Sezioni Unite 2005 – Nullità intese restrittive
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Sezioni Unite 2005 – Nullità intese restrittive
GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA Intese restrittive CASSAZIONE CIVILE, sez. un., 4 febbraio 2005, n. 2207 Pres. Carbone - Rel. Berruti - P.M. Iannelli (conf.) - Compagnia Assicuratrice Unipol s.p.a. (avv.ti Tonucci, Frignani, Irti) c. R. (avv. De Pascale) Concorrenza - Divieto di intese restrittive della libertà di concorrenza - Dichiarazione di nullità - Risarcimento del danno - Legittimazione attiva dei consumatori finali - Competenza della Corte d’appello (Art. 33, c. 2, l. 287/90) L’intesa vietata ha una possibile valenza plurioffensiva e può pertanto ledere, oltre alla struttura concorrenziale del mercato, anche il patrimonio del singolo, concorrente o meno dell’autore o degli autori dell’intesa. La legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti di mercato, ovvero di chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo. Chi allega il comportamento di mercato tenuto da un imprenditore tale da ledere la struttura concorrenziale del medesimo e ne chieda dunque la dichiarazione di nullità, presupposto dell’eventuale risarcimento, deve rivolgersi alla Corte d’appello. La ratio della dichiarazione di nullità di cui all’art. 33 l. n. 287/90 è di togliere alla volontà anticoncorrenziale «a monte» ogni funzione di copertura formale dei comportamenti «a valle», e dunque di impedire il conseguimento del frutto della intesa consentendo anche nella prospettiva risarcitoria la eliminazione dei suoi effetti. …Omissis… Motivi della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso la U. deduce la violazione dell’art. 33, comma 2, della legge n 287 del 1990 e dell’art. 2033 c.c. nonché la motivazione omessa, illogica ed insufficiente sul punto del rigetto della sua eccezione di incompetenza per materia del giudice adito. Sostiene che il primo giudice ha errato nel ritenere che legittimati alla azione prevista dalla legge antitrust possano essere solo gli imprenditori esclusi dal cartello e pertanto da questo danneggiati, ed ha errato ancora nel qualificare l’azione in parola come restitutoria e dunque estranea alla previsione di cui all’art. 33 della l. antit. Sostiene infatti che la legge ha attribuito alla Corte d’appello in unico grado di merito una competenza, ratione materiae, che prescinde dai soggetti che esercitano il relativo diritto. Deduce pure che siffatto criterio di competenza non può essere eluso attraverso la qualificazione della domanda come restitutoria anziché risarcitoria, giacché anche la restituzione del cosiddetto sovrapprezzo seguirebbe ad una nullità, almeno derivata, del contratto concluso tra la società assicuratrice ed il cliente automobilista, e l’accertamento di tale nullità è devoluto alla Corte d’appello. 1.a. Osserva il collegio che le due questioni proposte, quella relativa alla legittimazione ad agire e quella relativa alla posizione giuridica dei contratti conclusi tra impresa assicuratrice e cliente “a valle” dell’accordo illecito tra gli imprenditori, costituiscono aspetti del medesimo problema. Ciò in quanto la posizione giuridica del terzo, estraneo all’intesa, che afferma di averne subito gli effetti ne determina la legittimazione ad agire. Tali questioni vanno trattate, pertanto, con una visione complessiva della materia che, movendo da una corretta nozione di intesa, consenta di definire la posizione di quegli che non vi ha partecipato. 1.b. La legge n 287 del 1990, come è noto, rappresentò una novità nel panorama nazionale che, pur nella vigenza del Trattato Ce e dunque anche dei principi desumibili dagli artt. 85 (oggi 81) e ss., era tuttavia imperniato sulla logica codicistica della concorrenza sleale, e dunque sulla tutela dell’imprenditore dalla attività scorretta del concorrente. Infatti benché anche la tutela suddetta si sia evoluta nella interpretazione della dottrina e dei giudici facendo sì che si attenuasse fortemente l’originaria impronta deontologica e corporativa e si prendesse atto della nozione costituzionale del mercato come luogo della libertà di impresa che attribuisce un rilievo pubblico anche al conflitto interindividuale (Cass. n. 11859/97), essa conserva il carattere fondamentale di strumento di tutela del corretto rapporto di concorrenza. La sussistenza di siffatto rapporto tra le parti che controvertono innanzi al giudice è il presupposto della sua operatività e mantiene pertanto la dimensione essenzialmente interindividuale dei conflitti. La normativa che difende l’imprenditore dalla concorrenza sleale, dunque, ancorché la si possa ritenere consapevole della dimensione necessariamente concorrenziale del mercato, provvede pur sempre alla riparazione dello squilibrio che ad uno specifico rapporto di concorrenza viene cagionato dalla scorrettezza di un concorrente. CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 333 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA La novità del Trattato CE è stata l’introduzione della tutela della struttura e della logica competitiva del mercato. Questo, in quanto luogo nel quale si esplicita la pretesa di autoaffermazione economica della persona attraverso l’esercizio della impresa, è perciò stesso luogo della competizione, cosicché ogni comportamento di mercato, che riduce tale competitività perché diminuisce la possibilità per chiunque di esercitare liberamente la propria pretesa di autoaffermazione, è illecito. In particolare, poiché l’esercizio della concorrenza presuppone l’autonomia delle imprese concorrenti nell’esercizio delle rispettive scelte di mercato, è illecito ogni fatto che porta a ridurre questa autonomia, assimilando o avvicinando i comportamenti di mercato all’esecuzione di accordi antecedenti ovvero comunque conformandoli oggettivamente ad un certo grado di collaborazione che sostituisce o riduce la competizione. 1.c. Detta affermazione merita qualche ulteriore considerazione. L’art. 2 della legge antitrust chiarisce che “sono considerati intese” una serie di comportamenti, come gli accordi, le pratiche concordate ed addirittura le deliberazioni di consorzi ed associazioni di imprese. Essi sono vietati se hanno “per oggetto o per effetto di ridurre o falsare in modo consistente il gioco della concorrenza...” Pertanto se al di là della loro veste giuridico formale, tali attività in realtà mirano ad eliminare ovvero addirittura eliminano o riducono la autonomia di mercato dei soggetti che le compiono, esse integrano l’illecito di cui si tratta. La norma si conclude, al n. 3, con la perentoria statuizione: “le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”. L’elencazione del n. 2 dell’art. 2 in parola, considerata esemplificativa, sorregge la lettura della norma innanzi anticipata giacché consente all’interprete di delineare i tipi dei comportamenti anticompetitivi. Le fattispecie elencate, e cioè la fissazione diretta o indiretta dei prezzi di acquisto o di vendita ovvero di altre condizioni contrattuali, l’impedimento e la limitazione della produzione o dello sbocco o dell’accesso al mercato, l’impedimento degli investimenti e dello sviluppo tecnico delle imprese, tutte le forme di ripartizione dei mercati o delle fonti di approvvigionamento, l’applicazione di condizioni ingiustificatamente diverse a categorie di imprenditori omogenee, l’imposizione nei contratti con i concorrenti di prestazioni prive di relazione con la natura del rapporto, sono classici comportamenti anticompetitivi. La loro funzione è di sostituire all’esercizio individuale, e perciò stesso libera del potere di impresa, un potere esercitato collettivamente, estraneo alle forme societarie nelle quali si esercita l’impresa collettiva ed esente dai controlli che la legge in proposito prevede. Tali pratiche rafforzano la posizione dei loro autori riducendo l’efficacia della concorrenza da parte degli esclusi ed eliminando quella tra i partecipi. 1.d. Va osservato ancora che la legge n. 287 del 1990, la quale ai sensi della prima parte dell’art. 1 deve essere 334 CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 letta come attuazione dell’art. 41 Cost., deve peraltro essere interpretata in base ai principi dell’ordinamento comunitario. Pertanto in armonia con la norma del Trattato (vedi quanto alla cosiddetta regola de minimis nel diritto comunitario della concorrenza causa Sirena, 40/70 sent 18 febbraio 1971 e causa Volk n. 5/69, sent. 9 luglio 1969) essa fa rilevare una dimensione quantitativa della intesa traducendola in carattere della stessa. La legge vieta le intese che abbiano per effetto o per oggetto di impedire, restringere o falsare “in maniera consistente” il gioco della concorrenza “all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante”. La norma ripete quasi letteralmente il tenore dell’art. 61 del Trattato, salvo che per la norma comunitaria la rilevanza quantitativa è data ovviamente dall’ambito comunitario. Ma ciò che conta rispetto al problema che ne occupa è il rilievo dimensionale della fattispecie, che si spiega con il fatto che oggetto della tutela della legge n. 287 del 1990, come già del Trattato, è appunto la struttura concorrenziale del mercato di riferimento, la quale ragionevolmente non viene messa in discussione da un comportamento che per quanto ontologicamente rispondente alla fattispecie di cui si tratta, per la sua dimensione, non incide significativamente sull’assetto che trova. In definitiva, poiché, come è stato scritto argutamente, la legge non si occupa dell’intesa tra i barbieri di piccolo paese, il dato quantitativo conferma che oggetto immediato della tutela della legge non è il pregiudizio del concorrente ancorché questo possa essere riparato dalla repressione della intesa (cfr. quanto al pregiudizio al commercio comunitario, presupposto di applicabilità dell’art. 81, causa Grundig n 58 del 1964, sentenza 13 luglio 1966, e causa Montecatini, C 235/92, sentenza 8 luglio 1999, ex multis), bensì un più generale bene giuridico. Tuttavia tale più ampia tutela accordata dalla legge nazionale antitrust, in armonia con il Trattato, non ignora la plurioffensività possibile del comportamento vietato (cfr. Cass. n. 827 del 1999). Un’intesa vietata può ledere anche il patrimonio del singolo, concorrente o meno dell’autore o degli autori della intesa. Ciò spiega che la legge n. 287 del 1990 all’art. 33, che contiene tanto una norma di giurisdizione, quanto una norma di competenza, si preoccupi con quest’ultima di individuare anche il giudice dell’accertamento della nullità, che è il presupposto della eliminazione del pregiudizio in una prospettiva esplicitamente risarcitoria. La legge infatti mentre affida al G.A. (Tar del Lazio) la giurisdizione sulle impugnative avverso le deliberazioni della Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, stabilisce pure che: «Le azioni di nullità e di risarcimento del danno, nonché i ricorsi intesi ad ottenere provvedimenti di urgenza in relazione alla violazione delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV sono promossi davanti alla Corte d’appello competente per territorio». GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA Alla Corte d’appello, dunque, deve rivolgersi chi allega il comportamento di mercato tenuto da un imprenditore tale da ledere la struttura concorrenziale del medesimo, e dunque ne chieda la dichiarazione di nullità presupposto dell’eventuale risarcimento (Cass. n. 827 del 1999). 1.e. Va appena osservato che siffatta struttura della giurisdizione che comunque risale alla repressione della intesa appare datata, perché influenzata dalla impostazione che al momento in cui la legge venne emanata era dominante. La previsione, che risale alla concezione del doppio binario di tutela di cui alla legge sul Contenzioso amministrativo del 1865 n. 2248 artt. 4 e 5, non a caso appare coerente con quella contenuta nella legge comunitaria n. 142 del 1992 che, all’art. 13, regolando la tutela giurisdizionale conseguente alla violazione della normativa comunitaria in materia di appalti pubblici, stabiliva che il risarcimento del danno poteva essere domandato al G.O. da parte di quegli che avesse ottenuto dal G.A. l’annullamento dell’atto amministrativo. Detta norma è stata abrogata dall’art. 35 ultimo comma del d.lgs. n. 80 del 1998 (abrogazione confermata dall’art. 7 lettera c) della legge n. 205 del 2000), ma soprattutto l’assetto della giurisdizione ancora riconoscibile agli inizi degli anni novanta è stato superato dalla legge e dalla giurisprudenza del giudice delle leggi (Corte cost. nn. 204 del 2000 e 281 del 2004). Ciò contribuisce a spiegare come, attribuendo al G.A. la giurisdizione sull’atto di AGCM, e dunque nell’ambito di questa il potere di dire se l’intesa affermata si è realizzata, la legge antitrust n. 287 del 2000 abbia voluto accorciare il giudizio di merito introdotto da una domanda di nullità e il conseguente risarcimento del danno stabilendo un unico grado innanzi alla Corte d’appello competente per territorio. Cosicché anche quegli che non ha partecipato al giudizio innanzi al Tar, perché non ha resistito alla impugnativa della sanzione irrogata da AGCM, proposta dall’affermato autore della intesa, o non vi ha potuto partecipare perché in quella sede era carente di interesse, si trova a perdere un grado di giudizio allorché si rivolge al GO. Situazione processuale che non trova ostacoli di carattere costituzionale (art. 125 Cost.), e che comunque appare coerente con l’esigenza di favorire la sollecita soluzione di controversie che attengono all’assetto del mercato. 1.f. Sembra a questo punto al collegio di potere esprimere talune conclusioni, utili alla soluzione dei quesiti ad esso sottoposti. La diversità di ambito e di funzione tra la tutela codicistica della concorrenza sleale e quella innanzi detta della legge antitrust esclude si possa negare la legittimazione alla azione davanti al G.O. ai sensi dell’art. 33 n. 2 della legge n. 287 del 1990, al consumatore, terzo estraneo alla intesa. Contrariamente a quanto ritenuto da Cass. 17475 del 2002, la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del marcato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere. Pare opportuno notare peraltro che mentre siffatta esclusione della legittimazione in parola non è prevista espressamente dalla legge, questa peraltro, all’art. 4, laddove prevede il potere discrezionale della AGCM di autorizzare un’intesa che possiede i caratteri che giustificherebbero il divieto, indica tra i presupposti della discrezionalità “il beneficio del consumatore”. La legge dunque non ignora, nella materia della intesa, l’interesse del consumatore al punto da prevedere una ipotesi in cui esso, alla cui tutela la ideologia antitrust è funzionale, può essere tutelato per un “periodo limitato” addirittura da un allentamento del divieto del più classico comportamento anticoncorrenziale. Il consumatore, che è l’acquirente finale del prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene. Pertanto la funzione illecita di una intesa si realizza per l’appunto con la sostituzione del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente. E ciò quale che sia lo strumento che conclude tale percorso illecito. A detto strumento non si può attribuire un rilievo giuridico diverso da quello della intesa che va a strutturare, giacché il suo collegamento funzionale con la volontà anticompetitiva a monte lo rende rispetto ad essa non scindibile. Va detto pure, atteso il rilievo interpretativo dei principi dell’ordinamento comunitario nella materia, che la sentenza della Corte di giustizia, Courage, (n. 453 del 1999) tende ad ampliare l’ambito dei soggetti tutelati dalla normativa sulla concorrenza, in una prospettiva, sembra al collegio, che valorizza proprio le azioni risarcitorie, quali mezzi capaci di mantenere effettività alla struttura competitiva del mercato. 1.g. È appena il caso di precisare dal momento che la sentenza impugnata sembra sovrapporre le due figure, che quanto fin qui espresso non è contraddetto dalla considerazione dell’abuso di posizione dominante, che è fattispecie diversa da quella che rileva nella controversia e che dunque non viene in esame. 1.h. Nella delineata prospettiva dunque il contratto cosiddetto “a valle” costituisce lo sbocco della intesa, essenziale a realizzarne gli effetti. Esso in realtà, oltre ad estrinsecarla, la attua. È ben vero, come si fa rilevare in atti, che la legge vieta anche le intese che abbiano anche solo per “oggetto” la distorsione di cui si tratta, oltre che per “effetto”, ma ciò si spiega in considerazione del doppio livello di intervento che essa prevede, quello amministrativo della AGCM e quello riparatorio di cui alla azione di nullità e risarcimento. L’Autorità Garante è organo di Amministrazione, ancorché caratterizzato da ampiezza di poteri sui generis. Essa opera anche in vista di un pericolo, CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 335 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA e dunque in considerazione della esigenza economica di prevenire l’effetto distorsivo del fenomeno di mercato. Il giudice, che dirime controversie e non si occupa di fenomeni, può essere officiato solo in presenza o in vista almeno di un pregiudizio. Dunque innanzi alla Corte d’appello deve essere allegata un’intesa di cui si chiede la dichiarazione di nullità, ed altresì il suo effetto pregiudizievole, il quale rappresenta l’interesse ad agire dell’attore secondo i principi del processo, da togliere attraverso il risarcimento. Il contratto cosiddetto “a valle”, ovvero il prodotto offerto al mercato, del quale si allega, come nel caso di specie, la omologazione agli altri consimili prodotti offerti nello stesso mercato, è tale da eludere la possibilità di scelta da parte del consumatore. La realizzazione consapevole di siffatta situazione rientra in modo strutturale nel comportamento oggettivo di mercato che giustifica la azione individuale di cui all’art. 33. Pertanto la previsione del risarcimento del danno sarebbe meramente retorica se si dovesse ignorare, considerandolo circostanza negoziale distinta dalla cospirazione anticompetitiva e come tale estranea al carattere illecito di questa, proprio lo strumento attraverso il quale i partecipi alla intesa realizzano il vantaggio che la legge intende inibire. Se un’intesa fosse ancora nelle intenzioni dei partecipi e non avesse dato ancora luogo ad alcun effetto, mentre vi sarebbe spazio, a parte la difficoltà dell’indagine, per la proibizione e la sanzione da parte di AGCM, giacché la legge, giova rammentare, vieta gli accordi che abbiano per oggetto oltre che per effetto la distorsione della concorrenza, non vi sarebbe interesse da parte di alcuno ad una dichiarazione di nullità ai sensi dell’art. 33 della legge n. 287 del 1990, la cui ratio è di togliere alla volontà anticoncorrenziale “a monte” ogni funzione di copertura formale dei comportamenti “a valle”. E dunque di impedire il conseguimento del frutto della intesa consentendo anche nella prospettiva risarcitoria la eliminazione dei suoi affetti. 1.i. Non conduce a conclusione diversa nemmeno la considerazione della fattispecie restitutoria di cui all’art. 2033 c.c. Come è noto essa si distingue dalla fattispecie risarcitoria di cui all’art. 2043 c.c. per l’assenza di qualunque profilo di colpa o dolo nell’accipiens (Cass. 3060 del 1984). Orbene, una parte che chiede dichiararsi la nullità di una intesa, allega un fatto illecito nella cui struttura vi è l’elemento psicologico del dolo o della colpa. Pertanto, quale che sia la forma della domanda di ripristino della situazione patrimoniale che si assume lesa, essa prescinde dalla fattispecie di indebito oggettivo. Quegli che chiede la restituzione di ciò che ritiene di avere pagato in esecuzione di un negozio concluso per effetto della intesa nulla, allega pur sempre quest’ultima e l’impossibilità giuridica che essa produca effetti. Ritiene pertanto la Corte, poiché la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico 336 CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 integra, almeno potenzialmente il danno ingiusto ex art. 2043c.c. (S.U. n. 500 del 1999), che colui che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione a monte, ancorché non sia partecipe ad un rapporto di concorrenza con gli autori della collusione, ha a propria disposizione, l’azione di cui all’art. 33 della legge n. 287 del 1990. Cosicché, pare utile precisare conclusivamente, a qualificare la domanda ed a determinare la competenza nel caso che ne occupa è la richiesta di accertamento di una intesa e quindi di dichiararla nulla, presupposto della domanda di eliminarne gli effetti anche attraverso l’eliminazione del sovrapprezzo. Pertanto, poiché le sentenze del giudice di pace ancorché emesse secondo equità sono soggette al rispetto delle norme di rito tra le quali quelle che attengono alla competenza del giudice (Cass. 10486 del 2001 ex multis) e dei principi informatori della materia (Cass. n. 743 del 2005) quali nella specie quelli che definiscono l’intesa vietata e la sua struttura e, rispetto a questa, le posizioni dei terzi, il motivo esaminato è fondato. Pertanto, la competenza a conoscere della causa, è della Corte d’appello di Napoli, come peraltro, sia pure in subordine, chiede la stessa ricorrente. Ciò in quanto il privato ha adito il Giudice di pace di Avellino ai sensi degli artt. 19 e 20 c.p.c., come pure afferma la ricorrente, ovvero invocando i fori alternativi da esse norme previsti. ... Omissis ... GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA LA TUTELA CIVILE ANTITRUST DOPO LA SENTENZA N. 2207/05: LA CASSAZIONE ALLA RICERCA DI UNA DIFFICILE ARMONIA NELL’ASSETTO DEI RIMEDI DEL DIRITTO DELLA CONCORRENZA di Ilaria Pagni Le Sezioni Unite sciolgono i tradizionali nodi problematici della relazione tra disciplina della concorrenza e tutela del soggetto estraneo all’intesa, ma aprono nuovi fronti al dibattito. L’attenzione si sposta sul rapporto - che nella pronuncia della Corte assume un significato non perspicuo - tra accertamento della nullità e azione risarcitoria. Alcuni spunti offerti dalla Cassazione aiutano a ricomporre il mosaico delle tutele previste o semplicemente evocate dall’art. 33 della legge n. 287/90, consentendo, a parere dell’Autrice, di inserire nella sfera di competenza della Corte d’appello l’azione di accertamento dell’illiceità della condotta e dell’obbligo di non tenere ulteriori comportamenti lesivi, l’azione inibitoria, l’azione di nullità e quella restitutoria, e infine l’azione di risarcimento del danno, indipendentemente da chi, impresa o consumatore, tali azioni vada a proporre. 1. È norma tanto ambigua, quella su cui è intervenuta la Cassazione nella sentenza che si commenta, da giustificare i continui interrogativi e le inevitabili polemiche che fin dall’inizio ha sollevato. (1) Il cerchio aperto dalle sentenze delle sezioni semplici tra il 2002 e il 2003 (2) prova così a chiudersi, anche se a questo punto occorre una rimeditazione finale su quale sia, attualmente, l’assetto dei rimedi civili nell’art. 33 della l. 10 ottobre 1990, n. 287. La norma, com’è noto, disciplina la competenza giurisdizionale in presenza di violazioni della normativa antitrust, attribuendo in modo espresso alla giurisdizione ordinaria e alla competenza ratione materiae della Corte d’appello i soli giudizi di nullità e risarcimento del danno, nonché i ricorsi intesi ad ottenere provvedimenti d’urgenza in relazione alle suddette violazioni. La previsione di un giudizio in unico grado dinanzi alla Corte, unita all’indicazione, nominatim, delle singole azioni proponibili, ha prodotto quell’inestricabile intreccio tra problemi di tutele e attribuzioni di competenza che, in questi anni, ha costretto gli interpreti a tentare per le vie più diverse la ricomposizione del sistema, senza esiti soddisfacenti. Due sono i quesiti che soprattutto hanno affaticato la giurisprudenza, inducendo alle risposte più disparate nell’attesa di un pronunciamento della Corte Suprema: se il legislatore del ‘90 intendesse escludere dal novero delle azioni ammissibili quelle che non ha riconosciuto espressamente al giudice ordinario - prima fra tutte, la domanda inibitoria rivolta a contrastare in via definitiva, e non già soltanto cautelare e provvisoria, l’azione lesiva - o se, invece, la norma avesse natura meramente esemplificativa, con la conseguenza (ulteriore) di demandare ogni rimedio esperibile alla speciale competenza della Corte d’appello; questione, questa, che si è intrecciata non senza confusioni con l’altra, dell’individuazione dei legittimati alle azioni che reagiscono alla condotta anticoncorrenziale, stante l’incertezza sui soggetti, diversi dall’imprenditore concorrente pregiudicato dalla pratica vietata, cui sia possibile estendere le forme di tutela contemplate dalla legge. Il tutto condizionato dall’oggettiva difficoltà di stabilire, in un contesto normativo che sotto questo profilo non brillava certo per chiarezza, se i rimedi immaginati all’art. 33 (e, in particolare, l’azione risarcitoria e quella inibitoria, ponendo la nullità problemi diversi, di rapporto tra l’accordo illecito raggiunto a monte e i contratti stipulati a valle) presupponessero la lesione di diritti che l’ordinamento già altrove riconosce o se invece, proprio attraverso le previsioni sostanziali della l. n. 287/90, siano stati attribuiti diritti soggettivi nuovi, dal peculiare contenuto, ai soggetti coinvolti a vario titolo nelle dinamiche mercantili (per esempio, il diritto della controparte di un’impresa a che questa eserciti la propria attività nel pieno rispetto delle regole di correttezza nella competizione). Note: (1) Indicativo, in proposito, è il dibattito, dai toni particolarmente accesi, che è stato ospitato tra lo scorso e questo anno sulle pagine della rivista Danno e Responsabilità, e che denota le difficoltà con cui deve fare i conti ogni tentativo - compreso quello odierno della Cassazione - di razionalizzare l’assetto dei rimedi civili in materia antitrust (cfr. C. Castronovo, Antitrust e abuso di responsabilità civile, ivi, 2004, 469 ss., e Id., Responsabilità civile antitrust: balocchi e profumi, ibid., 1165 ss.; M. Libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti a violazioni di norme antitrust, ibid., 933 ss. Id.; Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), ivi, 2005, 237). (2) Con le pronunce della prima sezione, 9 dicembre 2002, n. 17475, in questa Rivista, 2003, 3, 339, con nota di I. Nasti, Tutela risarcitoria del consumatore per condotta anticoncorrenziale: una decisione difficile; e ibid., 747, con nota di M. Negri, Risarcimento del danno da illecito antitrust e foro per la tutela del consumatore (la Cassazione non dilegua i dubbi nella vicenda RCauto); vedila inoltre in Foro it., 2003, I, 1121 ss., con commento di A. Palmieri, Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del consumatore finale: argomenti «extravagantes» per un illecito inconsistente; e di E. Scoditti, Il consumatore e l’antitrust; e della terza sezione, ord. 17 ottobre 2003, n. 15538, in Foro it., 2003, I, 2938 (vedila anche in Id.,. 2004, I, 466 ss., con commenti di R. Pardolesi, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibnitz a Sansone?; F. Ferro-Luzzi jr. Prolegomeni in tema di mercato concorrenziale e «aurea aequitas» (ovvero delle convergenze parallele); e G. Guizzi, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori. Una relazione ancora da esplorare; nonché in Riv. dir. comm. 2003, 330 ss., con commenti di G. Vettori, Consumatori e mercato, A.M. Azzaro, Intese restrittive della concorrenza e (contr)atti in danno del consumatore, e M.R. Maugeri, Sulla tutela di chi conclude un contratto con un’impresa che partecipa ad un’intesa vietata) CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 337 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA Tale era, insomma, la congerie delle questioni evocate dall’art. 33, comma 2, l. n. 287/90 che difficilmente, anche dopo l’intervento delle sezioni unite, potremo dire di essere arrivati al capolinea. Nonostante lo sforzo profuso, infatti, non prevedo che la sentenza della Cassazione riuscirà a sopire del tutto il dibattito provocato da una disciplina che corre sul filo dell’acrobazia tra novità (la necessità di regolare il conflitto di interessi tra imprese e consumatori) e tradizione (l’essere rivolta alla concorrenza, che come tale è categoria dell’impresa). Né riuscirà ad eliminare fino in fondo la sensazione che, in questa materia, a differenza che in altre, la tutela specifica e quella risarcitoria siano accomunate dallo stesso destino: quello di trovarsi in un limbo nel quale l’intreccio tra problemi di competenza e di legittimazione, da un lato, e l’incertezza tra tipicità e atipicità dell’azione, dall’altro, hanno fatto perdere, almeno fino ad oggi, la speranza di recuperare qualsiasi coerenza all’assetto dei rimedi avverso l’illecito antitrust. Tuttavia la pronuncia in commento un significativo passo avanti l’ha compiuto, sicché conviene partire da quello, pur nella convinzione che la Cassazione si sia mossa alla ricerca di una semplicità difficile da raggiungere, nell’attuale complessità del nostro diritto processuale antitrust. 2. La sentenza n. 2207/05 ha sciolto il conflitto creatosi in seno alla Corte sull’appartenenza o meno alla competenza in unico grado della Corte d’appello della controversia promossa dal consumatore, che chieda la nullità di un’intesa restrittiva della concorrenza o il risarcimento dei danni ad essa conseguenti. Sulla questione, e più in generale sulla posizione dei consumatori rispetto all’illecito antitrust, la Corte di cassazione si era pronunciata in due diverse occasioni, offrendo letture opposte delle regole di competenza applicabili all’azione di risarcimento danni derivati al contraente finale dalla pratica distorsiva della concorrenza, e determinando così la rimessione degli atti al primo presidente della Corte di cassazione, affinché ne valutasse l’opportunità di assegnazione alle sezioni unite. In una, la prima sezione, (3) negando la configurabilità nella legge antitrust di un diritto soggettivo in testa ai consumatori finali, traducibile nell’azione di nullità o di risarcimento, (4) aveva rinvenuto nell’azione risarcitoria che eventualmente spettasse al consumatore i caratteri di un’ordinaria azione di responsabilità, soggetta perciò ai normali criteri di competenza; nell’altra, la terza sezione, rilevando che è la materia ad individuare la competenza, aveva viceversa ritenuto che la competenza in unico grado della corte d’appello conseguisse al solo fatto della proposizione di un’azione di nullità o di risarcimento del danno per la violazione delle disposizioni antitrust, anche da parte del consumatore, il quale, domandando «la nullità dell’intesa o il risarcimento per la pratica anticoncorrenziale per ciò stesso si legittima all’azione ex art. 33, comma 2 l. n. 287 del 1990, mentre il resto costituisce questione di merito». (5) 338 CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 Sulla correttezza di questa conclusione, a mio avviso, non possono esserci dubbi: ove la richiesta risarcitoria affondi la propria causa petendi nell’accordo anticoncorrenziale, è difficilmente contestabile che l’azione promossa dal consumatore rientri a pieno titolo tra quelle per cui è contemplata la speciale competenza della Corte d’appello. E anche se si reputa, come ha fatto la prima sezione, che a configurare un danno risarcibile nelle ricadute pregiudizievoli di un’intesa restrittiva della concorrenza non possa bastare la sussistenza dell’intesa vietata, a monte dell’operazione conclusa dal consumatore, ma occorra l’esistenza dei requisiti essenziali per la responsabilità dell’impresa (segnatamente il danno e il nesso di causalità), e un interesse giuridicamente rilevante in capo al consumatore, non vedo come questo potrebbe portare ad altra conclusione, per il caso in cui quei presupposti non siano ravvisabili, che al rigetto nel merito della pretesa avanzata. È dal 1987, del resto, che la Cassazione (6) ha riconosciuto che nei rapporti tra privati l’assenza di una situazione giuridicamente rilevante determina il sorgere di una questione di merito e non una di giurisdizione (o, come in questo caso, di competenza). Perciò, delle due l’una: o manca qualsiasi interesse da far valere in funzione dell’azione aquiliana (e allora la domanda dovrà giudicarsi infondata) o sarà ravvisabile un diritto soggettivo preesistente del consumatore, leso dalla condotta antigiuridica (e allora non si vede come l’azione risarcitoria eventualmente spettante possa rivestire «per ciò stesso, i caratteri ordinari di un’ordinaria azione di responsabilità soggetta agli ordinari criteri di competenza, e non quelli dell’azione ex art. 33, comma 2 della legge 287/90, rimessa, in quanto tale, alla cognizione esclusiva della corte di appello in unico grado di merito», come si legge nella pronuncia della prima sezione della Cassazione). La sentenza odierna, sotto questo profilo, è chiarissima: a qualificare la domanda e a determinare la competenza è la richiesta di accertamento dell’esistenza di un’intesa vietata, sia ove l’accertamento sia chiesto in una con la pronuncia di nullità, sia ove esso operi come presupposto della domanda di eliminazione dell’effetto pregiudizievole (il quale rappresenta l’interesse ad agire), da riparare attraverso il risarcimento. Note: (3) Cass., sez. I, 9 dicembre 2002, n. 17475, cit. (4) Ciò - a parere della Corte - «non potendo in alcun modo reagire su di essi l’esistenza in sé delle «intese», le quali - come strumento tecnico operativo - risultano concepite, in quanto tali, solo in funzione di chi appunto (le imprese) le possa concludere, e le abbia in concreto concluse», e non potendosi rendere stravagante rispetto alle azioni di nullità e di inibitoria il solo strumento risarcitorio, il quale non può «non lasciare presupporre esso stesso una tipologia di danni strettamente connessa alle tematiche dell’impresa e della sua presenza nel mercato». (5) Cass., sez. III civ., ord. 17 ottobre 2003, n. 15538, cit. (6) Cass., 15 giugno 1987, n. 5256, in Foro it., 1988, I, 3393 ss., con nota di Iannicelli. GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA Altrettanto netta è la pronuncia laddove afferma che la legge antitrust è la legge di tutti i soggetti del mercato, ossia di chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del carattere competitivo dello stesso, e possa allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere. Tra questi soggetti, secondo la Corte, vi è anche il consumatore, e lo si ricava, a tacer d’altro, dall’art. 4 l. n. 287/90, che tra i criteri di esercizio del potere discrezionale dell’Autorità (nell’autorizzazione di intese altrimenti da vietare) individua la circostanza che le pratiche possano dar «luogo a miglioramenti nelle condizioni di offerta del mercato i quali abbiano effetti tali da comportare un sostanziale beneficio per i consumatori». Quanto alla conseguenza pregiudizievole dell’intesa rispetto al consumatore, essa deve cogliersi, per la Corte, nel fatto che determini la sostituzione del diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente: tanto che, in quest’ottica, il contratto a valle attuerebbe addirittura l’intesa. 3. Dove la sentenza in commento è invece assai meno chiara (ma, del resto, non era quella la questione che doveva risolvere) è sul modo in cui debbano intendersi esattamente le azioni del singolo, concorrente o meno dell’autore o degli autori dell’intesa, e in particolare il rapporto che corre tra l’azione di nullità (nel cui accertamento la Corte ravvisa «il presupposto della eliminazione del pregiudizio in una prospettiva esplicitamente risarcitoria») e l’azione di risarcimento. Né particolarmente chiara è l’influenza che avrebbe avuto sull’introduzione di un giudizio in unico grado dinanzi alla Corte d’appello, l’assetto dei rapporti tra giudice ordinario e giudice amministrativo esistente al momento dell’emanazione della legge del ‘90 e risalente «alla concezione del doppio binario di tutela di cui alla legge sul Contenzioso amministrativo del 1865 n. 2248», nel quale la tutela risarcitoria veniva richiesta al giudice ordinario una volta ottenuto l’annullamento dell’atto amministrativo. Iniziando da questo secondo passaggio, è pacifico che dinanzi al giudice amministrativo vadano le imprese colpite dai provvedimenti dell’AGCM, per sentirne dichiarare l’illegittimità, trattandosi di provvedimenti di natura repressivo-sanzionatoria, rivolti, in quanto tali, alle sole autrici dell’illecito; (7) e che ai portatori dell’interesse pubblico o privato, anche diffuso, in ordine alla questione già oggetto del procedimento dinanzi all’Autorità (tra cui i consumatori) sia riconosciuta una posizione non differenziata, o, al massimo, la titolarità di un interesse, mediato e riflesso, alla conservazione del provvedimento impugnato, che ne giustifica al più l’intervento ad opponendum. (8) Non è affatto pacifico, invece (prevalendo semmai la tesi contraria), che il provvedimento del giudice amministrativo che riconosce legittimità alla sanzione abbia efficacia condizionante dell’esito del giudizio dinanzi al giudice ordinario. (9) Per quale ragione, allora, l’attribuzione alla giuris- dizione speciale del «potere di dire se l’intesa affermata si è realizzata» dovrebbe spiegare perché la legge antitrust abbia voluto accorciare il giudizio di merito introdotto da una domanda di nullità e di conseguente risarcimento del danno (sia pure nel regime anteriore alle modifiche apportate alla giurisdizione nel ‘98 e nel 2000), con tutta la buona volontà non è dato capire. Né è semplice comprendere, con ciò venendo al primo passaggio, neppure se, a parere delle sezioni unite, nel giudizio ordinario l’azione risarcitoria presupponga necessariamente la dichiarazione di nullità, la cui ratio sarebbe quella di «togliere alla volontà anticoncorrenziale «a monte» ogni funzione di copertura formale dei comportamenti «a valle»». (10) L’argomentare della Corte Suprema, in alcuni passaggi, sembra quasi tradire l’idea che il doppio accertamento (da parte del giudice amministrativo e della Corte d’appello) dell’esistenza dell’intesa vietata fosse necessariamente alla base, in mente legislatoris, della domanda di risarcimento. E che oggi, con tutto quel che è accaduto nel rapporto tra tutela specifica invalidante e tutela risarcitoria nel diritto amministrativo, (11) il ruolo del primo accertamento sia rimasto nell’ombra, mantenendosi salda soltanto la rilevanza del secondo. Dopo la sentenza in commento, dunque, sciolti (talora in modo gordiano) i tradizionali nodi problematici della relazione tra disciplina della concorrenza e tutela del soggetto estraneo all’intesa, si sono aperti nuovi fronti al dibattito. L’interrogativo non sembra essere più tanto se le norme sostanziali antitrust attribuiscano rilevanza all’interesse del terzo, che vanterebbe, ormai, una Note: (7) Cons. Stato 30 dicembre 1996, n. 1792, in Cons. Stato, 1996, I, 2015. (8) V. sul punto TAR Lazio, sez. I, 11 marzo 2003, n. 1855, sul sito istituzionale della Giustizia amministrativa (cui adde, sez. I, 15 ottobre 1998, n. 2952, in TAR 1998, I, 3910; 28 luglio 1997, n. 1198, id., 1997, I, 2909; nonché A. Zito, Attività amministrativa e rilevanza dell’interesse del consumatore nella disciplina antitrust, Torino, 1998. (9) La tesi minoritaria è sostenuta da G. Oppo, Costituzione e diritto privato nella «tutela della concorrenza», ora in Principi e problemi del diritto privato. Scritti giuridici, VI, Padova, 2000, 87 ss., spec. 95, secondo cui l’intervento dell’Autorità è necessario ad integrare la fattispecie della nullità dell’operazione, perché ne dichiara l’illiceità. Parzialmente diversa la posizione di M. Libertini, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, in Giur. comm., 1998, I, 649 ss., per il quale è soltanto quando l’Autorità si è già pronunciata e i fatti che ha posto a base della propria decisione coincidono con quelli posti a fondamento della propria domanda da chi agisce in sede civile, che la qualificazione della fattispecie data dall’Autorità deve considerarsi in linea di principio vincolante in sede di giudizio. Sull’autonomia del giudizio in sede civile, cfr. invece, ex multis, App. Milano, 29 settembre 1999, in Dir. ind. 1999, 338; App. Milano, 2 luglio 1998, ivi, 57 ss., con nota di M. Lamandini; App. Milano, 5 febbraio 1996, in Giur. dir. ind. 1996, 639 ss. (10) Come si legge nella pronuncia in commento, al § 1.h della motivazione. (11) Su cui v., amplius, si vis, il mio Tutela specifica e per equivalente. Situazioni soggettive e rimedi nelle dinamiche dell’impresa, del mercato, del rapporto di lavoro e dell’attività amministrativa, Milano, 2004, sub cap. V. CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 339 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA sorta di diritto - non è chiaro se relativo o assoluto - alla scelta effettiva tra prodotti in concorrenza; né se l’azione risarcitoria da chiunque promossa, che abbia titolo nell’illecito concorrenziale, ricada nell’alveo di applicazione dell’art. 33 L. 287/90 o abbia piuttosto i caratteri dell’ordinaria azione aquiliana. Il problema, semmai, è cosa significhi, nel pensiero della Corte, che l’accertamento della nullità sia «il presupposto dell’eliminazione del pregiudizio in una prospettiva esplicitamente risarcitoria». Per comprenderlo, dobbiamo ricordare che la l. n. 287/90, quando parla di intese, non si riferisce solo ai contratti in senso tecnico, ma, più in generale, a comportamenti che, coordinando verso un interesse comune le attività economiche dei partecipanti, distorcano il gioco della concorrenza. La legge non si limita a stabilire la nullità del negozio perché il suo intento è illecito, ma prevede che qualunque condotta di mercato, anche realizzata in forme che escludono una caratterizzazione negoziale (come la pratica concordata o la deliberazione consortile assunta in ossequio allo statuto, purché veda la consapevole partecipazione di almeno due imprese, altrimenti ricadendosi, quando vi sia abuso di posizione dominante, nella figura di cui all’art. 3) sia suscettibile di valutazione sotto il profilo dell’illecito (12). Se così è, la comminatoria di nullità dell’intesa vietata dev’essere intesa, più che (o oltre che) a colpire l’efficacia di un accordo concluso in violazione di norme imperative, a rimuovere gli ostacoli al gioco della concorrenza, per impedire il verificarsi in futuro di ulteriori eventi dannosi. In altre parole, il legislatore del ‘90 non avrebbe attaccato l’intesa in quanto tale ma il comportamento illecito realizzato dalla complessiva situazione di fatto, anche successiva all’accordo originario, che ha turbato l’efficienza del mercato; e l’invalidità del negozio sarebbe stata sancita semmai per la necessità di «togliere l’efficacia di legge tra le parti che il negozio possiede per sua natura» (13) o di privare, in ogni caso, «la volontà anticoncorrenziale «a monte» [di] ogni funzione di copertura formale dei comportamenti «a valle»» (14). Di conseguenza, anche l’azione di nullità avrebbe più la funzione di un rimedio volto ad accertare l’illiceità del comportamento, che non quella di una impugnativa negoziale di stampo tradizionale. Ricondotta la dichiarazione di nullità in quest’ambito più limitato, non sorprende più di tanto l’affermazione della Corte per cui la domanda risarcitoria e quella d’invalidità andrebbero sempre di pari passo, o il fatto che non si reputi necessario distinguere tra l’azione con cui è chiesta la restituzione di quanto si ritenga aver pagato in esecuzione del negozio concluso per effetto dell’intesa nulla e l’azione con cui invece semplicemente si invochi, ex art. 2043 c.c., il ripristino della situazione patrimoniale che si assume lesa (e ciò perché, indipendentemente dalla forma della domanda, si allegherebbe pur sempre l’intesa nulla e l’impossibilità giuridica che produca effetti). Quel che la Corte vuol 340 CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 dire è - ritengo - che la domanda di risarcimento o di restituzione ha comunque, nella sua fattispecie, l’accertamento dell’esistenza della pratica vietata, e che questo accertamento può trasformarsi o meno in vera e propria causa pregiudiziale, suscettibile di costituire oggetto di autonoma pronuncia, sol che si tratti (non semplicemente di conoscere dell’esistenza dell’intesa illecita, ma) di statuirne, se necessario, la nullità; risultato cui chiunque, purché titolare di una situazione dipendente e munito del necessario interesse ad agire, può addivenire, a mente dell’art. 1421 c.c. 4. Si potrebbe continuare a discutere a lungo, a questo punto, della natura dell’azione proposta dal contraente finale che chieda la riparazione del danno subito: se si tratti di tutela di natura contrattuale, tutta giocata sui rapporti (di invalidità derivata) tra contratto a valle e intesa a monte, o di tutela aquiliana, in cui l’indiscutibilità del danno subito dal consumatore - costretto, come nella vicenda in commento, a pagare un prezzo maggiorato rispetto a quello che gli sarebbe toccato in regime di libera concorrenza - ha potuto trasformarsi in ingiustizia e porre la questione della risarcibilità dell’interesse giuridicamente rilevante che si riesca a scorgere nelle pieghe della l. n. 287/90, (15) è quesito di difficile soluzione, legato com’è, in fondo, alle opzioni valutative dell’interprete, che preferisca riconoscere al soggetto estraneo all’intesa questo o quell’altro tipo di situazione soggettiva, suscettibile di lesione all’interno di un rapporto contrattuale o al di fuori di esso. In proposito, senza alcuna pretesa di completezza, mi limiterei ad osservare che nella materia di cui si discorre vi è spazio per entrambe le azioni: (16) quella di Note: (12) Cass., sez. I, 1 febbraio 1999, n. 827, in Giur. it., 1999, 1223 ss., con nota di Libonati, e in Riv. dir. comm., 1999, II, 183, con nota di Guizzi. (13) Cass. n. 827/99, cit. (14) Come si legge nella sentenza in commento. (15) In argomento, le posizioni contrapposte sono ben espresse in C. Castronovo, Antitrust e abuso di responsabilità civile, cit., e Id., Responsabilità civile antitrust: balocchi e profumi (secondo cui occorre riflettere sull’inopportunità di invocare il rimedio della responsabilità civile extracontrattuale anche per i consumatori, non ravvisandosi in capo ad essi alcun interesse in funzione di un’azione aquiliana, dovendosi scorgere semmai il rimedio proprio nell’azione di nullità dei contratti a valle) e in M. Libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti a violazioni di norme antitrust, cit. e Id.; Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II) cit. (che ribadisce invece l’idea della responsabilità ex delicto, sul duplice presupposto della natura di atto illecito delle intese vietate e dell’inclusione degli interessi degli utilizzatori finali - imprese o consumatori - dei prodotti oggetto dell’intesa nella serie di interessi tutelati dalla norma che pone il divieto). (16) Per il tentativo di far coesistere, all’interno del sistema dei rapporti antitrust, una tutela risarcitoria di natura aquiliana con un tipo di tutela per così dire interna al contratto, ancorché nell’ottica di un suo riequilibrio, cfr. G. Guizzi, Struttura concorrenziale del mercato, cit. (e già prima in Mercato concorrenziale e teoria del contratto, in Riv. dir. comm., 1999, I, 103 ss.), rispetto alle cui tesi non paiono, a mio avviso, del tutto centrati i rilievi critici avanzati vuoi da Castronovo vuoi da Libertini negli scritti (segue) GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA nullità derivata, quante volte l’oggetto che nasce illecito nel primo contratto che dà corso alle intese rimanga tale lungo l’intera catena negoziale; e quella di risarcimento del danno extracontrattuale, in via sussidiaria quante volte non vi sia spazio per la prima forma di tutela (per difetto dei presupposti dell’invalidità, principale e derivata: ad esempio, per mancanza di un’intesa di natura negoziale dalla cui illiceità far derivare la nullità degli atti negoziali conseguenti, o perché l’oggetto dell’intesa non viene affatto replicato nei contratti a valle), o si voglia convenire in giudizio un soggetto diverso dal proprio contraente diretto, al quale non può essere imputata alcuna responsabilità (trattandosi di un anello della catena di atti o negozi che danno corpo all’intesa, e non di uno dei partecipi della pratica colpita dal divieto), neppure seguendo la falsariga delle azioni di garanzia nelle vendite a catena. Detto questo, però, quel che mi preme davvero evidenziare, per avviare quella rimeditazione complessiva della tutela civile antitrust che dovremo necessariamente intraprendere dopo (e alla luce de) l’intervento della Corte, è che la particolare natura del rimedio della nullità che balenava tra le pieghe della pronuncia della Cassazione del 1999 e che è echeggiata in quella in commento, di fatto accomuna questa forma di tutela specifica, di natura invalidante, all’altro strumento di tutela specifica tanto spesso invocato nella materia antitrust e rappresentato, com’è noto, dalla misura inibitoria (17). Rilievo, questo, che consente di andar oltre la specifica questione esaminata dalle Sezioni Unite per iniziare a sbrogliare, nella prospettiva aperta dalla Corte, l’intreccio delle tutele della disciplina sulla concorrenza. Mi limiterò a poche battute in proposito, trattandosi di questioni che meritano un approfondimento non possibile né utile in questa sede. Quando si afferma che l’azione di nullità ha la funzione di colpire non il negozio giuridico in quanto tale (se non nei limiti in cui occorra «togliere l’efficacia di legge tra le parti che il negozio possiede per sua natura»), ma, piuttosto, l’ostacolo al gioco della concorrenza realizzato dalla complessiva situazione di fatto che determinerebbe il ripetersi in futuro degli eventi dannosi, in realtà si riconosce all’azione d’invalidità, nel particolare contesto dell’illecito concorrenziale (stante la sua natura non necessariamente negoziale), una funzione non dissimile da quella del rimedio inibitorio a carattere definitivo. L’uno, come l’altra, contiene un accertamento dell’illiceità della condotta precedentemente posta in essere, da cui si ricava necessariamente anche l’accertamento dell’obbligo di non compiere ulteriori atti lesivi (anzi, per taluno, (18) in ciò si esaurirebbe la stessa misura inibitoria, e non nella condanna a tenere un comportamento modellato sull’obbligo violato, stante la difficoltà di qualificare sentenza di condanna la pronuncia che abbia ad oggetto l’adempimento di obblighi non suscettibili di esecuzione forzata) (19). E sebbene la nullità abbia anche un’indiscutibile funzione repressiva, più vi- sibile laddove alla dichiarazione di inefficacia del negozio già eseguito debba accompagnarsi la necessaria misura restitutoria, mi sembra indubbio che ad ambedue i rimedi, nella disciplina della concorrenza, venga riconosciuta quella funzione preventiva cui allude la Corte Suprema nell’attribuire all’impugnativa negoziale, quando a ben vedere il negozio non vi sia, il ruolo di azione intesa a far cessare la situazione illecita già in atto. È una circostanza, questa, da non sottovalutare per chi voglia tentare una sistemazione complessiva dell’assetto dei rimedi, implicando un’equiparazione tra nullità ed inibitoria (praticamente fungibili, se si segue la direttrice interpretativa fornita dalla Corte, nella finalità di colpire, con funzione preventiva, l’illecito concorrenziale) che non solo rafforza l’idea di invocare l’analogia, per colmare la lacuna di un diritto antitrust che ha dimenticato di prevedere proprio l’inibitoria, rimedio tipico della disciplina della concorrenza; ma giustifica anche, per quel che più conta ai fini della razionalità Note: (segue nota 16) citati alla nota che precede. Non quelli avanzati dal primo, il quale sembra non cogliere che nella prospettiva di Guizzi, una volta riconosciuta l’esistenza di una situazione soggettiva (di natura probabilmente assoluta) alla conservazione del mercato concorrenziale, lo spazio riservato alla tutela risarcitoria resta fruibile (in aggiunta alla tutela contrattuale nel rapporto col contraente diretto) appunto perché il diritto a che le imprese operino sul mercato rispettando le regole di concorrenza assume la consistenza di un diritto che esiste già prima del sorgere della relazione negoziale con una determinata impresa, anche se la stipula del contratto demarca il sorgere dell’interesse ad agire; ma neppure quelli formulati dal secondo, il quale sembra fraintendere la tesi di Guizzi interpretandola come una negazione della possibilità di riconoscere la legittimazione del consumatore all’azione risarcitoria, mentre essa si caratterizza al vertice solo per un tentativo di dare un fondamento più sicuro, rispetto a quello che è possibile trarre da un’analisi delle sole norme della legge antitrust, alla qualificazione dell’interesse del consumatore ad un mercato concorrenziale come situazione soggettiva individuale giuridicamente protetta. (17) Per una disamina più approfondita del ruolo dell’inibitoria nella legge antitrust, che qui può essere soltanto accennato, v., si vis, il mio Tutela specifica e per equivalente, cit., sub cap. IV. (18) Così, anche da ultimo, A. Attardi, Diritto processuale civile, Padova, 1999, I, 100-101, per il quale «quante volte una disposizione parli, anche implicitamente, di condanna in casi in cui l’esecuzione forzata della sentenza non sia consentita, la si deve interpretare come riferentesi semplicemente all’accertamento mero del diritto fatto valere dall’attore». Ad esempio, nel caso dell’art. 2599 cod. civ., l’inibitoria dovrà intendersi come accertamento dell’obbligo di non compiere ulteriori atti di concorrenza, in relazione al quale si prenderanno le ulteriori misure di cui il citato art. 2599 fa cenno. (19) A ben vedere, ciò che caratterizza l’ordine inibitorio, e ne costituisce la specifica funzione aggiuntiva rispetto all’accertamento, è - come acutamente rileva C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Padova, 2003, 158 (che pur ne ricava una, a mio parere non condivisibile, funzione innovativa analoga a quella delle sentenze costitutive) - soprattutto la efficacia determinativa dell’obbligo generico violato, nel senso che dopo la specificazione giudiziale delle condotte concrete da evitare, «l’azione del soggetto che viola il precetto generico tenendo proprio il comportamento giudizialmente inibito concreta una violazione maggiormente rea e quindi più dannosa, tale anche (all’atto pratico probabilmente) da giustificare una liquidazione dei danni più intensa di quella che si sarebbe avuta prima dell’emanazione dell’inibitoria». CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 341 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA del sistema, ad esito del procedimento analogico, la possibilità di un’attrazione del rimedio non previsto nella sfera della competenza della Corte d’appello. Si avrebbe così, a chiusura del cerchio, l’opportunità di sostenere che con la l. n. 287/90 alla Corte d’Appello è stato demandato, in realtà, pur con una norma mal scritta, l’intero apparato sanzionatorio composto da accertamento, inibitoria, ed eliminazione degli effetti della condotta censurata, che è ben noto agli studiosi del diritto della concorrenza, e che è echeggiato, del resto, nell’art. 3 L. n. 281/98, laddove la norma contempla l’inibitoria degli atti e dei comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori (tra cui il diritto alla correttezza delle relazioni contrattuali, di sapore antitrust), insieme all’adozione di misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate. 5. Gli accenni all’ipotetico scenario dei rimedi aperto dagli interventi della Corte Suprema, e la menzione delle incertezze che sopravvivono a quest’ultima pronuncia, danno ragione del perché - ritengo - la Corte non possa sperare di aver impresso una sorta di sigillo conclusivo al dibattito. Covano, sotto la cenere, scintille in attesa di sprigionarsi (e particolarmente il rischio, che menzionavo, che si attribuisca soverchia importanza al ruolo della dichiarazione di nullità quale presupposto della domanda di risarcimento). Né si è spiegato in modo convincente perché la perdita di un grado di giudizio non dovrebbe preoccupare l’interprete; o quale sia esattamente la natura dell’interesse giuridicamente rilevante che le norme sostanziali antitrust avrebbero riconosciuto al consumatore. È da immaginare, perciò, che i varchi lasciati aperti dalla Cassazione daranno il via a nuovi giri di valzer della dottrina. In questa prospettiva, i rilievi svolti - e in particolare l’accostamento, che mi sembra tutt’altro che azzardato, tra azione inibitoria e azione di nullità, tra azione volta ad eliminare e correggere gli effetti delle violazioni accertate e azione restitutoria - potrebbero forse servire da spunto per ricomporre il mosaico delle tutele evocate esplicitamente o implicitamente dall’art. 33 della legge antitrust, inserendo nella sfera di competenza della Corte d’appello, per gli stretti legami di ciascuna azione con l’altra, l’azione di accertamento dell’illiceità della condotta e dell’obbligo di non tenere ulteriori comportamenti lesivi, l’azione inibitoria, l’azione di nullità e quella restitutoria, e infine l’azione di risarcimento del danno, indipendentemente da chi, impresa o consumatore, tali azioni vada a proporre. In tale sfera - come aveva sottolineato la Cassazione nell’ordinanza di rimessione degli atti al primo Presidente - , (20) spetterà al giudice competente verificare soltanto se la questione sia fondata, perché «il soggetto che domanda la nullità dell’intesa o il risarcimento dei danni [e a questo punto anche le altre azioni che ho ricordato] per ciò stesso si legittimerà all’azione ex art. 33, comma 2, L. n. 287 del 1990», mentre il resto costituisce, appunto, questione di merito. Nota: (20) Cass., n. 15538/2003, cit. IL LENTO CAMMINO DELLA TUTELA CIVILE ANTITRUST: LUCI ED OMBRE DI UN ATTESO GRAND ARRÊT di Marcella Negri Le Sezioni Unite restituiscono finalmente alla disciplina antimopolistica nazionale la sua vocazione di tutela di tutti i soggetti del mercato, non esclusi i singoli consumatori, ribadendo la competenza per materia della Corte d’appello sulle domande risarcitorie, da chiunque proposte, in relazione ai danni asseritamente cagionati da illeciti antitrust (senza che l’interposizione di un contratto individuale, che di quel pregiudizio rappresenta il tramite, possa far velo all’essenziale unitarietà del fenomeno). Meno convincente, invece, risulta la stretta connessione, nella logica seguita dalla Corte, tra le domande di risarcimento del danno extracontrattuale e quelle di nullità, di cui si propugna l’estensione all’intera sequenza comportamentale attuativa dell’accordo vietato. 342 CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 La risarcibilità delle “ricadute” dell’intesa sui consumatori finali … La prima, nel nostro paese, massiccia offensiva dei consumatori contro imprese ritenute responsabili di comportamenti anticoncorrenziali ha rapidamente innescato accese discussioni intorno ai limiti della tutela giurisdizionale civile in materia antitrust: le domande di parziale rimborso (per usare un termine volutamente vago) dei premi, proposte di fronte a moltissimi giudici di pace dai clienti delle assicurazioni sanzionate dall’Autorità garante per un’intesa illecita consistente nello scambio di informazioni commerciali “sensibili” (1), Nota: (1) Con provvedimento sostanzialmente confermato, salva una riduzione delle sanzioni, da Cons. di Stato, 23 aprile 2002, n. 2199, in Foro it., (segue) GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA hanno messo capo, oltre ad una modifica per decreto legge del codice di rito (2), a ben tre interventi del Supremo Collegio, concentrati sulla preliminare questione della determinazione del giudice competente: giudice di pace, appunto, ovvero Corte d’appello in unico grado secondo quanto dispone l’art. 33, comma 2, l. n. 287/90. Come è noto la Suprema Corte (3) ha in un primo tempo concluso, sul presupposto che il fondamento di una eventuale tutela risarcitoria a favore dei consumatori debba cercarsi fuori dalla legge antitrust (senza peraltro fornire indicazione alcuna su tale ipotetico luogo), che le relative domande giurisdizionali non potrebbero in alcun modo ricondursi a quelle attribuite alla competenza in unico grado della Corte d’appello (4) . Della concludenza e dell’intima coerenza del ragionamento poteva a buona ragione dubitarsi, come i numerosi commenti a quella sentenza hanno abbondantemente dimostrato. La successiva “ordinanza interlocutoria” della terza sezione (5), infatti, nel sollecitare un intervento delle Sezioni Unite su “questione di massima di particolare importanza”, evidenziava le molte perplessità suscitate da quella decisione: non solo (e non tanto) perché, a rigore, la determinazione della competenza non dovrebbe essere fatta dipendere dalla fondatezza o infondatezza nel merito della pretesa (nella quale si risolve la questione della “legittimazione” del consumatore finale a pretendere il risarcimento del danno in relazione a condotte asseritamente restrittive della concorrenza (6)); ma soprattutto perché non può affatto darsi per pacifico, in assenza di indicazioni normative espresse, che la legge antitrust non attribuisca al consumatore finale situazioni giuridiche soggettive tutelabili innanzi al giudice civile, mentre la lettera dell’art. 33 comma 2 l. n. 287/90 è del tutto muta circa i soggetti “legittimati”. Il punto focale della diatriba, che le sezioni unite sono state chiamate a dirimere, investe allora in primo luogo la questione se la legge antitrust attribuisca o meno un rilievo civilistico agli interessi dei consumatori, pregiudicati o comunque incisi da condotte restrittive della concorrenza, e poi se la competenza della Corte d’appello sia conseguentemente limitata o meno alle controversie tra imprenditori. Emerge così in primo piano il centrale problema, connaturato (pur nel sensibile variare, a seconda dei contesti normativi, degli itinerari logici e delle categorie dogmatiche (7)) a qualsiasi sistema di tutela della Note: (segue nota 1) 2002, III, 482 ss., con note di Pardolesi, Osti; in Foro amm. CDS, 2002, 977, con nota di Rangone; in questa Rivista, 2003, 491, con nota di Negri; in Giorn. dir. amm., 2003, 358, con nota di Lalli. (2) D.l. 8 febbraio 2003 n. 18, convertito con legge n. 63/2003, che ha modificato l’art. 113 comma 2, c.p.c., escludendo il giudizio secondo equità per le controversie “derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’art. 1342 c.c.”, con disposi- zione applicabile ai giudizi instaurati dopo il 10 febbraio 2003. L’intervento legislativo intende rispondere all’emergenza del contenzioso seriale allungando l’iter processuale, grazie alla reintrodotta appellabilità delle sentenze, ed imponendo al giudice di pace un giudizio secondo diritto e quindi una più articolata motivazione, in nome delle “ineludibili esigenze di difesa”, evidentemente coincidenti, nella mens dei conditores, con quelle delle imprese esposte ad uno stillicidio di cause di modesto valore, la cui sommatoria potrebbe però risultare assai gravosa (Poncibò, “Il consumatore e la violazione della normativa antitrust”, in Riv. crit. dir. priv., 2003, 505 s.). Sia consentito osservare, però, che se certamente l’imposizione di un più meditato giudizio secondo diritto e la concessione di un ulteriore strumento di impugnazione non possono in alcun modo reputarsi lesivi del diritto di azione e difesa di chicchessia ed anzi opportunamente favoriscono l’uniformità delle decisioni e così la certezza del diritto (come condivisibilmente osserva: G. Finocchiaro, Il nuovo secondo comma dell’art. 113 c.p.c., in Riv. dir. proc., 2004, 828 s.), il problema delle controversie seriali postula interventi di ben altro spessore, che operino l’auspicata mediazione fra le esigenze difensive delle “parti occasionali” e dei potenziali convenuti; d’altra parte, l’esclusione del giudizio di equità per cause di modesto valore coinvolgenti consumatori, come tipicamente nel caso di contrattazione di massa, risulta in definitiva pleonastico nella misura in cui mira ad evitare pronunce “eversive”, posto che il giudizio di equità deve pur sempre rispettare i principi informatori della materia, come ha definitivamente chiarito il giudice delle leggi (Corte cost., 6 luglio 2004, n. 206). (3) Cass., 9 dicembre 2002, sez. I, n. 17475, in Foro it., 2003, I, 1121 ss., con note di Palmieri, Scoditti; in Danno e resp., 2033, 390 ss., con nota di Bastianon; in questa Rivista, 2003, 3, 303, con nota di Nasti, e ivi, 6, 797, con nota di Negri. (4) Secondo Cass. n. 17475 (cit.) l’interesse del consumatore al mantenimento della struttura concorrenziale del mercato rifluirebbe nell’interesse pubblico e generale all’osservanza dei precetti antitrust, come tale tutelato adeguatamente dall’azione dell’Autorità amministrativa indipendente (che tuttavia, sia detto per inciso, non è affatto obbligata ad aprire istruttoria a seguito di denunce o segnalazioni). In questa linea si collocano le riflessioni di chi esclude “una generale legittimazione ad agire del consumatore in sede processuale, in veste singola o associata, per violazioni delle disposizioni antitrust” (corsivo aggiunto): Cassinis-Fattori, Disciplina antitrust, funzionamento del mercato e interessi dei consumatori, in I Contratti, 2001, 16 ss.; nonché gli obiter dicta di Cass., sez. I, 4 marzo 1999, n. 1811 (in Riv. dir. ind., 2000, II, 421, nota di Tassoni). Aperture alla “legittimazione” del consumatore emergono, per contro, dalla parte motiva di App. Torino, 6 luglio 2000 (in Danno e resp., 2001, 46 ss., con nota di Bastianon), là dove il collegio riconduce al novero dei soggetti danneggiati “fra gli altri, l’acquirente finale del prodotto” (53) (5) Corte di cass., sez. III, ordinanza 17 ottobre 2003, n. 15538, in Foro it., 2003, I, 2938, con nota di Palmieri e in Foro it., 2004, I, 466, con note di Pardolesi, Ferro-Luzzi, Guizzi. (6) Cass., sez. III, ordinanza 17 ottobre 2003, n. 15538, cit., p. 4. Per la considerazione che non può sfuggire alla competenza della Corte d’appello una domanda di risarcimento del danno asseritamente cagionato da pratiche restrittive della concorrenza, a prescindere dalla sua fondatezza: Negri, Risarcimento del danno da illecito antitrust e foro per la tutela del consumatore (la Cassazione non dilegua i dubbi nella vicenda RC Auto), in questa Rivista, 2003, 747 ss., 750; Palmieri, Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del consumatore finale: argomentazioni extravagantes per un illecito inconsistente, in Foro it., 2003, I, 1125. (7) In Germania la questione si risolve nell’interrogativo “Wer darf welche Norm subjektivrechtlich durchsetzen ?”, secondo la logica della “norma di protezione” (richiamata anche dalla dottrina italiana, quale valido criterio selettivo dei potenziali titolari di un diritto al risarcimento in relazione a violazioni della legge antitrust, in funzione di completamento di quello tradizionale dell’individuazione di una situazione soggettiva - non necessariamente diritto soggettivo perfetto - pregiudicata: Nivarra, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, a cura di Frignani-Pardolesi-Patroni Griffi-Ubertazzi, Bologna, 1993, II, 1452 ss.; C. Scognamiglio, Prospettive europee della responsabilità civile e discipline di mercato, in Diritto europeo, 2000, 333 ss.). Negli Stati Uniti l’accento è posto sulla selezione dei danni risarcibili, attraverso la nozione di anti (segue) CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 343 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA concorrenza che preveda sanzioni di ordine civilistico, della selezione dei soggetti “legittimati” ad attivare il controllo giurisdizionale sulle condotte anticompetitive (le cui propagazioni sono idonee a ripercuotersi lunga tutta la catena produttivo-distributiva irradiandosi in direzioni virtualmente infinite). A tal riguardo l’indagine comparatistica dimostra che la comune ed imprescindibile esigenza di stabilire limiti alla rilevanza giuridica dei pregiudizi ricollegabili a condotte anticompetitive non transita affatto dall’aprioristica espunzione del consumatore in quanto tale dalla cerchia dei soggetti protetti. Per restare ai riferimenti normativi più prossimi, giova soprattutto la considerazione (del resto ineludibile alla luce dell’espresso rinvio interpretativo disposto dall’art. 1, comma 4, l. n. 287/90) degli orientamenti della Corte di giustizia, decisamente incamminatasi sulla strada del più ampio riconoscimento di un diritto al risarcimento del danno derivante da violazioni dell’antitrust comunitario a favore di “any individual” (8): non esclusi quindi, come esplicitava l’Avvocato generale Mischo, i consumatori finali (9). Si aggiunga che l’enfasi posta dal nuovo Regolamento di attuazione degli artt. 81, 82 Ce (n. 1/2003) sulle sanzioni di ordine civilistico, ed in particolare sui rimedi risarcitori (quale indispensabile complemento dell’azione amministrativa, necessariamente limitata ai casi di maggior impatto) mal si concilia con letture ultrarestrittive della “legittimazione ad agire” (10). Con ciò, evidentemente, i problemi sono posti e non certo risolti, dovendosi pur sempre procedere a tracciare i confini del principio così stabilito (11); ma il punto fermo, dal quale ogni ulteriore indagine deve prendere le mosse, è dato dall’assenza di aprioristiche limitazioni nella cerchia di coloro che possono vantare pretese risarcitorie in base alla legge antitrust, a seconda che godano o meno della qualità soggettiva di imprenditori. Opportunamente, quindi, le Sezioni Unite chiariscono oggi definitivamente che la disciplina antitrust non si rivolge esclusivamente ai soggetti che si trovino tra loro in rapporto di concorrenza, ma tutela tutti i “soggetti del mercato”, ovvero «chiunque abbia un interesse processualmente rilevante alla conservazione del carattere competitivo (del mercato) al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere». Tanto non implica, evidentemente, un indifferenziato accesso di chiunque alla tutela risarcitoria, quasi che la mera alterazione dell’assetto concorrenziale determinasse una sorta di presunzione di danno ed un obbligo risarcitorio erga omnes; ma certo non può negarsi che la specificità del pregiudizio si stagli con paradigmatica nettezza appunto quando il consumatore risulti essere vittima diretta della pratica restrittiva attuata, come nel caso di specie, all’ultimo gradino della scala distributiva: più in generale, questo “interesse processualmente rilevante” non può negarsi, si deve ritenere, a tutte le controparti dirette di mercato, cioè a tutti colo- 344 CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 ro che abbiano concluso contratti di scambio con le imprese partecipanti all’intesa (12). Le peculiarità del caso rendevano quindi superfluo un approfondimento del tema, cui parrebbe appunto fugacemente alludere l’accenno alla specificità del pregiudizio, della selezione delle virtualmente infinite propagazioni dell’effetto pregiudizievole di una distorsione concorrenziale - sulla cui vocazione plurioffensiva insisteva già Cass. n. 827/1999 - e così specialmente dei fenomeni di traslazione del danno (c.d. passing on) (13), sui quali tuttavia si impone oggi una seria riflessione, reNote: (segue nota 7) trust injury e la ricerca del proper antitrust plaintiff (Bastianon, Violazione della normativa antitrust e risarcimento del danno, in Danno e resp., 1996, 555 ss.; Toffoletto, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni antitrust, Milano, 1996, 260 ss.; A. Paul Victor, Consumer enforcement of federal and state antitrust laws in the U.S., relazione al convegno Antitrust between EC law and national law, Treviso, 13-14 maggio 2004 (dattiloscritto). La vitalità di tali schemi per una corretta selezione dei danni risarcibili è sottolineata, con particolare riguardo al diritto comunitario, da: Reich, The “Courage” doctrine: Encouraging or discouraging compensation for antitrust injuries ?, in Common Market Law Review, 2005, 35 ss.). (8) Corte di giustizia, 20 settembre 2001, C-453/99, in Foro it., 2002, IV, 75 ss., con i commenti di Palmieri-Pardolesi; Scoditti; Giuseppe Rossi; in Danno e resp., 2001, 1151 ss., con il commento di Bastianon; in questa Rivista, 2002, 4, 454, con commento di Colangelo; Komninos, New prospects for private enforcement of EC Competition Law: Courage v. Crehan and the community right to damages, in Common Market Law Review, 2002, 447 ss. Analogamente le conclusioni dell’Avv. gen. Jacobs, n. causa C-264/01, AOK-Bundesverband del 22 maggio 2003, p. 104. (9) Conclusioni dell’Avvocato Generale Mischo, del 22 marzo 2001, pt 38: “The individuals who can benefit from such a protection are, of course, primarily third parties, that is to say consumers and competitors who are adversely affected by a prohibited agreement”. (10) Come francamente riconosce la Monopolkommission tedesca, nel suo parere sull’ultimo progetto di modifica del GWB, schierandosi decisamente a favore di una “umfassende Klagebefugnis der Verbraucher und Verbraucherverbände”, in relazione così all’antitrust comunitario come pure sul piano strettamente nazionale (Monopolkommission, Das allgemeine Wettbewerbsrecht in der Siebten GWB-Novelle, Sondergutachten gemäss § 44, GWB, 38 ss.). (11) La principale questione che la sentenza Courage lascia aperta è appunto quella della selezione dei soggetti che possono ottenere il risarcimento del danno: poiché “any individual” non può significare “every individual”, è necessario stabilire dei limiti alla tutela risarcitoria (Reich, op. cit., 40 ss.). (12) Opinione dominante nella dottrina tedesca, ove si precisa che „zum geschützten Personenkreis gehören nicht nur Unternehmen, sondern bei Kartellabreden auf der letzten Marktstufe - auch Verbraucher“ (Roth, § 33, in Frankfurter Kommentar zum Kartellrecht, Köln, 2001, Rdnr. 51; Bornkamm, § 33, in Kommentar zum deutschen und europàischen Kartellrecht, I, Luchterhand V., 2001, Rdnr. 14, 23; Köhler, Kartellverbot und Schadensersatz, in Gew.Rechtsschutz und Uhr.Recht, 2004, 99 ss.). (13) Per un raro accenno al tema, si veda: App. Torino, 6 luglio 2000, citata, che inclina ad escludere la risarcibilità del danno, quando l’acquirente intermedio sia riuscito a far gravare sulla propria clientela l’illecito innalzamento del prezzo (uso difensivo del passing on), e coerentemente ad ammettere l’azione del soggetto sul quale sia stato traslato il danno (uso offensivo del passing on). In questa medesima direzione, sottolineando la funzione eminentemente compensativa propria del risarcimento del danno nel nostro ordinamento: Bastianon, Violazione della normativa antitrust e risarcimento del danno, in Danno e resp., 1996, 565; Toffoletto, op. cit., 322 ss. GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA sa ineludibile proprio dalla crescente importanza della tutela risarcitoria in materia antitrust (14). ... e la competenza funzionale della Corte d’appello Corollario dell’importante principio affermato dalle Sezioni Unite è l’impossibilità di introdurre nella disposizione sulla competenza limitazioni di cui non è traccia nella formulazione letterale: caduta la pregiudiziale espunzione dei consumatori dal novero dei soggetti tutelati in via diretta ed immediata dalla legge antitrust, non vi è ragione alcuna di leggere l’art. 33, comma 2, l. n. 287/90 come se riservasse alla Corte d’appello in unico grado le sole controversie risarcitorie tra imprenditori; senza considerare, poi, che ragionando diversamente il giudizio sull’illiceità ai sensi della legge antitrust delle pratiche asseritamente produttive di danno verrebbe sottratto al giudice specializzato esclusivamente competente, contraddicendo la ragion d’essere della speciale competenza prevista dall’art. 33, comma 2, l. n. 287/90. L’illecito antitrust ritrova così il proprio ruolo centrale di elemento determinante l’antigiuridicità del danno subito, fornendo più solide basi alla tutela risarcitoria del consumatore finale-vittima diretta rispetto al vago rinvio ad un non meglio precisato “specifico diritto soggettivo” eventualmente violato dalla pratica anticompetitiva, da rinvenirsi però in altre aree del sistema (15). L’impostazione delle Sezioni Unite rende così non più necessaria l’incerta stampella offerta alle pretese risarcitorie del consumatore dalla l. n. 281/98 e dal diritto alla “correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali” (in cui molti hanno cercato l’ubi consistam dello sfuggente specifico diritto evocato dalla pronuncia della prima sezione (16)), nel contempo efficacemente disarmando la tentazione di un surrettizio aggiramento, mercé l’invocazione di tale diverso complesso normativo, della speciale competenza della Corte d’appello (17). Come opportunamente chiarisce la sentenza in commento, l’interposizione del contratto individuale, frutto di autonomia privata e di volontà in sé e per sé non viziata non spezza necessariamente il nesso causale tra il danno e l’intesa che lo ha cagionato (18), giacché «la previsione del risarcimento del danno sarebbe meramente retorica se si dovesse ignorare, considerandolo circostanza negoziale distinta dalla “cospirazione anticompetitiva’ e come tale estranea al carattere illecito di questa, proprio lo strumento attraverso il quale i partecipi dell’intesa realizzano il vantaggio che la legge intende inibire». L’importante precisazione che la risarcibilità di tale pregiudizio non viene meno per il fatto che il consumatore abbia contrattualmente accettato le condizioni, uniformate a monte dalla cospirazione anticompetitiva (19), scongiura così, recuperando l’indiNote: (14) Spunti rilevanti possono trarsi dal dibattito accesosi in Germania, proprio sui fenomeni di traslazione del sovrapprezzo, e così di quantifica- zione del danno risarcibile e di legittimazione della vittima indiretta, anche sulla scorta del progetto governativo di modifica del GWB, che prevede l’integrale risarcimento della vittima diretta ed il rigetto dell’uso difensivo del passing on; la Monopolkommission, nel suo parere sul disegno di legge (cit., 38 s.), approvava la scelta, osservando però che l’integrale risarcimento della vittima diretta non dovrebbe escludere la risarcibilità anche dei danni, in concreto causalmente riconducibili al cartello, patiti dai contraenti a valle per evitare il rischio che, disincentivando gli acquirenti intermedi ad agire, il cartello riesca ad “immunizzarsi” contro le pretese risarcitorie. Per la limitazione, de lege lata, del risarcimento alle vittime dirette ed il ripudio dell’uso difensivo del passing on: Köhler, op. ult. cit., 99 ss. (criticando l’opposto principio avallato da: LG Mannheim, 11 luglio 2003, ibidem, 2004, 182 ss.). (15) Ed invero, “se il cartello a monte rimane fuori del quadro, l’unica cosa di cui il consumatore può lagnarsi è di aver stipulato un contratto a condizioni meno vantaggiose” e “non si riesce a comprendere a quale titolo l’assicurato possa chiedere il risarcimento” (Colangelo, Intese restrittive e legittimazione dei consumatori finali ex art. 33 legge antitrust, in Dir. ind., 2003, 177). (16) Senza pretese di completezza: Gius. Rossi, “Take Courage!”. La Corte di giustizia apre nuove frontiere per la risarcibilità del danno da illeciti antitrust, in Foro it., 2002, IV, 99; Mantelero, “Per qualche lira in più” o del danno al consumatore nei contratti a valle di un’intesa anticoncorrenziale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2004, 345 ss.; Guizzi, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori. Una relazione ancora da scoprire, in Foro it., 2004, I, 480 ss., 482; Hazan, I rimborsi dei premi RCA, in I contratti, 2003, 909. (17) Peraltro, se anche si ritenesse indispensabile ricercare il fondamento del “diritto del consumatore alla equità concorrenziale dei rapporti contrattuali” (anche) nella l. n. 281/98 (Guizzi, op. ult. cit., 482 ss.), non sarebbe lecito trarne conseguenze in ordine alla determinazione del giudice competente, a differenza di quanto adombrato da qualche autore (Mantelero, op. ult. cit., 345 ss.; contra, Guizzi, op. ult. cit., 484) e di quanto pareva suggerire la stessa Cassazione: sia perché lo “statuto dei consumatori” non contiene disposizioni speciali sulla competenza, sia perché l’art. 33 l. n. 287/90 concerne tutte le domande di risarcimento del danno relative alla violazione della legge antitrust: e certamente in tale categoria rientra la domanda di risarcimento del danno cagionato da un’intesa restrittiva della concorrenza, dal momento che il giudizio di antigiuridicità dell’intesa dovrà pur sempre essere condotto alla stregua dei precetti antitrust. (18) Secondo quanto ritenuto invece dalla citata Cass. n. 17475/2002. Sul versante dottrinale, si è così addirittura esclusa in radice la risarcibilità del danno ex art. 2043 c.c., sull’assunto che chi negozia con l’impresa partecipante ad un cartello “si determina sempre liberamente a contrarre” (Ferro-Luzzi, Prolegomeni in tema di mercato concorrenziale e “aurea aequitas” (ovvero delle convergenze parallele), in Foro it., I, 2004, 477 s.); la prospettiva appare in realtà alquanto artificiosa, trascurando come la perturbazione della concorrenza indotta dall’intesa incida direttamente proprio sulla effettiva libertà di scelta degli acquirenti: a meno di non pretendere che questi rinuncino all’acquisto o si sobbarchino oneri eccezionali (di regola necessari) per accedere ad eventuali mercati “sani”. (19) Una volta ammessa la rilevanza dell’interesse individuale del consumatore “al rispetto delle regole del confronto concorrenziale” (c.d. diritto o interesse alla preservazione di una concorrenza effettiva: Osti, Abuso di posizione dominante e danno risarcibile, in Danno e resp., 1996, 114 s.; Bastianon, Antitrust e tutela civilistica: anno zero, in Danno e resp., 2003, 398) e così alla possibilità di “una effettiva scelta tra alternative diverse”, quale situazione soggettiva preesistente al contratto, vengono meno le difficoltà concettuali di concepire una tutela aquiliana per lesioni attuate per il tramite dello strumento negoziale (Guizzi, op. ult. cit., 484, così correggendo l’originaria impostazione; Libertini, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, in Riv. dir. comm., I, 2002, 452), anche senza necessità di far leva sulla, peraltro non pacifica (in quanto subordinata al requisito del dolo), applicazione diretta dell’art. 1440 c.c. (sulla duplice possibilità: Bastianon, Nullità a cascata? Divieti antitrust e tutela del consumatore, in Danno e resp., 2003, 1075 s.). Il superamento di una visione parcellizzante e limitata al singolo contratto concluso con il cliente, riportando l’intesa illecita al suo ruolo di fatto generatore del (segue) CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 345 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA spensabile visione unitaria del fenomeno, un risultato palesemente paradossale. Riconoscere che l’interposizione di un atto di autonomia negoziale di per sé non interrompe la catena causale che collega l’intesa vietata al pregiudizio patrimoniale lamentato dall’acquirente peraltro non implica, conviene precisare a scanso di equivoci, alcun automatismo nella concessione dell’invocata tutela risarcitoria, quasi che provata la pratica restrittiva il danno fosse in re ipsa; tutt’al contrario, l’acquirente dovrà pur sempre dimostrare che le forme in concreto assunte dalla “cospirazione” anticompetitiva abbiano effettivamente determinato l’innalzamento dei prezzi in misura più che concorrenziale su una parte rilevante del mercato (20): ed anzi è un peccato che le sezioni Unite, nel contesto di un’ampia “sentenza-trattato”, non abbiano ritenuto di misurarsi ex professo con una più puntuale ricostruzione della fattispecie costitutiva della pretesa risarcitoria. Indebite sovrapposizioni tra responsabilità aquiliana ed invalidità negoziali A questo punto il discorso, però, comincia a farsi oscuro, giacché le Sezioni Unite mostrano di voler legare indissolubilmente la tutela risarcitoria al tema della invalidità negoziale. In motivazione si legge, infatti, che la nullità dell’intesa rappresenterebbe l’indefettibile presupposto della eliminazione del pregiudizio subito dal consumatore finale. La pretesa al rimborso dell’eccedenza rispetto al prezzo concorrenziale presupporrebbe - a quanto sembra - la deduzione della nullità dell’intesa che tale sovrapprezzo abbia determinato; ed anzi sarebbe proprio la deduzione della nullità dell’intesa, espressamente prevista dall’art. 2, comma 2, e quindi certamente richiamata dall’art. 33, comma 2, della stessa l. n. 287/90, a determinare l’incontestabile radicamento dell’intera controversia presso il giudice “specializzato”. I termini del ragionamento appaiono specularmente invertiti rispetto all’iter logico seguito dalla prima sezione: mentre questa muoveva dalla premessa che il consumatore non avrebbe mai potuto agire per la declaratoria di nullità dell’intesa, per negare a fortiori la riconducibilità anche delle domande risarcitorie all’art. 33, cpv.; le sezioni unite invece vorrebbero dedurre quella riconducibilità dall’apodittico riconoscimento al consumatore della legittimazione ad agire per la declaratoria di nullità dell’intesa, perpetuando così la confusione concettuale, sulla base di un nesso del tutto indimostrato, tra due forme di tutela ontologicamente diverse. Se lo scopo dell’insistenza sulla nullità dell’accordo anticompetitivo fosse unicamente quello di ancorare strettamente l’azione risarcitoria all’art. 33, comma 2, l’operazione dovrebbe giudicarsi del tutto pleonastica, dal momento che la competenza speciale sussiste ogni qual volta si invochi il risarcimento di un danno asseritamente cagionato da violazioni degli artt. 2, 3 della legge. La competenza della corte d’appello sulle controver- 346 CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 sie risarcitorie relative a violazioni della legge antitrust non ha affatto bisogno di appoggiarsi alla nullità dell’intesa, che non ha di per sé alcun rilievo nella prospettiva del risarcimento del danno: il soggetto, consumatore o concorrente, che chiede il ristoro dei danni ingiustamente patiti per effetto di un cartello non ne deduce affatto la nullità (chiedendo l’accertamento della radicale inefficacia del corrispondente accordo negoziale), bensì il carattere vietato e quindi illecito, che determina l’antigiuridicità del danno e la risarcibilità ai sensi dell’art. 2043 c.c., ove ne ricorrano gli ulteriori presupposti (nesso causale, dolo o colpa) (21). Una volta riconosciuto, almeno in linea di principio, il nesso causale tra prezzo pattuito a valle e distorsione della concorrenza a monte, non si vede l’utilità di legare la risarcibilità dei danni patiti dal consumatore alla sua (peraltro non pacifica) legittimazione a domandare l’accertamento della nullità dell’intesa in sé e per sé considerata. Senza considerare che, se davvero il risarcimento del danno postulasse il previo accertamento ad ogni effetto della nullità dell’intesa, se ne dovrebbe dedurre addirittura la necessità di integrare il contraddittorio con tutte le parti dell’accordo: corollario certamente indesiderato che da solo dovrebbe far dubitare della premessa (22). Ponendosi nella prospettiva risarcitoria, cui le Sezioni Unite mostrano di volersi rigorosamente attenere, risulta quindi del tutto ultroneo attribuire al consumatore-vittima diretta la legittimazione a far valere la nullità dell’intesa; anzi, il preteso nesso biunivoco tra legitNote: (segue nota 19) danno, consente di mettere a fuoco inoltre la responsabilità solidale (Köhler, op. cit., 101 s.; Libertini, op. loc. ult. cit.) delle imprese colludenti nei confronti di tutti gli acquirenti diretti (risultato più difficile da attingere, ragionando in chiave di responsabilità contrattuale, necessariamente ancorata alle parti del singolo episodio negoziale). (20) Sull’onere probatorio, di cui è gravato l’acquirente che domandi il risarcimento del danno, giustamente escludendo qualsiasi automatismo, tanto più quando l’intesa allegata integri un illecito di mero pericolo: Violante, Illecito antitrust e azione risarcitoria, in Danno e resp., 2005, p. 14 ss.; Hazan, op. cit., 909; Calvo, Diritto antitrust e contratti esecutivi dell’intesa vietata (contributo allo studio dei Folgeverträge), in I Contratti, 2005, 192 s.; ed altresì, se si vuole, il nostro: Risarcimento del danno da illecito antitrust e foro per la tutela del consumatore, cit., 753 s. Considerazioni di questo tenore serpeggiano anche tra i giudici di pace, investiti delle richieste di rimborso del premio assicurativo: si veda, ad esempio la decisione di Giudice di pace Pozzuoli, 28 novembre 2003, in Nuova giur. civ. comm., 2004, I, 530. (21) In altri termini, il contratto “a valle” rileva, dal punto di vista della vittima dell’illecita collusione anticompetitiva, quale “mero elemento di una fattispecie di responsabilità aquiliana” (Pardolesi, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibnitz a Sansone ?, in Foro it., 2004, I, 473). (22) Contra, facendo poco persuasivamente leva sul carattere dichiarativo della nullità: Scoditti, Il consumatore e l’antitrust, 1129. Ed invero deve ritenersi che il carattere meramente dichiarativo dell’emananda sentenza non elimini la necessità del contraddittorio (Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Padova, 2004, 459; Attardi, Diritto processuale civile, Padova, 1999, 359), almeno quando si tratti della “rimozione di un titolo apparente” (Luiso, Diritto processuale civile, I, Milano, 2000, 280). GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA timazione ad invocare la nullità dell’intesa ed a pretendere il risarcimento del danno rischia di far ricadere su quest’ultima forma di tutela le perduranti incertezze sulla disponibilità della prima da parte dei consumatori (23). In realtà, per le “controparti di mercato” delle imprese colludenti la declaratoria di nullità dell’accordo è sostanzialmente inutile, fino a che non si riesca a dimostrare che proprio la sua apparente efficacia vincolante tra le parti, e non già il mero fatto della sua spontanea attuazione, in qualche modo coinvolga la loro sfera giuridica (24). L’intero discorso riacquista intelligibilità e senso solo a condizione di ritenere che, per il tramite della nullità dell’intesa, i consumatori (e più in generale i terzi acquirenti diretti) facciano in realtà valere la nullità dei negozi individuali “a valle” della cospirazione anticompetitiva. L’insistenza sulla legittimazione del consumatore alla declaratoria di nullità dell’intesa adombra, allora, l’implicito riconoscimento della nullità dei contratti individuali, i quali ultimi - saldandosi in un’unità inscindibile con la pratica restrittiva di cui costituiscono estrinsecazione ed attuazione - sarebbero naturaliter ricompresi nella nullità disposta dall’art. 2 comma l. n. 287/90. In questa prospettiva, l’idea che la nullità dei contratti a valle discenda direttamente e sia inglobata in quella dell’intesa stessa consentirebbe non solo di fornire all’invalidità derivata una base positiva (della cui solidità è tuttavia lecito dubitare), ma anche di superare l’obiezione secondo le azioni di nullità contemplate dall’art. 33 comma 2 sarebbero solo quelle relative alle intese e non già ai contratti c.d. a valle. La conclusione transita per una nozione assai lata ed eterodossa della nullità (già sotto molti aspetti “speciale”) sancita dall’art. 2 comma 2 (25), che, coprendo la medesima estensione del divieto di accordi e pratiche restrittive sancito al comma primo, involgerebbe indistintamente tutti i comportamenti restrittivi della concorrenza a prescindere dalla loro veste formale ed anche le manifestazioni ulteriori rispetto all’accordo collusivo, tra le quali in primis proprio i comportamenti attuativi del disegno anticompetitivo (nel caso di specie consistenti nella vendita di servizi a prezzo “gonfiato”): la nullità delle intese, si legge, avrebbe la funzione di “togliere alla volontà anticoncorrenziale a monte ogni funzione di copertura formale dei contratti a valle” e così di “impedire il conseguimento del frutto dell’intesa consentendo anche nella prospettiva risarcitoria la eliminazione dei suoi effetti” (26). Tuttavia, la derivazione della nullità dei contratti a valle dalla loro inclusione in una nozione ampia di intesa (e di nullità), secondo un ragionamento assai generalizzante che ignora opportune distinzioni tra le diverse tipologie di accordi restrittivi (27) e sorvola su punti più delicati di un dibattito assai articolato (28), pecca in definitiva di eccessivo semplicismo, dando per dimostrato il quod demonstrandum: cioè che l’eliminazione degli effetti distorsivi dell’intesa postuli l’invalidità dei contratti conclusi dai membri del cartello nel rispetto degli accordi anticompetitivi (29). Emerge inoltre, nel ragionamento della Corte, una Note: (23) Negano che soggetti terzi rispetto all’intesa (cioè di un patto avente esclusivamente effetti obbligatori) possano mai avere interesse, ai sensi dell’art. 1421 c.c., all’accertamento della sua nullità: Oppo, Diritto dell’impresa e morale sociale, in Riv. dir. civ., 1992, I, 31; Ristori, La competenza speciale della Corte d’appello nella legge antitrust, in Riv. dir. priv., 1998, 420. Al contrario, escludendo i rimedi risarcitori, ritiene che l’unica forma di tutela del contraente a valle risieda proprio nella declaratoria di nullità dell’intesa stessa, a tutela dell’interesse alla regolarità dei (futuri) rapporti contrattuali: Ferro Luzzi, op. ult. cit., 479. (24) Sulla sostanziale inutilità, per i consumatori-acquirenti finali, di una declaratoria di nullità dell’intesa concorda pure chi non ne esclude a priori la legittimazione “se ed in quanto non possano evitare a se stessi gli effetti negativi dell’intesa, esercitando il loro potere di scelta sul mercato” (Libertini, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, cit., 668; cui adde, Meli, Autonomia privata sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, Milano, 2002, 22, 148). (25) Già prospettata da Cass. 1° febbraio 1999 n. 827 (in Giur. it., 1999, 1223, nota di Libonati; in Danno e resp., 2000, 57 nota di Nivarra, Bastianon), secondo cui l’art. 2, comma 2, l. n. 287/90 non darebbe rilevanza unicamente «all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione, anche ulteriore all’eventuale negozio, che in quanto tale realizza un ostacolo al gioco della concorrenza». La dilatazione del concetto di nullità era in quel contesto funzionale a giustificarne l’applicazione alle intese concluse prima dell’entrata in vigore della legge antitrust; ma si prestava a sviluppi ulteriori nel senso della invalidità dei contratti a valle (Delli Priscoli, La dichiarazione di nullità dell’intesa anticoncorrenziale, in Giur. comm., 1999, II, 231 s.); Scoditti, Il consumatore e l’antitrust, cit., 1129 s.; Schininà, La nullità delle intese anticoncorrenziali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2004, 436 ss., 440; ed un’eco se ne può cogliere nella tesi secondo cui l’invalidità dei contratti attuativi dell’intesa sarebbe la coerente conseguenza del divieto di intese: Pardolesi, op. ult. cit., 469 ss.). (26) L’attuale decisione si colloca così nel solco già tracciato da Cass. n. 30 giugno 2001, n. 8887 (in Giur. it., 2002, 1211 ss.), favorevole in linea di principio a ravvisare una ricaduta diretta dell’illiceità della intesa sulla validità dei contratti individuali “attuativi” del programma concordato, appunto in nome di quella considerazione unitaria dell’intesa e dei contratti a valle già adombrata da Cass. 1 febbraio 1999, n. 827. In senso diametralmente opposto (oltre, implicitamente, a Cass. n. 17475/2002, là dove rimarcava l’autonomia dei contratti a valle “presieduti dalla loro logica interna”): Cass. 11 giugno 2003, n. 9384 (in Danno e resp., 2003, 1067, nota di Bastianon), secondo cui «i contratti scaturiti da un’intesa restrittiva della concorrenza mantengono la loro validità e possono dar luogo solo ad un’azione di risarcimento del danno da parte degli utenti». (27) Ci si riferisce all’impostazione sceveratrice di Meli, op. cit., p. 164 ss., che isola gli accordi di sfruttamento, finalizzati ad imporre condizioni “che non si avrebbe la forza di imporre agendo individualmente nel mercato” (art. 2, comma 2, lett. d, e), dai quali solamente potrebbe farsi discendere l’invalidità del contratto a valle, tendenzialmente esclusa invece in relazione ai cartelli di prezzo o sull’adozione di condizioni contrattuali uniformi; e di Libertini, Autonomia privata e concorrenza nel diritti italiano, cit., 453, relativamente agli atti costituenti abuso di “posizione dominante collettiva” (arg. ex art. 9 l. n. 192/1998).. (28) Per una ricostruzione attenta dei termini del vivace dibattito dottrinale: Bastianon, Nullità a cascata? Divieti antitrust e tutela del consumatore, cit., 1068 ss.; Guizzi, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, Riv. dir. comm., 1999, I, 67 ss.; Libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti a violazioni di norme antitrust, in Danno e resp., 2004, 939 ss. (29) Ed infatti solo ex uno latere il contratto “a valle” rappresenta lo strumento per la realizzazione dell’illecita restrizione della concorrenza, che non rileva quindi se non come motivo unilaterale, incapace di determinarne la nullità (Libertini, Ancora sui rimedi civili …, cit., 941). CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 347 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA patente contaminazione tra l’area del divieto e quella della sanzione di nullità, che è e resta “sanzione” tipicamente endocontrattuale, del tutto priva di senso se applicata al di fuori del terreno suo proprio, cioè al di fuori dell’area degli accordi giuridicamente obbligatori; se è pacifico che quella di intesa sia nozione prettamente “comportamentale”, che prescinde dalla veste dell’accordo ed abbraccia qualsiasi convergenza di volontà (30), ciò non toglie che sia privo di senso predicare la “nullità” di una condotta materiale, già di per sé priva pur della mera apparenza di un accordo giuridicamente vincolante (31). Accordi “informali” e pratiche concordate, si ripete, sono vietati ed illeciti, ma è del tutto inutile dichiararli “nulli”: l’invalidità dell’intesa, infatti, ha unicamente la funzione di minarne dall’interno la coesione, consentendo alle parti di sottrarsi al vincolo negoziale, senza incorrere in responsabilità per inadempimento; invece, quando l’accordo non abbia in sé veste contrattuale e comunque in relazione ai terzi estranei pregiudicati dall’alterazione della concorrenza, il problema è piuttosto quello di impedirne la spontanea attuazione: ed è evidente che la declaratoria di nullità risulta a tal fine del tutto inadeguata, a meno di trasformarla - ma sarebbe necessario ben altro approfondimento - in un rimedio preventivo di stampo inibitorio (32). Accreditando una nozione di “nullità” tanto stemperata, le Sezioni Unite finiscono così per assimilare esigenze di tutela differenti, lasciando nell’ombra il ben più rilevante tema dei rimedi preventivi (e collettivi) contro gli illeciti concorrenziali, cioè dei rimedi inibitori. Una perduta occasione per fare chiarezza (ed uno stimolante obiter) Si deve allora lamentare l’importante occasione perduta per fare infine chiarezza sul nodo dei rimedi, contrattuali e/o extracontrattuali e così anche di stampo inibitorio (33), che il consumatore, e più in generale gli acquirenti in un mercato alterato da collusioni anticompetitive possono invocare. Se, come parrebbe evincersi da una motivazione non sempre lineare (34), le Sezioni Unite intendevano suggellare un dibattito infuocato, confortando con la loro autorevolezza la tesi della invalidità dei contratti a valle, sarebbe stato lecito attendersi quantomeno una presa di posizione più esplicita. Dietro l’intreccio di pretese risarcitorie e nullità, infatti, restano irrisolti i nodi scottanti della funzione e natura dell’asserita invalidità dei contratti a valle: e così della legittimazione assoluta o relativa a farla valere e del rapporto tra nullità parziale ed integrazione o correzione del regolamento negoziale di durata (35). Anzi, la commistione tra invalidità dei contratti “attuativi” ed invalidità dell’intesa rischia di trarre con sé corollari poco tranquillanti: non solo, come già accennato, sul piano processuale, ma pure sul piano del giusto contemperamento degli interessi coinvolti, perché se l’invalidità del contratto a valle derivasse di- 348 CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 rettamente dalla nullità dell’intesa ai sensi dell’art. 2, comma 2, l.n. 287/90, dovrebbe allora condividerne i caratteri e quindi pure la natura assoluta: con buona pace dei tentativi dottrinali di limitare la legittimazione al solo soggetto “debole”. Note: (30) Fin qui si condivide certamente l’affermazione di Cass. n. 827/1999, secondo cui il divieto di intese colpisce «qualsiasi condotta di mercato, anche realizzata in forme che escludono una caratterizzazione negoziale, purché veda la consapevole partecipazione di almeno due intese»; non convince invece l’ulteriore deduzione che «la considerazione della nullità fondata dalla normativa antitrust deve essere arricchita rispetto ad una prospettazione che consideri solo quella del negozio» e meno ancora l’ulteriore, ancor più remoto, corollario che i contratti mediante i quali le imprese colludenti realizzano il profitto, in vista del quale si erano determinate a rinunciare alla competizione, dovrebbero essere necessariamente travolti dal disvalore che colpisce l’accordo di cartello. (31) Del resto, la dottrina prevalente limita il significato della nullità di cui all’art. 2 comma 2 alle intese aventi consistenza di veri e propri contratti: Pardolesi, Intese restrittive della libertà di concorrenza, in Diritto antitrust italiano, I, a cura di P.-Frignani-Ubertazzi, Bologna, 1993, p. 306; Delli Priscoli, op. ult. cit., 232; Libertini, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, in Giur. comm., 1998, I, 667; Afferni, Le intese anteriori alla legge antitrust: legge retroattiva o nullità speciale ?, in Giur. it., 2000, 942. (32) Ed è significativo il collegamento (istituito da Scoditti, op. ult. cit., 1129; Calvo, op. cit., 183) tra l’accertamento della nullità dell’intesa e la legittimazione ad agire delle associazioni di consumatori ai sensi della l. n. 281/98, la quale ultima notoriamente prevede una inibitoria collettiva: ed invero la declaratoria di nullità dell’intesa ad istanza del consumatore assume una valenza spiccatamente preventiva (evidente soprattutto nell’impostazione di Ferro-Luzzi, op. ult. cit., 478 s.), che evoca appunto la tutela inibitoria. (33) Prospetta la duplice alternativa, traendone le debite conseguenze in termini di competenza (non abbracciando la lettera dell’art. 33 comma 2 l. n. 287/90 i rimedi endonegoziali relativi ai contratti a valle, siano questi ricostruiti in termini di annullabilità o di “correzione equitativa” del contratto): Guizzi, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori, cit., 484. (34) La prospettiva risarcitoria, cui le Sezioni Unite restano ancorate, mal si concilia con la pretesa deduzione della “nullità” dell’intero complesso “intesa-contratto a valle”, che dovrebbe preludere piuttosto a rimedi di natura restitutoria; secondo le Sezioni Unite, invece, il carattere strutturalmente colposo o doloso della condotta collusiva consentirebbe di inquadrare le domande di rimborso sempre e necessariamente come domande risarcitorie ex art. 2043 c.c: per questa via il Collegio evita un più diretto confronto con la competenza (almeno apparentemente) chiusa della Corte d’appello, che testualmente non include le azioni restitutorie conseguenti alla declaratoria di nullità. La forzatura, peraltro, non sarebbe nemmeno necessaria, dal momento che le Corti d’appello hanno già più volte “corretto” l’asfittico art. 33 comma 2, ammettendo l’attrazione anche delle domande di restituzione, accessorie a quelle di nullità: volendo seguire il (qui tuttavia respinto) itinerario logico proposto dalle S.U., allora, le restituzioni conseguenti alla nullità dell’intesa, asseritamente comprensiva dei contratti a valle, non dovrebbero sfuggire alla competenza speciale. (35) L’intervento giudiziale sul contenuto del contratto potrebbe transitare per la sostituzione automatica della clausola nulla con il “prezzo concorrenziale” e perciò equo, secondo il modello offerto dall’attuazione diretta dell’art. 36 Cost. (Toffoletto, op. cit., 343 ss.): ma può obiettarsi che la disciplina antitrust agisce sulle dinamiche di mercato garantendo la competizione effettiva e non calmierando i prezzi. Il problema, però, è reale e a ben vedere indipendente dalla prospettiva della nullità “a cascata” (Guizzi, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, cit., 110 ss.; Calvo, op. cit., 189). GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA La sovrapposizione tra invalidità negoziali e risarcimento del danno risulta in definitiva superflua e pericolosa, nella misura in cui rischia di indebolire la stessa persuasività del più importante principio, che emerge dalla sentenza in commento: vale a dire la risarcibilità del pregiudizio ad una scelta effettiva tra prodotti in competizione, tradottosi nel pagamento di un prezzo superiore a quello “concorrenziale”. Il recupero di una visione unitaria dell’illecito, che non scinda formalisticamente la collusione anticompetitiva ed il prezzo pattuito con gli acquirenti, merita ribadire, non implica affatto l’estensione della nullità dell’intesa ai contratti individuali, né transita necessariamente per la dimostrazione della invalidità di questi ultimi. Fermo il principio, ovviamente, la partita resta tutta da giocare, spostandosi sul terreno della prova rigorosa di un adeguato nesso causale tra la “cospirazione” e l’aumento dei prezzi, nonché su quello assai accidentato della esatta quantificazione del danno; ma, al cospetto di questa costellazione di problemi, la deduzione della “nullità” dell’intesa (e mediatamente del contratto a valle) riesce del tutto estranea ed inconferente. In conclusione, ed a latere dei temi sin qui discussi, merita attirare l’attenzione del lettore su di un breve obiter contenuto in motivazione, relativo alla struttura del riparto di giurisdizione disegnato dall’art. 33, comma 2, l. n. 287/90. Tale riparto, si legge, appare “datato” perché sostanzialmente informato ad un sistema LIBRI (quello del doppio binario di tutela) ormai definitivamente travolto, ad opera della l. n. 205/2000 e della sentenza n. 204/2004 della Consulta. Il riferimento al nuovo assetto della giustizia amministrativa ed in particolare alla concentrazione del giudizio di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi innanzi al giudice amministrativo - recentemente confermata dalla stessa Consulta - ed il giudizio sulla inattualità del riparto di giurisdizione in materia antitrust si prestano (ove depurati del sospetto di voler accreditare un’inesistente “pregiudizialità” del procedimento amministrativo e del conseguente giudizio nell’atto di diffida) ad essere letti come stimolanti spunti nel senso della necessità di superare l’esistente dualismo, riportando l’intera materia nell’ambito di un’unica giurisdizione. Nonostante l’ambiguità del riferimento al risarcimento da provvedimento illegittimo, che potrebbe anche supportare una soluzione opposta, questa giurisdizione unica dovrebbe essere individuata più plausibilmente in quella ordinaria: non solo perché assai spesso il provvedimento dell’autorità antitrust fronteggia autentici diritti soggettivi (tipicamente in caso di sanzioni per infrazioni gravi), ma anche e soprattutto perché in questo modo si eviterebbe l’inopportuna incomunicabilità tra organi giudiziari di vertice (Cassazione e Consiglio di Stato) ed il conseguente pericolo di un’incoerente divaricazione nell’interpretazione delle nozioni chiave dell’illecito antitrust. Collana Biblioteca del diritto di famiglia (diretta da Massimo Dogliotti) Procreazione assistita Fonti, orientamenti, linee di tendenza Commento alla legge 19 febbraio 2004, n. 40 M. Dogliotti, A. Figone Il 10 marzo 2004 è entrata in vigore la legge n. 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita che si propone l’obiettivo di regolamentare una materia in cui mancava l’intervento del nostro Legislatore e che, oggi più che mai, è oggetto di un acceso dibattito che coinvolge l’opinione pubblica, il mondo politico e la comunità scientifica e culturale. Questo volume si propone di darne una prima ma compiuta lettura, attraverso l’esame delle fonti, degli orientamenti e delle linee di tendenza, uno sguardo comparatistico sulla disciplina nei paesi dell’unione europea e il commento articolo per articolo del testo normativo, anche alla lu- ce delle recentissime Linee guida del Ministro della Salute emanate il 21 luglio 2004. Conclude l’opera una ricca appendice normativa e giurisprudenziale, con particolare attenzione alle ultime sentenze in materia. Ipsoa 2004, pagg. 432, € 36,00 Per informazioni • Servizio Informazioni Commerciali (tel. 02.82476794 – fax 02.82476403) • Agente Ipsoa di zona (www.ipsoa.it/agenzie) • www.ipsoa.it CORRIERE GIURIDICO N. 3/2005 349