Sulla scienza cognitiva. Con- versazione con Cristiano Castel

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Sulla scienza cognitiva. Con- versazione con Cristiano Castel
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Sulla scienza cognitiva.
Conversazione con Cristiano Castelfranchi
Cristiano Castelfranchi
Marco Cruciani
Istututo di Scienze e
Tecnologie della Cognizione
[email protected]
Università degli Studi di Trento
[email protected]
Keywords:
Mente, Rappresentazione,
Coscienza,
Emozioni,
Mind reading
Pages:
8 – 20
Introduzione
Il professor Cristiano Castelfranchi è tra i massimi esponenti a livello internazionale di scienza
cognitiva. Già direttore dell’Istituto di Tecnologia e Scienze della Cognizione del CNR e docente presso l’Università di Siena, ha pubblicato numerosi lavori di ampio respiro che hanno
contribuito alla formazione di una vasta rappresentanza di scienziati cognitivi di seconda generazione. Marco Cruciani vi intrattiene una piacevole conversazione esplorando temi fra i più
pregnanti della scienza cognitiva, come la natura della mente, il rapporto con la coscienza,
il ruolo delle emozioni nella vita mentale e nella condotta, le neuroscienze e lo studio del
cervello, la mente e l’artificiale, la computazione, le rappresentazioni mentali, l’intelligenza,
il metodo della scienza cognitiva e l’interdisciplinarietà, il ruolo del sociale nei processi mentali e il ruolo dei processi mentali nel sociale, la mente collettiva, la complessità e i fenomeni
emergenti, il riduzionismo e il riconduzionismo, le funzioni manipolatorie del mind reading,
la soggettività, il valore sociale della scienza cognitiva e altro.
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M.C.: Caro professore, iniziamo cercando di inquadrare cosa è scienza cognitiva,
ovvero qual è il suo oggetto e il suo metodo?
C.C.: Naturalmente quella che presento è la mia visione, ma penso che sia abbastanza obiettiva dal punto di vista storico. Scienza cognitiva in un certo senso
è come dire l’esito, il risultato della rivoluzione paradigmatica del cognitivismo.
Le scienze conoscono delle rivoluzioni, non solo dei progressi continui piccoli
e grandi, e una di queste rivoluzioni nelle scienze del comportamento è stata il
passaggio al cognitivismo, la scienza cognitiva è l’esito di ciò. A mio modo di
vedere, questa rivoluzione è dovuta all’impatto delle scienze dell’artificiale del secolo scorso, cioè la teoria dell’informazione, l’informatica, la cibernetica, ecc. sulle
scienze umane. Questo impatto ha trasformato radicalmente le scienze umane
perché le ha dotate finalmente di strumenti nuovi per modellare la mente, ad esempio in termini di elaborazione dell’informazione, questa è stata la rivoluzione
veramente importante. Ora, cos’è la scienza cognitiva? E’ una specie di inter
o superdisciplina, perché in realtà ci sono varie scienze cognitive: la linguistica
cognitiva, l’antropologia cognitiva, la psicologia di orientamento cognitivista, che
praticamente è dominante nelle scienze psicologiche, ecc. Tutte queste discipline,
tuttavia, condividono il tentativo di formare una modellistica unica capace di usare le metodologie delle varie discipline per creare una visione unificata; questa
è l’ambizione, la sfida della scienza cognitiva come espressione interdisciplinare,
superdisciplinare rispetto alle scienze cognitive prese singolarmente.
Qual è il suo oggetto? Il suo oggetto come dicevo è la mente, la mente come
spiegazione del comportamento. Il claim fondamentale della visione cognitivista è
che non si può capire il comportamento se non si modellano le cause retrostanti,
i processi retrostanti, i meccanismi che lo determinano, che sono le rappresentazioni mentali e il loro processamento, elaborazione e costruzione. In altre parole, in polemica con il comportamentismo, il comportamento non è spiegabile
in termini di stimoli, è spiegabile solo in termini dell’interpretazione soggettiva
degli eventi, delle situazioni, degli stimoli e delle rappresentazioni degli stimoli che
costruisco nella mente. L’oggetto della scienza cognitiva è la mente come sistema
che regola la condotta in funzione finalistica. Per quanto riguarda i metodi, un po’
come dicevo, tutti i dati e tutti i metodi delle scienze cognitive dall’antropologia,
alla linguistica, alla psicologia sperimentale, alle neuroscienze sono metodi buoni
per la scienza cognitiva, tutti questi dati sono dati fondamentali. L’aspetto veramente aggiuntivo, rivoluzionario, è stato ed è la modellistica computazionale. La
necessità e l’importanza di questa modellistica si traduce anche nell’approccio simulativo, cioè nel fare esperimenti con modelli simulati al computer e nell’approccio
sintetico, cioè nel costruire entità tipo robot o altro che esprimono dei comportamenti significativi e rilevanti sulla base di abilità cognitive.
M.C.: Quindi la scienza cognitiva è interdisciplinare o superdisciplinare. Ma come
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si deve intendere l’interdisciplinarietà? Rispetto alla metodologia? Al sistema concettuale di riferimento? Alla salienza accordata ad alcuni aspetti del mentale piuttosto
che ad altri, ecc.?
C.C.: Come dicevo prima l’interdisciplinarietà è fondativa per la scienza cognitiva, non è una scelta facoltativa, è una necessità, fa parte della sua natura. Cosa
vuol dire interdisciplinarietà? C’è un aspetto metodologico ma non solo, vi è
un aspetto sottovalutato che è quello concettuale. E’ ora che le scienze cognitive chiariscano i concetti, anziché ognuna appropriarsi di un piccolo aspetto di
un concetto, sviluppandolo per conto proprio. L’aspetto concettuale è molto importante, la situazione della psicologia è ancora quella che diceva Wittgenstein
degli anni 50: è impressionante per l’avanzamento metodologico, statistico, per
i dati, ma è debolissima dal punto di vista della confusione concettuale. Penso
che abbia purtroppo ancora ragione Wittgenstein. Quindi c’è un’integrazione concettuale e poi c’è un’integrazione dei modelli e della modellistica, cioè l’uso comune
delle modellistiche di varie discipline per proporre soluzioni ottimali. Abbiamo
bisogno di definire i concetti in modalità procedurale, operazionale, non ci basta
una definizione verbale, puramente filosofica, però dobbiamo lavorarci assieme per
avere una definizione operazionale valida per tutti.
M.C.: A questo punto di sviluppo della disciplina si può isolare una teoria o un
corpus di teorie della scienza cognitiva?
C.C.: Sì e no, nel senso che si dovrebbe guardare alla storia, ormai lunga di
decenni e decenni, per esempio dell’Associazione di scienza cognitiva o delle riviste che hanno dato una specializzazione, una focalizzazione, e, tuttavia, se si va a
vedere questa storia si vede che spesso sono aree, approcci, scuole, non esiste ancora un vero patrimonio completamente convergente. Dal punto di vista generale
ed epistemologico direi che non c’è ancora un corpus completo, penso che dobbiamo costruirlo abbastanza presto anche con la convergenza e con l’importante
sviluppo delle neuroscienze cognitive, dell’economia cognitiva, ecc.
M.C.: Cosa si intende con cognitivo e cognitivismo?
C.C.: Una cosa importante da chiarire è l’equivoco che c’è sul termine cognitivo, che da luogo a un grave errore, e cioè che cognitivo in origine si riferiva ai
processi della conoscenza, i famosi processi cognitivi studiati dalla psicologia: attenzione, pensiero, linguaggio, percezione. No, non è così. In realtà nella rivoluzione
cognitivista all’inizio del cognitivismo, cognitivo è sinonimo di mente, cioè cognitivo, cognitivismo non è una parte dei processi psichici, non è una parte della
psicologia, cognitivismo è un modo di studiare la mente, il comportamento, tutta
la mente: le emozioni, assolutamente si, la personalità, ecc. Oggi si tende a usare il termine cognitivo nuovamente in modo restrittivo, cioè dove cognizione è
una parte del mentale, ma non è questa l’origine del cognitivismo e della scienza
cognitiva. La scienza cognitiva non è una scienza della conoscenza, è un modo di
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analizzare la mente e i processi psichici.
M.C.: Quindi anche i processi inconsci?
C.C.: Certamente.
M.C.: Quali sono i concetti cardine e di riferimento nella scienza cognitiva? Il sistema concettuale che è in via di costruzione e di integrazione da origine a un’ontologia?
C.C.: Secondo me il concetto cardine e di riferimento, su cui infatti c’è discussione e litigio, è mente, naturalmente, ma soprattutto la visione cognitivista della
mente, cioè la rappresentazione. La mente sarebbe quel sistema di controllo della
condotta mediante rappresentazioni costruite endogenamente. Siamo in grado di
generare rappresentazioni mentali interne anche in assenza di stimoli, la capacità
endogena di costruire rappresentazioni del mondo anche in modo anticipatorio è
la natura del mentale, perché io lavoro su queste rappresentazioni, risolvo i problemi su queste rappresentazioni, questa è la natura della mente. Questo ha delle
strane conseguenze: vuol dire che non tutti gli animali hanno una mente. Tutti
gli animali certamente hanno un sistema di controllo della condotta, è evidente,
ma alcuni sono dei sistemi più semplicistici non basati su costruzione endogena di
rappresentazioni e loro manipolazione.
M.C.: Ad ogni modo con gli altri animali condividiamo una parte di attività
psichica, ad esempio condividiamo le emozioni, oltre che alcuni meccanismi stimolorisposta, in sostanza la differenza consiste nella capacità di generare e manipolare rappresentazioni anticipatorie per produrre cambiamenti nel mondo? In questo consiste
l’intelligenza umana?
C.C.: In che consiste l’intelligenza? Innanzitutto, è sbagliato usare questo termine per qualsiasi animale altamente adattivo, perché perdiamo un concetto senza
guadagnare niente. L’intelligenza consiste nella capacità di risolvere problemi, che
vuol dire, di trovare il modo di raggiungere uno scopo che non si raggiunge banalmente, automaticamente, con l’applicazione di regole abituali, lavorando sulle
rappresentazioni mentali, questa è l’intelligenza. Quindi se io risolvo il problema
manipolando, costruendo rappresentazioni sono intelligente, perché l’ho risolto
pensando, ragionando.
M.C.: Ma allora l’intelligenza si risolve nella computazione? Non è un po’ restrittivo?
C.C.: Dipende da come intendiamo la computazione. Computazione in realtà è un concetto molto astratto che corrisponde a diverse modalità e approcci,
voglio dire, anche il cervello è un sistema computazionale e anche la mente è una
macchina computazionale, purché si intendano per computazione diverse modalità. La rivoluzione è stata quella di darci la possibilità di modelli operazionali dei
processi psichici come elaborazione di rappresentazione e di informazione.
M.C.: Quindi la mente è il modo di lavorare sulle rappresentazioni?
C.C.: Sì, costruire rappresentazioni e sulla base di queste guidare la condotta.
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La mente è quel sistema di rappresentazioni che dà un carattere finalistico alla condotta. La condotta umana ha un carattere finalizzato, è "fatta per", "rivolta a", e
questo carattere finalizzato è rappresentato. Cioè io anticipatoriamente conosco il
fine della mia azione, la guido, la controllo. Questa è la tipica natura del mentale,
dare un carattere intenzionale alla condotta.
M.C.: Spesso mente e coscienza vengono usate come sinonimi. C’è corrispondenza
fra queste due nozioni?
C.C.: E’ molto importante non identificare mente con coscienza. E’ un errore
gravissimo e abbastanza diffuso. La coscienza è solo una parte o un aspetto dei
processi mentali e comportamentali, e purtroppo è un cattivo concetto. Mentre
una gran parte dei concetti che ci vengono dal senso comune, dalla cosiddetta folk
science quali intelligenza, pensiero, intenzione sono abbastanza buoni, coscienza
invece è un pessimo concetto perché copre molti fenomeni molto diversi fra loro.
Quindi, quando andremo avanti a modellare una teoria scientifica della coscienza
non avremo in realtà un modello unitario di un fenomeno unitario, ma modelleremo diverse cose anche indipendenti che chiamiamo purtroppo con lo stesso
termine. Una cosa è la coscienza come esperienza soggettiva, fenomenica, come
vissuto, un’altra cosa è la coscienza nel senso di consapevolezza di sé, un’altra
cosa è la coscienza come attenzione, un’altra cosa è la coscienza come guida intenzionale all’azione, un’altra cosa è la coscienza come meta-cognizione (credenze
su credenze), purtroppo spesso queste cose vengono confuse.
Fammi dire una cosa paradossale del cognitivismo. Il cognitivismo ha vinto
attraverso una mossa strana: all’inizio a un certo punto è stato accantonato il problema della coscienza ed è stata messa al centro la mente come insieme di elaborazioni, information processing, rappresentazioni e loro manipolazione, tacite
(gran parte di questi processi sono inconsci, non nel senso dell’inconscio freudiano, ma nel senso di processi taciti, alcuni dei quali non sono proprio accessibili in
nessun modo a un’esplorazione conscia). Il cognitivismo ha vinto su questa base,
costruendo una modellistica di tutti i processi, le elaborazioni e le manipolazioni
sottostanti alla comprensione del linguaggio, ecc. Ma certo ci deve dare una teoria
della coscienza e ancora non ce la dà. La coscienza è un fenomeno troppo importante della mente umana per non averne ancora una teoria scientifica. Attualmente,
grazie alla convergenza di studi neuroscientifici, psicologici, ecc. penso che si arriverà abbastanza presto ad avere modelli adeguati dei processi consci. Cioè, siamo
sulla buona strada per avere modelli adeguati di diversi aspetti di quello che chiamiamo coscienza, aspetti relativi a funzioni psichiche completamente indipendenti le
n andrebbero confuse, ad esempio non c’è nessun nesso specifico tra il fatto che abbia una rappresentazione di me stesso e della mia mente e il processo attenzionale,
non c’entrano niente, ma noi li chiamiamo coscienza o awareness.
M.C.: Quindi allo stato attuale la coscienza è un oggetto scientifico difficile da
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trattare? Come va studiata?
C.C.: Va studiata con approcci sperimentali, con alcuni report, con studi fenomenologi,
con le neuroscienze e con i modelli sintetici. Penso sia importante ad esempio
costruire delle macchine che abbiano un "io", che possano esprimersi correttamente, appropriatamente in termini di "io", che abbiano questo tipo di rappresentazioni di sé, o che abbiano capacità e funzioni attenzionali (questo in parte
c’è già) o che abbiano meta-cognizione; comunque anche l’approccio sintetico e
computazionale saranno fondamentali per capire la coscienza.
M.C.: Con il metodo sintetico si costruiscono artefatti, cioè qualcosa di non-biologico.
E’ difficile pensare che un artefatto abbia coscienza.
C.C.: E’ possibile costruire un artefatto che catturi o abbia alcune di quelle
funzioni.
M.C.: Ma possiamo chiamarla coscienza?
C.C.: Io penso che si chiamerà coscienza.
M.C.: Anche se non ha natura biologica?
C.C.: Personalmente penso di sì, semmai il problema più difficile è il problema
del piacere e del dolore, cioè se sistemi artificiali possano provare piacere e dolore.
In questo caso dipende dalle filosofie che uno ha, io penso assolutamente di sì, nel
senso che si potranno avere sistemi che hanno veramente le stesse funzioni adattive
e funzionamenti interni del piacere e del dolore, quindi per me proveranno piacere
e dolore. Ma chi invece vuole dare una definizione soltanto in termini di substrato
biologico specifico rifiuterà questa posizione.
M.C.: Che ruolo hanno le emozioni nella scienza cognitiva, nell’attività mentale e
nella condotta degli individui?
C.C.: Nella scienza cognitiva hanno un ruolo importante nel senso che oggettivamente tutti gli studi più rilevanti negli ultimi 50 anni al livello delle emozioni
sono stati condotti da scienziati cognitivi, salvo negli ultimi decenni da alcuni importanti neuroscienziati, ad esempio Damasio; anche per questo è sbagliato identificare cognitivismo con processi cognitivi, è un errore madornale. Le emozioni
sono uno degli oggetti ben studiati e portati avanti dal cognitivismo, la domanda
però è più di contenuto: che rapporto c’è tra le emozioni e le attività mentali? Le
emozioni svolgono diversi ruoli ed è molto importante avere un’architettura che
le integri. Un ruolo per esempio è motivazionale, in molti casi cioè, le emozioni
sono attivatori di scopi in preparazione alla condotta, quindi entrano nell’aspetto
motivazionale, ma non coincidono con le motivazioni; le emozioni sono spesso
base di credenze, cioè noi normalmente crediamo sulla base di fonti, dati, altre
credenze, inferenze, ecc., ma possiamo anche credere sulla base di quello che proviamo; inoltre, le emozioni entrano nella nostra economia mentale perché hanno la
caratteristica di essere attivazioni del corpo. Il corpo entra nella nostra gestione
mentale non solo come attivatore di scopi, ma anche perché è capace di dare valore
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ad alcune motivazioni, per esempio: cosa è un bisogno provato? Cosa è un desiderio provato? E’ un desiderio o un bisogno in cui entra il corpo e i suoi segnali o
l’evocazione mnestica della traccia somatica? Il problema è: quali sono il valore
e la forza di quel tipo di scopi, del bisogno sentito? Sono dati dall’intensità delle
sensazioni, mentre il valore normale degli scopi è dato dai pro e i contro, dagli
argomenti, dai ragionamenti, cosa mi conviene e cosa non mi conviene. Ci sono
degli scopi legati a quello che provo e lì entrano in ballo il corpo e le emozioni per
determinare addirittura il valore degli altri scopi.
Il problema, che - almeno per me - non è ancora chiaro, è come facciamo a mettere assieme nelle nostre decisioni il valore degli scopi basato su ragioni, argomenti,
su pro e contro, costi, conseguenze previste, ecc. e il valore degli scopi basato su
quello che sentiamo e che proviamo. Non basta la "Affect Heuristics". Noi psicologicamente siamo in grado di tenere insieme - anche consapevolmente - questi
due parametri indipendenti, invece i modelli della scienza cognitiva sono un po’ arretrati su questo, si preferisce avere spesso una visione competitiva fra i due sistemi:
quello intuitivo, impulsivo, e quello ragionato. In realtà noi esseri umani siamo
capaci di tenere in conto i due sistemi, ad esempio posso dire benissimo: "Solo a
pensarci mi viene il disgusto ma ho deciso di farlo."
M.C.: Forse questa domanda può essere banale, ma mi chiedo se il metodo sintetico
sia in grado di contribuire alla costruzione di modelli che prevedano le emozioni?
C.C.: La domanda non è banale, perché diciamoci la verità: il modello sintetico
ha fatto molto di più sugli aspetti mentali, non nel senso che abbia riprodotto il nostro modo di ragionare o pensare, ma ha prodotto un’intelligenza: un’intelligenza
artificiale di grandissima efficienza che batte i campioni di scacchi, però si è focalizzato solo su quegli aspetti lì. Noi abbiamo bisogno di costruire il corpo, il corpo
non è semplicemente il substrato fisico della mente, il corpo è propriocezione ed
enterocezione. Siamo capaci di costruire dei corpi artificiali? Allora potremmo
veramente modellare questo impatto sulla mente.
M.C.: Paradossalmente, verrebbe da pensare al corpo come parte della mente?
C.C.: Come uno dei vincoli della mente, la mente ha due input sensoriali,
tutti passano attraverso il corpo ma sono distinti, uno è quello dell’informazione
sensoriale sul mondo, a proposito di quello che cambia nel mondo, che io provoco
nel mondo, l’altro è il processo di come cambia il mondo interno, nel mio corpo.
M.C.: Che relazione c’è fra funzionamento cerebrale e attività mentale? E che
ruolo ha il cervello nella scienza cognitiva, in un periodo storico in cui vige una certa
egemonia disciplinare delle neuroscienze?
C.C.: Chiaramente nessun modello della mente che voglia essere il modello
della mente umana o della mente animale sarà valido, avrà senso e sarà credibile se
non sarà radicabile nel funzionamento cerebrale, se non si troverà riscontro neuroscientifico dei modelli e dei processi. Nessuna teoria psicologica può reggere
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se non si potrà mostrare come il processo postulato può funzionare nel cervello.
Il problema attuale è che le neuroscienze stanno cercando, in questo momento
di eccitazione e di grandi finanziamenti peraltro comprensibili, di scavalcare la
psicologia cercando la connessione diretta tra attivazioni, meccanismi cerebrali
e condotta, quindi c’è la neuro-economia, la neuro-estetica, la neuro-etica, ecc.
Questo approccio è molto ingenuo, perché il compito delle neuroscienze è di darci
l’implementazione, la teoria dell’implementazione dei meccanismi e dei processi
studiati dalla psicologia, e se questi poi non hanno corrispondenza devono essere
corretti, ma questo è un altro discorso, certamente non si possono saltare.
M.C.: Avrà delle conseguenze sulla scienza cognitiva tutta questa attenzione accordata alle neuroscienze?
C.C.: Il problema è che si stanno sbilanciando un po’ le cose. In generale sono
preoccupato per lo sviluppo delle scienze del comportamento perché gli investimenti nella direzione degli approcci biologici nelle tre dimensioni neuroscienze,
genetica della condotta umana e biochimica cerebrale sono mille volte superiori
a tutti gli investimenti che si fanno nelle altre scienze del comportamento. Sono
contento che le neuroscienze trovino finanziamenti, ma questo sbilanciamento è
preoccupante perché darà luogo a un grave riduzionismo biologico, a un’illusione
di spiegare geneticamente, cerebralmente, biochimicamente il significato della condotta.
M.C.: Comunque il cervello rimane un riferimento primario?
C.C.: Un riferimento assoluto, o i modelli dei processi mentali si potranno
radicare neuroscientificamente o non saranno validi.
M.C.: Quando parli di riconduzione intendi la riconduzione di alcuni stati e processi della folk psychology (scopo, credenza, decisione, ecc.) alle strutture cerebrali e
alla spiegazione neuroscientifica? Riconduzione è differente da riduzione?
C.C.: Parlo di riconduzione, ma andrebbe bene anche riduzione e riduzionismo. Riduzionismo spesso è oggetto di un’interpretazione a mio avviso sbagliata:
riduzionismo in termini di eliminativismo, elimanzionismo, cioè una volta che abbiamo spiegato un determinato livello di organizzazione della realtà nei termini dei
micro-meccanismi sottostanti allora possiamo farne a meno. Quando avremo spiegato i concetti della psicologia nei termini cerebrali, neurali o corporei potremmo
farne a meno perché sono concetti di senso metafisico. Niente affatto, non è così:
il fatto di aver ricondotto i concetti di base della chimica alla fisica atomica non ci
consente di eliminare il concetto di valenza o la chimica, non ha alcun senso. Noi
abbiamo bisogno di ricondurre i concetti psicologici e le leggi psicologiche alle basi
neuroscientifiche e biologiche in generale, ma con questo non è che potremmo
eliminarli e non avere il concetto di decisione o di intenzione.
M.C.: Oltre al fatto che avrebbe poco senso eliminare le nozioni dei livelli superiori, non sarebbe invece desiderabile e anche proficuo cercare relazioni valide nelle due
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direzioni?
C.C.: L’altra questione è quella che dici tu, certamente, non c’è semplicemente
da radicare i concetti della psicologia al micro-livello, perché il rapporto tra micro
e macro è un rapporto dialettico, che produce fenomeni di emergenza e di autorganizzazione di strutture più complesse che vanno studiati. Anche gli studiosi del
cervello non possono e non potranno evitare una spiegazione funzionalista, non
potranno rimanere a un livello descrittivo puramente fisico o micro, dovranno per
forza darci i concetti funzionali (peraltro già il concetto di attivazione è di tipo
funzionale), i concetti macro funzionali e di organizzazione di queste strutture.
M.C.: Che relazione c’è fra mente individuale e dimensione collettiva? Qual è il
ruolo del sociale e della cultura nei processi mentali? Esiste una mente collettiva?
C.C.: Il rapporto con la società ha molte facce ed è molto complesso. Da una
parte va modellata la mente sociale, non nel senso di collettiva, ma nel senso delle
caratteristiche e dei processi tipicamente mentali nell’azione sociale, nell’interazione
con l’altro sia di tipo cooperativo che competitivo. Quali sono gli stati e i processi mentali o emozionali che supportano la nostra capacità sociale? Questa è
una domanda fondamentale. Ti dirò di più: non si può fondare la teoria dei processi cognitivi e mentali collettivi se non sulla teoria dell’azione della mente sociale individuale, interazionale. D’altra parte le nostre capacità mentali non sono
costruite individualisticamente sulla base della semplice interazione con il mondo
fisico, ma sono espressione del mondo sociale e culturale, cioè le nostre rappresentazioni mentali mediante le quali rappresentiamo il mondo, noi stessi e la nostra
condotta in parte hanno un’origine sociale e culturale, cioè ci vengono insegnate,
sono basate su script, habits, regole, sulla cultura, quindi il sociale entra nello strutturare la nostra mente sia rappresentazionalmente come schemi, come modalità e
come ontologie, sia processualmente.
M.C. Il sociale entra nella mente. Ma la mente entra nel sociale?
C.C.: In due sensi, il primo è il supporto all’interazione sociale e alle istituzioni
sociali, senza le menti non funziona la cooperazione. Poi c’è il problema importante che tu ponevi, se esiste un’intelligenza collettiva, una mente collettiva e che
senso avrebbe. Esiste in vari sensi: si cominciano a fare studi abbastanza validi
in questa direzione, da una parte c’è il problema del noi, cosa è il noi? Cosa è la
mia rappresentazione mentale vissuta del noi, del gruppo, collettiva? Ma questo
non è ancora tutto perché c’è il problema se esistono strutture cognitive emergenti
ed autorganizzantesi di cui non abbiamo neanche consapevolezza, non un gruppo,
non un noi, non un team che agisce consapevolmente, diciamo così, con rappresentazioni degli altri, ma forme cognitive, ad esempio, nelle organizzazioni che
sono strutture cognitive extra-mentali. Questo spiegherebbe anche un altro problema, cioè l’intelligenza cosiddetta esternalizzata o distribuita, vale a dire se ci sono
processi cognitivi fuori del cervello, e non sono soltanto nelle tecnologie, è evi-
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dente che è cosi, o nei supporti tipo carta e penna, ma se sono anche negli altri,
nella mente degli altri. Siamo sicuri che tutte le operazione sono avvenute dentro i
cervelli e non nell’interazione o nella comunicazione che avviene fra questi? Allora
che processo cognitivo è questo?
M.C.: E un processo cognitivo distribuito? Cosa si intende precisamente?
C.C.: Che la computazione non è avvenuta solo dentro le macchine cerebrali,
ma è avvenuta anche nel tipo di scambio e di interazione.
M.C.: La scienza cognitiva riesce a catturare questi meccanismi interazionali? Mi
viene in mente la sociologia del secolo scorso che aveva sviluppato un notevole bagaglio
di strumenti per affrontare la complessità sociale, ad esempio l’emergere delle norme:
sembra che la scienza cognitiva prosegua in questa direzione.
C.C.: In un certo senso sì, però talvolta viene fatto ingenuamente, ad esempio
l’intelligenza artificiale è stata molto ingenua, cioè ha ridotto il sociale anche nella
sua complessità alle rappresentazioni, per esempio facendo il modello della cooperazione e del lavoro organizzativo con tutti gli agenti che sanno sempre tutto.
Questo è molto ingenuo, perché il vero problema della sfida del cognitivismo su
questo livello è capire che nesso c’è fra quello che io so, capisco, quindi intendo
o intendiamo, e gli aspetti autorganizzitivi della mano invisibile che non capiamo
e non possiamo intendere, ma che tuttavia perseguiamo. Il vero mistero, quello
che identificava Adam Smith, è che noi perseguiamo dei fini che non intendiamo,
esatto, e come è possibile questo? E che rapporto c’è fra i fini che io intendo, cioè
che mi rappresento, che io voglio e noi vogliamo e i fini, le finalità che in realtà
perseguiamo e raggiungiamo senza capirlo e senza volerlo? Oo la scienza cognitiva
risolverà questo quid, che è fondativo delle scienze sociali, oppure avremo fallito.
M.C.: L’identità è costruita in gran parte nell’interazione sociale, mi chiedo quale
sia il ruolo degli scopi nella costruzione dell’identità?
C.C.: L’identità viene costruita sia su interazione spontanea sia sulla base di
schemi culturali anche imposti. L’identità è fondamentale perché è la rappresentazione di sé stessi, la quale serve non soltanto a capirci ma serve a guidarci, perché
noi spesso selezioniamo i nostri scopi in funzione della loro rispondenza alla nostra immagine, ma non solo questo, la nostra immagine, la nostra identità, come
ci vediamo, cosa crediamo di essere, ci dà anche scopi nel senso che noi vogliamo
quelle cose perché vogliamo essere così. L’identità è una struttura molto complessa
costruita socialmente, in un modo anche strano. Ad esempio il cognitivismo dovrà
dare migliore comprensione della teoria di Goffman dell’interazione sociale come
messa in scena, cioè come una rappresentazione dove sosteniamo dei ruoli, delle
parti e dobbiamo essere in grado di metterle in scena, esattamente. Ma questo personaggio che noi recitiamo non lo recitiamo solo rispetto agli altri, lo recitiamo
rispetto a noi stessi, come rappresentazione di noi.
M.C.: Cosa è il mind reading?
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C.C.: Il mind reading, come sostengono alcuni, sarebbe giusto chiamarlo behaviour reading, perché leggo il comportamento in termini mentali, in termini di
intentional stance, cioè attribuisco stati mentali all’altro per spiegare la sua condotta, li inferisco dalla condotta. Il mind reading è una capacità fondamentale
dell’interazione sociale umana non solo perché − come tutti dicono − serve a
prevedere la condotta dell’altro, a capire cosa sta facendo, ad anticiparlo, a spiegarlo, ma serve anche a un’altra funzione fondamentale che spesso è sottovalutata,
che è aggiustare la condotta dell’altro alle mie esigenze o alle nostre esigenze. Non
serve soltanto ad aggiustarsi, a prevedere, ma serve a cambiare, a manipolare la
condotta dell’altro. Come faccio a manipolare e a cambiare la condotta dell’altro
se non riesco a intervenire sui meccanismi interni che la determinano, sulle rappresentazioni? In realtà è solo cambiando i suoi scopi e quindi le sue credenze che
supportano quegli scopi che riesco a cambiare la sua condotta; questa è la centralità
del mind reading, è fondamentale anche per cooperare, per configgere, ecc. Questo
non va visto soltanto linguisticamente, è un grave errore, non è soltanto con la
comunicazione che cambiamo la mente degli altri, cosi come non è solo dalla comunicazione che capiamo gli stati mentali degli altri, ma anche dalla loro condotta
pratica; analogamente non è solo con la comunicazione che cambiamo i loro scopi
ma anche cambiando il mondo fisico, le nostre condizioni nel mondo, ecc.
M.C.: Nella scienza cognitiva si nota un ritorno del soggetto e della soggettività, che
si era in parte eclissata nell’arco del ‘900, ad esempio a seguito della svolta linguistica in
filosofia analitica, del comportamentismo in psicologia, di varie forme di strutturalismo
e di costruzionismo, ecc. Intuitivamente, quando si parla di mente sembrerebbe non si
possa fare a meno del soggetto. La rinascita del soggetto in scienza cognitiva è una
necessità?
C.C.: Dipende da cosa intendiamo. Da un certo punto di vista si potrebbe
quasi dire che il cognitivismo già fu il ritorno del soggetto, almeno in un certo
senso, perché soggetto può significare agency, agentività, cioè che io sono il controllore di me stesso, che ho autonomia, che la mia azione è teleonomica. Da questo
punto di vista l’attacco al comportamentismo è stato un po’ il ritorno del soggetto,
perché il comportamentismo era in un certo senso sistema puramente rispondente,
stimulus driven, mentre qui il sistema non è stimulus driven, funziona in base alla
sua progettazione interna, alla sua costruzione interna. Questo aspetto dell’agency
e dell’autonomia è già stato esplorato e abbiamo dei bei modelli, però ci sono altre
due letture che potrebbero essere non meno interessanti, una è l’individualismo
metodologico. In un certo senso il cognitivismo converge abbastanza sulla necessità di fondare sull’individuo, le sue rappresentazioni, le sue condotte, i fenomeni,
purché non sia solo riduzione a questo, nel senso che l’individualismo metodologico
è un fondamento, secondo me, decisivo ma non sufficiente, è necessario ma non sufficiente, perché servono − come dicevamo prima − delle teorie dell’autorganizzazione,
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della complessità, ecc. La terza lettura è quella che forse tu volevi in qualche
modo sottolineare, il ritorno del soggetto nel senso del ritorno della soggettività,
e questo è un punto importante perché effettivamente il cognitivismo ha accantonato da molti anni questo aspetto e adesso ci sono dei ritorni interessanti anche
della fenomenologia, all’esperienza fenomenica. Personalmente sono favorevole al
recupero della fenomenologia, degli approcci fenomenologici, purché non pretendano di essere esclusivi, che non pretendano di dire che la teoria del comportamento, la spiegazione del comportamento la si può, la si deve dare solo in termini
della soggettività e dell’esperienza fenomenologica. Invece, completare con il dato
fenomenologico le spiegazioni della condotta è fondamentale. Sarà importante anche riuscire finalmente a provvedere la teoria dei meccanismi, neurali tra altri, sottostanti all’esperienza fenomenica e al soggetto fenomenologico. Da questo punto
di vista qui pare che ci sia un ritorno del soggetto.
M.C.: Qual è il futuro della scienza cognitiva? In quali direzioni si sta sviluppando?
C.C.: Il futuro della scienza cognitiva potrebbe essere a rischio, perché potrebbe
essere sostituita dalle neuroscienze, che poi potranno essere identificate con la
scienza cognitiva. D’altra parte, invece, ci può essere anche una prospettiva forte,
importante da vari punti di vista, e io penso che è quella che vincerà. Da un lato,
se veramente siamo nella "società della conoscenza", è la conoscenza (in senso lato,
le capacità cognitive) che conta economicamente, politicamente, socialmente; e
dovrebbe essere fondamentale lo studio di ciò che le persone credono, capiscono,
conoscono, vogliono, sentono, provano. In particolar modo credo che ci vorrebbe
un grande investimento pubblico per capire quello che sta succedendo nel mondo,
nella società, perché la trasformazione delle rappresentazioni mentali è uno dei
fenomeni più massicci, non solo dovuto alla tecnologia ma anche alla rivoluzione,
trasformazione dei rapporti sociali, della politica. Ora non si investe abbastanza in
questo senso, invece sarebbe molto importante avere alcune spiegazioni di quello
che succede nella testa delle persone. Si potranno veramente cambiare, come è
indispensabile, i sistemi di apprendimento e si potranno veramente progettare tecnologie pensanti accessibili socialmente e culturalmente, senza una comprensione
dei processi psichici cognitivi e socialmente razionali? No. Ma si potrà capire anche cosa sta succedendo in politica, se non capiamo che cosa sta succedendo nelle
rappresentazioni mentali? Non credo. Quindi sarebbe molto importante in futuro
questo tipo di sviluppo. Un altro elemento è lo sviluppo delle tecnologie, ormai
è del tutto chiaro che quello che ci aspetta è una società fondata sulla tecnologia, integrata dalle tecnologie, non più solo dal punto di vista produttivo, ma dal
punto di vista dell’interazione, della socialità, della formazione, della cooperazione.
Quindi tutte le organizzazioni produttive saranno decentrate, distribuite, virtuali,
ed è chiaro che le tecnologie cognitive saranno il fondamento. Ma le tecnologie
cognitive non possono che fondarsi sulla scienza cognitiva.
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M.C.: La scienza cognitiva può essere uno strumento anche per la critica sociale?
C.C.: Sarebbe bene che la scienza cognitiva si occupasse anche di spiegarci e
modellare gli aspetti etici, non nel senso che ci debba dare le prescrizioni, le regole
morali, ma che ci faccia capire cosa è la morale dal punto di vista cognitivo, cioè
come mentalmente le norme morali si formano, ci regolano, come ci vengono
costruite, come questo fonda l’interazione fra più soggetti. Questo è un compito
della scienza cognitiva: spiegare cosa è la morale; poi dobbiamo trovare le basi
evoluzionistiche, certamente, dobbiamo trovare le basi storico-antropologiche, le
basi neuronali. Ma se prima non capiamo cosa è psicologicamente la morale, come
è rappresentata, non capiremo tutto il resto. Ci dovrebbe spiegare anche che cosa
spinge la gente all’attività produttiva, all’altruismo o alla politica, o a evadere o a
non evadere la tasse, quindi ci potrebbe spiegare fenomeni veramente cruciali.
M.C.: Grazie prof. Castelfranchi.
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