Editoriale - Azione Cattolica Italiana
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Dialoghi04-14-1-75_Dialoghi4/04p1-77 01/12/14 12.36 Pagina 2 EDitoriaLE L’ombra del Califfo di Piergiorgio Grassi 2 iamo ossessionati da molte paure in questa stagione della nostra storia. Da quella di una crisi economica che sembra non aver fine, a quella di una micidiale epidemia di Ebola, che può estendersi nel continente africano e diffondersi in Occidente, al timore che nel cuore dell’Europa si scatenino nuovi atti di terrorismo; pericolo reale soprattutto dopo l’apparizione di un soggetto politico militare qual è l’Is (acronimo inglese di Stato islamico), proclamato con grande enfasi e sfruttando la potenza di tutti i media il 29 giugno scorso (primo giorno del Ramadan) da Abu Bakr-al Baghdadi, che si è presentato come il nuovo califfo. Quasi a stabilire un legame diretto, richiamato dal nome scelto, Abu Bakr appunto, col primo «vicario dell’inviato di Dio», vissuto nel VII secolo dopo Cristo. Le televisioni del mondo hanno scandito le tappe della (irresistibile?) avanzata con la visione raccapricciante delle decapitazioni dei prigionieri occidentali, e non solo, come rappresaglia nei confronti dei raid aerei americani, ma anche come sfida agli avversari di qualsiasi colore e religione. La bandiera nera, emblema del gruppo islamista, sventola ormai su molte città e su molti villaggi dalla Siria all’Iraq, dopo che sono state cancellate le frontiere artificiose delineate nel 1916 dagli accordi segreti Sykes-Picot, alla base della successiva spartizione del Levante e della Mesopotamia fra Gran Bretagna e Francia, seguita al crollo dell’Impero ottomano. Il califfato è prima di tutto il risultato di un conflitto tutto interno all’Islam (rimanda alla storica divisione tra sunniti e sciiti). In S dialoghi n. 4 dicembre 2014 Siria, a prevalenza sunnita, l’opposizione islamista è sostenuta dalle monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa, con l’appoggio della Turchia; mentre con Bashar Assad sono schierati l’Iran e gli sciiti libanesi di Hezbollah. In Iraq, dopo l’intervento americano del 2003, il mondo sunnita, minoranza un tempo egemone, contrasta il governo a maggioranza sciita. L’area mediorientale e mediterranea è attraversata da queste guerre per procura e non accenna a stabilizzarsi. Il nuovo soggetto, a differenza di altri movimenti jihadisti che si affidano al solo terrorismo come Al-Qaeda, con cui si è aperta una dura concorrenza, punta a territorializzarsi e a costituirsi come unità statuale nei territori lasciati vuoti dalla disintegrazione dell’Iraq e della Siria, «nello spazio compreso tra le periferie orientali di Aleppo, il centro di Raqqa, suo quartier generale politico-militare e i corridoi di penetrazione lungo la valle dell’Eufrate, sino a Falluja e oltre, e a incombere sulla città santa sciita di Karbala e sulla stessa Bagdad. C’è poi la direttrice settentrionale che penetra nella piana di Ninive, punta verso il corso del Tigri e sfocia a Mosul, città di oltre due milioni di abitanti ai confini del Kurdistan». Così Lucio Caracciolo su «Limes» del settembre scorso. A farne le spese sono state le minoranze etniche e religiose, in particolare i cristiani e gli sparuti gruppi di yazidi, spinti alla fuga dalla violenza indiscriminata, dalla costrizione alla conversione all’Islam. Gran parte di loro accolti ad Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, in campi profughi sovraffollati, mentre incombe un inverno rigido e l’Onu dichiara di non riuscire a dare cibo e riparo a tutti. «Di fronte all’indifferenza di tanti», papa Francesco ha più volte ripetuto, e con molta forza nel Concistoro del 20 ottobre scorso, che non è possibile rassegnarsi a pensare un Medio Oriente senza i cristiani che da duemila anni vi confessano il nome di Gesù. Ha chiesto perciò che sia garantito il rispetto del diritto dei cristiani e degli altri gruppi etnici religiosi a rimanere nelle terre di origine e, qualora siano già stati costretti ad emigrare, abbiano il diritto di ritornare in condizioni adeguate di sicurezza, «avendo la possibilità di vivere e di lavorare in libertà e con prospettive di futuro». Cui si sono aggiunte le puntuali considerazioni del segretario di Stato mons. Parolin, che non si è limitato ad affermare la liceità dell’uso della forza per fermare l’aggressore ingiusto, ma ha sottolineato che la pace va cercata «non con scelte unilaterali, imposte con la forza, ma tramite il dialogo che porti ad una soluzione regionale e comprensiva». Ha posto poi in primo piano la questione degli acquidialoghi n. 4 dicembre 2014 PiErGiorGio GraSSi Dialoghi04-14-1-75_Dialoghi4/04p1-77 01/12/14 12.36 Pagina 3 3 Dialoghi04-14-1-75_Dialoghi4/04p1-77 01/12/14 12.36 Pagina 4 L’ombra DEL CaLiFFo EDitoriaLE 4 renti del petrolio proveniente dai pozzi sotto tutela degli islamisti e la questione dell’esportazione di materiale bellico verso i paesi coinvolti nelle vicende; materiale bellico sofisticato che è entrato nei magazzini del nuovo Stato islamico ed è ampiamente utilizzato sul campo di battaglia. Ricordando infine che la soluzione del conflitto israelo-palestinese è parte integrante di un progetto di pace non effimero. Gli analisti politici sono stati colti di sorpresa da come, in pochissimo tempo, siano state impiantate nei territori occupati strutture che assicurano il governo del territorio, un vero embrione di Stato. Lavorano infatti a pieno ritmo le corti islamiche con l’obiettivo di rassicurare la popolazione, riportando l’ordine in zone sprofondate nella conflittualità permanente; funziona anche un sistema di welfare e vengono dedicate risorse all’educazione, con l’obiettivo di indottrinare le nuove generazioni di cittadini del califfato, mentre su Internet, nei vari siti jihadisti, vengono postati video che mostrano i doveri del buon credente, compresa la partecipazione alla demolizione di monumenti politeisti (chiese cristiane incluse, talvolta risparmiate per trasformarle in istituti della sharia). Eccellente propagandista di se stesso, l’Is fa un uso spregiudicato delle nuovissime tecnologie dell’informazione, con messaggi mirati ad un pubblico differenziato e «sfrutta il riflesso giornalistico che deforma nello specchio mediatico “il mostro” di stagione» (Renzo Guolo). I dirigenti rivelano anche capacità imprenditoriali e gestiscono un intenso mercato nero delle risorse petrolifere commerciabili, sia siriane sia irachene. Uno degli ultimi atti: il conio di monete in oro, argento e rame (i dinari), che intende rimpiazzare «il sistema monetario tirannico imposto ai musulmani e che ha portato alla loro oppressione». Una così rapida espansione dell’Is si spiega con l’appoggio dei clan locali sunniti (emarginati dal regime siriano e dal governo iracheno in mano agli sciiti), con il ruolo assunto dagli ex ufficiali dell’esercito, incarcerati dopo l’attacco delle truppe statunitensi del 2003 contro Saddam, con l’apporto sul terreno di battaglia di coloro che hanno preso parte «alla lunga saga combattente islamica», iniziata con la mobilitazione antisovietica in Afghanistan e che attira oggi giovani convertiti all’Islam provenienti da diversi paesi europei, dagli Stati Uniti, dal Canada, dall’Australia. Il radicalismo delle sue posizioni fa apparire l’Is come un movimento autenticamente rivoluzionario, «sia pure sotto la forma tragica e sanguinaria di una rivoluzione conservadialoghi n. 4 dicembre 2014 trice». Secondo Olivier Le Roy, uno degli studiosi più attenti del mondo musulmano, il fascino di «questo nichilismo suicida» sta nell’essere «la sola causa plausibile presente sul mercato». I nuovi aderenti, spesso marginali o mal integrati nella comunità musulmana di origine, si sentono militanti di un mondo globale, poiché l’Islam offre loro una dimensione globale, forse anche mistica, offre un nome ad una causa. Sono il sintomo della crisi profonda che colpisce tutte le culture le quali mettono sempre più l’accento sugli elementi identitari piuttosto che su quelli universalistici, i soli che permetterebbero il dialogo, la comprensione reciproca, la cooperazione. Il fenomeno del jihadismo sembra destinato a durare anche dopo un’eventuale sconfitta militare del Califfato. Per sconfiggere l’esercito del neonato Stato islamico, infatti, i paesi confinanti hanno stabilito un’alleanza dai contorni ancora ambigui, se è vero che fanno parte di questa coalizione coloro che hanno sostenuto sinora i movimenti islamisti, come l’Arabia Saudita. D’altra parte, il movimento fondatore dell’Is ha una natura ideologica netta e precisa, capace di riproporsi anche di fronte ad una sconfitta militare. Le sue radici affondano nella tradizione rigorista inaugurata da Muhammad Abd’ al Wahab, che nel XVIII secolo predicava il ritorno alle fonti, ad un Islam puro e depurato da tutte le novità riprovevoli importate dalle potenze coloniali che si erano affacciate nella penisola arabica, culla originaria dell’Islam. Di questa tradizione si sono alimentati i movimenti contemporanei, come quello dei salafiti, che ne hanno operato una torsione in senso politico. Non più la politica intesa come cornice in grado di consentire ai veri credenti l’obbligo di fede, ma come strumento necessario per includere o escludere dallo «Stato etico» che il movimento intende costruire. L’azione di contrasto non può avere solo forma militare e diplomatica. La dimensione culturale e il dialogo interreligioso potranno giocare un ruolo decisivo nei tempi lunghi. Occorrono istituzioni ed élite intellettuali islamiche affinché prendano una netta posizione di condanna e incoraggiare i tentativi in atto per una riapertura della ripresa interpretativa del Corano e della tradizione, dopo che questa era stata dichiarata conclusa nel IX secolo. Va sostanziato di ragioni l’appello lanciato ad Abu Dhabi dalla regina Rania di Giordania perché il mondo arabo e gli operatori della comunicazione si oppongano alla diffusione delle idee e delle prospettive propugnate dallo Stato islamico che mina il futuro dell’Islam: «Una minoranza di estremisti senza fede – ha dialoghi n. 4 dicembre 2014 PiErGiorGio GraSSi Dialoghi04-14-1-75_Dialoghi4/04p1-77 01/12/14 12.36 Pagina 5 5 Dialoghi04-14-1-75_Dialoghi4/04p1-77 01/12/14 12.36 Pagina 6 L’ombra DEL CaLiFFo EDitoriaLE 6 detto Rania – utilizza i social media per riscrivere la nostra storia, dirottare la nostra identità e modificare la nostra immagine». In effetti l’arcipelago islamico sta lentamente prendendo coscienza di quanto sia pericoloso «un Islam del risentimento», che fa una lettura unilaterale del Corano e della tradizione. Ha osservato Luis Saiko, patriarca caldeo di Bagdad, che spetta al mondo islamico offrire una lettura positiva dell’Islam stesso basata «sulla fraternità, la pace e l’ospitalità, incidendo sulla prassi quotidiana dei paesi a maggioranza musulmana, impedendo, ad esempio, che i programmi scolastici discriminino cristiani ed ebrei e che gli imam delle moschee lancino talvolta accuse pesanti contro le altre religioni», mentre dovrebbe valere il criterio di cittadinanza che non esclude e non separa, lasciando che la dimensione religiosa si esprima a livello personale e a livello comunitario, garantita da un ordinamento di libertà. Ma anche da parte dell’Occidente si esigono atteggiamenti e comportamenti meno contraddittori (meno legati alle varie “ragion di Stato” e più coerenti con i valori proclamati di libertà e democrazia). In questo autentico rompicapo che è la situazione mediorientale si vedrà se l’Europa sarà capace di assumere un atteggiamento unitario, superando i tanti e contrastanti interessi di cui sono portatori gli stati dell’Unione nei vari focolai di guerra. La visita di Francesco al Parlamento di Strasburgo è stata l’occasione per richiamare l’Europa all’esercizio delle sue responsabilità nel contesto globale e all’ascolto del grido dei poveri e delle minoranze religiose oppresse, in forza della sua storia e della sua collocazione geopolitica. A Istanbul, al presidente della Turchia Recep Tayp Erdogan, il Papa ha poi ricordato la necessità che «i cittadini musulmani, ebrei e cristiani, tanto nelle disposizioni di legge, quanto nella loro effettiva attuazione, godano dei medesimi diritti e rispettino i medesimi doveri», con l’indicazione di un cambiamento di rotta rispetto ai conflitti in atto: rinnovare il coraggio della pace, sostenuto dal dialogo interreligioso e interculturale, «così da bandire ogni forma di fondamentalismo e di terrorismo che umilia gravemente la dignità di tutti gli uomini e strumentalizza la religione». Parole nette, pronunciate in un paese che ha visto una rapida islamizzazione dello Stato e corre il rischio, son sempre schivato, di ostacolare l’espressione di un autentico pluralismo. (1 dicembre 2014) dialoghi n. 4 dicembre 2014