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SOCIALE Il percorso dell’affido familiare: dalla valutazione all’intervento In Puglia si privilegia ancora il ricovero in strutture residenziali Chiara Lamuraglia*, Maria Grazia Foschino Barbaro* *Servizio di Psicologia, A.O.U. Consorziale Policlinico – Giovanni XXIII di Bari Introduzione L’affido familiare è un intervento che “si rivolge a quei bambini e a quelle bambine, ragazzi e ragazze, appartenenti a nuclei familiari nei quali i momenti di disagio e di particolari difficoltà non si concretizzano in una forma esplicita di abbandono morale e materiale dei figli/e ma in cui un’ulteriore permanenza nella famiglia di origine potrebbe incidere negativamente sul loro sviluppo. In tali casi l’inserimento della/o bambina/o in una famiglia affidataria offre un ambiente idoneo per una sua crescita armonica in attesa di un suo cambiamento nel suo nucleo di origine” (CNDAIA, 1998). In Italia, l’istituto dell’affido familiare è previsto e regolamentato dalla legge 184/83, “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento del minori”, modificata con la legge 149/2001, “Diritto del minore ad una famiglia” con l’obiettivo principale di salvaguardare gli interessi dei minori in caso di esperienze sfavorevoli vissute all’interno dell’ambiente familiare di appartenenza, fornendo aiuto e sostegno al minore ed alla sua famiglia per favorirne la continuità del rapporto affettivo e rendere possibile ed efficace il reinserimento del minore all’interno del nucleo una volta cessata la condizione di difficoltà. Esso si configura come una modalità di intervento complessa ed articolata che prevede la presa in carico di una pluralità di soggetti (il minore/i, la famiglia di origine, la famiglia affidataria, i servizi sociali, il tribunale per i minorenni, la rete di famiglie e le associazioni che sul territorio offrono servizi di formazione e supporto). Si tratta di un tipo di protezione che passa prioritariamente attraverso la cura ed il sostegno dei legami familiari e delle funzioni genitoriali ma anche attraverso una dovuta protezione sostitutiva, ove questi legami non garantiscano in modo adeguato i diritti del bambino, attribuendo alle istituzioni ed ai cittadini la capacità di costruire un sistema solidale di reti formali ed informali, professionali e associazionistiche che guardi ai bambini ed agli adolescenti come a un bene comune da salvaguardare (Cfr. Linee Guida Regionali per l’Affidamento Familiare in Puglia pubblicate sul B.U.R.P. n.70 dell’11 maggio 2007). Fra le sue caratteristiche principali vi sono quella della temporaneità (si parla, infatti, di allontanamento temporaneo del minore dalla sua famiglia di origine nella previsione del suo rientro nella propria famiglia) e quella del mantenimento dei rapporti con la famiglia di origine. In particolare, i principali obiettivi alla base di un progetto di affido possono essere così riassunti (Cassibba, Elia, 2007): 1) Offrire al bambino modelli di relazione ben funzionanti e la possibilità di disporre di cure adeguate per poter conseguire le normali tappe del suo sviluppo fisico, emotivo, affettivo e sociorelazionale; 2) Favorire il recupero, nel minore in difficoltà, di eventuali ritardi, distorsioni o blocchi evolutivi; 3) Aiutare e sostenere la famiglia di origine del bambino ad acquisire o potenziare le proprie capacità genitoriali in modo da favorire il rientro del minore in famiglia. 1 Per rispondere a tali obiettivi, l’intervento di affido si configura come un processo dinamico in rapporto all’evoluzione della famiglia di origine, dei bisogni del minore ed alla verifica dei risultati raggiunti ed implica la fiducia, da parte degli operatori e della famiglia affidataria, nella possibilità di mutare la situazione di disagio e di promuovere i punti di forza e le risorse reciproche ivi compresa la capacità della famiglia di origine di esprimere e sviluppare forme di autopromozione e tutela. Per tali motivi, con riferimento alle modalità di attuazione, sono state previste diverse tipologie e forme di affidamento familiare (residenziale intra o etero familiare o part-time, educativo, professionale, bed and breakfast, omo o etero culturale, etc.,…) che tengono conto sia dell’età del minore, sia della natura delle problematiche che hanno determinato la necessità di allontanamento dal nucleo familiare, allo scopo di fornire una risposta adeguata alla condizione di disagio di cui il minore è portatore. Vediamo brevemente quali sono, nell’esperienza dei protagonisti dell’intervento, gli aspetti psicologici, affettivi e relazionali che caratterizzano le diverse fasi del percorso. Il minore: vissuti e bisogni affettivi. Le diverse condizioni che rendono l’ambito familiare imprevedibile e malsicuro (alcolismo o tossicodipendenza dei genitori, malattie psichiatriche, gravi malattie invalidanti, tracolli finanziari e soprattutto violenza assistita, cioè coinvolgimento del minore in atti di violenza compiuti su figure di riferimento per lui affettivamente significative) incidono in maniera rilevante sulle diverse aree dello sviluppo del bambino, a seconda anche dei bisogni specifici che un bambino presenta nella fase di sviluppo che sta attraversando. Ciò che accomuna tali esperienze sfavorevoli, rendendo differenziabili le loro conseguenze in termini di sintomi e comportamenti, spesso disfunzionali (Ongari, Pompei, 2003), è il fatto che esse compromettono l’equilibrio psicologico, presente e futuro, del bambino. A tal proposito, Van der Kolk (1994) ha mostrato l’effetto pervasivo che l’abuso cronico o la trascuratezza familiare hanno sui regolatori biologici e psicologici, in quanto viene a mancare quel sostegno esterno (i familiari) che costituisce la condizione necessaria affinché il bambino possa imparare a gestire gli stati affettivi interni e le risposte comportamentali per far fronte agli stressor esterni. Per chiarire tale relazione, la teoria dell’attaccamento rappresenta una interessante chiave interpretativa in quanto permette di comprendere i processi di sviluppo considerando i sistemi di rappresentazione mentale, di memoria, di espressione, di regolazione emotiva e di manifestazioni comportamentali in essi implicati. In particolare, lo specifico pattern di attaccamento che si sviluppa all’interno della relazione tra il bambino ed il suo caregiver si traduce in una rappresentazione di sé e del genitore nelle relazioni di attaccamento e guida di conseguenza il comportamento di attaccamento (Bowlby, 1988; Bretherton, 1990), permettendo al bambino di disporre di coordinate per relazionarsi col mondo esterno e di formarsi aspettative sugli “altri significativi”. Questi precoci pattern comportamentali sono stati interpretati come manifestazioni dei Modelli Operativi Interni (Bretherton and Munholland, 1999) i quali si ipotizza siano in grado di influenzare più tardi la capacità del bambino di regolare le proprie emozioni (Easterbrooks et al., 2000; Siegel, 1999; Bradley, 2000). Un bambino che ha ricevuto cure inadeguate, trascuranti o maltrattanti all’interno del proprio nucleo d’origine nutrirà, pertanto, aspettative di rifiuto, di intrusività o, nel caso dell’attaccamento disorganizzato (Main, Morgan, 1996; Solomon, George, 1999), di ulteriore pericolo connesse alle proprie richieste di attaccamento. In particolare, la caratteristica principale dei modelli di attaccamento atipici è rappresentata da una marcata incoerenza dei diversi comportamenti rispetto ad una strategia definita per garantirsi la vicinanza alla madre. I disturbi dell’attaccamento segnalano, infatti, un disturbo globale del sentimento di protezione e sicurezza del bambino e si sviluppano all’interno di relazioni gravemente 2 patologiche in cui risulta alterata la funzione fondamentale del sistema dell’attaccamento: la possibilità che il bambino possa sperimentare un senso di sicurezza interno. Studi empirici hanno dimostrato come, al termine del primo anno di vita, nei bambini provenienti da famiglie ad alto rischio (figli di madri nubili, adolescenti ed economicamente svantaggiate, bambini che crescono in famiglie caotiche e maltrattanti, oppure figli di madri gravemente depresse o alcoliste), la maggioranza o quasi (dal 40 all’80% circa dei bambini, a seconda dei campioni studiati) mostra disorganizzazione dell’attaccamento (Carlson et al., 1989; Lyons-Ruth, 1996; O’Connor, Sigman & Brill, 1987; Radke-Yarrow et al., 1995). Essa induce alla formazione di rappresentazioni diverse e non integrate di sé e degli altri (Liotti, 2005) che possono attivarsi simultaneamente nelle situazioni stressanti o di pericolo ostacolando lo sviluppo di un senso di sé coerente ed integrato e rendendo, in tal modo, difficile il processo di regolazione emotiva ed a conseguenti comportamenti disfunzionali di perdita di controllo (Lyons-Ruth, Jacobvitz, 1999). E’ molto probabile che in tal caso l’esito evolutivo, in assenza di fattori protettivi alternativi, sia di tipo patologico (Caviglia, 2003; Dazzi, De Coro, 2001; Barone, 2007). Questi bambini, pertanto, necessitano non solo di regolare la comunicazione emotiva ma anche le principali funzioni mentali, in particolare la capacità di vedere se stessi e gli altri in termini di stati mentali. Se nel mondo interno del bambino non si strutturano strategie coerenti di relazione con gli altri, sia i bambini che i loro affidatari sperimenteranno sentimenti di angoscia, disorientamento e crisi psicologica (Ongari, Pompei, 2003). Inoltre, va sottolineato come la specifica natura dei modelli operativi interni dei bambini non è facilmente determinabile nei casi di severe e precoci deprivazioni in cui le prime esperienze emotive ed affettive sono per la maggior parte sconosciute. L’esperienza emotivo-affettiva del bambino collocato in affido familiare è segnata, inoltre, anche da altre due condizioni emotivamente dolorose: la separazione dalla famiglia di origine e la necessità, per il bambino, di confrontarsi con comportamenti e pattern di funzionamento diversi, se non addirittura conflittuali, con riferimento alla famiglia di origine e quella affidataria. Ciò, inevitabilmente, implica un conflitto di lealtà fra famiglia di origine e famiglia affidataria (Zurlo, 1997) che può avere un impatto alienante generando una generale alterazione delle relazioni interpersonali (Arrigoni, Dell’Olio, 1998), disordini emotivi (Monheit, Mauffret-Stephan, Pandolfo, Levi, 1997) o una marcata autosvalutazione (Price, Landsverk, 1998) associata alla costruzione di un’immagine di sé negativa e caratterizzata dall’idea di non essere desiderabile e degno di amore, colpevole del proprio destino ed incapace di mantenere accanto a sé le figure adulte di riferimento. Inoltre, alcuni studi dimostrano come l’aumento del numero di separazioni dalle figure genitoriali accresce, negli adolescenti, i problemi di adattamento a livello cognitivo, emotivo, scolastico e del funzionamento comportamentale (Adam, Chase-Lansdale, 2002). I genitori affidatari si potrebbero trovare, di conseguenza, soprattutto nelle prime fasi di inserimento in famiglia, ad interagire con un bambino che esprime, attraverso isolamento e apatia o, al contrario, rifiuto e aggressività, la rinuncia ad investire affettivamente nelle relazioni nel tentativo di proteggersi dalla delusione e dal dolore di un'altra separazione. Malgrado il sostegno emotivo e la dedizione degli affidatari e dei loro modelli sicuri di attaccamento, alcuni bambini esprimono un sentimento di disperazione. Un inaspettato stimolo percettivo, anche se neutro, o una frustrazione prolungata, possono indurre reazioni incontrollate ed un improvviso cambiamento delle strategie relazionali. E’ evidente come l’adattamento socioemotivo di questi bambini sia così fragile che le strategie di regolazione nelle relazioni interpersonali possono facilmente crollare. L’adulto che riesce a ricondurre queste molteplici modalità relazionali al bisogno del bambino di essere accolto ed accettato nonché al senso di precarietà che caratterizza il suo essere nel mondo, sarà in grado di legittimarlo anche nella manifestazione di comportamenti “poco adeguati”, tipici 3 dell’espressione di un disagio, facendogli sperimentare una relazione profonda in cui potrà sentirsi desiderato ed amato anche quando agisce le parti di sé più fragili e carenti. A tal proposito, un ampio numero di studi scientifici sull’affidamento familiare ne ha evidenziato la funzione riparativa in quanto la possibilità, per i bambini, di sperimentare un’atmosfera familiare accudente e delle relazioni interpersonali sicure (Saviane Kaneklin, 1988) rende possibile la costruzione di una rappresentazione mentale di famiglia adeguata. Per tali motivi, l’intervento di affido si configura come “la relazione che cura attraverso la relazione” (Greco, Iafrate, 2001) che, permettendo di sperimentare relazioni intime positive, rende possibile una rielaborazione delle esperienze negative ed il recupero dell’autostima (Nunziante Cesaro, Ferraro, 1992). Molti studi, infatti, dimostrano come il poter sperimentare relazioni positive, di supporto ed adeguate con altri adulti possa compensare la relazione non adeguata sperimentata durante l’infanzia (Milan et al., 2004; Gee, Nicholson, Osborne e Rhodes, 2003). Infatti, grazie alla separazione dal nucleo familiare di appartenenza, al cambiamento dell’ambiente di vita ed all’accoglienza in un’altra famiglia, l’esperienza dell’affido familiare offre al bambino molteplici possibilità: vivere in sicurezza e a distanza dai genitori mantenendone una rappresentazione interna; beneficiare di un ambiente in cui l’insieme dei suoi bisogni è tenuto in considerazione; vivere all’interno di una famiglia di cui condivide la vita quotidiana, ricca per lui di esperienze nuove e arricchenti; disporre di un sostegno affettivo all’interno di un insieme di relazioni familiari stabili su cui può contare, di cui non può fare a meno nella sua situazione di separazione e che favorisce la prosecuzione del suo sviluppo ed il processo di costruzione della sua personalità. La famiglia di origine ed i motivi dell’allontanamento. Solitamente la famiglia di origine si presenta come multiproblematica (Garelli, 2000; Malagoli Togliatti, Tofani, 1987): essa non permette un sano sviluppo psicologico del bambino poiché lo costringe ad affrontare una realtà in perenne conflitto, caratterizzata da seri problemi nello svolgimento dei ruoli e dalla scarsa delimitazioni dei sottosistemi familiari. Sono famiglie in difficoltà quelle che, a causa di eventi particolari, perdono temporaneamente le capacità genitoriali e che, però, possono essere recuperate in un arco di tempo adeguato alle esigenze evolutive dei figli (Camerini, De Leo, Sergio, Volpini, 2007). I motivi per cui dei genitori non riescono a sviluppare e/o esprimere adeguatamente le competenze genitoriali possono essere molteplici: un bagaglio interiore personale di sofferenza; eventi critici familiari quali trasferimenti, lutti e perdite, fallimenti, malattie; un contesto economico-sociale e un ambiente culturale sfavorevole come condizione aggravante la crisi e facilitante comportamenti inidonei verso i figli (Ghezzi, Vadilonga, 1996). In letteratura, i criteri utilizzati per la valutazione delle condizioni di pregiudizio del minore sono collegati: a) al maltrattamento fisico, alla trascuratezza, al maltrattamento psicologico; b) all’abuso sessuale; c) al rapporto tra psicopatologia e violenza subita durante l’infanzia; d) alla patologia psichiatrica, alla devianza, alla tossicodipendenza e all’alcolismo del/dei genitori; e) ai fattori che influenzano gli esiti evolutivi nella violenza assistita familiare. Il riferimento è “a tutte le forme di cattiva salute fisica e/o emozionale, abuso sessuale, trascuratezza o negligenza o sfruttamento commerciale o altro che comportano un pregiudizio reale o potenziale per la salute del bambino, per la sua sopravvivenza, per il suo sviluppo o per la sua dignità nell’ambito di una relazione caratterizzata da responsabilità, fiducia o potere” (Consultation on Child Abuse and Prevention - WHO, 1999; Report on Health and Violence - WHO, 2002). 4 Durante la fase rappresentata dalla disposizione dell’affido da parte delle competenti autorità, è necessario compiere un’attenta valutazione relativa alla recuperabilità della famiglia di origine che permetta di predire se essa riuscirà, attraverso interventi mirati, a recuperare le proprie funzioni genitoriali per riaccogliere il minore. A tal fine possono essere utili alcuni indicatori proposti dal CISMAI (2005) che fanno riferimento alle caratteristiche della coppia genitoriale (caratteristiche disfunzionali della relazione di coppia, presenza di legami irrisolti con le rispettive famiglie di origine, incongruenza nella ricostruzione della propria esperienza infantile, incapacità di riconoscere il proprio disagio e mancanza di consapevolezza rispetto alla sofferenza ed alle carenze subite), al profilo di personalità di genitori (capacità di aderire alla realtà controllare gli impulsi, tollerare le frustrazioni, modulare la relazione affettiva), al rapporto con il minore instaurato dai genitori (capacità di costruire una relazione emotiva adeguata con il bambino, qualità e grado dell’investimento emotivo nei suoi confronti), ai rapporti tra i fratelli ed, infine, al grado di trattabilità terapeutica dl nucleo familiare (presenza di capacità metacognitive dei genitori, di assumersi le proprie responsabilità ed attivare comportamenti riparativi in funzione del cambiamento, di condividere un progetto d’intervento ripartivo, etc.,…). La prognosi sulla recuperabilità della famiglia dovrà basarsi, quindi, soprattutto sulla capacità dei genitori di elaborare le dinamiche loro mostrate nella fase diagnostica e di mettere in atto, nei confronti del figlio danneggiato, diverse modalità di relazione, senza ignorare che il benessere individuale o familiare è un continuo adattamento creativo a un mondo in continua trasformazione, entro il quale le persone vivono il loro essere: “uno stato che può essere raggiunto, perso e nuovamente guadagnato, e che comunque risulta positivo e desiderabile” (Cusinato, 1988). La legge 149/01 (art. 5 comma 1) definisce i principali compiti della famiglia di origine durante il percorso di affido familiare: • mantenere validi rapporti con il minore; • mantenere validi rapporti con i servizi; • partecipare agli interventi volti a risolvere i problemi che hanno posto la necessità dell’affidamento; • collaborare attivamente alla realizzazione dell’affidamento finalizzato al rientro del minore nel proprio ambiente di vita, rispettando accordi e indicazioni previste nel progetto. Con particolare riferimento alla delicatezza della fase iniziale, rappresentata dalla decisione di ricorrere all’affidamento ed il conseguente allontanamento del minore dalla sua famiglia, la famiglia di origine dovrà elaborare i vissuti di perdita e di abbandono, riconoscendo le proprie emozioni e le conseguenze che ne derivano sul piano comportamentale. Essa dovrà dare un senso a tale esperienza maturando la consapevolezza in merito alla sua utilità e, al contempo, contribuendo a chiarire ai figli le motivazioni che hanno portato a tale decisione: ciò significherà condividere con loro il senso del distacco, rendendoli consapevoli di come esso non sia definitivo ed aiutandoli a gestire le emozioni che caratterizzeranno la fase del passaggio. Durante il percorso di affido, invece, le principali difficoltà vissute dalla famiglia di origine riguardano il mantenere i contatti con il proprio figlio ed il sentirsi esclusi rispetto alle decisioni concernenti il minore, percependo una minaccia alla propria funzione genitoriale (Cassibba, Elia, 2007). I sentimenti che accompagnano la separazione saranno caratterizzati da rabbia, senso di impotenza, senso di competizione con la famiglia affidataria tanto più accentuati quanto meno è prevedibile l’evento (come accade nel caso dell’affido giudiziario). La famiglia affidataria: limiti e risorse. Obiettivo principale dell’intervento di affido è quello di far rientrare il minore nella propria famiglia di origine una volta superate le problematiche esistenti. Ne consegue che la famiglia affidataria è 5 chiamata a gestire i vissuti di perdita del minore conseguentemente all’allontanamento ma, allo stesso tempo, creare con lui una nuova relazione emotiva al fine di fornire un modello relazionale diverso da quello sperimentato nella famiglia di origine (Cassibba e Elia, 2007). Promuovere la resilienza nei bambini (soprattutto in percorsi di affido di lunga durata) non significa potenziare le abilità in generale ma lavorare verso il raggiungimento di obiettivi modesti di sviluppo che, tuttavia, riducono i fattori di rischio ed accrescono la resilienza (Gilligan, 2000; Schofield, 2001; Beek and Schofield, 2004): si tratta, cioè, di promuovere una sufficiente resistenza alle avversità attraverso la costruzione di una maggiore percezione di sicurezza personale ed interpersonale, il rinforzo dell’autostima, la promozione di singole competenze. Per tali motivi, durante il periodo di affidamento, la famiglia affidataria deve affrontare compiti molto complessi quali il favorire l’integrazione del minore nel nuovo contesto, adattarsi alla nuova situazione, aiutare il minore a fronteggiare i vissuti di perdita e la paura della separazione fornendogli un modello relazionale più funzionale di quello sperimentato nel nucleo di origine. Ai sensi della legge 149/01 (art. 5 comma 1), la famiglia affidataria deve impegnarsi a: • accogliere presso di sé il minore; • provvedere alla sua cura, al suo mantenimento, alla sua educazione e istruzione assumendo le necessarie attenzioni psicologiche, affettive e materiali; • garantire il rispetto della storia del minore, delle sue relazioni significative, dei suoi affetti e della sua identità culturale, sociale e religiosa; • assicurare la massima riservatezza circa la situazione del minore e della sua famiglia d’origine; • curare e mantenere i rapporti con la famiglia di origine e con tutti gli altri soggetti coinvolti, agevolando il rientro del minore nella propria famiglia, secondo le indicazioni contenute nel progetto di affidamento; • partecipare agli incontri di verifica sull’affidamento predisposti nel tempo dai servizi, secondo le modalità e le scadenze specificate nel progetto; • partecipare alle attività di sostegno e formazione svolte dal servizio preposto all’affidamento, al fine di promuovere occasioni di confronto e discussione sulle esperienze di affidamento e di promozione di una cultura dell’infanzia per realizzare i progetti di protezione e tutela del minore. Dal profilo degli affidatari emerge che, in genere, coloro che si dichiarano disponibili per l’esperienza di affido sono le persone più grandi e mature, coppie con una lunga convivenza alle spalle, con un grado di istruzione medio-alto ed un buon livello economico (Garelli, 2000). Una caratteristica che può rappresentare un’importante risorsa per la famiglia affidataria durante l’esperienza di accoglienza è rappresentata dalla flessibilità del sistema familiare ovvero dalla capacità di gestire l’equilibrio tra stabilità e cambiamento modificando strategie consolidate, al fine di rispondere alle esigenze specifiche di cui il minore in difficoltà è portatore. L’esperienza di affido, inoltre, costringe la famiglia a gestire i cambiamenti, accanto a quelli sul piano relazionale, a livello pratico ed organizzativo obbligandola a ristrutturate tempi e spazi di vita per creare uno spazio realmente accogliente. Le principali difficoltà che gli affidatari si trovano ad affrontare durante il percorso possono essere così riassunte: 1. Accettazione della doppia appartenenza del bambino (Greco, Iafrate, 2001). Ciò permetterà di sostenere il bambino nei vissuti legati al conflitto di lealtà: scartato dai genitori e dal suo ambiente familiare, messo a confronto con nuove figure genitoriali, con una forza accresciuta dalla perdita che gli è inflitta, il bambino, “condiviso” tra le due famiglie, tende a ripudiare l’uno a favore dell’altro mentre ha disperatamente bisogno di entrambi. La conoscenza di questo fenomeno obbliga gli adulti a contenere il bambino nei vissuti contrastanti che può provare attraverso la 6 vicinanza emotiva. Tuttavia, se gli affidatari riescono a costruire un senso di appartenenza e identità condivisa con il bambino, potranno avvicinarsi emotivamente a lui e permettergli di ottenere i massimi benefici dai contatti con la sua famiglia di origine (Beek, Schofield, 2004; Neil, Beek, Schofield, 2003). E’ stato, inoltre, dimostrato (Greco, 2002) che la mancanza di pesanti giudizi negativi verso la famiglia di origine del bambino è uno dei più importanti fattori predittivi del successo di un affido. 2. Gestire i legami di attaccamento distorti che il bambino introduce nel suo attaccamento alla famiglia di accoglienza; si tratta di legami fragili, o patologici, che ha costruito coi suoi genitori. E’ difficile per la famiglia d’accoglienza non ingaggiarsi in relazioni della stessa natura e trovare e mantenere la giusta distanza col bambino affinché non si verifichi una rottura di questo nuovo legame. Ciò impone la necessità di disconfermare continuamente le aspettative che il bambino si è costruito sulla base delle relazioni passate stabilite con gli adulti significativi (Schofield et al., 2000) attraverso la ricerca di vicinanza emotiva che consente di ascoltare e accogliere le loro emozioni (Penna, 2007). 3. Gestire le condotte disfunzionali (aggressività, atteggiamenti regressivi) che possono scaturire dalla difficoltà, per il bambino, di gestire, sul piano emotivo, le esperienze di doppia appartenenza, la presenza di scarsa fiducia in sé stessi e negli altri, i vissuti (ansia, colpa, tristezza) circa la propria condizione; affinché ciò si realizzi è necessario, da parte degli affidatari, il corretto riconoscimento ed interpretazione dei segnali di disagio, evitando di assumere un atteggiamento colpevolizzante (nei confronti di sé stessi, del minore o della sua famiglia). 4. Scegliere delle strategie educative più idonee per la trasmissione delle regole, affinché l’attenzione del minore si sposti dalla dimensione del potere di chi le determina al contenuto delle stesse ed alla loro funzione di garanzia per la buona convivenza nel contesto familiare (Cassibba e Elia, 2007). 5. Gestire le proprie emozioni riconducibili al senso di impotenza e inadeguatezza, alla scarsa conoscenza del passato del minore, alla eventuale delusione per la discrepanza tra realtà e bambino immaginato che, se non adeguatamente riconosciute e gestite, rischiano di produrre dei danni sul piano relazionale. Tutto ciò richiede, a chi decide di accogliere un bambino in difficoltà, delle abilità superiori a quelle possedute da una famiglia “normale” (Ongari, 1997): a tal proposito, diverse regioni, in Italia, hanno sperimentato dei programmi di formazione per “famiglie professionali” (Gallina, Ghezzi, Pavesi, 2002). Gli interventi di sostegno, accompagnamento, monitoraggio e valutazione. A partire dalla fase iniziale e per tutta la durata dell’affido, sono previsti interventi di accompagnamento psico-sociale, da parte degli operatori dei servizi (e, se presente, dell’associazione), e sostegno pratico da parte delle famiglie della rete di supporto. Da quanto detto, risulta evidente come un intervento focalizzato solo sul bambino indurrebbe un alto rischio di fallimento (Pearce, Pezzot-Pearce, 2001); per tale ragione è necessario un intervento di ampia portata focalizzata su tutti i soggetti coinvolti che sia, cioè, capace di modificare il contesto problematico che ha reso necessario l’allontanamento del minore e rendere possibile la ripresa del percorso evolutivo interrotto. Per tali ragioni, gli interventi da mettere in campo sono rivolti sia al minore, sia alla sua famiglia di origine, sia agli affidatari e sono progettati a partire dalle esigenze concrete e dalle caratteristiche degli attori sociali coinvolti e prevedono il coinvolgimento di professionalità diverse capaci di comunicare e coordinarsi fra loro per raccordare gli interventi ed evitare il rischio di generare confusione e disorientamento nei destinatari. 7 Essi vengono realizzati in tutte le fasi dell’iter con obiettivi e modalità differenti e possono essere di varia natura (psicoeducativi, psicoterapici, economici, etc.,…). Gli obiettivi alla base degli interventi possono essere riassunti facendo riferimento alle diverse fasi dell’iter. Fase iniziale: 1. sostegno psicologico alla famiglia di origine per: • favorire l’elaborazione dei vissuti di perdita e di abbandono; • dare un senso a tale esperienza; • coinvolgerla rispetto alla definizione del progetto; 2. pianificazione degli incontri del bambino con la famiglia di origine per: • aiutare entrambi a mantenere saldi i legami; • rendersi consapevoli di come la separazione non sia definitiva; 3. Sostenere il bambino e gli affidatari per facilitare l’adattamento alla nuova situazione. Durante il periodo di affido: 1. sostenere il bambino (ed i suoi genitori) nell’elaborazione dei vissuti di perdita; 2. permettere al bambino di mantenere saldi i legami con la sua famiglia migliorandone la qualità (attraverso incontri periodici programmati); 3. sostenere la famiglia di origine nel recupero delle proprie capacità genitoriali attraverso programmi di parenting ed interventi di home-visiting; 4. accompagnare gli affidatari nell’esercizio delle funzioni genitoriali; 5. sostenere e accompagnare la famiglia affidataria dal punto di vista psicologico, sociale ed economico. Fase finale: 1. sostenere il bambino e la sua famiglia di origine nella fase di riunificazione; 2. sostenere la famiglia affidataria nella fase del distacco. Problema centrale nella programmazione e realizzazione di tali interventi è rappresentato dalla necessità di comprendere quali siano i fattori che interagiscono nel determinare l’esito di un percorso evolutivo in una esperienza di affido; a tal fine può essere utile adottare una prospettiva bio-psico-sociale poiché i fattori di rischio e protezione associati al benessere individuale dipendono anche da fattori genetici e fisici, oltre che ambientali. Il temperamento e l’intelligenza, la salute ed il primo sviluppo del cervello giocheranno un ruolo importante in un modello interattivo di resilienza che considera l’intera gamma dei fattori biologici ed ambientali (Roy et al., 2000). Elemento indispensabile nell’ambito del percorso di affidamento familiare è rappresentato, pertanto, dalla possibilità di effettuare la valutazione degli interventi che, a sua volta, si configura come un processo complesso ed articolato. La valutazione è, infatti, da intendersi come un insieme di pratiche e strumenti da utilizzare nelle diverse fasi del percorso. La principale difficoltà è rappresentata dalla presenza di fasi differenti che si alternano ed includono molti scenari relazionali ed istituzionali. Nella fase iniziale di progettazione essa può fornire informazioni indispensabili per definire gli obiettivi e le modalità di intervento a partire da dati relativi alla recuperabilità delle funzioni genitoriali della famiglia di origine dei minori, alle caratteristiche del minore e dalla specifica natura del disagio che esprime, alle risorse ed i limiti delle famiglie affidatarie candidate all’affido fra le quali selezionare quella più idonea all’accoglienza di uno specifico caso. 8 Durante il periodo dell’affido la valutazione permette, invece, la verifica del conseguimento degli obiettivi intermedi dell’affidamento. A tal fine possono essere utili una serie di indicatori quali (Martin, 2000): • la stabilità del contesto di cure, intesa come permanenza del bambino nell’ambito dello stesso contesto familiare evitando trasferimenti continui; • il clima emotivo della famiglia affidataria (da rilevare o attraverso la misura dell’attaccamento, o attraverso la percezione dei bambini e delle famiglie, o attraverso l’osservazione diretta durante le visite domiciliari); • lo sviluppo del bambino ed il recupero di eventuali ritardi: ciò è reso possibile da una valutazione iniziale delle competenze e capacità del bambino che rappresenta la baseline in base alla quale verificare la presenza dei progressi nelle diverse aree della crescita (cognitiva, emotivo-affettiva, relazionale, etc.); • il recupero delle capacità di parenting da parte della famiglia di origine e ai cambiamenti a livello fisico, economico e sociale del contesto di appartenenza. Per quanto riguarda, infine, la valutazione finale di efficacia dell’affido familiare, alcuni studi retrospettivi (Sbattella, 1999) hanno posto l’accento sulle caratteristiche individuali e su elementi del contesto come possibili fattori di successo. Accanto alle caratteristiche del bambino (età, precoci problemi comportamentali, etc.) e quelle della famiglia di origine, vengono anche considerati il funzionamento della famiglia affidataria ed il ruolo svolto dai servizi sociali, dal sistema giudiziario e sanitario. Tutti gli studi concordano, inoltre, sull’importanza della qualità dell’abbinamento del bambino con la famiglia affidataria (Chistolini, 1998; Guida, Saviane Kaneklin, 1993; Ongari, 1999; Ongari, Pompei, 1996; Sbattella, 1999). A tal proposito, sarebbe opportuno poter valutare anche gli obiettivi a lungo termine dell’affidamento (Cassibba, Elia, 2007). Gli studi di follow-up fanno riferimento ai seguenti indicatori: • poter disporre, da parte del bambino, di un contesto di cure stabili entro un periodo di tempo ragionevolmente breve evitando un lunga permanenza del bambino in uno stato di incertezza rispetto alla propria identità ed appartenenza familiare; • l’impatto dell’esperienza di affido sul funzionamento dell’individuo a lungo termine (possibile se si dispone dei dati iniziali che rappresentano la baseline a cui riferire il confronto con i dati ottenuti al termine dell’esperienza); • il raggiungimento dell’autosufficienza in età adulta (a livello economico, lavorativo, abitativo, etc.,); • competenze socio emotive e soddisfazione per la propria vita (capacità di formare una propria famiglia, qualità delle relazioni sociali ed ampiezza della rete di supporto sociale, mantenimento dei contatti con la famiglia di origine e con quella affidataria, benessere personale, l’adattamento sociale). In generale, è da rilevare come il processo di valutazione imponga l’utilizzo di una metodologia valida dal punto di vista scientifico. Come rilevano Cassibba ed Elia (2007), attualmente gli studi presentano dei limiti metodologici che è necessario superare al fine di verificare l’utilità degli interventi messi in atto e poter accertare le effettive potenzialità dello strumento dell’affido familiare. 9 Lo scenario a livello locale Avendo descritto obiettivi e caratteristiche generali dell’intervento di affidamento familiare, anche a partire dai bisogni dei soggetti coinvolti, è opportuno fare un breve riferimento allo scenario locale analizzando alcuni indicatori di tipo quantitativo. Secondo i dati dell’Osservatorio Regionale delle Politiche Sociali (2007), l’abbandono è un problema manifestatosi con cifre rilevanti sul territorio pugliese e che necessita di una tempestiva risoluzione. Inoltre, i dati parlano di un ricorso all’affido familiare in Puglia in misura leggermente superiore a quanto avviene a livello nazionale e con la medesima tendenza alla crescita lenta del ricorso al percorso dell’affido familiare per la presa in carico di minori sottoposti a provvedimenti di allontanamento dal nucleo familiare di origine. Inoltre, si evidenzia, in Puglia, la tendenza a prediligere il ricovero in strutture residenziali rispetto all’istituto dell’affido familiare, mostrando come questa soluzione venga considerata una risposta “definitiva”, salvo che non si possa configurare il rientro nella famiglia di origine. Infatti, i casi di dimissioni dalle strutture non evolve facilmente in percorso di affido familiare. Con riferimento alle caratteristiche di quest’ultimo, si rileva come vi sia una netta prevalenza dell’affido intrafamiliare (71%) su quello etero familiare. La rilevazione effettuata presenta anche i dati sulla natura giuridica dell’affidamento, con una netta maggioranza di affidi giudiziali (83,8%). Con riferimento alla durata dei periodi di affidamento alla famiglia affidataria, si rileva, contrariamente a quanto previsto ai sensi della L. 149/01, il 73,1% degli affidi supera il tetto massimo dei 24 mesi previsti; di questi, ben il 48,7% ha una durata superiore ai 4 anni. Alla luce di tali dati, è possibile sostenere come, nonostante la Puglia sia nella media nazionale e ne segua la tendenza rispetto al ricorso all’affido familiare, lo scenario si caratterizzi dall’essere ancora lontano dagli obiettivi previsti; pertanto, è necessario che la Regione e la rete dei Comuni continuino ad impegnarsi per la promozione dell’affido al fine di ridurre il numero dei minori presenti nelle strutture residenziali e la durata temporale della permanenza dei minori in comunità educative o familiare, offrendo, al contempo, una reale alternativa per gli stessi minori, quando intervengano le condizioni, ed attivare un efficace e valido percorso di affiancamento e sostegno rivolto anche alla loro famiglia di origine. Conclusioni Appare evidente come, nella gestione pratica degli interventi, lo strumento dell’affido venga spesso erroneamente utilizzato come unica possibilità di intervento per la gestione di situazioni di disagio familiare e sociale anche di severa entità che richiederebbero, invece, la messa in atto di interventi molto più complessi ed articolati; in mancanza di alternative valide, l’intervento di affido spesso diventa una inefficace risposta sostitutiva e compensatoria ai problemi. Per superare tale limite, è necessario, innanzitutto, prevedere la possibilità di affiancare a tale modalità di presa in carico altre forme di sostegno sociale al fine di differenziare l’offerta di servizi ed interventi sulla base dei bisogni specifici dell’utenza. Inoltre, bisognerebbe rendere molto più efficace e strutturata la valutazione a medio e a lungo termine degli interventi attuati, con l’obiettivo di individuare i fattori di successo di un percorso di affido ed i fattori che ne possano ostacolare una buona riuscita predisponendo validi strumenti per la verifica degli esiti. Ciò significa, in altri termini, ripensare l’istituto dell’affido secondo una logica di rilancio. Negli ultimi anni si sta assistendo ad un processo di maggiore responsabilizzazione da parte degli attori sociali coinvolti che si rendono sempre più capaci di condividere pratiche ed obiettivi; tuttavia, si impone la necessità di una rivoluzione sul piano culturale che riporti al centro delle politiche sociali una logica di prevenzione piuttosto che d’intervento e cura in situazione di crisi, 10 collocando anche lo strumento dell’affido familiare in uno scenario politico, sociale e culturale più sensibile e capace di riconoscere ed accogliere i bisogni dei soggetti in difficoltà. Ciò richiama la necessità di una “modellizzazione degli interventi” attraverso il raccordo delle esperienze, la definizione di un approccio comune, una programmazione a lungo termine (Mangarella, 2008). A tal proposito, interessante risulta il riferimento ad un’indagine, condotta dal “Centro nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza” (CNDAIA, 2009), che ha analizzato le buone pratiche in materia di esperienze di affidamento familiare e che permette di mettere in evidenza alcune importanti aree d’innovazione nelle esperienze di affido condotte a livello nazionale. La prima è individuabile nelle esperienze di affido omoculturale realizzate per l’affido di minori stranieri in Italia: tale modalità ha l’obiettivo di superare i limiti e le difficoltà rappresentate dalle differenze culturali che rendono più difficoltoso il processo di adattamento e integrazione del minore all’interno della famiglia affidataria nei casi di affido etero culturale. Una seconda area di innovazione è quella del coinvolgimento di organizzazioni e gruppi di famiglie nello sviluppo delle azioni promozionali per trovare nuove famiglie disponibili all’affido che, in qualche pratica, si spinge sino al coinvolgimento delle stesse organizzazioni anche nelle fasi successive. Da queste esperienze si attendono, nei prossimi anni, indicazioni non generiche, in ordine alla possibilità di costruire alleanze strategiche riflettendo sull’aspetto della funzione di regia, per comprendere come essa può essere garantita in un settore ad alto tasso di complessità e delicatezza come quello dell’affidamento familiare. Una terza area di innovazione riguarda il tema degli affidamenti professionali, che, al di là delle specificità delle singole esperienze, si muovono partendo dall’idea che sia possibile attivare situazioni di affidamento familiare coinvolgendo famiglie con livelli accertati di competenza tecnica-professionale, in quanto provenienti da organizzazioni operanti nel territorio o da altri soggetti del terzo settore (ad esempio le comunità residenziali). Una quarta area di innovazione riguarda, infine, il tentativo di costruire reti di famiglie affidatarie per svolgere una funzione di mutuo-aiuto ma anche per sperimentare forme di affidamento con più famiglie coinvolte. Si tratta di una modalità attuata per gestire situazioni molto critiche e compromesse di minori e di famiglie, potendo contare sulla capacità non di una sola famiglia ma di più famiglie contemporaneamente nella stessa situazione. Senza entrare nel merito delle specifiche esperienze realizzate, è opportuno sottolineare la necessità di lavorare al fine di poter esportare i modelli di intervento risultati efficaci anche in contesti diversi da quelli in cui sono stati sperimentati: ciò rende necessario poter analizzare gli aspetti specifici che ne hanno garantito il successo ed i fattori che potrebbero, al contrario, ostacolarne la riuscita qualora la realizzazione degli interventi non tenesse conto dei vincoli e delle opportunità che caratterizzano i diversi contesti. APPENDICE NORMATIVA: GLI INTERVENTI REALIZZATI DALLA REGIONE PUGLIA LR 10 luglio 2006, n. 199 Disciplina del sistema integrato dei servizi sociali per la dignità e il benessere delle donne e degli uomini in Puglia. BUR Puglia 12 luglio 2006, n. 87. Regolamento reg. 18 gennaio 2007, n. 4 Legge regionale 10 luglio 2006, n. 19 - “Disciplina del sistema integrato dei servizi sociali per la dignità e il benessere delle donne e degli uomini di Puglia”. 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