,
offrendo letture opposte delle regole di competenza applicabili all’azione di risarcimento danni derivati al
contraente finale dalla pratica distorsiva della concorrenza, e determinando così la rimessione degli atti al
primo presidente della Corte di cassazione, affinché ne
valutasse l’opportunità di assegnazione alle sezioni unite. In una, la prima sezione, (3) negando la configurabilità nella legge antitrust di un diritto soggettivo in testa
ai consumatori finali, traducibile nell’azione di nullità o
di risarcimento, (4) aveva rinvenuto nell’azione risarcitoria che eventualmente spettasse al consumatore i caratteri di un’ordinaria azione di responsabilità, soggetta
perciò ai normali criteri di competenza; nell’altra, la
terza sezione, rilevando che è la materia ad individuare
la competenza, aveva viceversa ritenuto che la competenza in unico grado della corte d’appello conseguisse al
solo fatto della proposizione di un’azione di nullità o di
risarcimento del danno per la violazione delle disposizioni antitrust, anche da parte del consumatore, il quale,
domandando «la nullità dell’intesa o il risarcimento per
la pratica anticoncorrenziale per ciò stesso si legittima
all’azione ex art. 33, comma 2 l. n. 287 del 1990, mentre il resto costituisce questione di merito». (5)
338
CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005
Sulla correttezza di questa conclusione, a mio avviso, non possono esserci dubbi: ove la richiesta risarcitoria affondi la propria causa petendi nell’accordo anticoncorrenziale, è difficilmente contestabile che l’azione
promossa dal consumatore rientri a pieno titolo tra
quelle per cui è contemplata la speciale competenza
della Corte d’appello. E anche se si reputa, come ha fatto la prima sezione, che a configurare un danno risarcibile nelle ricadute pregiudizievoli di un’intesa restrittiva
della concorrenza non possa bastare la sussistenza dell’intesa vietata, a monte dell’operazione conclusa dal
consumatore, ma occorra l’esistenza dei requisiti essenziali per la responsabilità dell’impresa (segnatamente il
danno e il nesso di causalità), e un interesse giuridicamente rilevante in capo al consumatore, non vedo come questo potrebbe portare ad altra conclusione, per il
caso in cui quei presupposti non siano ravvisabili, che
al rigetto nel merito della pretesa avanzata.
È dal 1987, del resto, che la Cassazione (6) ha riconosciuto che nei rapporti tra privati l’assenza di una
situazione giuridicamente rilevante determina il sorgere
di una questione di merito e non una di giurisdizione
(o, come in questo caso, di competenza). Perciò, delle
due l’una: o manca qualsiasi interesse da far valere in
funzione dell’azione aquiliana (e allora la domanda dovrà giudicarsi infondata) o sarà ravvisabile un diritto
soggettivo preesistente del consumatore, leso dalla condotta antigiuridica (e allora non si vede come l’azione
risarcitoria eventualmente spettante possa rivestire «per
ciò stesso, i caratteri ordinari di un’ordinaria azione di
responsabilità soggetta agli ordinari criteri di competenza, e non quelli dell’azione ex art. 33, comma 2 della
legge 287/90, rimessa, in quanto tale, alla cognizione
esclusiva della corte di appello in unico grado di merito», come si legge nella pronuncia della prima sezione
della Cassazione).
La sentenza odierna, sotto questo profilo, è chiarissima: a qualificare la domanda e a determinare la competenza è la richiesta di accertamento dell’esistenza di
un’intesa vietata, sia ove l’accertamento sia chiesto in
una con la pronuncia di nullità, sia ove esso operi come
presupposto della domanda di eliminazione dell’effetto
pregiudizievole (il quale rappresenta l’interesse ad agire), da riparare attraverso il risarcimento.
Note:
(3) Cass., sez. I, 9 dicembre 2002, n. 17475, cit.
(4) Ciò - a parere della Corte - «non potendo in alcun modo reagire su
di essi l’esistenza in sé delle «intese», le quali - come strumento tecnico
operativo - risultano concepite, in quanto tali, solo in funzione di chi
appunto (le imprese) le possa concludere, e le abbia in concreto concluse», e non potendosi rendere stravagante rispetto alle azioni di nullità e
di inibitoria il solo strumento risarcitorio, il quale non può «non lasciare
presupporre esso stesso una tipologia di danni strettamente connessa alle
tematiche dell’impresa e della sua presenza nel mercato».
(5) Cass., sez. III civ., ord. 17 ottobre 2003, n. 15538, cit.
(6) Cass., 15 giugno 1987, n. 5256, in Foro it., 1988, I, 3393 ss., con nota di Iannicelli.
GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA
Altrettanto netta è la pronuncia laddove afferma
che la legge antitrust è la legge di tutti i soggetti del mercato, ossia di chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del carattere competitivo dello stesso, e possa allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di
tale carattere. Tra questi soggetti, secondo la Corte, vi è
anche il consumatore, e lo si ricava, a tacer d’altro, dall’art. 4 l. n. 287/90, che tra i criteri di esercizio del potere discrezionale dell’Autorità (nell’autorizzazione di intese altrimenti da vietare) individua la circostanza che
le pratiche possano dar «luogo a miglioramenti nelle
condizioni di offerta del mercato i quali abbiano effetti
tali da comportare un sostanziale beneficio per i consumatori». Quanto alla conseguenza pregiudizievole dell’intesa rispetto al consumatore, essa deve cogliersi, per
la Corte, nel fatto che determini la sostituzione del diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con
una scelta apparente: tanto che, in quest’ottica, il contratto a valle attuerebbe addirittura l’intesa.
3. Dove la sentenza in commento è invece assai
meno chiara (ma, del resto, non era quella la questione
che doveva risolvere) è sul modo in cui debbano intendersi esattamente le azioni del singolo, concorrente o
meno dell’autore o degli autori dell’intesa, e in particolare il rapporto che corre tra l’azione di nullità (nel cui
accertamento la Corte ravvisa «il presupposto della eliminazione del pregiudizio in una prospettiva esplicitamente risarcitoria») e l’azione di risarcimento. Né particolarmente chiara è l’influenza che avrebbe avuto sull’introduzione di un giudizio in unico grado dinanzi alla
Corte d’appello, l’assetto dei rapporti tra giudice ordinario e giudice amministrativo esistente al momento
dell’emanazione della legge del ‘90 e risalente «alla
concezione del doppio binario di tutela di cui alla legge
sul Contenzioso amministrativo del 1865 n. 2248», nel
quale la tutela risarcitoria veniva richiesta al giudice ordinario una volta ottenuto l’annullamento dell’atto
amministrativo.
Iniziando da questo secondo passaggio, è pacifico
che dinanzi al giudice amministrativo vadano le imprese colpite dai provvedimenti dell’AGCM, per sentirne
dichiarare l’illegittimità, trattandosi di provvedimenti di
natura repressivo-sanzionatoria, rivolti, in quanto tali,
alle sole autrici dell’illecito; (7) e che ai portatori dell’interesse pubblico o privato, anche diffuso, in ordine
alla questione già oggetto del procedimento dinanzi all’Autorità (tra cui i consumatori) sia riconosciuta una
posizione non differenziata, o, al massimo, la titolarità di
un interesse, mediato e riflesso, alla conservazione del
provvedimento impugnato, che ne giustifica al più l’intervento ad opponendum. (8) Non è affatto pacifico, invece (prevalendo semmai la tesi contraria), che il provvedimento del giudice amministrativo che riconosce legittimità alla sanzione abbia efficacia condizionante dell’esito del giudizio dinanzi al giudice ordinario. (9)
Per quale ragione, allora, l’attribuzione alla giuris-
dizione speciale del «potere di dire se l’intesa affermata
si è realizzata» dovrebbe spiegare perché la legge antitrust abbia voluto accorciare il giudizio di merito introdotto da una domanda di nullità e di conseguente risarcimento del danno (sia pure nel regime anteriore alle modifiche apportate alla giurisdizione nel ‘98 e nel
2000), con tutta la buona volontà non è dato capire.
Né è semplice comprendere, con ciò venendo al primo
passaggio, neppure se, a parere delle sezioni unite, nel
giudizio ordinario l’azione risarcitoria presupponga necessariamente la dichiarazione di nullità, la cui ratio sarebbe quella di «togliere alla volontà anticoncorrenziale «a monte» ogni funzione di copertura formale dei
comportamenti «a valle»». (10)
L’argomentare della Corte Suprema, in alcuni passaggi, sembra quasi tradire l’idea che il doppio accertamento (da parte del giudice amministrativo e della
Corte d’appello) dell’esistenza dell’intesa vietata fosse
necessariamente alla base, in mente legislatoris, della domanda di risarcimento. E che oggi, con tutto quel che è
accaduto nel rapporto tra tutela specifica invalidante e
tutela risarcitoria nel diritto amministrativo, (11) il
ruolo del primo accertamento sia rimasto nell’ombra,
mantenendosi salda soltanto la rilevanza del secondo.
Dopo la sentenza in commento, dunque, sciolti
(talora in modo gordiano) i tradizionali nodi problematici della relazione tra disciplina della concorrenza e tutela del soggetto estraneo all’intesa, si sono aperti nuovi
fronti al dibattito. L’interrogativo non sembra essere più
tanto se le norme sostanziali antitrust attribuiscano rilevanza all’interesse del terzo, che vanterebbe, ormai, una
Note:
(7) Cons. Stato 30 dicembre 1996, n. 1792, in Cons. Stato, 1996, I,
2015.
(8) V. sul punto TAR Lazio, sez. I, 11 marzo 2003, n. 1855, sul sito istituzionale della Giustizia amministrativa (cui adde, sez. I, 15 ottobre 1998,
n. 2952, in TAR 1998, I, 3910; 28 luglio 1997, n. 1198, id., 1997, I,
2909; nonché A. Zito, Attività amministrativa e rilevanza dell’interesse del
consumatore nella disciplina antitrust, Torino, 1998.
(9) La tesi minoritaria è sostenuta da G. Oppo, Costituzione e diritto privato nella «tutela della concorrenza», ora in Principi e problemi del diritto privato. Scritti giuridici, VI, Padova, 2000, 87 ss., spec. 95, secondo cui l’intervento dell’Autorità è necessario ad integrare la fattispecie della nullità dell’operazione, perché ne dichiara l’illiceità. Parzialmente diversa la
posizione di M. Libertini, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme
antitrust, in Giur. comm., 1998, I, 649 ss., per il quale è soltanto quando
l’Autorità si è già pronunciata e i fatti che ha posto a base della propria
decisione coincidono con quelli posti a fondamento della propria domanda da chi agisce in sede civile, che la qualificazione della fattispecie
data dall’Autorità deve considerarsi in linea di principio vincolante in
sede di giudizio.
Sull’autonomia del giudizio in sede civile, cfr. invece, ex multis, App. Milano, 29 settembre 1999, in Dir. ind. 1999, 338; App. Milano, 2 luglio
1998, ivi, 57 ss., con nota di M. Lamandini; App. Milano, 5 febbraio
1996, in Giur. dir. ind. 1996, 639 ss.
(10) Come si legge nella pronuncia in commento, al § 1.h della motivazione.
(11) Su cui v., amplius, si vis, il mio Tutela specifica e per equivalente. Situazioni soggettive e rimedi nelle dinamiche dell’impresa, del mercato, del rapporto
di lavoro e dell’attività amministrativa, Milano, 2004, sub cap. V.
CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005
339
GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA
sorta di diritto - non è chiaro se relativo o assoluto - alla
scelta effettiva tra prodotti in concorrenza; né se l’azione risarcitoria da chiunque promossa, che abbia titolo
nell’illecito concorrenziale, ricada nell’alveo di applicazione dell’art. 33 L. 287/90 o abbia piuttosto i caratteri
dell’ordinaria azione aquiliana. Il problema, semmai, è
cosa significhi, nel pensiero della Corte, che l’accertamento della nullità sia «il presupposto dell’eliminazione
del pregiudizio in una prospettiva esplicitamente risarcitoria».
Per comprenderlo, dobbiamo ricordare che la l. n.
287/90, quando parla di intese, non si riferisce solo ai
contratti in senso tecnico, ma, più in generale, a comportamenti che, coordinando verso un interesse comune le attività economiche dei partecipanti, distorcano il
gioco della concorrenza. La legge non si limita a stabilire la nullità del negozio perché il suo intento è illecito,
ma prevede che qualunque condotta di mercato, anche
realizzata in forme che escludono una caratterizzazione
negoziale (come la pratica concordata o la deliberazione consortile assunta in ossequio allo statuto, purché
veda la consapevole partecipazione di almeno due imprese, altrimenti ricadendosi, quando vi sia abuso di posizione dominante, nella figura di cui all’art. 3) sia suscettibile di valutazione sotto il profilo dell’illecito (12).
Se così è, la comminatoria di nullità dell’intesa
vietata dev’essere intesa, più che (o oltre che) a colpire
l’efficacia di un accordo concluso in violazione di norme imperative, a rimuovere gli ostacoli al gioco della
concorrenza, per impedire il verificarsi in futuro di ulteriori eventi dannosi. In altre parole, il legislatore del ‘90
non avrebbe attaccato l’intesa in quanto tale ma il
comportamento illecito realizzato dalla complessiva situazione di fatto, anche successiva all’accordo originario, che ha turbato l’efficienza del mercato; e l’invalidità
del negozio sarebbe stata sancita semmai per la necessità di «togliere l’efficacia di legge tra le parti che il negozio possiede per sua natura» (13) o di privare, in ogni
caso, «la volontà anticoncorrenziale «a monte» [di]
ogni funzione di copertura formale dei comportamenti
«a valle»» (14). Di conseguenza, anche l’azione di nullità avrebbe più la funzione di un rimedio volto ad accertare l’illiceità del comportamento, che non quella di
una impugnativa negoziale di stampo tradizionale.
Ricondotta la dichiarazione di nullità in quest’ambito più limitato, non sorprende più di tanto l’affermazione della Corte per cui la domanda risarcitoria e quella d’invalidità andrebbero sempre di pari passo, o il fatto che non si reputi necessario distinguere tra l’azione
con cui è chiesta la restituzione di quanto si ritenga
aver pagato in esecuzione del negozio concluso per effetto dell’intesa nulla e l’azione con cui invece semplicemente si invochi, ex art. 2043 c.c., il ripristino della
situazione patrimoniale che si assume lesa (e ciò perché, indipendentemente dalla forma della domanda, si
allegherebbe pur sempre l’intesa nulla e l’impossibilità
giuridica che produca effetti). Quel che la Corte vuol
340
CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005
dire è - ritengo - che la domanda di risarcimento o di
restituzione ha comunque, nella sua fattispecie, l’accertamento dell’esistenza della pratica vietata, e che questo accertamento può trasformarsi o meno in vera e
propria causa pregiudiziale, suscettibile di costituire oggetto di autonoma pronuncia, sol che si tratti (non
semplicemente di conoscere dell’esistenza dell’intesa illecita, ma) di statuirne, se necessario, la nullità; risultato cui chiunque, purché titolare di una situazione dipendente e munito del necessario interesse ad agire,
può addivenire, a mente dell’art. 1421 c.c.
4. Si potrebbe continuare a discutere a lungo, a
questo punto, della natura dell’azione proposta dal contraente finale che chieda la riparazione del danno subito: se si tratti di tutela di natura contrattuale, tutta giocata sui rapporti (di invalidità derivata) tra contratto a
valle e intesa a monte, o di tutela aquiliana, in cui l’indiscutibilità del danno subito dal consumatore - costretto, come nella vicenda in commento, a pagare un prezzo maggiorato rispetto a quello che gli sarebbe toccato
in regime di libera concorrenza - ha potuto trasformarsi
in ingiustizia e porre la questione della risarcibilità dell’interesse giuridicamente rilevante che si riesca a scorgere nelle pieghe della l. n. 287/90, (15) è quesito di
difficile soluzione, legato com’è, in fondo, alle opzioni
valutative dell’interprete, che preferisca riconoscere al
soggetto estraneo all’intesa questo o quell’altro tipo di
situazione soggettiva, suscettibile di lesione all’interno
di un rapporto contrattuale o al di fuori di esso.
In proposito, senza alcuna pretesa di completezza,
mi limiterei ad osservare che nella materia di cui si discorre vi è spazio per entrambe le azioni: (16) quella di
Note:
(12) Cass., sez. I, 1 febbraio 1999, n. 827, in Giur. it., 1999, 1223 ss., con
nota di Libonati, e in Riv. dir. comm., 1999, II, 183, con nota di Guizzi.
(13) Cass. n. 827/99, cit.
(14) Come si legge nella sentenza in commento.
(15) In argomento, le posizioni contrapposte sono ben espresse in C.
Castronovo, Antitrust e abuso di responsabilità civile, cit., e Id., Responsabilità civile antitrust: balocchi e profumi (secondo cui occorre riflettere sull’inopportunità di invocare il rimedio della responsabilità civile extracontrattuale anche per i consumatori, non ravvisandosi in capo ad essi
alcun interesse in funzione di un’azione aquiliana, dovendosi scorgere
semmai il rimedio proprio nell’azione di nullità dei contratti a valle) e in
M. Libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti a violazioni di norme antitrust, cit. e Id.; Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II)
cit. (che ribadisce invece l’idea della responsabilità ex delicto, sul duplice
presupposto della natura di atto illecito delle intese vietate e dell’inclusione degli interessi degli utilizzatori finali - imprese o consumatori - dei
prodotti oggetto dell’intesa nella serie di interessi tutelati dalla norma
che pone il divieto).
(16) Per il tentativo di far coesistere, all’interno del sistema dei rapporti
antitrust, una tutela risarcitoria di natura aquiliana con un tipo di tutela
per così dire interna al contratto, ancorché nell’ottica di un suo riequilibrio, cfr. G. Guizzi, Struttura concorrenziale del mercato, cit. (e già prima
in Mercato concorrenziale e teoria del contratto, in Riv. dir. comm., 1999, I,
103 ss.), rispetto alle cui tesi non paiono, a mio avviso, del tutto centrati
i rilievi critici avanzati vuoi da Castronovo vuoi da Libertini negli scritti
(segue)
GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA
nullità derivata, quante volte l’oggetto che nasce illecito nel primo contratto che dà corso alle intese rimanga
tale lungo l’intera catena negoziale; e quella di risarcimento del danno extracontrattuale, in via sussidiaria
quante volte non vi sia spazio per la prima forma di tutela (per difetto dei presupposti dell’invalidità, principale e derivata: ad esempio, per mancanza di un’intesa
di natura negoziale dalla cui illiceità far derivare la nullità degli atti negoziali conseguenti, o perché l’oggetto
dell’intesa non viene affatto replicato nei contratti a
valle), o si voglia convenire in giudizio un soggetto diverso dal proprio contraente diretto, al quale non può
essere imputata alcuna responsabilità (trattandosi di un
anello della catena di atti o negozi che danno corpo all’intesa, e non di uno dei partecipi della pratica colpita
dal divieto), neppure seguendo la falsariga delle azioni
di garanzia nelle vendite a catena.
Detto questo, però, quel che mi preme davvero evidenziare, per avviare quella rimeditazione complessiva
della tutela civile antitrust che dovremo necessariamente
intraprendere dopo (e alla luce de) l’intervento della
Corte, è che la particolare natura del rimedio della nullità che balenava tra le pieghe della pronuncia della
Cassazione del 1999 e che è echeggiata in quella in
commento, di fatto accomuna questa forma di tutela
specifica, di natura invalidante, all’altro strumento di tutela specifica tanto spesso invocato nella materia antitrust e rappresentato, com’è noto, dalla misura inibitoria
(17). Rilievo, questo, che consente di andar oltre la specifica questione esaminata dalle Sezioni Unite per iniziare a sbrogliare, nella prospettiva aperta dalla Corte,
l’intreccio delle tutele della disciplina sulla concorrenza.
Mi limiterò a poche battute in proposito, trattandosi di questioni che meritano un approfondimento
non possibile né utile in questa sede. Quando si afferma
che l’azione di nullità ha la funzione di colpire non il
negozio giuridico in quanto tale (se non nei limiti in
cui occorra «togliere l’efficacia di legge tra le parti che il
negozio possiede per sua natura»), ma, piuttosto, l’ostacolo al gioco della concorrenza realizzato dalla complessiva situazione di fatto che determinerebbe il ripetersi
in futuro degli eventi dannosi, in realtà si riconosce all’azione d’invalidità, nel particolare contesto dell’illecito concorrenziale (stante la sua natura non necessariamente negoziale), una funzione non dissimile da quella
del rimedio inibitorio a carattere definitivo.
L’uno, come l’altra, contiene un accertamento dell’illiceità della condotta precedentemente posta in essere, da cui si ricava necessariamente anche l’accertamento dell’obbligo di non compiere ulteriori atti lesivi (anzi,
per taluno, (18) in ciò si esaurirebbe la stessa misura inibitoria, e non nella condanna a tenere un comportamento modellato sull’obbligo violato, stante la difficoltà
di qualificare sentenza di condanna la pronuncia che
abbia ad oggetto l’adempimento di obblighi non suscettibili di esecuzione forzata) (19). E sebbene la nullità
abbia anche un’indiscutibile funzione repressiva, più vi-
sibile laddove alla dichiarazione di inefficacia del negozio già eseguito debba accompagnarsi la necessaria misura restitutoria, mi sembra indubbio che ad ambedue i rimedi, nella disciplina della concorrenza, venga riconosciuta quella funzione preventiva cui allude la Corte Suprema nell’attribuire all’impugnativa negoziale, quando
a ben vedere il negozio non vi sia, il ruolo di azione intesa a far cessare la situazione illecita già in atto.
È una circostanza, questa, da non sottovalutare per
chi voglia tentare una sistemazione complessiva dell’assetto dei rimedi, implicando un’equiparazione tra nullità ed inibitoria (praticamente fungibili, se si segue la
direttrice interpretativa fornita dalla Corte, nella finalità di colpire, con funzione preventiva, l’illecito concorrenziale) che non solo rafforza l’idea di invocare l’analogia, per colmare la lacuna di un diritto antitrust che
ha dimenticato di prevedere proprio l’inibitoria, rimedio tipico della disciplina della concorrenza; ma giustifica anche, per quel che più conta ai fini della razionalità
Note:
(segue nota 16)
citati alla nota che precede. Non quelli avanzati dal primo, il quale sembra non cogliere che nella prospettiva di Guizzi, una volta riconosciuta
l’esistenza di una situazione soggettiva (di natura probabilmente assoluta) alla conservazione del mercato concorrenziale, lo spazio riservato alla
tutela risarcitoria resta fruibile (in aggiunta alla tutela contrattuale nel
rapporto col contraente diretto) appunto perché il diritto a che le imprese operino sul mercato rispettando le regole di concorrenza assume la
consistenza di un diritto che esiste già prima del sorgere della relazione
negoziale con una determinata impresa, anche se la stipula del contratto
demarca il sorgere dell’interesse ad agire; ma neppure quelli formulati
dal secondo, il quale sembra fraintendere la tesi di Guizzi interpretandola come una negazione della possibilità di riconoscere la legittimazione
del consumatore all’azione risarcitoria, mentre essa si caratterizza al vertice solo per un tentativo di dare un fondamento più sicuro, rispetto a
quello che è possibile trarre da un’analisi delle sole norme della legge antitrust, alla qualificazione dell’interesse del consumatore ad un mercato
concorrenziale come situazione soggettiva individuale giuridicamente
protetta.
(17) Per una disamina più approfondita del ruolo dell’inibitoria nella
legge antitrust, che qui può essere soltanto accennato, v., si vis, il mio Tutela specifica e per equivalente, cit., sub cap. IV.
(18) Così, anche da ultimo, A. Attardi, Diritto processuale civile, Padova,
1999, I, 100-101, per il quale «quante volte una disposizione parli, anche implicitamente, di condanna in casi in cui l’esecuzione forzata della
sentenza non sia consentita, la si deve interpretare come riferentesi semplicemente all’accertamento mero del diritto fatto valere dall’attore».
Ad esempio, nel caso dell’art. 2599 cod. civ., l’inibitoria dovrà intendersi
come accertamento dell’obbligo di non compiere ulteriori atti di concorrenza, in relazione al quale si prenderanno le ulteriori misure di cui il
citato art. 2599 fa cenno.
(19) A ben vedere, ciò che caratterizza l’ordine inibitorio, e ne costituisce la specifica funzione aggiuntiva rispetto all’accertamento, è - come
acutamente rileva C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I,
Padova, 2003, 158 (che pur ne ricava una, a mio parere non condivisibile, funzione innovativa analoga a quella delle sentenze costitutive) - soprattutto la efficacia determinativa dell’obbligo generico violato, nel
senso che dopo la specificazione giudiziale delle condotte concrete da
evitare, «l’azione del soggetto che viola il precetto generico tenendo
proprio il comportamento giudizialmente inibito concreta una violazione maggiormente rea e quindi più dannosa, tale anche (all’atto pratico
probabilmente) da giustificare una liquidazione dei danni più intensa di
quella che si sarebbe avuta prima dell’emanazione dell’inibitoria».
CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005
341
GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA
del sistema, ad esito del procedimento analogico, la
possibilità di un’attrazione del rimedio non previsto
nella sfera della competenza della Corte d’appello.
Si avrebbe così, a chiusura del cerchio, l’opportunità di sostenere che con la l. n. 287/90 alla Corte
d’Appello è stato demandato, in realtà, pur con una
norma mal scritta, l’intero apparato sanzionatorio composto da accertamento, inibitoria, ed eliminazione degli
effetti della condotta censurata, che è ben noto agli studiosi del diritto della concorrenza, e che è echeggiato,
del resto, nell’art. 3 L. n. 281/98, laddove la norma contempla l’inibitoria degli atti e dei comportamenti lesivi
degli interessi dei consumatori (tra cui il diritto alla correttezza delle relazioni contrattuali, di sapore antitrust),
insieme all’adozione di misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate.
5. Gli accenni all’ipotetico scenario dei rimedi
aperto dagli interventi della Corte Suprema, e la menzione delle incertezze che sopravvivono a quest’ultima
pronuncia, danno ragione del perché - ritengo - la Corte non possa sperare di aver impresso una sorta di sigillo
conclusivo al dibattito. Covano, sotto la cenere, scintille in attesa di sprigionarsi (e particolarmente il rischio,
che menzionavo, che si attribuisca soverchia importanza al ruolo della dichiarazione di nullità quale presupposto della domanda di risarcimento). Né si è spiegato in
modo convincente perché la perdita di un grado di giudizio non dovrebbe preoccupare l’interprete; o quale sia
esattamente la natura dell’interesse giuridicamente rilevante che le norme sostanziali antitrust avrebbero riconosciuto al consumatore.
È da immaginare, perciò, che i varchi lasciati aperti dalla Cassazione daranno il via a nuovi giri di valzer
della dottrina. In questa prospettiva, i rilievi svolti - e in
particolare l’accostamento, che mi sembra tutt’altro
che azzardato, tra azione inibitoria e azione di nullità,
tra azione volta ad eliminare e correggere gli effetti delle violazioni accertate e azione restitutoria - potrebbero
forse servire da spunto per ricomporre il mosaico delle
tutele evocate esplicitamente o implicitamente dall’art.
33 della legge antitrust, inserendo nella sfera di competenza della Corte d’appello, per gli stretti legami di ciascuna azione con l’altra, l’azione di accertamento dell’illiceità della condotta e dell’obbligo di non tenere ulteriori comportamenti lesivi, l’azione inibitoria, l’azione
di nullità e quella restitutoria, e infine l’azione di risarcimento del danno, indipendentemente da chi, impresa
o consumatore, tali azioni vada a proporre. In tale sfera
- come aveva sottolineato la Cassazione nell’ordinanza
di rimessione degli atti al primo Presidente - , (20) spetterà al giudice competente verificare soltanto se la questione sia fondata, perché «il soggetto che domanda la
nullità dell’intesa o il risarcimento dei danni [e a questo
punto anche le altre azioni che ho ricordato] per ciò
stesso si legittimerà all’azione ex art. 33, comma 2, L. n.
287 del 1990», mentre il resto costituisce, appunto,
questione di merito.
Nota:
(20) Cass., n. 15538/2003, cit.
IL LENTO CAMMINO DELLA TUTELA CIVILE ANTITRUST:
LUCI ED OMBRE DI UN ATTESO GRAND ARRÊT
di Marcella Negri
Le Sezioni Unite restituiscono finalmente alla disciplina antimopolistica nazionale la sua vocazione di
tutela di tutti i soggetti del mercato, non esclusi i
singoli consumatori, ribadendo la competenza per
materia della Corte d’appello sulle domande risarcitorie, da chiunque proposte, in relazione ai danni asseritamente cagionati da illeciti antitrust (senza che
l’interposizione di un contratto individuale, che di
quel pregiudizio rappresenta il tramite, possa far velo
all’essenziale unitarietà del fenomeno). Meno convincente, invece, risulta la stretta connessione, nella
logica seguita dalla Corte, tra le domande di risarcimento del danno extracontrattuale e quelle di nullità,
di cui si propugna l’estensione all’intera sequenza
comportamentale attuativa dell’accordo vietato.
342
CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005
La risarcibilità delle “ricadute” dell’intesa
sui consumatori finali …
La prima, nel nostro paese, massiccia offensiva dei
consumatori contro imprese ritenute responsabili di
comportamenti anticoncorrenziali ha rapidamente innescato accese discussioni intorno ai limiti della tutela
giurisdizionale civile in materia antitrust: le domande di
parziale rimborso (per usare un termine volutamente
vago) dei premi, proposte di fronte a moltissimi giudici
di pace dai clienti delle assicurazioni sanzionate dall’Autorità garante per un’intesa illecita consistente nello scambio di informazioni commerciali “sensibili” (1),
Nota:
(1) Con provvedimento sostanzialmente confermato, salva una riduzione delle sanzioni, da Cons. di Stato, 23 aprile 2002, n. 2199, in Foro it.,
(segue)
GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA
hanno messo capo, oltre ad una modifica per decreto
legge del codice di rito (2), a ben tre interventi del Supremo Collegio, concentrati sulla preliminare questione della determinazione del giudice competente: giudice di pace, appunto, ovvero Corte d’appello in unico
grado secondo quanto dispone l’art. 33, comma 2, l. n.
287/90.
Come è noto la Suprema Corte (3) ha in un primo
tempo concluso, sul presupposto che il fondamento di
una eventuale tutela risarcitoria a favore dei consumatori debba cercarsi fuori dalla legge antitrust (senza peraltro fornire indicazione alcuna su tale ipotetico luogo), che le relative domande giurisdizionali non potrebbero in alcun modo ricondursi a quelle attribuite alla
competenza in unico grado della Corte d’appello (4) .
Della concludenza e dell’intima coerenza del ragionamento poteva a buona ragione dubitarsi, come i numerosi commenti a quella sentenza hanno abbondantemente dimostrato. La successiva “ordinanza interlocutoria” della terza sezione (5), infatti, nel sollecitare un
intervento delle Sezioni Unite su “questione di massima di particolare importanza”, evidenziava le molte
perplessità suscitate da quella decisione: non solo (e
non tanto) perché, a rigore, la determinazione della
competenza non dovrebbe essere fatta dipendere dalla
fondatezza o infondatezza nel merito della pretesa (nella
quale si risolve la questione della “legittimazione” del
consumatore finale a pretendere il risarcimento del
danno in relazione a condotte asseritamente restrittive
della concorrenza (6)); ma soprattutto perché non può
affatto darsi per pacifico, in assenza di indicazioni normative espresse, che la legge antitrust non attribuisca al
consumatore finale situazioni giuridiche soggettive tutelabili innanzi al giudice civile, mentre la lettera dell’art. 33 comma 2 l. n. 287/90 è del tutto muta circa i
soggetti “legittimati”. Il punto focale della diatriba, che
le sezioni unite sono state chiamate a dirimere, investe
allora in primo luogo la questione se la legge antitrust
attribuisca o meno un rilievo civilistico agli interessi dei
consumatori, pregiudicati o comunque incisi da condotte restrittive della concorrenza, e poi se la competenza della Corte d’appello sia conseguentemente limitata o meno alle controversie tra imprenditori.
Emerge così in primo piano il centrale problema,
connaturato (pur nel sensibile variare, a seconda dei
contesti normativi, degli itinerari logici e delle categorie dogmatiche (7)) a qualsiasi sistema di tutela della
Note:
(segue nota 1)
2002, III, 482 ss., con note di Pardolesi, Osti; in Foro amm. CDS, 2002,
977, con nota di Rangone; in questa Rivista, 2003, 491, con nota di Negri; in Giorn. dir. amm., 2003, 358, con nota di Lalli.
(2) D.l. 8 febbraio 2003 n. 18, convertito con legge n. 63/2003, che ha
modificato l’art. 113 comma 2, c.p.c., escludendo il giudizio secondo
equità per le controversie “derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’art. 1342 c.c.”, con disposi-
zione applicabile ai giudizi instaurati dopo il 10 febbraio 2003. L’intervento legislativo intende rispondere all’emergenza del contenzioso seriale allungando l’iter processuale, grazie alla reintrodotta appellabilità delle
sentenze, ed imponendo al giudice di pace un giudizio secondo diritto e
quindi una più articolata motivazione, in nome delle “ineludibili esigenze di difesa”, evidentemente coincidenti, nella mens dei conditores, con
quelle delle imprese esposte ad uno stillicidio di cause di modesto valore,
la cui sommatoria potrebbe però risultare assai gravosa (Poncibò, “Il consumatore e la violazione della normativa antitrust”, in Riv. crit. dir. priv.,
2003, 505 s.). Sia consentito osservare, però, che se certamente l’imposizione di un più meditato giudizio secondo diritto e la concessione di un
ulteriore strumento di impugnazione non possono in alcun modo reputarsi lesivi del diritto di azione e difesa di chicchessia ed anzi opportunamente favoriscono l’uniformità delle decisioni e così la certezza del diritto (come condivisibilmente osserva: G. Finocchiaro, Il nuovo secondo
comma dell’art. 113 c.p.c., in Riv. dir. proc., 2004, 828 s.), il problema
delle controversie seriali postula interventi di ben altro spessore, che
operino l’auspicata mediazione fra le esigenze difensive delle “parti occasionali” e dei potenziali convenuti; d’altra parte, l’esclusione del giudizio
di equità per cause di modesto valore coinvolgenti consumatori, come
tipicamente nel caso di contrattazione di massa, risulta in definitiva
pleonastico nella misura in cui mira ad evitare pronunce “eversive”, posto che il giudizio di equità deve pur sempre rispettare i principi informatori della materia, come ha definitivamente chiarito il giudice delle leggi
(Corte cost., 6 luglio 2004, n. 206).
(3) Cass., 9 dicembre 2002, sez. I, n. 17475, in Foro it., 2003, I, 1121 ss.,
con note di Palmieri, Scoditti; in Danno e resp., 2033, 390 ss., con nota
di Bastianon; in questa Rivista, 2003, 3, 303, con nota di Nasti, e ivi, 6,
797, con nota di Negri.
(4) Secondo Cass. n. 17475 (cit.) l’interesse del consumatore al mantenimento della struttura concorrenziale del mercato rifluirebbe nell’interesse pubblico e generale all’osservanza dei precetti antitrust, come tale
tutelato adeguatamente dall’azione dell’Autorità amministrativa indipendente (che tuttavia, sia detto per inciso, non è affatto obbligata ad
aprire istruttoria a seguito di denunce o segnalazioni). In questa linea si
collocano le riflessioni di chi esclude “una generale legittimazione ad agire del consumatore in sede processuale, in veste singola o associata, per
violazioni delle disposizioni antitrust” (corsivo aggiunto): Cassinis-Fattori, Disciplina antitrust, funzionamento del mercato e interessi dei consumatori,
in I Contratti, 2001, 16 ss.; nonché gli obiter dicta di Cass., sez. I, 4 marzo
1999, n. 1811 (in Riv. dir. ind., 2000, II, 421, nota di Tassoni). Aperture
alla “legittimazione” del consumatore emergono, per contro, dalla parte
motiva di App. Torino, 6 luglio 2000 (in Danno e resp., 2001, 46 ss., con
nota di Bastianon), là dove il collegio riconduce al novero dei soggetti
danneggiati “fra gli altri, l’acquirente finale del prodotto” (53)
(5) Corte di cass., sez. III, ordinanza 17 ottobre 2003, n. 15538, in Foro
it., 2003, I, 2938, con nota di Palmieri e in Foro it., 2004, I, 466, con note di Pardolesi, Ferro-Luzzi, Guizzi.
(6) Cass., sez. III, ordinanza 17 ottobre 2003, n. 15538, cit., p. 4. Per la
considerazione che non può sfuggire alla competenza della Corte d’appello una domanda di risarcimento del danno asseritamente cagionato
da pratiche restrittive della concorrenza, a prescindere dalla sua fondatezza: Negri, Risarcimento del danno da illecito antitrust e foro per la tutela
del consumatore (la Cassazione non dilegua i dubbi nella vicenda RC Auto),
in questa Rivista, 2003, 747 ss., 750; Palmieri, Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del consumatore finale: argomentazioni extravagantes per un illecito inconsistente, in Foro it., 2003, I, 1125.
(7) In Germania la questione si risolve nell’interrogativo “Wer darf welche Norm subjektivrechtlich durchsetzen ?”, secondo la logica della “norma
di protezione” (richiamata anche dalla dottrina italiana, quale valido
criterio selettivo dei potenziali titolari di un diritto al risarcimento in
relazione a violazioni della legge antitrust, in funzione di completamento di quello tradizionale dell’individuazione di una situazione soggettiva
- non necessariamente diritto soggettivo perfetto - pregiudicata: Nivarra, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, a cura di
Frignani-Pardolesi-Patroni Griffi-Ubertazzi, Bologna, 1993, II, 1452 ss.;
C. Scognamiglio, Prospettive europee della responsabilità civile e discipline
di mercato, in Diritto europeo, 2000, 333 ss.). Negli Stati Uniti l’accento
è posto sulla selezione dei danni risarcibili, attraverso la nozione di anti
(segue)
CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005
343
GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA
concorrenza che preveda sanzioni di ordine civilistico,
della selezione dei soggetti “legittimati” ad attivare il
controllo giurisdizionale sulle condotte anticompetitive
(le cui propagazioni sono idonee a ripercuotersi lunga
tutta la catena produttivo-distributiva irradiandosi in
direzioni virtualmente infinite). A tal riguardo l’indagine comparatistica dimostra che la comune ed imprescindibile esigenza di stabilire limiti alla rilevanza giuridica dei pregiudizi ricollegabili a condotte anticompetitive non transita affatto dall’aprioristica espunzione del
consumatore in quanto tale dalla cerchia dei soggetti
protetti. Per restare ai riferimenti normativi più prossimi, giova soprattutto la considerazione (del resto ineludibile alla luce dell’espresso rinvio interpretativo disposto dall’art. 1, comma 4, l. n. 287/90) degli orientamenti della Corte di giustizia, decisamente incamminatasi
sulla strada del più ampio riconoscimento di un diritto
al risarcimento del danno derivante da violazioni dell’antitrust comunitario a favore di “any individual” (8):
non esclusi quindi, come esplicitava l’Avvocato generale Mischo, i consumatori finali (9). Si aggiunga che
l’enfasi posta dal nuovo Regolamento di attuazione degli artt. 81, 82 Ce (n. 1/2003) sulle sanzioni di ordine
civilistico, ed in particolare sui rimedi risarcitori (quale
indispensabile complemento dell’azione amministrativa, necessariamente limitata ai casi di maggior impatto)
mal si concilia con letture ultrarestrittive della “legittimazione ad agire” (10). Con ciò, evidentemente, i problemi sono posti e non certo risolti, dovendosi pur sempre procedere a tracciare i confini del principio così stabilito (11); ma il punto fermo, dal quale ogni ulteriore
indagine deve prendere le mosse, è dato dall’assenza di
aprioristiche limitazioni nella cerchia di coloro che possono vantare pretese risarcitorie in base alla legge antitrust, a seconda che godano o meno della qualità soggettiva di imprenditori.
Opportunamente, quindi, le Sezioni Unite chiariscono oggi definitivamente che la disciplina antitrust
non si rivolge esclusivamente ai soggetti che si trovino
tra loro in rapporto di concorrenza, ma tutela tutti i
“soggetti del mercato”, ovvero «chiunque abbia un interesse processualmente rilevante alla conservazione
del carattere competitivo (del mercato) al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla
rottura o alla diminuzione di tale carattere».
Tanto non implica, evidentemente, un indifferenziato accesso di chiunque alla tutela risarcitoria, quasi
che la mera alterazione dell’assetto concorrenziale determinasse una sorta di presunzione di danno ed un obbligo risarcitorio erga omnes; ma certo non può negarsi
che la specificità del pregiudizio si stagli con paradigmatica nettezza appunto quando il consumatore risulti essere vittima diretta della pratica restrittiva attuata, come nel caso di specie, all’ultimo gradino della scala distributiva: più in generale, questo “interesse processualmente rilevante” non può negarsi, si deve ritenere, a
tutte le controparti dirette di mercato, cioè a tutti colo-
344
CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005
ro che abbiano concluso contratti di scambio con le
imprese partecipanti all’intesa (12).
Le peculiarità del caso rendevano quindi superfluo
un approfondimento del tema, cui parrebbe appunto
fugacemente alludere l’accenno alla specificità del pregiudizio, della selezione delle virtualmente infinite propagazioni dell’effetto pregiudizievole di una distorsione
concorrenziale - sulla cui vocazione plurioffensiva insisteva già Cass. n. 827/1999 - e così specialmente dei fenomeni di traslazione del danno (c.d. passing on) (13),
sui quali tuttavia si impone oggi una seria riflessione, reNote:
(segue nota 7)
trust injury e la ricerca del proper antitrust plaintiff (Bastianon, Violazione
della normativa antitrust e risarcimento del danno, in Danno e resp., 1996,
555 ss.; Toffoletto, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni antitrust, Milano, 1996, 260 ss.; A. Paul Victor, Consumer enforcement of federal and state antitrust laws in the U.S., relazione al convegno Antitrust
between EC law and national law, Treviso, 13-14 maggio 2004 (dattiloscritto). La vitalità di tali schemi per una corretta selezione dei danni
risarcibili è sottolineata, con particolare riguardo al diritto comunitario,
da: Reich, The “Courage” doctrine: Encouraging or discouraging compensation for antitrust injuries ?, in Common Market Law Review, 2005, 35 ss.).
(8) Corte di giustizia, 20 settembre 2001, C-453/99, in Foro it., 2002, IV,
75 ss., con i commenti di Palmieri-Pardolesi; Scoditti; Giuseppe Rossi;
in Danno e resp., 2001, 1151 ss., con il commento di Bastianon; in questa Rivista, 2002, 4, 454, con commento di Colangelo; Komninos, New
prospects for private enforcement of EC Competition Law: Courage v.
Crehan and the community right to damages, in Common Market Law Review, 2002, 447 ss. Analogamente le conclusioni dell’Avv. gen. Jacobs,
n. causa C-264/01, AOK-Bundesverband del 22 maggio 2003, p. 104.
(9) Conclusioni dell’Avvocato Generale Mischo, del 22 marzo 2001, pt
38: “The individuals who can benefit from such a protection are, of course,
primarily third parties, that is to say consumers and competitors who are adversely affected by a prohibited agreement”.
(10) Come francamente riconosce la Monopolkommission tedesca, nel
suo parere sull’ultimo progetto di modifica del GWB, schierandosi decisamente a favore di una “umfassende Klagebefugnis der Verbraucher und
Verbraucherverbände”, in relazione così all’antitrust comunitario come
pure sul piano strettamente nazionale (Monopolkommission, Das allgemeine Wettbewerbsrecht in der Siebten GWB-Novelle, Sondergutachten
gemäss § 44, GWB, 38 ss.).
(11) La principale questione che la sentenza Courage lascia aperta è appunto quella della selezione dei soggetti che possono ottenere il risarcimento del danno: poiché “any individual” non può significare “every individual”, è necessario stabilire dei limiti alla tutela risarcitoria (Reich,
op. cit., 40 ss.).
(12) Opinione dominante nella dottrina tedesca, ove si precisa che
„zum geschützten Personenkreis gehören nicht nur Unternehmen, sondern bei Kartellabreden auf der letzten Marktstufe - auch Verbraucher“ (Roth, §
33, in Frankfurter Kommentar zum Kartellrecht, Köln, 2001, Rdnr. 51;
Bornkamm, § 33, in Kommentar zum deutschen und europàischen Kartellrecht, I, Luchterhand V., 2001, Rdnr. 14, 23; Köhler, Kartellverbot und
Schadensersatz, in Gew.Rechtsschutz und Uhr.Recht, 2004, 99 ss.).
(13) Per un raro accenno al tema, si veda: App. Torino, 6 luglio 2000,
citata, che inclina ad escludere la risarcibilità del danno, quando l’acquirente intermedio sia riuscito a far gravare sulla propria clientela l’illecito
innalzamento del prezzo (uso difensivo del passing on), e coerentemente
ad ammettere l’azione del soggetto sul quale sia stato traslato il danno
(uso offensivo del passing on). In questa medesima direzione, sottolineando la funzione eminentemente compensativa propria del risarcimento del danno nel nostro ordinamento: Bastianon, Violazione della
normativa antitrust e risarcimento del danno, in Danno e resp., 1996, 565;
Toffoletto, op. cit., 322 ss.
GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA
sa ineludibile proprio dalla crescente importanza della
tutela risarcitoria in materia antitrust (14).
... e la competenza funzionale della Corte d’appello
Corollario dell’importante principio affermato dalle Sezioni Unite è l’impossibilità di introdurre nella disposizione sulla competenza limitazioni di cui non è
traccia nella formulazione letterale: caduta la pregiudiziale espunzione dei consumatori dal novero dei soggetti tutelati in via diretta ed immediata dalla legge antitrust, non vi è ragione alcuna di leggere l’art. 33, comma 2, l. n. 287/90 come se riservasse alla Corte d’appello in unico grado le sole controversie risarcitorie tra imprenditori; senza considerare, poi, che ragionando diversamente il giudizio sull’illiceità ai sensi della legge
antitrust delle pratiche asseritamente produttive di
danno verrebbe sottratto al giudice specializzato esclusivamente competente, contraddicendo la ragion d’essere della speciale competenza prevista dall’art. 33, comma 2, l. n. 287/90.
L’illecito antitrust ritrova così il proprio ruolo centrale di elemento determinante l’antigiuridicità del danno
subito, fornendo più solide basi alla tutela risarcitoria del
consumatore finale-vittima diretta rispetto al vago rinvio
ad un non meglio precisato “specifico diritto soggettivo”
eventualmente violato dalla pratica anticompetitiva, da
rinvenirsi però in altre aree del sistema (15). L’impostazione delle Sezioni Unite rende così non più necessaria
l’incerta stampella offerta alle pretese risarcitorie del consumatore dalla l. n. 281/98 e dal diritto alla “correttezza,
trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali” (in cui
molti hanno cercato l’ubi consistam dello sfuggente specifico diritto evocato dalla pronuncia della prima sezione
(16)), nel contempo efficacemente disarmando la tentazione di un surrettizio aggiramento, mercé l’invocazione
di tale diverso complesso normativo, della speciale competenza della Corte d’appello (17).
Come opportunamente chiarisce la sentenza in
commento, l’interposizione del contratto individuale,
frutto di autonomia privata e di volontà in sé e per sé
non viziata non spezza necessariamente il nesso causale
tra il danno e l’intesa che lo ha cagionato (18), giacché
«la previsione del risarcimento del danno sarebbe meramente retorica se si dovesse ignorare, considerandolo
circostanza negoziale distinta dalla “cospirazione anticompetitiva’ e come tale estranea al carattere illecito di
questa, proprio lo strumento attraverso il quale i partecipi dell’intesa realizzano il vantaggio che la legge intende inibire». L’importante precisazione che la risarcibilità di tale pregiudizio non viene meno per il fatto che
il consumatore abbia contrattualmente accettato le
condizioni, uniformate a monte dalla cospirazione anticompetitiva (19), scongiura così, recuperando l’indiNote:
(14) Spunti rilevanti possono trarsi dal dibattito accesosi in Germania,
proprio sui fenomeni di traslazione del sovrapprezzo, e così di quantifica-
zione del danno risarcibile e di legittimazione della vittima indiretta, anche sulla scorta del progetto governativo di modifica del GWB, che prevede l’integrale risarcimento della vittima diretta ed il rigetto dell’uso difensivo del passing on; la Monopolkommission, nel suo parere sul disegno
di legge (cit., 38 s.), approvava la scelta, osservando però che l’integrale
risarcimento della vittima diretta non dovrebbe escludere la risarcibilità
anche dei danni, in concreto causalmente riconducibili al cartello, patiti
dai contraenti a valle per evitare il rischio che, disincentivando gli acquirenti intermedi ad agire, il cartello riesca ad “immunizzarsi” contro le
pretese risarcitorie. Per la limitazione, de lege lata, del risarcimento alle
vittime dirette ed il ripudio dell’uso difensivo del passing on: Köhler, op.
ult. cit., 99 ss. (criticando l’opposto principio avallato da: LG
Mannheim, 11 luglio 2003, ibidem, 2004, 182 ss.).
(15) Ed invero, “se il cartello a monte rimane fuori del quadro, l’unica
cosa di cui il consumatore può lagnarsi è di aver stipulato un contratto a
condizioni meno vantaggiose” e “non si riesce a comprendere a quale titolo l’assicurato possa chiedere il risarcimento” (Colangelo, Intese restrittive e legittimazione dei consumatori finali ex art. 33 legge antitrust, in Dir.
ind., 2003, 177).
(16) Senza pretese di completezza: Gius. Rossi, “Take Courage!”. La Corte di giustizia apre nuove frontiere per la risarcibilità del danno da illeciti antitrust, in Foro it., 2002, IV, 99; Mantelero, “Per qualche lira in più” o del
danno al consumatore nei contratti a valle di un’intesa anticoncorrenziale, in
Riv. trim. dir. e proc. civ., 2004, 345 ss.; Guizzi, Struttura concorrenziale del
mercato e tutela dei consumatori. Una relazione ancora da scoprire, in Foro
it., 2004, I, 480 ss., 482; Hazan, I rimborsi dei premi RCA, in I contratti,
2003, 909.
(17) Peraltro, se anche si ritenesse indispensabile ricercare il fondamento del “diritto del consumatore alla equità concorrenziale dei rapporti
contrattuali” (anche) nella l. n. 281/98 (Guizzi, op. ult. cit., 482 ss.), non
sarebbe lecito trarne conseguenze in ordine alla determinazione del giudice competente, a differenza di quanto adombrato da qualche autore
(Mantelero, op. ult. cit., 345 ss.; contra, Guizzi, op. ult. cit., 484) e di
quanto pareva suggerire la stessa Cassazione: sia perché lo “statuto dei
consumatori” non contiene disposizioni speciali sulla competenza, sia
perché l’art. 33 l. n. 287/90 concerne tutte le domande di risarcimento
del danno relative alla violazione della legge antitrust: e certamente in
tale categoria rientra la domanda di risarcimento del danno cagionato
da un’intesa restrittiva della concorrenza, dal momento che il giudizio di
antigiuridicità dell’intesa dovrà pur sempre essere condotto alla stregua
dei precetti antitrust.
(18) Secondo quanto ritenuto invece dalla citata Cass. n. 17475/2002.
Sul versante dottrinale, si è così addirittura esclusa in radice la risarcibilità del danno ex art. 2043 c.c., sull’assunto che chi negozia con l’impresa partecipante ad un cartello “si determina sempre liberamente a contrarre” (Ferro-Luzzi, Prolegomeni in tema di mercato concorrenziale e “aurea
aequitas” (ovvero delle convergenze parallele), in Foro it., I, 2004, 477 s.); la
prospettiva appare in realtà alquanto artificiosa, trascurando come la
perturbazione della concorrenza indotta dall’intesa incida direttamente
proprio sulla effettiva libertà di scelta degli acquirenti: a meno di non
pretendere che questi rinuncino all’acquisto o si sobbarchino oneri eccezionali (di regola necessari) per accedere ad eventuali mercati “sani”.
(19) Una volta ammessa la rilevanza dell’interesse individuale del consumatore “al rispetto delle regole del confronto concorrenziale” (c.d. diritto o interesse alla preservazione di una concorrenza effettiva: Osti,
Abuso di posizione dominante e danno risarcibile, in Danno e resp., 1996,
114 s.; Bastianon, Antitrust e tutela civilistica: anno zero, in Danno e resp.,
2003, 398) e così alla possibilità di “una effettiva scelta tra alternative
diverse”, quale situazione soggettiva preesistente al contratto, vengono
meno le difficoltà concettuali di concepire una tutela aquiliana per lesioni attuate per il tramite dello strumento negoziale (Guizzi, op. ult. cit.,
484, così correggendo l’originaria impostazione; Libertini, Autonomia
privata e concorrenza nel diritto italiano, in Riv. dir. comm., I, 2002, 452),
anche senza necessità di far leva sulla, peraltro non pacifica (in quanto
subordinata al requisito del dolo), applicazione diretta dell’art. 1440 c.c.
(sulla duplice possibilità: Bastianon, Nullità a cascata? Divieti antitrust e
tutela del consumatore, in Danno e resp., 2003, 1075 s.). Il superamento di
una visione parcellizzante e limitata al singolo contratto concluso con il
cliente, riportando l’intesa illecita al suo ruolo di fatto generatore del
(segue)
CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005
345
GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA
spensabile visione unitaria del fenomeno, un risultato
palesemente paradossale.
Riconoscere che l’interposizione di un atto di autonomia negoziale di per sé non interrompe la catena causale che collega l’intesa vietata al pregiudizio patrimoniale lamentato dall’acquirente peraltro non implica,
conviene precisare a scanso di equivoci, alcun automatismo nella concessione dell’invocata tutela risarcitoria,
quasi che provata la pratica restrittiva il danno fosse in re
ipsa; tutt’al contrario, l’acquirente dovrà pur sempre dimostrare che le forme in concreto assunte dalla “cospirazione” anticompetitiva abbiano effettivamente determinato l’innalzamento dei prezzi in misura più che concorrenziale su una parte rilevante del mercato (20): ed
anzi è un peccato che le sezioni Unite, nel contesto di
un’ampia “sentenza-trattato”, non abbiano ritenuto di
misurarsi ex professo con una più puntuale ricostruzione
della fattispecie costitutiva della pretesa risarcitoria.
Indebite sovrapposizioni tra responsabilità
aquiliana ed invalidità negoziali
A questo punto il discorso, però, comincia a farsi
oscuro, giacché le Sezioni Unite mostrano di voler legare indissolubilmente la tutela risarcitoria al tema della invalidità negoziale. In motivazione si legge, infatti,
che la nullità dell’intesa rappresenterebbe l’indefettibile
presupposto della eliminazione del pregiudizio subito
dal consumatore finale. La pretesa al rimborso dell’eccedenza rispetto al prezzo concorrenziale presupporrebbe - a quanto sembra - la deduzione della nullità dell’intesa che tale sovrapprezzo abbia determinato; ed anzi
sarebbe proprio la deduzione della nullità dell’intesa,
espressamente prevista dall’art. 2, comma 2, e quindi
certamente richiamata dall’art. 33, comma 2, della stessa l. n. 287/90, a determinare l’incontestabile radicamento dell’intera controversia presso il giudice “specializzato”. I termini del ragionamento appaiono specularmente invertiti rispetto all’iter logico seguito dalla prima sezione: mentre questa muoveva dalla premessa che
il consumatore non avrebbe mai potuto agire per la declaratoria di nullità dell’intesa, per negare a fortiori la riconducibilità anche delle domande risarcitorie all’art.
33, cpv.; le sezioni unite invece vorrebbero dedurre
quella riconducibilità dall’apodittico riconoscimento al
consumatore della legittimazione ad agire per la declaratoria di nullità dell’intesa, perpetuando così la confusione concettuale, sulla base di un nesso del tutto indimostrato, tra due forme di tutela ontologicamente diverse.
Se lo scopo dell’insistenza sulla nullità dell’accordo
anticompetitivo fosse unicamente quello di ancorare
strettamente l’azione risarcitoria all’art. 33, comma 2,
l’operazione dovrebbe giudicarsi del tutto pleonastica,
dal momento che la competenza speciale sussiste ogni
qual volta si invochi il risarcimento di un danno asseritamente cagionato da violazioni degli artt. 2, 3 della legge. La competenza della corte d’appello sulle controver-
346
CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005
sie risarcitorie relative a violazioni della legge antitrust
non ha affatto bisogno di appoggiarsi alla nullità dell’intesa, che non ha di per sé alcun rilievo nella prospettiva
del risarcimento del danno: il soggetto, consumatore o
concorrente, che chiede il ristoro dei danni ingiustamente patiti per effetto di un cartello non ne deduce affatto la nullità (chiedendo l’accertamento della radicale
inefficacia del corrispondente accordo negoziale), bensì
il carattere vietato e quindi illecito, che determina l’antigiuridicità del danno e la risarcibilità ai sensi dell’art.
2043 c.c., ove ne ricorrano gli ulteriori presupposti (nesso causale, dolo o colpa) (21). Una volta riconosciuto,
almeno in linea di principio, il nesso causale tra prezzo
pattuito a valle e distorsione della concorrenza a monte,
non si vede l’utilità di legare la risarcibilità dei danni patiti dal consumatore alla sua (peraltro non pacifica) legittimazione a domandare l’accertamento della nullità
dell’intesa in sé e per sé considerata. Senza considerare
che, se davvero il risarcimento del danno postulasse il
previo accertamento ad ogni effetto della nullità dell’intesa, se ne dovrebbe dedurre addirittura la necessità di
integrare il contraddittorio con tutte le parti dell’accordo: corollario certamente indesiderato che da solo dovrebbe far dubitare della premessa (22).
Ponendosi nella prospettiva risarcitoria, cui le Sezioni Unite mostrano di volersi rigorosamente attenere,
risulta quindi del tutto ultroneo attribuire al consumatore-vittima diretta la legittimazione a far valere la nullità dell’intesa; anzi, il preteso nesso biunivoco tra legitNote:
(segue nota 19)
danno, consente di mettere a fuoco inoltre la responsabilità solidale
(Köhler, op. cit., 101 s.; Libertini, op. loc. ult. cit.) delle imprese colludenti nei confronti di tutti gli acquirenti diretti (risultato più difficile da attingere, ragionando in chiave di responsabilità contrattuale, necessariamente ancorata alle parti del singolo episodio negoziale).
(20) Sull’onere probatorio, di cui è gravato l’acquirente che domandi il
risarcimento del danno, giustamente escludendo qualsiasi automatismo,
tanto più quando l’intesa allegata integri un illecito di mero pericolo:
Violante, Illecito antitrust e azione risarcitoria, in Danno e resp., 2005, p. 14
ss.; Hazan, op. cit., 909; Calvo, Diritto antitrust e contratti esecutivi dell’intesa vietata (contributo allo studio dei Folgeverträge), in I Contratti, 2005,
192 s.; ed altresì, se si vuole, il nostro: Risarcimento del danno da illecito
antitrust e foro per la tutela del consumatore, cit., 753 s. Considerazioni di
questo tenore serpeggiano anche tra i giudici di pace, investiti delle richieste di rimborso del premio assicurativo: si veda, ad esempio la decisione di Giudice di pace Pozzuoli, 28 novembre 2003, in Nuova giur. civ.
comm., 2004, I, 530.
(21) In altri termini, il contratto “a valle” rileva, dal punto di vista della
vittima dell’illecita collusione anticompetitiva, quale “mero elemento di
una fattispecie di responsabilità aquiliana” (Pardolesi, Cartello e contratti
dei consumatori: da Leibnitz a Sansone ?, in Foro it., 2004, I, 473).
(22) Contra, facendo poco persuasivamente leva sul carattere dichiarativo della nullità: Scoditti, Il consumatore e l’antitrust, 1129. Ed invero
deve ritenersi che il carattere meramente dichiarativo dell’emananda
sentenza non elimini la necessità del contraddittorio (Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Padova, 2004, 459; Attardi, Diritto
processuale civile, Padova, 1999, 359), almeno quando si tratti della “rimozione di un titolo apparente” (Luiso, Diritto processuale civile, I, Milano, 2000, 280).
GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA
timazione ad invocare la nullità dell’intesa ed a pretendere il risarcimento del danno rischia di far ricadere su
quest’ultima forma di tutela le perduranti incertezze sulla disponibilità della prima da parte dei consumatori
(23). In realtà, per le “controparti di mercato” delle imprese colludenti la declaratoria di nullità dell’accordo è
sostanzialmente inutile, fino a che non si riesca a dimostrare che proprio la sua apparente efficacia vincolante
tra le parti, e non già il mero fatto della sua spontanea
attuazione, in qualche modo coinvolga la loro sfera giuridica (24).
L’intero discorso riacquista intelligibilità e senso
solo a condizione di ritenere che, per il tramite della
nullità dell’intesa, i consumatori (e più in generale i terzi acquirenti diretti) facciano in realtà valere la nullità
dei negozi individuali “a valle” della cospirazione anticompetitiva.
L’insistenza sulla legittimazione del consumatore
alla declaratoria di nullità dell’intesa adombra, allora,
l’implicito riconoscimento della nullità dei contratti individuali, i quali ultimi - saldandosi in un’unità inscindibile con la pratica restrittiva di cui costituiscono
estrinsecazione ed attuazione - sarebbero naturaliter ricompresi nella nullità disposta dall’art. 2 comma l. n.
287/90. In questa prospettiva, l’idea che la nullità dei
contratti a valle discenda direttamente e sia inglobata
in quella dell’intesa stessa consentirebbe non solo di
fornire all’invalidità derivata una base positiva (della
cui solidità è tuttavia lecito dubitare), ma anche di superare l’obiezione secondo le azioni di nullità contemplate dall’art. 33 comma 2 sarebbero solo quelle relative
alle intese e non già ai contratti c.d. a valle.
La conclusione transita per una nozione assai lata
ed eterodossa della nullità (già sotto molti aspetti “speciale”) sancita dall’art. 2 comma 2 (25), che, coprendo
la medesima estensione del divieto di accordi e pratiche
restrittive sancito al comma primo, involgerebbe indistintamente tutti i comportamenti restrittivi della concorrenza a prescindere dalla loro veste formale ed anche
le manifestazioni ulteriori rispetto all’accordo collusivo,
tra le quali in primis proprio i comportamenti attuativi
del disegno anticompetitivo (nel caso di specie consistenti nella vendita di servizi a prezzo “gonfiato”): la
nullità delle intese, si legge, avrebbe la funzione di “togliere alla volontà anticoncorrenziale a monte ogni
funzione di copertura formale dei contratti a valle” e
così di “impedire il conseguimento del frutto dell’intesa
consentendo anche nella prospettiva risarcitoria la eliminazione dei suoi effetti” (26). Tuttavia, la derivazione
della nullità dei contratti a valle dalla loro inclusione in
una nozione ampia di intesa (e di nullità), secondo un
ragionamento assai generalizzante che ignora opportune distinzioni tra le diverse tipologie di accordi restrittivi (27) e sorvola su punti più delicati di un dibattito assai articolato (28), pecca in definitiva di eccessivo semplicismo, dando per dimostrato il quod demonstrandum:
cioè che l’eliminazione degli effetti distorsivi dell’intesa
postuli l’invalidità dei contratti conclusi dai membri del
cartello nel rispetto degli accordi anticompetitivi (29).
Emerge inoltre, nel ragionamento della Corte, una
Note:
(23) Negano che soggetti terzi rispetto all’intesa (cioè di un patto avente esclusivamente effetti obbligatori) possano mai avere interesse, ai sensi dell’art. 1421 c.c., all’accertamento della sua nullità: Oppo, Diritto dell’impresa e morale sociale, in Riv. dir. civ., 1992, I, 31; Ristori, La competenza speciale della Corte d’appello nella legge antitrust, in Riv. dir. priv., 1998,
420. Al contrario, escludendo i rimedi risarcitori, ritiene che l’unica forma di tutela del contraente a valle risieda proprio nella declaratoria di
nullità dell’intesa stessa, a tutela dell’interesse alla regolarità dei (futuri)
rapporti contrattuali: Ferro Luzzi, op. ult. cit., 479.
(24) Sulla sostanziale inutilità, per i consumatori-acquirenti finali, di
una declaratoria di nullità dell’intesa concorda pure chi non ne esclude
a priori la legittimazione “se ed in quanto non possano evitare a se stessi
gli effetti negativi dell’intesa, esercitando il loro potere di scelta sul mercato” (Libertini, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust,
cit., 668; cui adde, Meli, Autonomia privata sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, Milano, 2002, 22, 148).
(25) Già prospettata da Cass. 1° febbraio 1999 n. 827 (in Giur. it., 1999,
1223, nota di Libonati; in Danno e resp., 2000, 57 nota di Nivarra, Bastianon), secondo cui l’art. 2, comma 2, l. n. 287/90 non darebbe rilevanza
unicamente «all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine
della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva
situazione, anche ulteriore all’eventuale negozio, che in quanto tale realizza
un ostacolo al gioco della concorrenza». La dilatazione del concetto di
nullità era in quel contesto funzionale a giustificarne l’applicazione alle
intese concluse prima dell’entrata in vigore della legge antitrust; ma si prestava a sviluppi ulteriori nel senso della invalidità dei contratti a valle
(Delli Priscoli, La dichiarazione di nullità dell’intesa anticoncorrenziale, in
Giur. comm., 1999, II, 231 s.); Scoditti, Il consumatore e l’antitrust, cit.,
1129 s.; Schininà, La nullità delle intese anticoncorrenziali, in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 2004, 436 ss., 440; ed un’eco se ne può cogliere nella tesi secondo cui l’invalidità dei contratti attuativi dell’intesa sarebbe la coerente
conseguenza del divieto di intese: Pardolesi, op. ult. cit., 469 ss.).
(26) L’attuale decisione si colloca così nel solco già tracciato da Cass. n.
30 giugno 2001, n. 8887 (in Giur. it., 2002, 1211 ss.), favorevole in linea
di principio a ravvisare una ricaduta diretta dell’illiceità della intesa sulla
validità dei contratti individuali “attuativi” del programma concordato,
appunto in nome di quella considerazione unitaria dell’intesa e dei contratti a valle già adombrata da Cass. 1 febbraio 1999, n. 827. In senso
diametralmente opposto (oltre, implicitamente, a Cass. n. 17475/2002,
là dove rimarcava l’autonomia dei contratti a valle “presieduti dalla loro
logica interna”): Cass. 11 giugno 2003, n. 9384 (in Danno e resp., 2003,
1067, nota di Bastianon), secondo cui «i contratti scaturiti da un’intesa
restrittiva della concorrenza mantengono la loro validità e possono dar
luogo solo ad un’azione di risarcimento del danno da parte degli utenti».
(27) Ci si riferisce all’impostazione sceveratrice di Meli, op. cit., p. 164
ss., che isola gli accordi di sfruttamento, finalizzati ad imporre condizioni
“che non si avrebbe la forza di imporre agendo individualmente nel
mercato” (art. 2, comma 2, lett. d, e), dai quali solamente potrebbe farsi
discendere l’invalidità del contratto a valle, tendenzialmente esclusa invece in relazione ai cartelli di prezzo o sull’adozione di condizioni contrattuali uniformi; e di Libertini, Autonomia privata e concorrenza nel diritti italiano, cit., 453, relativamente agli atti costituenti abuso di “posizione
dominante collettiva” (arg. ex art. 9 l. n. 192/1998)..
(28) Per una ricostruzione attenta dei termini del vivace dibattito dottrinale: Bastianon, Nullità a cascata? Divieti antitrust e tutela del consumatore,
cit., 1068 ss.; Guizzi, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, Riv. dir.
comm., 1999, I, 67 ss.; Libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti a violazioni di norme antitrust, in Danno e resp., 2004, 939 ss.
(29) Ed infatti solo ex uno latere il contratto “a valle” rappresenta lo strumento per la realizzazione dell’illecita restrizione della concorrenza, che
non rileva quindi se non come motivo unilaterale, incapace di determinarne la nullità (Libertini, Ancora sui rimedi civili …, cit., 941).
CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005
347
GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA
patente contaminazione tra l’area del divieto e quella
della sanzione di nullità, che è e resta “sanzione” tipicamente endocontrattuale, del tutto priva di senso se applicata al di fuori del terreno suo proprio, cioè al di fuori
dell’area degli accordi giuridicamente obbligatori; se è
pacifico che quella di intesa sia nozione prettamente
“comportamentale”, che prescinde dalla veste dell’accordo ed abbraccia qualsiasi convergenza di volontà
(30), ciò non toglie che sia privo di senso predicare la
“nullità” di una condotta materiale, già di per sé priva
pur della mera apparenza di un accordo giuridicamente
vincolante (31). Accordi “informali” e pratiche concordate, si ripete, sono vietati ed illeciti, ma è del tutto
inutile dichiararli “nulli”: l’invalidità dell’intesa, infatti,
ha unicamente la funzione di minarne dall’interno la
coesione, consentendo alle parti di sottrarsi al vincolo
negoziale, senza incorrere in responsabilità per inadempimento; invece, quando l’accordo non abbia in sé veste contrattuale e comunque in relazione ai terzi estranei pregiudicati dall’alterazione della concorrenza, il
problema è piuttosto quello di impedirne la spontanea
attuazione: ed è evidente che la declaratoria di nullità
risulta a tal fine del tutto inadeguata, a meno di trasformarla - ma sarebbe necessario ben altro approfondimento - in un rimedio preventivo di stampo inibitorio
(32). Accreditando una nozione di “nullità” tanto
stemperata, le Sezioni Unite finiscono così per assimilare esigenze di tutela differenti, lasciando nell’ombra il
ben più rilevante tema dei rimedi preventivi (e collettivi) contro gli illeciti concorrenziali, cioè dei rimedi inibitori.
Una perduta occasione per fare chiarezza
(ed uno stimolante obiter)
Si deve allora lamentare l’importante occasione
perduta per fare infine chiarezza sul nodo dei rimedi,
contrattuali e/o extracontrattuali e così anche di stampo inibitorio (33), che il consumatore, e più in generale gli acquirenti in un mercato alterato da collusioni
anticompetitive possono invocare. Se, come parrebbe
evincersi da una motivazione non sempre lineare (34),
le Sezioni Unite intendevano suggellare un dibattito
infuocato, confortando con la loro autorevolezza la tesi
della invalidità dei contratti a valle, sarebbe stato lecito attendersi quantomeno una presa di posizione più
esplicita. Dietro l’intreccio di pretese risarcitorie e nullità, infatti, restano irrisolti i nodi scottanti della funzione e natura dell’asserita invalidità dei contratti a
valle: e così della legittimazione assoluta o relativa a
farla valere e del rapporto tra nullità parziale ed integrazione o correzione del regolamento negoziale di durata (35). Anzi, la commistione tra invalidità dei contratti “attuativi” ed invalidità dell’intesa rischia di trarre con sé corollari poco tranquillanti: non solo, come
già accennato, sul piano processuale, ma pure sul piano
del giusto contemperamento degli interessi coinvolti,
perché se l’invalidità del contratto a valle derivasse di-
348
CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005
rettamente dalla nullità dell’intesa ai sensi dell’art. 2,
comma 2, l.n. 287/90, dovrebbe allora condividerne i
caratteri e quindi pure la natura assoluta: con buona
pace dei tentativi dottrinali di limitare la legittimazione al solo soggetto “debole”.
Note:
(30) Fin qui si condivide certamente l’affermazione di Cass. n.
827/1999, secondo cui il divieto di intese colpisce «qualsiasi condotta di
mercato, anche realizzata in forme che escludono una caratterizzazione
negoziale, purché veda la consapevole partecipazione di almeno due intese»; non convince invece l’ulteriore deduzione che «la considerazione
della nullità fondata dalla normativa antitrust deve essere arricchita rispetto ad una prospettazione che consideri solo quella del negozio» e
meno ancora l’ulteriore, ancor più remoto, corollario che i contratti mediante i quali le imprese colludenti realizzano il profitto, in vista del quale si erano determinate a rinunciare alla competizione, dovrebbero essere necessariamente travolti dal disvalore che colpisce l’accordo di cartello.
(31) Del resto, la dottrina prevalente limita il significato della nullità di
cui all’art. 2 comma 2 alle intese aventi consistenza di veri e propri contratti: Pardolesi, Intese restrittive della libertà di concorrenza, in Diritto
antitrust italiano, I, a cura di P.-Frignani-Ubertazzi, Bologna, 1993, p. 306;
Delli Priscoli, op. ult. cit., 232; Libertini, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, in Giur. comm., 1998, I, 667; Afferni, Le intese
anteriori alla legge antitrust: legge retroattiva o nullità speciale ?, in Giur. it.,
2000, 942.
(32) Ed è significativo il collegamento (istituito da Scoditti, op. ult. cit.,
1129; Calvo, op. cit., 183) tra l’accertamento della nullità dell’intesa e la
legittimazione ad agire delle associazioni di consumatori ai sensi della l.
n. 281/98, la quale ultima notoriamente prevede una inibitoria collettiva: ed invero la declaratoria di nullità dell’intesa ad istanza del consumatore assume una valenza spiccatamente preventiva (evidente soprattutto
nell’impostazione di Ferro-Luzzi, op. ult. cit., 478 s.), che evoca appunto
la tutela inibitoria.
(33) Prospetta la duplice alternativa, traendone le debite conseguenze in
termini di competenza (non abbracciando la lettera dell’art. 33 comma
2 l. n. 287/90 i rimedi endonegoziali relativi ai contratti a valle, siano
questi ricostruiti in termini di annullabilità o di “correzione equitativa”
del contratto): Guizzi, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori, cit., 484.
(34) La prospettiva risarcitoria, cui le Sezioni Unite restano ancorate,
mal si concilia con la pretesa deduzione della “nullità” dell’intero complesso “intesa-contratto a valle”, che dovrebbe preludere piuttosto a rimedi di natura restitutoria; secondo le Sezioni Unite, invece, il carattere
strutturalmente colposo o doloso della condotta collusiva consentirebbe
di inquadrare le domande di rimborso sempre e necessariamente come
domande risarcitorie ex art. 2043 c.c: per questa via il Collegio evita un
più diretto confronto con la competenza (almeno apparentemente)
chiusa della Corte d’appello, che testualmente non include le azioni restitutorie conseguenti alla declaratoria di nullità. La forzatura, peraltro,
non sarebbe nemmeno necessaria, dal momento che le Corti d’appello
hanno già più volte “corretto” l’asfittico art. 33 comma 2, ammettendo
l’attrazione anche delle domande di restituzione, accessorie a quelle di
nullità: volendo seguire il (qui tuttavia respinto) itinerario logico proposto dalle S.U., allora, le restituzioni conseguenti alla nullità dell’intesa,
asseritamente comprensiva dei contratti a valle, non dovrebbero sfuggire
alla competenza speciale.
(35) L’intervento giudiziale sul contenuto del contratto potrebbe transitare per la sostituzione automatica della clausola nulla con il “prezzo
concorrenziale” e perciò equo, secondo il modello offerto dall’attuazione
diretta dell’art. 36 Cost. (Toffoletto, op. cit., 343 ss.): ma può obiettarsi
che la disciplina antitrust agisce sulle dinamiche di mercato garantendo
la competizione effettiva e non calmierando i prezzi. Il problema, però, è
reale e a ben vedere indipendente dalla prospettiva della nullità “a cascata” (Guizzi, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, cit., 110 ss.;
Calvo, op. cit., 189).
GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA
La sovrapposizione tra invalidità negoziali e risarcimento del danno risulta in definitiva superflua e pericolosa, nella misura in cui rischia di indebolire la stessa
persuasività del più importante principio, che emerge
dalla sentenza in commento: vale a dire la risarcibilità
del pregiudizio ad una scelta effettiva tra prodotti in
competizione, tradottosi nel pagamento di un prezzo superiore a quello “concorrenziale”. Il recupero di una visione unitaria dell’illecito, che non scinda formalisticamente la collusione anticompetitiva ed il prezzo pattuito con gli acquirenti, merita ribadire, non implica affatto l’estensione della nullità dell’intesa ai contratti individuali, né transita necessariamente per la dimostrazione della invalidità di questi ultimi.
Fermo il principio, ovviamente, la partita resta tutta da giocare, spostandosi sul terreno della prova rigorosa di un adeguato nesso causale tra la “cospirazione” e
l’aumento dei prezzi, nonché su quello assai accidentato
della esatta quantificazione del danno; ma, al cospetto
di questa costellazione di problemi, la deduzione della
“nullità” dell’intesa (e mediatamente del contratto a
valle) riesce del tutto estranea ed inconferente.
In conclusione, ed a latere dei temi sin qui discussi, merita attirare l’attenzione del lettore su di un breve
obiter contenuto in motivazione, relativo alla struttura
del riparto di giurisdizione disegnato dall’art. 33, comma 2, l. n. 287/90. Tale riparto, si legge, appare “datato” perché sostanzialmente informato ad un sistema
LIBRI
(quello del doppio binario di tutela) ormai definitivamente travolto, ad opera della l. n. 205/2000 e della
sentenza n. 204/2004 della Consulta. Il riferimento al
nuovo assetto della giustizia amministrativa ed in particolare alla concentrazione del giudizio di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi innanzi al
giudice amministrativo - recentemente confermata
dalla stessa Consulta - ed il giudizio sulla inattualità del
riparto di giurisdizione in materia antitrust si prestano
(ove depurati del sospetto di voler accreditare un’inesistente “pregiudizialità” del procedimento amministrativo e del conseguente giudizio nell’atto di diffida) ad essere letti come stimolanti spunti nel senso della necessità di superare l’esistente dualismo, riportando l’intera
materia nell’ambito di un’unica giurisdizione. Nonostante l’ambiguità del riferimento al risarcimento da
provvedimento illegittimo, che potrebbe anche supportare una soluzione opposta, questa giurisdizione
unica dovrebbe essere individuata più plausibilmente
in quella ordinaria: non solo perché assai spesso il
provvedimento dell’autorità antitrust fronteggia autentici diritti soggettivi (tipicamente in caso di sanzioni
per infrazioni gravi), ma anche e soprattutto perché in
questo modo si eviterebbe l’inopportuna incomunicabilità tra organi giudiziari di vertice (Cassazione e
Consiglio di Stato) ed il conseguente pericolo di un’incoerente divaricazione nell’interpretazione delle nozioni chiave dell’illecito antitrust.
Collana Biblioteca del diritto di famiglia (diretta da Massimo Dogliotti)
Procreazione assistita
Fonti, orientamenti, linee di tendenza
Commento alla legge 19 febbraio 2004, n. 40
M. Dogliotti, A. Figone
Il 10 marzo 2004 è entrata in vigore la
legge n. 40/2004 sulla procreazione
medicalmente assistita che si propone
l’obiettivo di regolamentare una materia
in cui mancava l’intervento del nostro Legislatore e che, oggi più che mai, è oggetto di un acceso dibattito che coinvolge
l’opinione pubblica, il mondo politico e la
comunità scientifica e culturale. Questo
volume si propone di darne una prima
ma compiuta lettura, attraverso l’esame
delle fonti, degli orientamenti e delle linee di tendenza, uno sguardo comparatistico sulla disciplina nei paesi dell’unione europea e il commento articolo per articolo del testo normativo, anche alla lu-
ce delle recentissime Linee guida del Ministro della Salute emanate il 21 luglio
2004. Conclude l’opera una ricca appendice normativa e giurisprudenziale, con
particolare attenzione alle ultime sentenze in materia.
Ipsoa 2004, pagg. 432, € 36,00
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(tel. 02.82476794 – fax 02.82476403)
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