L`ARCHITETTURA DEL PALAZZO SETTECENTESCO
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L`ARCHITETTURA DEL PALAZZO SETTECENTESCO
L’ARCHITETTURA DEL PALAZZO SETTECENTESCO DEI CELESTRI STUDIO CRITICO DELLE FASI COSTRUTTIVE di Paolo Mattina Le fonti archivistiche diffuse da studi precedenti1, riguardano l’opera di ristrutturazione ed ampliamento di Palazzo Celestri di Santa Croce avvenuta a partire dal 1756. Esse fanno emergere in primis la figura di Don Nicolò Anito Regio Ingegnero. Egli viene citato sull’atto di obbligazione2 del 22 settembre 1756 mediante il quale Magister Giacomo Di Pasquale, muratore, si impegna a condurre i lavori "…p. servigio e proseguimento del Palazzo di d° Ill.re Mar.se sito, e posto nella strada nuova di q.a C.a, cioè incominciare la nuova facciata dall’Angolo destro che, che al p.nte esiste di d.a Casa, e continuarla sino all’Angolo in cantoniera... compire tutta la Casa atta ad abitarsi dappertutto attenore del disegno e modello già fatti...a terminare di tutto punto l'istessa linea nuova di facciata con suo cornicione palagustata sovra, e tutto e quello e quanto li sarà ordinato... dal sovradetto di Anito Ing.ro....... nonchè costruendo il nuovo cortile....... quale tutto operandosi con piante alzate e profili, come pure modani sagome in grande, ed in particolari che ci saranno fatti dati, e consegnati dal med.o Anito Ing.ro al M.ro intagliatore ... "3 Poi, almeno a partire dal 1759 all’Anito si affianca però un altro Ingegnero: Don Giovan Battista Cascione4, nipote del più famoso Giovan Battista Vaccarini. Da ciò si è desunto fino ad ora che il disegno unitario complessivo del monumento così come esso ci è pervenuto sia opera dell'Anito, che a partire dal 1756 avrebbe così costruito il nuovo Palazzo 1 C. FILANGERI, Vicende costruttive del Palazzo ...op. cit. trattasi praticamente di un contratto d’appalto 3 ASPa Fondo Notai Defunti, Notaio Andrea Lo Cicero, vol. 10970, ff. 69 - 90 4 identificato da alcuni autori anche col cognome dello zio, come Giovan Battista Cascione Vaccarini, per distinguerlo dal padre anch'esso Giovan Battista Cascione. 2 molto più ampio e sontuoso, sull’antica Casa Magna5 più volte riadattata nei secoli precedenti, mentre il Cascione, dirigendone le opere per la maggior parte, si impegnò di conseguenza nell'ideazione e nella decorazione di cortile monumentale e scalone. Volendo adesso ritornare criticamente su questi argomenti, è vero che le fonti archivistiche documentano l’esistenza di un programma costruttivo ben definito, tuttavia non tacciono quanto esso fosse un “proseguimento” da un angolo preesistente del palazzo verso la Porta di Vicari. Ciò avvenne attraverso la demolizione di almeno sei piccoli edifici limitrofi – case solerate dalla parte del giardino, ma anche di due botteghe e un magazzinotto sulla Strada Nuova - , così da permettere la realizzazione di un sontuoso palazzo a due corti con un “quarto nobile” e un “quarto d’udienza”, mentre il “quarto antico” – derivato dalla preesistenza secentesca fino adesso interpretata solo come vecchia costruzione da proseguire, cioè da ampliare - sarebbe stato “ammodernato” anche con l’introduzione dello scalone, il ridisegno e la decorazione del cortile esistente e infine “ricavando nuove camere nella saldatura dei due corpi di fabbrica” 6. Però, mentre lo stesso documento originale parla di un “proseguimento del Palazzo…da terminare”, questi studi precedenti accreditano l’idea del rifacimento complessivo e del proseguimento quale ampliamento, di un edificio preesistente - cioè di quella che viene interpretata come vecchia casa o vecchia fabbrica - facendo risaltare al contempo l’opera dei due architetti, ma senza chiarire del tutto in che misura ne fossero essi stessi ideatori e autori. Inoltre lo studio non offre spunti particolari circa la verifica dello stato dei luoghi pregresso, qualificato appena come vecchia casa, da cui mosse tale attività. Ciò non è affatto secondario. Nei fatti, rileggendo il manoscritto autentico, l’obbligazione iniziale riporta testualmente l'impegno del “faber murariy” Di Pasquale a fare tutte le opere di muratura atte al 5 antica dimora degli Imbarbara, passata ai Celestri per il matrimonio di Pietro con Francesca Cifuentes e Imbarbara di cui da notizia anche il Di Giovanni nel XVII secolo, che diede origine al Palazzo dei Santa Croce; sembra molto probabile che essa dovette avere il suo ingresso dalla stessa Strada Nuova. 6 Ibidem C. FILANGERI, Vicende costruttive del Palazzo ...pag.78 "...proseguimento del Palazzo.... cioè incominciare la nuova facciata dall'angolo destro che al presente esiste di d.a Casa..."7 Il proseguimento farebbe qui riferimento all' "ampliamento" del Palazzo, iniziando dal "... riformare la camera ultima che al presente esiste in detta facciata..."8 proseguendo con la costruzione di nuove anticamere, galleria, mezzalini, nuovo cortile.... e riportando la facciata a congiungersi, passando sul Piano degli Scalzi, con quella già esistente nelle retrocamere. Il verbo incominciare non lascerebbe alcun dubbio circa l'inizio di lavori per una nuova facciata. Però il documento riporta inoltre la necessità di "...terminare...l'istessa linea nuova di facciata..." 9 e il verbo "terminare" potrebbe sottintendere non solo l’ampliamento, ma anche l'atto di ultimare ciò che, benchè incompleto, tuttavia esiste. A questo punto è necessario localizzare quell’ "Angolo destro che al presente esiste" e che si può pensare ragionevolmente derivato dalla preesistente Casa Grande degli Imbarbara o, meglio, dalla costruzione della nuova facciata sulla Strada Nuova Maqueda, parallelamente ad essa, dopo lo sventramento dell'omonimo Viceré, giacché la Casa Imbarbara ormai è certo che fu demolita proprio in quell’ala. Dunque un intervento di ricostruzione probabilmente operato da Pietro Celestri dopo il 1606 e prima che nel 1615 ne desse descrizione il Di Giovanni, dovette rendere disponibile un “Angolo destro” da cui il Di Pasquale incominciasse per "terminare l'istessa linea nuova di facciata". 7 ibidem 10970.... ibidem 10970..... 9 ibidem 10970..... 8 Tuttavia e significativamente, il 22 settembre 1756 non è solo il giorno del contratto dei Celestri con il Di Pasquale: mastro Stefano Geraci, marmoraro, si obbliga contemporanemente a "fare n° due Colonne di ciaca di Billiemi, n° due capitelli, e n° due basi di marmo bianco, e n° due zoccoli di ciaca..... ...s'ave obligato e obliga per li detti ultimi del mese di novembre p.v. 1756 consegnare poste al piede delle dette fabriche..."10 Ma tralasciamo per il momento questa ulteriore notizia per tentare di stabilire di che natura ed entità sarebbero state le trasformazioni successive alle obbligazioni iniziali. Dall’accostamento di vari documenti, indizi e ritrovamenti, dopo i lavori di adattamento a cavallo tra Cinque e Seicento, anche se l’ala parzialmente demolita fosse stata allineata al nuovo asse viario con tutto ciò che ne consegue per gli interni, è lo stesso ben difficile poter aderire ad ipotesi minimaliste in sede poi di trasformazione da quell’assetto all’attuale. Inoltre, come fu ben evidenziato già nel 1968 dal rilievo architettonico di Foltran, Rossetti e Spano11 il Palazzo settecentesco, al netto dell'ampliamento ex novo, deriva dal preesistente mediante la sovrapposizione di nuove fabbriche, come del resto quasi tutti i Palazzi palermitani coevi del centro antico. In assenza di altre fonti, è quindi necessario analizzare con più attenzione le informazioni più salienti del fondamentale manoscritto principale relativo alla nota fase settecentesca, specie quando il mastro Di Pasquale si impegnava “...per...terminare di tutto punto l’istessa linea nuova di facciata…”. Dunque l’atto di dover terminare l’istessa nuova facciata, avrebbe potuto far presupporre giocoforza l’esistenza già di una nuova facciata da terminare anche perché, al di là della sola particolare interpretazione della terminologia e delle locuzioni, ad alimentare il dubbio contribuisce persino la modalità speciale con cui inizieranno questi lavori e cioè “riformando” quella seconda anticamera che allora costituiva l’ambiente più estremo sullo stesso “Angolo destro” esistente, così 10 ibidem...10970, f.63 M. FOLTRAN, L. ROSSETTI, L. SPANO, Palazzo Santa Croce a Palermo, in L'architettura: cronache e storia, n. 156, anno XIV n. 6, 1968, p. 474 11 da continuare il prolungamento delle fabbriche fino alla vanella degli Scalzi12 fino a portarle a congiungersi con il retroprospetto esistente, sulla piazza e sul vicolo seguente, alimentando solo l’immagine del “proseguimento” e non altro. Tuttavia ciò ancora non è sufficiente per giustificare ogni conclusione, ma esistono già i presupposti per continuare una nuova indagine più approfondita delle fonti. Quasi contemporaneo al contratto del muratore, è l’atto di obbligazione del 12 ottobre 1756, dove invece mastro Tommaso Calandra, falegname, si obbliga a “…incominciare tutte le aperture, portiere, brachittoni, ornati, solara, dammusi e copertizzi, della seconda anticamera che al presente esiste e continuare nella terza, Galleria , Camerone del Quarto piccolo e Retrocamere nei quarti, mezzalini botteghe e carretterie sotto....”13 insomma ad affiancare per quanto di sua competenza mastro Di Pasquale nel procedere dell'ampliamento nella direzione della Porta di Vicari. A questo punto è impossibile non chiedersi il perché un “costruttore” possa decidere di incominciare a trasformare una Casa, seppur magnatizia, ma di caratteristiche definite vecchie, in un magnifico Palazzo con ben quatto fronti e due corti, forte dell’infilata più lunga della Città, ricco di botteghe e mezzalini inferiori e superiori e appartamenti indipendenti, a partire da un’operazione apparentemente secondaria consistente nel “riformare” un’anticamera ancora estrema nella configurazione palaziale di partenza: resta evidente allora che uno start up del genere dovesse avvenire per una qualche esigenza specifica di non poca importanza per tutta l’evoluzione costruttiva. Pur imponendo clamorosamente ben altro fronte di indagine, tuttavia la documentazione di un fatto davvero singolare concede a proposito un’informazione illuminante: il 21 aprile 1757, cioè senza 12 oggi Via Fiume 13 ibidem 10970… ancora avere notizie di ogni concreto inizio dei lavori, Padre Ferdinando Lombardo14 “Crocifero Architetto Ingegnero” viene chiamato, invece dell’Anito, a redigere i capitoli cui sottomettere il mastro Di Pasquale nella costruzione della seconda porta “in tutto e per tutto come quella che presentemente esiste” Si legge inoltre che i pilastri della porta da costruire devono “…appoggiare con il vecchio, con ammorsagliare un si e no…nella fabrica antica bene ingastati… E più sia obligato nolzare un arco sopra per quanto tiene lo sforzo ad appoggiare con il vecchio, con fare nell’arco della porta, che esiste un sardone..” 15 Ebbene, proprio nel momento in cui il Di Pasquale si apprestava o forse aveva appena iniziato a compiere i primi lavori, secondo il preciso dettato contrattuale dall’ ”Angolo che al presente esiste” in corrispondenza della seconda anticamera, gli si dettano i precetti per un corretto innesto di una nuova fase muraria su una precedente incompiuta da dover necessariamente continuare per ultimare un secondo portale - già parzialmente costruito, arco compreso - identico al primo e posto proprio a ridosso della stessa dell’Angolo della seconda anticamera, certificando indirettamente al contempo anche l’anteriore esistenza del primo portale. Si può inoltre verificare che nel linguaggio usato negli atti gli aggettivi “vecchio/a” o “antico/a” non volevano significare vetusto/a o cadente, ma semplicemente preesistente. In altre parole, all’epoca dell’ inizio dei lavori oggetto dell’obbligazione del Di Pasquale, non solo esisteva il primo portale, ma era stato cominciato anche il secondo di stessa forma e dimensione e collocato in una posizione ben determinata che non poteva non essere riferita ad un “disegno” finale preordinato che finalmente poteva essere realizzato interamente. Si nota, inoltre come questo secondo portale 14 15 ibidem 10973 f. 216; sulla singolare presenza di padre Lombardo presso il cantiere vedi il prossimo capitolo XXXX infra Il sardone era un ulteriore arco grezzo di alleggerimento dovette essere stato inserito per precisa volontà in determinata posizione e con le stesse dimensioni e caratteristiche del primo, probabilmente lacerando un tessuto urbano più minuto, ma già esistente stante che alla fine si trovò in aderenza con la facciata antica della Casa Grande alla sua sinistra e con a destra le costruzioni più modeste, ma già dei Celestri, di due botteghe e un magazzinotto, tanto insufficienti da dover essere poi demoliti16 e ricostruiti, ma rinforzati dal Di Pasquale per dare forma al loro posto alle prime tre botteghe accanto l’entrata e alla sopraelevazione successiva. Questa scoperta assume una valenza di fondamentale e risolutiva importanza per ogni altra considerazione successiva e basterebbe, a nostro dire, per sospendere ogni giudizio si possa dare circa i presunti “autori” del disegno del Palazzo, stante che la considerazione conseguente riguarda l’indeterminatezza nella datazione della preesistente fase muraria incompiuta, dovendosi altresì supporre che quest’impresa del 1756 ne rappresenterebbe solo il conseguenziale coerente “proseguimento” , con la logica formulazione dell’ipotesi che il disegno progettuale possa appartenere ad un autore ignoto e anche estraneo alle figure rese note fino ad oggi. Ed in effetti che questa fase muraria possa ascriversi ad uno step di un più ambizioso programma costruttivo già pianificato trova anche l’accordo nella logica della pratica di cantiere: costruendo inizialmente il primo ed il secondo portale, anche se così distanti, e segnatoli come capisaldi dell’azione costruttiva, ne riuscirono più agevoli nell’esecuzione le misurazioni e i tracciamenti rendendo facilmente controllabile la rispondenza geometrica alle simmetrie dei pieni e dei vuoti intermedi17 tra esse stesse entrate e tra queste ed i cantonali, così come divennero più agevoli quelle operazioni topografiche relative all’allineamento e all’orientamento del secondo cortile da costruire raddrizzato rispetto al primo poiché in allineamento con la Strada, nonché al tracciamento dei suoi muri d’ambito. Si minimizzarono i rischi di errori di misurazione rimandando all’esecuzione muraria la soluzione di eventuali problemi relativi alla saldatura tra le murature esistenti e quelle da farsi e alla connessione degli ambienti antichi, più irregolari, con i nuovi che restava in questo modo 16 ibidem 10970 doc. 29 aprile 1758 f. 229 r. Infatti, come anche le Relazioni degli architetti testimoniano, nella pratica costruttiva adottata andavano prima collocate le cosciature, ossia gli stipiti delle aperture e poi, senza più il rischio di errori, veniva eseguita la muratura dei pilastri e dei muri maestri, cd. morelloni, intermedi ammorsati a queste. 17 confinata nella zona intermedia di ricongiunzione in corrispondenza di ambienti secondari per privilegiare l’esattezza degli ambienti più nobili. E l’effettiva sequenzialità dei lavori riscontrata dai documenti è perfettamente coerente con questo schema che giustificherebbe così la necessità di imporre per contratto al Di Pasquale, per via dei Capitoli dell’Anito, di incominciare dall’ “Angolo destro che al presente esiste”. Ad assoluta conferma viene il primo atto di pagamento al Di Pasquale del 29 aprile 175818 che riguarda esplicitamente opere “per servigio della nuova ampliaz.e della Casa Grande” e la prima voce di contabilità è relativa al “pidamento” ossia alla fondazione della base marmorea della colonna sinistra della nuova entrata. Seguono le murature del resto del nuovo portone evidentemente secondo i Capitoli di Padre Lombardo - delle botteghe, dei mezzalini con i loro balconi, dell’ “Ordine nobile” a partire dalla “nuova anticamera”. Con altro atto di apoca dello stesso giorno, viene liquidato anche mastro Calandra che aveva seguito lo stesso programma costruttivo facendo le relative carpenterie in legno come da atto d’obbligazione che in precedenza abbiamo citato. E il ritmo è serrato tanto che già il 12 maggio dell’anno precedente, l’artista Mariano Di Paola aveva ricevuto 10 onze per aver dipinto la “Storia del Dammuso della nuova Anticamera”, cioè la seconda, e Pietro Biliardi e Nicolò Noto ne ricevono 19 e 18 tarì per aver dipinto l’ “architettura” dello stesso Dammuso segno che già nella metà 1757 la seconda anticamera era stata riformata e pronta per la decorazione, quindi a maggior ragione ne fu murato prima anche il prospetto corrispondente, in perfetto accordo con l’obbligazione. E' evidente allora che il prospetto principale del Palazzo, con tutto ciò che ne consegue, dovesse essere stato pensato in precedenza e si può essere certi che in una prima fase si costruì almeno il 18 Ivi…f. 212 primo portale, realizzando pure la muratura grezza del nuovo secondo portale nella giusta posizione architettonica rispetto al disegno di ampliamento verso la Porta di Vicari. I lavori infatti ripresero proprio dall’"Angolo destro che al presente esiste" in corrispondenza di quella che ancora oggi è la seconda anticamera, e non poteva che essere così in quanto fare diversamente, tra l’altro, avrebbe costituito una deroga arbitraria agli obblighi contrattuali. E comunque non c’è nessuna testimonianza di ripensamenti successivi al programma dei lavori imposto al Di Pasquale tanto meno riguardanti la costruzione del primo portale. Dunque è proprio dal fatto che ci fossero delle preesistenze così consolidate e pregnanti del nuovo assetto architettonico che muoverebbe la necessità di terminare la facciata e di iniziare a riformare la stessa anticamera poiché irregolare e forse spaziosa non quanto conveniva ed adattarla al disegno per l'ampliamento del Palazzo nei modi descritti nell'atto di obbligazione. Dai documenti purtroppo non è possibile risalire ad una data certa per l’inizio dei lavori, ma è possibile collocarla tra gli ultimi mesi del 1756 e i primi del 1757. Ulteriormente, che i lavori di ampliamento oggetto dell'obbligazione del Di Pasquale si avviano proprio da questa anticamera e procedono conseguenzialmente, oltre l’obbligazione del Calandra, lo conferma anche il documento successivo e sequenziale del 15 giugno 1757 laddove mastro Antonino Di Martino, altro carpentiere che rimpiazza il precedente dopo una lite con i committenti, riceve somme di denaro, quali anticipi, obbligandosi per eseguire nuovi ambienti del nuovo Quarto: camerini dietro il nuovo Camerone, mezzalini sotto il nuovo Quarto. Tutti i lavori documentati in questa prima fase riconducono, cioè, solo all'ampliamento a partire da quanto è compreso attorno a quell' "Angolo destro che al presente esiste" e verso la vanella degli Scalzi, ma mai in senso opposto se non fino solo intorno al 1759 come testimoniano i primi resoconti riguardanti lavori di muratura sulle preesistenze19. In ogni caso nulla che riguardi la costruzione la muratura in senso stretto del primo portale: con un’eccezione che non solo conferma quanto asserito, ma chiarisce nei particolari quale fosse lo stato dei luoghi al momento dell’ampliamento. 19 ibidem 10974…doc. del 17 novembre 1759 A questo punto è il caso di ritornare ancora al 22 settembre 1756, quando mastro Stefano Geraci, marmoraro, si obbliga a "fare n° due Colonne di ciaca di Billiemi, n° due capitelli, e n° due basi di marmo bianco, e n° due zoccoli di ciaca di sovra..... ...s'ave obligato e obliga per li detti ultimi del mese di novembre p.v. 1756 consegnare poste al piede delle dette fabriche..."20 che dalle dimensioni e caratteristiche descritte, oltre che da evidenti circostanze, deduciamo essere destinati ad uno dei due portali principali della facciata. Inoltre dai Capitoli dell’Anito allegati si apprende che la colonna avrà altezza palmi 16.2.6 e basi e capitelli saranno fatti "…di Marmo bianco di quelle misure e disegno conforme li sarà dato dall’Ing.re Sud:°... " Dunque mentre il Di Pasquale si impegna a terminare in tutto e per tutto la facciata incominciando però dall ”Angolo destro che al presente esiste”, cioè da tutt’altra parte della Casa, contemporaneamente il Geraci si occupa di fornire, con un'urgenza apparentemente inspiegabile, l'occorrente scultoreo per un solo portale da costruire in un palazzo che di portali alla fine ne conterebbe due. La cosa avrebbe senso solo se un portale fosse stato già esistente: infatti se il primo portale avesse avuto anche le sue colonne e quindi queste fossero servite per il secondo ancora da costruire, allora è evidente che il primo sarebbe stato già al completo al suo posto e così resterebbe dimostrato l'assunto; però ciò non ne giustificherebbe la tanta urgenza. Il gruppo servì invece a decorare il solo primo portale del prospetto da considerare per questo incompleto, ma già esistente certamente per quanto già dimostrato, ma anche giacché non si può pensare che il Di Pasquale avrebbe potuto realizzare da terra lo sviluppo di facciata necessario in meno di due mesi dalla propria obbligazione (da settembre a novembre 1756), senza lasciare tracce documentali e peraltro 20 ibidem...10970, f.63 contravvenendo al contratto che perentoriamente lo voleva subito impegnato presso ”Angolo destro” della Casa 21. La preesistenza della prima porta, tuttavia incompleta, giustificherebbe pure la premura del committente nel richiederne la consegna in soli due mesi. Altra notizia perfettamente coerente, si apprende dall’atto del 22 novembre successivo all'obbligazione del fratello, quando Giuseppe Geraci marmoraro anch'esso, si impegnerà: "...ut dicitur tutto suo attratto e maestria fare n.due colonne con suoi capitelli, e base di marmo bianco zoccoli, e controzoccoli di ciaca e membretti uguali si di longhezza siccome ancora di grossezza a quelli che si trovano piantate nella nuova facciata...che si sta fabricando" per la quale riceverà anche un anticipo di 50 onze22. Quindi in questo scenario il fratello di lui, Stefano, mantenendo fede alla sua obbligazione, riuscì realmente a piantare le sue colonne al proprio posto nel primo ingresso esistente già prima del 22 novembre. Quelle di cui all'obbligazione di Giuseppe sarebbero state allora occorrenti per il secondo portale ancora non esistente. Ciò è testimoniato da quanto accadde due anni dopo e ovviamente dopo che il Di Pasquale ebbe finito le opere murarie di ampliamento in quel lato di prospetto (aprile 1758): dai documenti del 30 ottobre e del 19 dicembre 1758, si sa che Giuseppe Geraci assieme a mastro Pietro D'Ambra vennero definitivamente remunerati "...pro pretio ut dicitur delle due colonne con suoi capitelli, e base di marmo bianco zoccoli, e controzoccoli di ciaca e membretti uguali a quelli che si trovano piantate nella 21 22 tutto lo svolgimento dei lavori sarà documentato con atti notarili repertoriati in sequenza nei volumi rilegati del Notaio Lo Cicero. Ibidem 10970, ff. 235 -238 nuova facciata che si sta fabricando......c.e distintamente p. atto obligatorio negli atti miei a 22 Nov.re 1756..."23 Resta così anche definitivamente contraddetta l’asserzione valsa fino ad oggi secondo cui Stefano Geraci, avrebbe fornito24 le colonne per il secondo portale, mentre Giuseppe avrebbe fatto25 quelle del primo che quindi sarebbe stato costruito solo dopo. Ciò sarebbe infatti impossibile poiché ancora nell’aprile del 1757 la seconda porta non esisteva mentre già al momento dell’obbligazione di Giuseppe – novembre 1756 - secondo la rigida programmazione imposta dal committente, in meno di soli due mesi le colonne di Stefano erano già state “piantate nella nuova facciata che si sta fabricando”, ovviamente nel solo luogo laddove si poteva, ovvero sul solo portale ancora esistente. In verità, non ritrovandosi l’atto di pagamento di Stefano, sarebbe pure da verificare l’ipotesi alternativa, ma forse più remota26, che l’obbligazione di questi non fosse andata a buon fine e che quella di Giuseppe ne fosse il rimpiazzo. Tuttavia sarebbe una precisazione, pur importante, ma secondaria rispetto all’assunto, visto che a maggior ragione accerterebbe la preesistenza del primo portale con in più addirittura la circostanza per nulla irrilevante che lo si dovrebbe immaginare pure al completo dell’ordine lapideo. In ogni caso, è notevole come anche dalla stessa obbligazione di Giuseppe del 22 Novembre 1756 ad appena due mesi da quella del Di Pasquale, che forse non aveva ancora iniziato i lavori - si possa sospettare esistesse già una “nuova facciata” e non proprio circoscritta al solo portale. Infatti apprendiamo che alla data del documento la “nuova facciata”, laddove erano già state piantate pure le colonne, “si sta fabricando” con ciò imprimendo alla descrizione del luogo specifico una dimensione e un dinamismo che dovrebbero essere ovviamente assenti senza preesistenze incompiute. Ovvero a meno di un intervento iniziato: ma anche nel caso che il Di Pasquale avesse 23 ibidem 10973, f. 228 ripreso a f. 310 In forza dell’obbligazione del 22 settembre 1756 ma con scadenza 22 novembre successivo. 25 Rispetto all’obbligazione del 22 novembre 1756, cioè proprio alla scadenza di quella del fratello. 26 Infatti la sua obbligazione non riporta una scadenza perentoria come fu per il fratello. Se la prima non fosse andata realmente a buon fine sarebbe dovuta anche peggiorare l’urgenza del committente con la conseguente necessità di ribadire a Giuseppe la perentorietà dei termini di consegna. 24 iniziato a lavorare, tuttavia come da contratto sarebbe stato impegnato da tutt’altra parte estrema del Palazzo e non si sarebbe potuta avere lo stesso la “nuova facciata…che si sta fabricando” attorno al primo portale, ma piuttosto una vicino al secondo. E anche nella più che improbabile ipotesi che l’appaltatore avesse disobbedito al contratto o gli fosse stato ordinato con un altrettanto ipotetico quanto per noi risibile “ripensamento” repentino del committente, che aveva appena sottoscritto il contrario, di iniziare immediatamente all’indomani del 22 settembre a demolire e ricostruire dal primo portale, sembra inverosimile che l’avesse potuto portare a compimento in meno di due mesi, per via di una velocità d’avanzamento che anche oggi, con i nostri mezzi e le attrezzature di cantiere nonché con l’organizzazione delle forniture e dei trasporti disponibili, sembra siderale lo stesso. Altra considerazione naturale riguarda ancora la perentorietà dell’obbligazione di Stefano Geraci, vincolato a consegnare gli ornamenti per il primo portale entro “li detti ultimi del mese di novembre p.v. 1756” mentre il Di Pasquale, che invece avrebbe dovuto compiere il lavoro più sostanziale e propedeutico, non ebbe imposte scadenze intermedie particolari, ma solo quella della consegna in cinque anni dei lavori finiti. Per altro verso mentre sappiamo che il mastro d’ascia, quel Antonino Di Martino ormai divenuto di fiducia, costruirà una “nuova porta d’entrata nella casa del marchese simile a quella del principe di Grammonte”27, viene anche remunerato dall’Anito per “ avere eseguito la nuova apertura per servizio della porta antica rimodernata nella facciata della casa del marchese che si sta proseguendo”28 Più nessun dubbio circa la preesistenza del primo portale. Approfondendo l'esame circa la costruzione dell'ordine nobile di facciata, dalla lettura di documenti successivi otteniamo ancora ulteriori conferme e interessanti informazioni. 27 28 ibidem 10973, atto di obbligazione del 10 febbraio 1759 ibidem 10973, atto del 29 giugno 1759, relazione del 27 aprile 1759 Le prime Relazioni di stima relative a lavori eseguiti in dipendenza dell'atto di obbligazione originario del Di Pasquale furono redatte dall'Anito il 4 e il 5 aprile 1758 e allegate all'atto di apoca del 29 aprile successivo. Essi descrivono opere murarie eseguite in facciata in corrispondenza della nuova seconda anticamera, quali "pilastri che fanno cosciatura dei quatto finestroni29 ….lavori di muratura nelle quattro botteghe collaterali alla nuova entrata....lavori di muratura nei mezzalini sopra le botteghe collaterali all'entrata nuova". 30 Se ne deduce ancora che le opere murarie eseguite all'inizio sono lavori di proseguimento che comprendono l’intorno della seconda entrata a partire dall’ascissa della seconda anticamera in poi. Altri documenti appena successivi riguarderanno ancora tale proseguimento. Il 13 giugno del 1759 “Magister Domenico Siragusa ut dicitur Intagliatore di Pietra” riceve onze 8.2 per avere “intagliato di Pietra la facciata della terza anticamera nuova e camera di stirato sino a cantoniera del Palaggio…nel proseguimento dell’ornati della linea della facciata principale”31 Si tratta della rifinitura all’intaglio proprio di quei lavori di muratura, consistenti l’ampliamento della facciata appena citati, messe in opera dal Di Pasquale l’anno prima. L'atto di apoca del 13 novembre 1760 riporta ancora il pagamento di opere di intaglio per l'ordine di finestroni del piano nobile. Mastri Girolamo Carreri e Gaetano Coppolino, intagliatori, vengono remunerati, per aver 29 due sul prospetto, due verso l'interno ibidem 10972, f. 236 - 245 31 “…primieramente: aver intagliato n.14 menzole nel Freggio di detta facciata incominciando dal finistrone da sopra in nuovo portone sino al pilastro e risvolta della cantoniera che conduce al Piano delli Scalzi…per n.4 capitelli indetta linea…per n.10 menzolette sotto di frontespitij di n.5 finistroni…per n.12 gattoni da sotto li detti finistroni… per n.12 gattoni li finistroni mezzalini sotto li suddetti...” ibidem 10973, f. 699 - 700 30 "scannellato ed intagliato trenta gattoni dei dieci finestroni del piano nobile, compresi i tre della Galleria dalla parte della vanella che va al piano degli Scalzi" e per altri lavori simili quasi tutti facilmente riconducibili all'ampliamento, quali le mensole dei balconi dei mezzalini, in numero di sette. Dunque i finestroni lavorati solo sulla Strada Nuova nell’estensione verso il Piano degli Scalzi contano sette, come quelli dei mezzalini sottostanti e coincidono perfettamente con quelli nuovi murati dal Di Pasquale e descritti nelle relazioni di stima degli Ingegneri a partire dal documento del 29 aprile 175832. Insomma nei documenti noti dal 1756 fino al 1759 inoltrato cioè nel periodo più intenso dell'attività costruttiva di ampliamento, non vi è traccia di attività di costruzione sulla Strada Nuova del prospetto e di suoi elementi architettonici, né di massiccia ristrutturazione degli interni (botteghe, mezzalini, camere....) che possano riguardare la Casa preesistente. L'attenzione della committenza e lo svolgimento delle attività erano rivolti in pieno verso la definizione dell'ampliamento e soprattutto degli ambienti di rappresentanza (prospetto, anticamere del quarto nobile, del quarto d'udienza, Galleria, Cavallerizza, Cortili....) e solo secondariamente si dedicavano alla parte "antica" rimasta incompiuta. Essa nel disegno finale, non essendo compresa nell’enfilade di rappresentanza che forse urgeva di più completare per ovvie ragioni di decoro e di immagine, avrebbe rappresentato una parte riservata del piano nobile, ma probabilmente non fu aggredita subito anche perché per qualche tempo continuò ad essere abitata dai committenti durante i lavori di ampliamento. Dalle Relazioni successive si può perfettamente confermare che lavori di muratura si svolsero con coerenza rispetto ai patti contrattuali e con continuità, oltrepassando l’angolo con la vanella delli Scalzi già nel ’58 dove il prospetto prospiciente fu finito l’anno dopo assieme a quello del Piano di 32 coincidono cioè con quelli relativi al solo ampliamento, viceversa avremmo dovuto ritrovare negli atti di pagamento tutti i quindici per due finestroni sulla strada nuova oltre i tre sulla Vanella degli Scalzi. S. Nicolò delli Scalzi33. Solo il 1759 segnò l’inizio dei lavori di prospetto nell’ala più antica della Casa con la ricostruzione dell’angolo con la strada delle Reepentite per le prime tre campate sulla Strada Nuova e per due dalla parte delle Reepentite dove si riprese nel 1760 per arrivare definitivamente a costruire fino all’angolo con le case di Santo Stefano. Nello stesso anno dovette essere stata ultimata anche la costruzione del fronte sulla Strada Nuova fino al livello del cornicione, con la costruzione di quanto ancora incompleto. Dal documento del 23 agosto 1960 ed in particolare dalla relazione del giorno 16 allegata, si apprende della costruzione dell’ordine nobile sul portale principale, ma a partire solo dal livello delle mensole sotto i timpani. In realtà oltre quanto già dimostrato in precedenza rispetto alla preesistenza del portale, alla fine di quest’analisi, non si sono ritrovati al contempo documenti che descrivano la fase muraria relativa alla costruzione dei gattoni, delle balate, dei cintoni, delle cosciature34 e degli architravi dei finestroni della Sala e di quello finto sottostante a destra del portale, di un balcone della prima anticamera e del mezzalino sotto. Così come fino allo stesso livello mancano all’appello i maschi murari (morelloni o scillieri) tra le stesse aperture. Ciò potrebbe accreditare l’ipotesi che oltre al portale principale potessero essere stati precedentemente costruiti anche altri elementi e forse anche gli interni corrispondenti. Evidenziamo così la circostanza peculiare che nemmeno la costruzione della finta volta della Sala risulta documentata. Inoltre mentre siamo certi dell’epoca e degli autori del ciclo pittorico nel resto del quarto nobile per via della corposa documentazione comprendente obbligazioni e apoche, non abbiamo ritrovato invece documenti che trattino dell'affresco della stessa, dipinta da un autore che resterebbe pertanto ancora ignoto35. Da non trascurare pure che nella parte di quadratura dell'affresco stesso, il trompe-l’oeil balaustrato non sia in asse con le porte dell’enfilade di rappresentanza e pertanto con le pitture murarie sui sopraporta, mentre lo è nei finestroni. Se si incrociano queste evidenze con le considerazioni fatte sulle decorazioni, da noi ritrovate nello stesso ambiente durante il restauro sotto le vernici degli scuri nei finestroni 33 ibidem 10976… doc. del 3 novembre 1759, f….. si tratta in ordine dei reggimensola, mensole, cordoli e stipiti in pietra d’intaglio dei balconi 35 a questo punto,considerazioni stilistiche a parte, sarebbe rimessa definitivamente in discussione anche l’ultima ipotesi della Siracusano (vedi cap…) dell’attribuzione della balaustra rappresentata in tale dipinto all’Interguglielmi in quanto attivo a Palermo, solo nella seconda metà del XVIII secolo e tuttavia conosciuto come artista neoclassico. 34 corrispondenti al portale principale della facciata, non possiamo che accreditare la possibilità di una fase muraria precedente estesa anche a questi elementi, sottolineando che essi presentano una decorazione pittorica stilisticamente diversa e forse datata rispetto alle altre fatte nel cantiere di ampliamento su elementi omologhi. In conclusione, dall'esame di questi e di tutti gli altri documenti disponibili, dei rilievi architettonici e di quelli "sul campo", e dai ritrovamenti in cantiere riteniamo di aver dimostrato fin qui che i documenti noti a partire dalla data del 22 settembre 1756 nel fondo del Notaio Lo Cicero, non escludano che si fosse iniziato già prima a trasformare la Casa Magna del Celestri in un Palazzo tardobarocco, anzi resta dimostrata la preesistenza rispetto al 1756 di un disegno progettuale che si era già concretizzato con la costruzione almeno del primo portale e della muratura parziale del secondo che ancora dava accesso al giardino. Il Palazzo rimase incompleto da allora fino al 1756 quando Giovan Battista Celestri, decise di continuarlo. Oggi nonostante, la gran mole documentaria ritrovata, si può solo dire che il ruolo e il contributo dell'Anito così come quelli del Cascione, sono da ridefinire non solo in senso assoluto, ma anche relativamente alle mutue responsabilità. In particolare riteniamo si possa affermare che, a partire dal 1756 per quanto attiene quantomeno alla parte muraria e scultorea del prospetto, così come anche i Capitoli dell’Anito riportano, essi eseguirono un “disegno già fatto” di cui, stante l’accertata preesistenza del portale principale e la definizione dell’ascissa e delle proporzioni del secondo identico al primo, ne resta tutta da stabilire la paternità. La posteriorità stilistica del disegno per il Cortile Nobile potrebbe essere l’ulteriore conferma dell’esecuzione contemporanea in prospetto di un progetto già datato. Il Cortile, più sobrio e classicheggiante, di matrice linguisticamente diversa e cronologicamente successiva, infatti, è certo che fu eseguito sotto la direzione del Cascione autore anche dello scalone - di cui produsse un modello ligneo e i disegni esecutivi degli elementi architettonici, potendosi giustificare così anche la singolare incongruenza stilistica rispetto all’esuberanza del disegno del prospetto già attribuita allo scarto generazionale tra i due architetti, ovvero alla “poliglottia” degli “operatori locali”. In conclusione, dall'esame di questi e di tutti gli altri documenti disponibili, dei rilievi architettonici e di quelli "sul campo", riteniamo che i documenti noti a partire dalla data del 22 settembre 1756 nel fondo del Notaio Lo Cicero, corrispondano alle attività di cantiere per ampliamento e completamento del Palazzo del Marchese Giovan Battista Celestri di Santa Croce, della sua facciata e alla costruzione ex novo dei due cortili. E ancora che si fosse già iniziato a trasformarlo in un Palazzo tardo barocco, mediante la sovrapposizione di nuove fabbriche su quelle più antiche derivate dalla Domus Magna degli Imbarbara, con la costruzione parziale dei due portali monumentale. Il Palazzo e la sua facciata rimasero incompleti da allora fino al 1756 quando Giovan Battista Celestri, da qualche anno divenuto marchese per discendenza, decise di continuare ad ingrandirlo. Dunque l'ampliamento in questione non fu che la conseguenza di un'idea di conversione ed estensione unitaria e originaria che inizialmente poté essere realizzata solo per la primissima parte. D’altra parte nemmeno gli altri atti ritrovati escludono mai che lo svolgimento sequenziale delle anticamere in direzione dell'ampliamento verso la Porta di Vicari fosse un dato assimilato: mentre si legge che l'Anito farà e solo poi consegnerà piante, alzate e profili, si assegnano contemporaneamente agli ambienti esistenti, i termini precisi di Sala, prima anticamera e seconda anticamera, ordinandoli in sequenza quali ambienti canonici già acquisiti in una ideale enfilade di parata non ancora esistente nemmeno sulle carte dell’Anito, che senza la primigenia più remota previsione di un ampliamento non avrebbe senso36. Le altre evidenze geometriche e decorative per essi ambienti, suggeriscono lo stesso. La coerenza rispetto ad un disegno originale eseguito in più riprese, spiegherebbe anche come l'aspetto unitario del Palazzo, apparentemente conferito dall'intervento dell'Anito e del Cascione, avesse indotto erroneamente a considerarlo il risultato di quell'unico cantiere. 36 assegnare in quel momento in un atto notarile il termine improprio di seconda anticamera ad un ambiente per quello insufficiente senza lasciar spazio a fraintendimenti, denota una condizione consolidata almeno dal punto di vista lessicale che, in mancanza di altri requisiti congrui, presuppone almeno un'intenzione arcinota. Di conseguenza ci si può chiedere finalmente se il Celestri avesse chiamato l' Anito a continuare un lavoro mai ultimato di un altro architetto o che addirittura lo avesse semplicemente richiamato a terminare quella che già fu una sua impresa incompiuta. Tuttavia la figura dell'Anito, benché interessante e poliedrica e non più così sconosciuta agli studiosi, non sembra essere quella congruente con l'importanza e la qualità architettonica del palazzo forse anche a causa della sua anagrafe37. Anche l’intervento ad acta dell’Ingegnere anziano, Padre Lombardo, in un momento ancora iniziale e particolarissimo della ripresa, ma mentre l’Anito già agisce nello stesso cantiere, allontana ancora di più questa ipotesi. A tal riguardo alcuni giudizi di autorevoli studiosi del passato convalidano invece tesi opposte. Salvatore Caronia Roberti38 nel 1950, ipotizzava che il Palazzo potesse essere opera di Andrea Gigante, uno tra i più geniali architetti attivi in Sicilia fino al primo neoclassicismo, ma quasi coetaneo del Cascione39. Già Anthony Blunt40 nel 1968 accreditava invece come autore dell'opera un "architetto una di generazione precedente", in linea con Giuseppe Bellafiore41 che riteneva l'edificio riconducibile alla prima metà del settecento. Sono certo giudizi parziali basati esclusivamente sull’osservazione diretta, che ignoravano la complessità degli eventi per nulla lineari di cui oggi grazie ai documenti siamo consapevoli, tuttavia tendono ad escludere figure come quella dell’Anito, vuoi per giudizio di valore vuoi per anagrafe. Se, inoltre, ci affidassimo a qualche indicazione tratta dagli scritti dovremmo ritenere degno di attenzione il fatto che nell’allegato “Capitolo” al documento iniziale del 22 settembre 1756, redatto proprio dall’Anito, egli singolarmente non riporta se stesso quale autore di ciò che è da ritenersi il vero progetto su cui si svilupperà tutta l’impresa costruttiva settecentesca ovvero quei “disegno e modello già fatti”, tuttavia farà risaltare la propria presenza dopo alcune righe e per fatti anche minori anche laddove dovrà fornire solo disegni di dettaglio e sagome necessari all’esecutore; 37 nato intorno al 1714 S. Caronia Roberti, L'architettura del Barocco in Sicilia, "Atti del VII Congresso Nazionale di Storia dell'Architettura", Palermo 1956, pag. 196 39 il Gigante nacque a Trapani il 18 settembre 1731 e morì a Palermo il 4 novembre del 1787 mentre il Cascione nacque nel 1729 a Palermo dove morì nel 1790 40 A. Blunt, Barocco Siciliano, Milano 1968, pag. 174 41 G. Bellafiore, Palermo, guida della città e dei dintorni Novara, 1957, e La civiltà artistica della Sicilia dalla preistoria ad oggi, Palermo 1963 pag. 38 38 successivamente nel corso del cantiere però mai ometterà di segnalarsi quale autore di altre rappresentazioni grafiche simili o foriero di indicazioni significative per gli artigiani. Il comportamento del Cascione è altrettanto pedante. Oggi alla luce, ma nonostante, la gran mole documentaria ritrovata fino adesso, si può solo dire che il contributo dell'Anito è da considerare limitato alla esecuzione della fase muraria dell’ampliamento già prevista da un ignoto architetto, così come quello del Cascione fu più rivolto alla definizione architettonica degli interni e dei cortili. Si può dare per sicuro al contempo che la decorazione del cortile d'onore più sobrio e classicheggiante, linguisticamente evoluto rispetto al prospetto fu eseguito, come pure lo scalone, sotto la direzione dello stesso Cascione, giustificandosi così anche la singolare incongruenza stilistica già attribuita debolmente allo scarto generazionale tra i due. A proposito del cortile, anche se non si ritrovano disegni autentici, è stato possibile tuttavia pervenire alla sistemazione originale su cui vale la pena soffermarsi: si deduce dagli atti di fabbrica che il primo ordine classico archeggiato delimitava degli spazi aperti sul cortile destinati a carretterie collocate sul lato sinistro e separate da muri mediani, mentre a destra accanto all’arco per il passaggio al secondo cortile, le altre due campate formavano un unico spazio, che indirettamente dal documento del 29 giugno 176042, ma anche da altri, deduciamo essere la “cavallerizza sotto il camerone del terzo quarto” detta altre volte “cavallerizza delle mule”, particolarmente decorata con le poste con archetti e mangiatoie rivestite in ceramica. A riprova di ciò esiste ancora il pavimento di balatato di ciaca43, che distingue gli spazi di questo genere. Qualche dubbio rimane per il timpano curvo interrotto dalle linee vivaci, sopra i finistroni del secondo ordine che rispetto alla matrice compositiva complessiva del cortile apparirebbe come una deviazione dal registro. Se si confrontano i timpani disegnati dallo stesso Cascione per l’altro cortile, anche se per lo più incompiuti, questi hanno invece la più esemplare impronta neoclassica; inoltre nei conti di fabbrica per quanto al primo cortile, mentre si legge dei resoconti dell’intaglio 42 43 ibidem...doc. 29 giugno 1760 grandi conci di calcare grigio delle cave locali di “Billiemi”, tipici delle pavimentazioni tradizionali palermitane dei finestroni sul lato dello scalone costruito ex novo, non sono stati ritrovati quelli sulla facciata preesistente del Camerone d’Udienza. In quanto ai “grastoni”, ovvero i vasi in stucco che adornano il cortile sulle colonne, sembra chiaro che non possano attribuirsi alla mano del Cascione. Per la loro esecuzione, nei “Capitoli” dell’architetto stesso per quell’Aloisio Romano autore di altre opere quali gli stucchi della Galleria, allegati all’atto di obbligazione del 8 agosto 1763, vero è che egli detta il modus operandi tuttavia vincola l’esecutore ad attenersi alla “già mostra fatta” ed in quanto fatta ma non esplicitamente su disegno del Cascione possiamo essere certi che quest’ultimo non fu autore del disegno con “tutti quei contorni, fascie, Intagli, Ornati e Grottesco e Busti di figurine espressati in d.a mostra”. Infatti nessun architetto o artista avrebbe omesso, come nemmeno Cascione fece mai, di rivendicare la sua opera. Ciò opporrebbe più di un dubbio circa l’attendibilità di alcuni giudizi circa una presunta “incertezza” degli architetti rispetto all’uso di certi toni linguistici, dato il momento storico di transizione; ovvero di altre stime diverse, che ipotizzano una “sovrapposizione” di competenze tra il Cascione e l’Anito il cui apporto in questo cantiere invece appare forse da ridimensionare. Mentre riteniamo piuttosto chiaro l’approccio neoclassico del Cascione, incline ormai alle nuove tendenze. Anche se probabilmente dovette subire, oltre la personalità di cotanti committenti, anche il peso delle preesistenze, le assorbì nell’asciutta razionalità degli echi palladiani fin troppo evidenti nella declinazione del tema della doppie arcate sovrapposte, dell’ordine gigante terrano che inquadra le serliane sorrette da colonne, che ne avrebbero esaltato l’aspetto scultoreo. E in quanto a ciò, una novità interessante affiora ancora dall’analisi dei documenti di fabbrica: dall’atto di obbligazione dei marmoraij Giuseppe e Santo Geraci e Giovanni e Rocco Allegra44 per realizzare tutte le opere in pietra del cortile si legge dai “Capitoli” del Cascione allegati, della previsione di realizzare “la palaustrata di pietra di Castellammare…con sua basa e cimasa…alta in tutto palmi quattro”. 44 ibidem…doc. 13 luglio 1760 Nel seguito non esistono documenti che provano l’effettiva fornitura della balaustra e, in sua assenza sui luoghi, dobbiamo desumere che probabilmente non fu mai realizzata. Tuttavia la citazione palladiana, non fa escudere che la palaustra, rispetto ai modesti parapetti metallici, avrebbe aggiunto esattezza alle serliane e, magari allo stesso modo aulico di coniugare il verbo classico, posta sulla cornice d’attico avrebbe dato ben altro significato al sodalizio tra la corte e la volta del cielo. Così come l’insieme avrebbe potuto assumere disegno canonico e slancio finale grazie agli ulteriori grastoni posti sui pilastrini della stessa balaustra terminale, come si fece in prospetto. A tal proposito è certo che altre due distinte partite di otto vasi vennero ordinati in quel periodo (17621763) e anche questi, sembra, disegnati da un artista ignoto, o forse dallo stesso magister Calogero Pecora ceramista, in quanto “il disegno di stucco al presente esistente” era già “in potere di detto di Pecora” e doveva essere modificato “con il piede per piu alto secondo li prescriver dell’Ing. Gio:Batta Casciuni ”45 segno quindi di un intervento di adeguamento di un modello altrui, ma piegato alle esigenze, secondo i rapporti proporzionali dettati dall’architetto. I vasi che avrebbe dovuto fare il Pecora sarebbero stati però di “creta con stagno color marmoreo”, dunque delle maioliche. Tuttavia, alla fine, di questi grandi vasi tra i decori di entrambi i cortili non v’è traccia, nemmeno esiste il corrispondente documento di apoca e in definitiva c’è da supporre che non furono mai collocati. Possiamo ben affermare allora che il cortile del Cascione dovette non essere stato mai del tutto ultimato. Infine dai documenti di obbligazione o di apoca stipulati con artisti o artigiani autori di opere non strettamente architettoniche, tuttavia decorative o di arredo, affiora inaspettatamente, ma con incisività il ruolo dei committenti. Nei fatti, quasi mai il rapporto tra la committenza e questi particolari appaltatori era mediato dagli Architetti e ciò significa quasi certamente il diretto 45 ibidem…doc. 2 novembre 1762 coinvolgimento dei committenti, Giovambattista e Tommaso, nelle scelte di questo genere senza interferenze dell’architetto, il cui ruolo, se c’era, era marginale e si limitava a registrare l’avanzamento dei lavori. Spesso citati esplicitamente quali autori di schizzi o bozzetti di pitture o di arredi da eseguire, i Celestri e l’attivissimo Tommaso in particolare, per la sua prolificità artistica e progettuale, si distinguono come rappresentanti di quel folto circolo di nobili eruditi, “artisti” o “architetti” per diletto, di cui è tradizionalmente nota la vivacità espressiva in quel periodo. Secondo questa lettura, a Tommaso, si dovrebbe l’idea dell’insolita introduzione nel prospetto così pregno di vigorosa espressività scultorea, dei discussi decori pittorici quali i fondi a finto mattone di cui tanto si suppose46, e delle “fascie” di intonaco a finto marmo e ciò ne spiegherebbe la singolarità; ma ancora Tommaso abbozzò la pittura a mezzo fresco della falsa volta della prima anticamera nobile, spesso disegnò i tremò delle anticamere, dorati dagli oropillari dopo l’intaglio da parte degli ebanisti che ancora diedero forma ai suoi schizzi di consolle e boffettoni, mentre gli artisti si dovettero sottomettere ai suoi gusti per la pittura degli ornati delle portiere e finistroni e per le felze d’apparato. Riteniamo, in conclusione poter affermare che il Palazzo Santa Croce, nel suo complesso architettonico e decorativo, fu il prodotto di molteplici apporti culturali e professionali, sviluppatisi anche nel tempo di “epoche” differenti, laddove il lavoro di costruttori ed artisti diversi dovette fondersi, spesso giustapponendosi o sovrapponendosi addirittura. Oltre l’architetto, il committente “artista” incise in maniera determinante dando esito, infine, a singolari aspetti di non sappiamo quanto consapevole… “eclettismo”, imponendo, oltre il gusto, anche le suggestioni proprie, contributo per quelle apparenti incoerenze mai del tutto comprese. 46 Enrico Calandra parlò di policromia della facciata, adottata per “ravvivare la severità della corrente contegnosa” dell’architettura neoclassica, cfr. E. CALANDRA, Breve storia dell’architettura in Sicilia, Bari, 1938, pag. 133 Giovanni Lo Jacono qualificò come “unicum”, nell’architettura barocca palermitana, l’uso deciso del colore nei prospetti e specie nella cortina di finti mattoni rossi di “reminiscenza romana”, cfr. G. LO JACONO, Studi e rilievi di palazzi Palermitani di età Barocca, Palermo, 1962 pag. 11 Nino Alfano ritenne, invece, che l’introduzione del finto mattone risalisse ad ipotetici ultimazione o rinnovo della facciata nei primi dell’ottocento, cfr. N. ALFANO, Breve storia della casa: osservazione sui tipi abitativi e la città, Roma 1997, p. 68 Resta dimostrato, però, come siano maturi i presupposti per riaprire il dibattito ritenuto erroneamente esaurito intorno alla figura di un Architetto raffinato che rimane ancora ignoto, probabilmente di una "generazione precedente", a cui si deve almeno l'idea complessiva dell'impianto settecentesco del Palazzo dei Celestri e di sicuro la sua prima vera conversione dalla residenza secentesca. E ancora il disegno originale del prospetto dalle differenti campiture misurate sulle proporzioni degli ordini e le insolite occasioni per altrui ardite trame pittoriche, verosimilmente sì ispirato da esempi viennesi o milanesi47, tuttavia ricondotti alla dimensione mediterranea, ma da ritenere valori coevi e vitali dell'impresa e non più occasioni per tardive suggestioni semplicemente echeggianti o reminiscenti. Palazzo Santa Croce Sant'Elia si confermerebbe a maggior ragione quel caso singolare che è nell'architettura palermitana del XVIII secolo. 47 cfr. Stefano Piazza, Architettura e Nobiltà, ed. L'Epos, 2005, pagg. 106-107