abramo: un padre dell`esperienza umana

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abramo: un padre dell`esperienza umana
SECONDO BONGIOVANNI S.I.*
ABRAMO: UN PADRE
DELL’ESPERIENZA UMANA
a papà Matteo
1
ESPERIENZA, UMANITÀ, PAROLA
«[1] Il Signore disse ad Abram: “Vai, vattene (lech, lecha) dalla tua terra,
dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò.
[2] Farò di te una grande nazione/popolo e ti benedirò, renderò grande il
tuo nome e possa tu essere una benedizione. [3] Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette
tutte le famiglie della terra”. [4] Allora Abram partì (vayelech, andò), come
gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì (vayelech) Lot» (Gen 12,1-4).
Il testo che segue si propone di indagare la stretta connessione tra
l’esperienza autentica e l’umanizzazione dell’uomo. Mostrare la consistenza di questa tesi costituisce un compito dell’esposizione, preceduta
da tre chiarimenti orientativi.
1. L’intervento presenta l’esemplificazione letteraria e biblica di un
approccio “iconico” all’esperienza, così come si condensa nella luminosa figura di Abramo quale emerge nel testo della sua chiamata da
parte dell’Eterno. Nella tonalità di una narrazione – con le immagini
che essa evoca – il tentativo è di evitare, o più modestamente di attenuare, la contraddizione implicita in ogni “discorso teorico” sull’esperienza: che inevitabilmente si presenta come ragionamento astratto e
distaccato su di un evento dalla concretezza irriducibile.
Nella loro vivacità e immediatezza le immagini narrative interpellano le prospettive con cui assoggettiamo ai concetti quei margini del
reale che contraddicono le attese abituali.
2. Un accenno alla nozione filosofica di esperienza consente un primo chiarimento. In particolare, la lingua tedesca distingue tra Erlebnis
e Erfahrung, differenziando anche terminologicamente ciò che in italiano è contratto in un’unica nozione1.
* SECONDO BONGIOVANNI S.I., docente di Filosofia presso l’Istituto di Studi filosofici
Aloisianum, via Prato della Valle 56 - 35139 Padova.
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In tedesco la particella “Er” è associata a molti verbi per esprimere il compimento
positivo di un processo che avviene attraverso una certa astrazione e generalizzazione.
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- Erlebnis (dal verbo Er-leben, vivere) fa riferimento a una percezione
attuale e puntuale, e indica l’esperienza vissuta immediata, preriflessa: la presentificazione alla coscienza di un qualunque contenuto.
Con questo termine W. Dilthey descriveva l’esperienza interiore nei
suoi vari aspetti, conoscitivo, volitivo e sentimentale. La stessa nozione è stata ripresa da Husserl per designare il fatto di coscienza
concreto, gli avvenimenti reali della vita dell’Io2.
- Erfahrung (Er-fahren significa imparare; mentre fahren è verbo del
viaggiare, andare) dice l’esperienza riflessa e cumulativa (una esperienza “accumulata”), che dà luogo a una conoscenza condivisa. In
quanto Erfahrung l’esperienza ha bisogno di tempo; non è immediata, ma fa riferimento al depositarsi dei vari contenuti nella memoria
e alla loro riattivazione nell’autocoscienza.
Nella figura biblica di Abramo si ritrovano entrambi i sensi dell’esperienza accennati, insieme all’intenso coinvolgimento e all’implicazione
dell’ascoltatore in una narrazione fondativa (di nuova storia). Infatti, la
vicenda del patriarca esprime una sorta di princeps analogatum di tutte
le esperienze umane, ponendo in atto la relazione tra l’uomo e il fondamento della sua esistenza che l’intenzionalità credente chiama Dio Creatore. Questa potenza della narrazione può coinvolgere l’ascoltatore in
una partecipazione capace di attualizzare un racconto del passato in un
presente vivente personale.
Mi propongo di chiarire quanto appena abbozzato attraverso la nozione di “icona narrativa”.
3. Uno dei luoghi testuali di riferimento utili per riflettere sul senso
dell’esperienza in Abramo si trova in Genesi 12, il testo della chiamata:
vera e propria Ur-Quelle dell’intera rivelazione biblica e momento fondatore dell’esperienza umana in quanto tale. Ciò che segue intende argomentare il modo in cui in questo racconto il patriarca emerge quale
icona e testimone di profonda umanità3. In questa figura luminosa, altamente simbolica ed evocativa del cammino umano, si possono attingere molteplici considerazioni. In particolare, dalla storia dell’incontro
con l’Eterno trarrò elementi utili per una riflessione ampia di carattere
filosofico-ermeneutico.
Senza negare il presupposto credente, non sarò però preoccupato di
giustificare un dato rivelato, nel senso forte attribuito alla “rivelazione”
dalla teologia dogmatica cristiana.
2
Riprendo queste riflessioni da P. JEDLOWSKI, Memoria, esperienza e modernità. Memorie e società nel XX secolo, Franco Angeli, Milano 2002, 16s.
3
Naturalmente, il senso di fondo del testo citato di Genesi 12 si coglie adeguatamente nel contesto dell’intera narrazione della storia di Abramo e, ancor più, della
storia sacra nel suo insieme.
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Nel racconto della chiamata di Abramo indicherò alcune tracce rivelative dell’esperienza umana in generale, che possono essere condivise
anche da una riflessione non credente4. L’icona di Abramo non rinchiude le sue potenzialità umanizzanti nel “padre della fede” proclamato o
anche istituzionalizzato nelle tre religioni monoteistiche: più ampiamente, essa emana una potenza di verità umanizzante che supera gli
orizzonti religiosi, riconoscendolo come uno dei grandi maestri di umanità della storia.
2
L’ICONA ABRAMICA
In questo capitolo istruisco un percorso preparatorio per le considerazioni sull’esperienza che saranno sinteticamente riprese nel prossimo. Procedendo in due momenti.
Nel primo, riprendo il racconto contestualizzandone l’interpretazione che coglie in Abramo l’icona in cui si cor-rispondono l’uomo e
Dio nella parola condivisa (a).
Nel secondo, evidenzio alcune considerazioni più specifiche (b)5.
a) L’icona narrativa
Intorno al 1800 un pastore della Mesopotamia è chiamato da Dio
ad abbandonare per sempre la sua casa (lech, lechà: rl rl), invitato ad
affrontare un lungo viaggio lungo terre sconosciute. Dio mette in cammino Abram verso un paese che il pastore non conosce. Dio lo conduce, e gli cambia il nome da {air:b)
a (Avràm, traslitterato con Abram), in
{aihiar :b)
a (Avrahàm, Abramo) «padre di una moltitudine di popoli» (Gen
17,5); gli promette un figlio legittimo nonostante l’età avanzata, Isacco, che nascerà dalla sposa Sara (Gen 17,19).
La grande notorietà del racconto e la sua immediata evidenza rischiano di ostacolare l’accesso al senso profondo della Parola di Dio (PdD),
4
Assumo una distinzione elaborata da C. Bruaire, fatta propria anche da P. Ricoeur,
tra il “rivelato” e il “rivelatore”. Quest’ultima espressione individua percorsi di senso
“rivelatori” dell’esperienza umana tout court che si possono intercettare nei testi sacri
delle tradizioni religiose senza dover essere assunti necessariamente come dogmaticamente “rivelati” da Dio. Nelle Scritture sono depositate riflessioni che spingono oltre la
stessa credenza religiosa e possono ispirare la filosofia e l’esperienza umana tout court.
5
Alcune delle riflessioni che seguono sono ispirate anche dall’esegesi ebraica svolta
in http://lnx.levchadash.info/index.php?option=com_content&task=view&id=266
&Itemid=54
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non di rado soffocata e gestita dallo scontato e dal già noto. Nell’intento
di superare tale impasse mi concentro su di un aspetto singolare del
testo che aiuta a interagire con una più ampia comprensione della PdD
particolarmente evidente nell’episodio in questione. Prima però situo le
considerazioni che seguiranno nella prospettiva del presupposto ermeneutico a partire da cui mi avvicino e [mi] comprendo [nel]la PdD.
La PdD accade come evento di verità personale in quanto interpreta
e libera le profondità del cuore umano, luogo che le parole dell’uomo
sono incapaci di abitare se lasciate a se stesse. La PdD è Unica (Parola
dell’Unico) perché custodisce in sé, insieme – senza separazioni e senza
confusioni – la verità di Dio, nella cura originaria e originante per l’uomo, e la verità dell’uomo, nella libertà ritrovata di aprirsi a una storia di
umanità condivisa. La Sua unicità è racchiusa e rivelata nel tenere insieme Dio e uomo, istituendo una relazione creativa – dell’uomo in Dio e
di Dio nell’uomo. La Parola pre-cede le parole umane, non sostituendosi ma conferendo ad esse la possibilità di dirsi, liberandole, con-sentendole. Nella Parola la parola umana accede a se stessa.
Vengo dunque al singolare rilievo che individuo in Gen 12. Posto in
relazione con la Parola che scende dall’alto, Abramo non proferisce
parola alcuna, almeno in questo testo specifico di Gen 12,1-4. Fatto
senz’altro peculiare, se si intende la PdD quale potenza unica di vita e
di liberazione che consiste nel “dare la parola” all’uomo – e non nel
prenderne il posto, sostituendovisi o costringendolo a qualunque cosa.
Basta considerare un solo fatto: in un certo senso almeno, si può dire
che prima che la Parola “cadesse” su Abramo, questi non esisteva e
conduceva una vita del tutto ignota come pastore, simile a tanti altri
suoi compagni di clan. È la Parola a costituirlo al centro di una storia
che diverrà paradigmatica dell’umanità intera. È la Parola a generarlo
alla storia, e a renderlo anzi generatore di storia: cioè è la Parola a
generarlo a se stesso. Di fronte a un simile appello, perché dunque
Abramo non prende a sua volta la parola?
Nel silenzio del Patriarca potremmo cogliere il riconoscersi integralmente compreso, sostenuto e abitato nella/dalla Parola che gli viene
rivolta. La PdD lo interpreta in modo così radicale da permettere al
Patriarca di accedere a se stesso e al desiderio profondo come mai gli
era accaduto nella sua esperienza. Prima che la Parola si rivolgesse a lui,
Abramo non “sapeva” chi fosse. In questo senso – si può pensare –
l’intervento divino è tale da lasciarlo letteralmente senza parole, privo
cioè degli abituali discorsi con cui era uso rivolgersi a se stesso. Abramo
resta senza parole e tuttavia nient’affatto passivo poiché viene detto:
Abramo “partì”. Questo attivarsi del patriarca è reso possibile a partire
dall’esperienza unica di riconoscimento personale che si produce nell’ascolto della PdD, che precede e istituisce la stessa possibilità dell’auto-riconoscimento da parte dell’uomo.
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L’esperienza storica e concreta della Parola creatrice e liberatrice in
Abramo sor-prende l’uomo nel suo desiderio più profondo, che lui stesso,
con le sue sole forze, non giungeva ad esplicitare ed era comunque
incapace di interpretare. L’adam/uomo in Abramo è insieme sor-preso
e com-preso da questo evento improvviso: nell’atto stesso del suo accadere la PdD rivela la piena cor-rispondenza al suo grido interiore, fino
ad allora rimasto senza voce. Soltanto ora Abramo sa “chi” è, nel momento stesso in cui diviene consapevole di un appello che lo rivolge
verso e lo coinvolge in una storia da costruire, non esclusiva o escludente ma aperta verso tutte le generazioni che lo seguiranno.
Nell’apparente silenzio del patriarca è ancora possibile tracciare
un’altra linea interpretativa – nella prospettiva di quanto già accennato
circa l’icona narrativa. Forse Abramo è “padre” anche perché lascia
essere coloro che lo seguiranno, nel senso più profondo del loro venire
alla luce come “figli”: il suo silenzio può comprendersi come lo spazio
libero per una presa di parola e una risposta personale, rendendo possibile a ciascuno una presa di posizione particolare davanti al Chiamante. Nel dialogo con Dio nessun uomo può rispondere al posto di un
altro. In questo senso, il patriarca è generativo di umanità in ogni uomo,
perché non si appropria del cammino altrui ma coinvolge l’ascoltatore
in una risposta che egli non può dare al suo posto. Risiede qui uno degli
aspetti fondamentali di ciò che intendo per icona narrativa. Abramo
risponde partendo, certo, e proprio in questo modo lascia essere la
possibilità di una risposta personale da parte di ognuno. Partendo egli
apre la possibilità di una storia che prima non [c’]era. Questa sua scelta,
però, non occupa l’intero orizzonte della relazione con Dio saturandone le possibilità: al contrario, essa apre per ogni altro ascoltatore lo
spazio di una possibilità fino ad allora inaudita.
In un certo senso si può trovare un altro motivo ancora per cui Abramo non proferisce parola. Infatti, la PdD ha generato in lui l’accesso al
desiderio e alla parola profonda, quella che da solo era incapace di dire
e di riconoscere. A partire da questa esperienza, egli si avverte integralmente riconosciuto dalla/nella Parola che Dio gli rivolge. È importante
stabilire che un tale riconoscimento non costituisce un atto puntuale
ma è generativo di storia: paradossalmente, potremmo dire che Abramo si riconosce anche attraverso il riconoscimento delle infinite generazioni che lo seguiranno riconoscendosi in lui; inoltre, [il riconoscimento] non avviene in modo teorico o speculare, ma operativo, storico, concreto. Abramo va’ ... e in questo modo la Parola diventa esperienza umana, dialogo, risposta concreta a una relazione.
Il Dio biblico non si sostituisce all’uomo: YHWH non è l’idolo che
riduce l’uomo alle sue (pretese o arbitrarie) volontà; e non si confonde
con la rappresentazione iperbolica di un paternalismo che lascia l’uomo prigioniero della sua impotenza. La Parola rivolta ad Abramo non si
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confonde con un ordine o un comando imperioso o dispotico sul modello umano: il senso del suo “cadere” sull’uomo6 si coglie nella novità
assoluta che Essa esprime, novità racchiusa nell’appello inaudito e coinvolgente ad assumere se stesso mettendosi in cammino nella storia. Forse, mai prima di allora un uomo aveva udito e sperimentato tale cura e
passione per la sua vita e la sua storia.
Abramo “ascolta” non perché fa ciò che la Parola “comanda”. Una
tale comprensione dell’ascolto rimane ancora esteriore e superficiale
rispetto all’evento, sussumendo il Vivente a una rappresentazione umana totalizzante, e prestandosi, tra l’altro, a possibili deviazioni ideologiche. Abramo “obbedisce” in quanto è il primo uomo ad “ascoltare” la
dedizione di Dio per l’uomo, “fidandosene”7: ciò lo rende capace di
responsabilità nell’aderire a quanto gli è stato dato di ascoltare e di
comprendere di se stesso: «Allora Abram partì (vayelech, andò)». Si
tratta dello stesso verbo utilizzato da Dio nell’appello ad andare. Abramo “risponde”, dunque, non a parole ma con un agire concreto nella
storia che si apre davanti a lui. Così, la Parola mostrerà tutta la sua
verità storica e umanizzante. Dove, nel rivolgersi eterno di Dio all’uomo si prepara il rivolgersi storico dell’uomo all’uomo, di ogni uomo a
se stesso. In questo modo si avvia l’esperienza umana: partendo, Abramo fa partire con sé tutte le generazioni umane.
Da quanto detto traspare il valore iconico della narrazione di Abramo che l’apparente semplicità del testo non deve celare o ignorare.
Abramo è icona narrativa perché nel racconto della sua vita “accade”
Dio e “accade” l’uomo: Dio nell’uomo e l’uomo in Dio, senza separazioni e senza confusioni. Accade Dio nel suo rivelarsi, e accade l’uomo nel
suo riconoscersi chiamato. Si può parlare di icona narrativa perché l’esistenza di Abramo lascia essere Dio, lo lascia dirsi, manifestarsi, trasparire. E lasciando essere Dio lascia essere l’altro uomo, il fratello. Il patriarca non è appiattito o contratto in un’immagine compiaciuta di se stesso8,
come gli eroi più o meno paganeggianti (anche se formalmente “religiosi”)9 costretti a pagare debiti insolvibili alla loro idealizzata perfezione:
Abramo è tutto e solo nella relazione istituita da Dio e da lui accolta. Egli
6
È il verbo che soggiace al testo biblico.
7
Nella fiducia Abramo supera le antiche e sempre presenti paure del divino; e inizia
ad abbandonare le disordinate volontà di appropriazione del divino stesso, attraverso
riti e sacrifici di diversa natura.
8
Nel suo svolgimento successivo il racconto biblico non presenta Abramo come uomo
perfetto e del tutto esente da limiti o da debolezze (si pensi al momento in cui in Egitto
mentirà, presentando Sara come sua sorella). Abramo è icona vivente perché nella sua
esistenza lascia essere il Dio che lo lascia essere se stesso: il Dio che lo affida a se stesso.
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Nel racconto della chiamata di Abramo indicherò alcune tracce rivelative dell’esperienza umana in generale.
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diviene icona della relazione umana con Dio, e della relazione di Dio con
ogni uomo che si genera in una parola condivisa. In questo movimento
relazionale risiede il dinamismo coinvolgente dell’icona narrativa.
Quest’ultima affermazione permette di comprendere un altro aspetto rilevante: con Abramo non siamo posti “davanti” a qualcuno o a
qualcosa, alle gesta mirabili di un grande personaggio o “protagonista”
del passato. Il dinamismo narrativo iconico sottrae alla “presa” di posizione frontale, attraverso il controllo di un oggetto o di un soggetto nei
confronti di un altro (soggetto o oggetto). Nell’icona narrativa di Abramo siamo coinvolti in un dinamismo di appartenenza biografica, spirituale, esperienziale che eccede le pre[te]se di distanza artificiose e i calcoli preventivi10, dove anche la conoscenza di noi stessi si apre a percorsi inesplorati. In una dimensione di umanità in cui, al tempo stesso,
siamo rivolti verso un passato immemoriale e insuperabile (nel gesto
abramico di fiducia in Dio), e disposti verso un avvenire sempre ancora
aperto alla nostra libera scelta, verso una “terra” che ci sarà indicata.
La potenza ermeneutica di Abramo si coglie in una narrazione in cui
l’ascoltatore si lascia coinvolgere nella vicenda; coinvolgersi non significa sottomettersi o appiattirsi, e neppure adeguarsi o conformarsi a
qualcosa di esteriore rispetto al vissuto e all’esperienza personale propria di ciascuno. Abramo non è il legislatore che costringe a un’osservanza passiva; non è il capopopolo che trascina con la forza retorica
della persuasione; non è il fondatore di una religione che vuole sottomettere altri a un’identità e a una pratica religiosa determinata. Abramo diventerà “ebreo” (Gen 14,13) ma soltanto nel senso che – per
grazia – egli è il primo uomo ad attraversare la separazione tra l’uomo
e Dio, aprendo in tal modo per ogni uomo il varco verso l’Eterno. In
ciò consiste quella che potrebbe chiamarsi l’incandescenza iconica abramica. Egli non fonda alcuna religione, ma in/per ogni uomo apre l’accesso al Vivente, aldilà di tutte le appartenenze religiose categoriali.
Abramo rimane uno squarcio aperto dell’/nell’umanità verso Dio.
L’iconicità di Abramo risiede nella capacità di raccogliere e di custodire in se stesso la vicenda umana di ogni uomo e di ogni tempo: per
questo anche oggi la sua vita non cessa di parlare a chiunque. Il patriarca non costringe ad alcuna ripetizione di un passato: ben altrimenti, la
sua icona coinvolge colui che si avvicina nell’ascolto dell’infinita dedizione all’uomo del Vivente.
Un’ultima considerazione. Ho insistito sul carattere iconico della
narrazione di Abramo. Come già suggerito, tale connotazione intende
segnalare l’abbandono dell’orizzonte visivo di un soggetto costituente
10
«Verso la terra che io ti indicherò», dice il Signore ad Abramo. Non spetta a quest’ultimo stabilire la terra, ma soltanto disporsi in una direzione, con un orientamento
(verso).
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la scena della rappresentazione in un “davanti-a-sé”. Nell’icona di Abramo non soltanto vediamo/essendo-visti e viceversa, ma soprattutto vediamo/ascoltando e ascoltiamo/vedendo: infine, e non secondariamente, ascoltiamo/ascoltandoci e viceversa, nel senso che la PdD si ascolta
davvero ponendoci all’ascolto di noi stessi, e reciprocamente. Queste
considerazioni, che peraltro necessiterebbero approfondimenti, sono
rilevanti per il nostro discorso, in quanto attraverso di esse si illumina
anche la connessione essenziale essenziale tra esperienza e parola.
Tale nesso dà luogo a un’ulteriore osservazione. Nel racconto genetliaco è possibile comprendere come l’esperienza umana si configuri e si
riconosca attraverso la parola scambiata e ricevuta dall’altro (anche nel
silenzio); a sua volta, la stessa parola in quanto condivisa costituisce già,
essa stessa, una profonda esperienza umana. La connessione in questione soggiace all’intera indagine sull’esperienza: benché qui sia appena sfiorata, essa struttura e configura l’esperienza stessa in quanto “umana”. La
parola scambiata rende l’esperienza condivisibile, comprensibile, istruttiva e formativa; in altri termini, la rende tale: “esperienza”. Nella parola umana l’esperienza si fa, si costruisce, si ri-prende, si interpreta.
b) Tracce interpretative
In questa seconda parte del capitolo presento alcune considerazioni utili
per approfondire il senso dell’esperienza umana: concentrandomi soprattutto sulla parola chiave presente in Gen 12,1-4, l’imperativo divino rivolto ad Abramo, lech, lecha (rl rl), “vai, vattene!”.
Grido creativo. Una prima constatazione sorprende parecchio: in
Abramo, il rivelarsi di Dio non riguarda se stesso, le mirabili qualità
divine o la sua Gloria. Nel suo invito/appello Dio non chiama Abramo
a rivolgersi e a piegarsi verso di Lui, come imporrebbe un sovrano di
questo mondo: lo invita invece a volgersi alla storia comprendendola
in/con Lui, in quanto con-sentita e concentrata nell’appello divino.
La divinità di Dio si dischiude nella sorprendente dedizione e cura
per l’umanità dell’uomo. La prima parola di Dio è un’intensa preoccupazione per l’uomo: è un grido (clamavit sed creavit, dicevano i Padri a
proposito della creazione) rivolto all’uomo perché possa raggiungere la
pienezza della vita.
Non diremo mai nulla di vero su Dio se non restando ancorati alla
Sua cura e apprensione per l’umanità dell’uomo. Di contro, ex parte
nostra, non vivremo mai nulla di/per Dio se non rimanendo legati alla
Sua stessa preoccupazione per l’altro uomo. In un certo senso, la parola
di Gen 12,1 può considerarsi come il secondo grido di creazione dell’uomo: il Dio che lo ha strappato dal nulla, continua a liberarlo dall’anonimia di una vita senza storia. Questo secondo “grido” divino è forse ancora più importante del primo: con esso, infatti, inizia il dialogo con Dio,
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inizia Dio come dialogo e relazione, nella parola ascoltata e condivisa:
attraverso la possibilità di rispondere da parte dell’uomo. In questo grido divino inizia la storia umana, con Abramo: il patriarca che, mettendosi in cammino, realizza per primo la “somiglianza” con Dio (Gen 1,26).
Preghiera all’uomo. Dio si rivolge all’uomo attraverso una sorta di
“invocazione” che costituisce l’avvio e l’impulso ad entrare nell’esperienza profonda di sé, praticando l’umanità, mettendolo in cammino
verso se stesso – in questo senso sarà da intendere anche la “terra” – e
verso gli altri.
Più che un comando inappellabile, il “grido” divino (“vattene”) si
comprende quale profonda passione di Dio per l’uomo, per la sua liberazione e la sua umanizzazione.
La preghiera/invocazione con cui l’Eterno si rivolge all’uomo, tuttavia, non è una rassicurazione o una consolazione immediata: ma un
invito energico e vigoroso a uscire dalla situazione troppo tranquilla in
cui Abramo rischia di vanificare la sua vita. Lech, lechà. Entrare nell’esperienza implica assumere un momento di rottura quasi “violenta”
rispetto alla consuetudine.
Staccarsi da. Prima ancora di essere invitato ad andare “verso” un
luogo – che rimane comunque indeterminato –, ad Abramo viene domandato di sradicarsi “da” un luogo, dalla terra fino ad allora abitata. Il
testo ebraico ripete più volte la parola my (mi), “da”, segnalando la necessità dello sradicamento dalle condizioni di partenza. Come comprendere questa richiesta, considerando impossibile diventare se stessi nello
sradicamento dai luoghi generativi della propria identità (casa, terra,
patria...)? Come può l’Eterno rivolgere ad Abramo una simile richiesta?
Per reperire una risposta occorre contestualizzare il senso di tale
esigenza: considerando che il testo parla a un uomo la cui cultura religiosa proclamava divinità legate a un luogo specifico, senza alcuna possibilità di uscire dagli schemi prestabiliti. Il nome stesso del padre di
Abramo, Terach – lett., “l’uomo della luna” –, rinvia a una religione
degli astri, simbolo dell’astrologia pagana: Terach, appunto, era un costruttore di idoli. È da questi lacci paralizzanti, e per renderlo capace di
incontrare il Dio che non conosce frontiere e non è più costretto in
alcun luogo, che Abramo è chiamato a liberarsi mettendo anzitutto in
questione la visione del mondo ereditata dal padre.
Abbandonando la casa del padre e la città di Ur, Abramo diventa
colui che compiendo il passaggio non tornerà più indietro (l’ivri, l’ebreo).
Si segnala così l’urgenza di una presa di posizione personale da assumere, verso se stesso, verso la società di appartenenza, e verso Dio.
Il passaggio. Come si è visto lech lechà può essere anche compreso
come: “vai verso di te”, “vai a tuo vantaggio”, “va per te stesso”. Oppu-
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re anche semplicemente “Va’!,Va’!”, poiché il testo può essere letto come
un doppio imperativo: Lech!, Lech! Soltanto andandosene, staccandosi
dal luogo fino ad allora abitato, Abramo sfuggirà a una serie di pesi che
lo affliggeranno appiattendolo su un destino senza storia né libertà:
non a caso, andandosene gli sarà cambiato il nome, perché cambia la
storia vissuta fino allora.
Le ultime traduzioni segnalate di lech lechà non devono essere intese
come un invito egoistico a percorrere la propria storia senza curarsi degli altri: perché di fatto, solo andando “verso se stesso” in profondità
Abramo potrà divenire benedizione per altri. Questa interpretazione è
rafforzata da un’ulteriore traduzione ancora possibile della stessa espressione: “vai, tu stesso”, parola che rinvia all’originalità del percorso personale di Abramo invitato a percorrere un cammino unico, proprio, intrapreso sotto la sua responsabilità in risposta alla chiamata di Dio. Per
questo motivo egli sarà chiamato il primo haivrì, il primo ebreo (in Gen
14,13), che letteralmente significa: “colui che sta dall’altra parte”, “colui che ha compiuto il passaggio”, “colui che viene da oltre (il fiume)”.
“Va’ verso di te, va’ a tuo vantaggio, va’ tu stesso!”. La chiamata
abramica comprende almeno tre diversi livelli interpretativi esistenziali: la liberazione da una situazione/luogo limitante e costringente, indice di un destino deterministicamente chiuso; l’invito ad andare verso se
stesso, assumendo la responsabilità del proprio cammino personale; il
riconoscimento di questo impegno come benedizione per altri, per le
generazioni che verranno. In questi vari momenti, composti e unificati
nella fiducia del patriarca verso Colui che lo chiama, Abramo inizia la
[sua] storia: e con ciò stesso accompagna l’umanità verso la storia. Infine, la risposta alla chiamata condurrà Abramo a comprendersi sempre
più profondamente per gli altri, per il bene di coloro che seguiranno. In
questo senso, Abramo è colui che per primo ha compiuto il passaggio
per tutti coloro che verranno, senza tuttavia sostituirsi ad essi: la prima
creatura ad accedere a un processo umanizzante che aprirà alla storia di
una moltitudine di popoli.
Affidamento creativo. Come detto, la destinazione di Abramo non è
conosciuta in partenza: appartiene a Dio e al suo legame con l’uomo,
alla sua Alleanza, alla sua cura per l’uomo. Il punto di arrivo è una terra
imprecisata che sarà mostrata in futuro. Anche la terra, non di rado
idolatrata (come tutte le “grazie” che chiediamo a Dio, rischiano sempre di sostituirLo), «è solo un mezzo per la realizzazione della benedizione per tutti i popoli, e non un fine»11. Si comprende con ciò che lo
sradicamento richiesto ad Abramo è anzitutto spirituale, prima ancora
che spaziale o geografico.
11
Frase ripresa dal commento ebraico consultabile in: http://lnx.levchadash.info/
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Anche in questo l’appello divino non contiene garanzie previe: soltanto l’affidamento dell’uomo lo rende credibile, praticabile, vivibile,
umanizzante, fondamentalmente “vero”. In questa fiducia e in questo
affidamento si compie il dato creaturale della somiglianza con Dio. Senza
fiducia da parte dell’uomo l’appello divino è in-udibile: l’inaudito del
rivolgersi di Dio all’uomo diviene l’in-udibile, cioè l’impossibile da ascoltare da parte dell’uomo.
3
L’ESPERIENZA: IN CAMMINO CON ABRAMO
Propongo qui alcune riflessioni sintetiche su ciò che la vicenda di
Abramo può insegnare a riguardo dell’esperienza umana tout court.
Una breve premessa aiuta ad approfondire in che senso Abramo può
considerarsi padre dell’esperienza umana.
L’esegesi ebraica nota che la Torah non dice nulla a riguardo della
prima parte della vita di Abramo: a differenza di Noach, presentato
come uomo giusto e integro, di Abramo non si dà altra caratterizzazione che la sua straordinaria capacità di sradicarsi dalla realtà a cui fino a
quel momento aveva più o meno passivamente aderito. L’assenza di
informazioni previe su Abramo lo rende più capace di vicinanza e di
condivisione, a partire dalla non-storia che condivide con ogni uomo
che per la prima volta ha il coraggio di confrontarsi con se stesso svegliandosi dai suoi torpori. Anche in questo senso egli è “padre” di una
moltitudine di uomini e di popoli che si possono raccogliere e riconoscere in Lui, nell’apertura fiduciale che egli opera e custodisce nella
storia umana.
Abramo non viene definito in partenza, ma è come un foglio bianco
su cui tutto l’essenziale deve essere ancora scritto: grazie all’appello
divino, egli diviene l’uomo che ogni uomo può diventare. Insieme ad
Abramo, ogni uomo/donna può uscire da quanto finora ha anonimamente vissuto per intraprendere e costruire la “sua” storia: diventando
soggetto attivo di esperienza umana. In Abramo l’appello divino di
Abramo non è rinchiuso in un passato ma apre il futuro di/per ogni
uomo/donna. In Abramo non viene stabilito un modello cui adeguarsi,
ma un modo di essere con Dio (nel suo appello) nella storia che si apre
davanti a ogni uomo. Anziché costringere a un modello prestabilito,
Abramo libera per ognuno la possibilità di scegliersi davanti all’appello
ultimativo della sua Vita.
Mettersi in cammino. L’intera rivelazione biblica può condensarsi
nella cifra simbolica della dinamizzazione e mobilizzazione dell’uomo,
iconizzate nel chiaro invito divino in Abramo: lech, lecha (rl rl), “vai,
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vattene!”. Come se l’esperienza di Dio e di sé (altri) non potesse che
accadere e svolgersi a seguito di un ascolto previo, di un’azione intrapresa, di un impegno verso se stessi davanti all’Eterno.
Abramo è per antonomasia l’uomo che si (ri)mette in cammino, benché non tutto sia chiaro all’inizio. Mettersi in cammino significa aprirsi
a ciò che ancora non è, aprirsi a ciò che ancora non sa. In altri termini:
mettersi in cammino significa entrare nell’esperienza.
La via, il cammino, sono metafore potentissime dell’esperienza umana: la via che porta lontano, la via che spinge oltre e fa uscire fuori dal
“proprio” (mondo, orizzonti, pregiudizi, convenzioni) verso terre ignote,
fino ad attraversare il mare e la morte.
Entrare nell’esperienza di se stessi, degli altri, del mondo, implica
un momento di rottura netta rispetto alla consuetudine. L’esperienza
irrompe e inizia nell’inatteso, in ciò che non è stato previsto, conducendo a una presa di posizione personale da assumere verso se stessi,
verso la società di appartenenza, verso gli altri e verso Dio.
Fiducia. In Abramo l’uomo è chiamato a lasciare la presa su se stesso
e sulla sua storia. La terra da cui deve separarsi non è una “cosa” tra
altre, ma costituisce l’orizzonte di fondo (il frame) a partire da cui si è
compreso fino a quel momento. Ciò implica un profondo riassestamento della persona e della storia. Tutto questo accade per fiducia.
Abramo è per definizione l’uomo della promessa, l’uomo dell’affidamento alla parola data: l’uomo della fede in Colui che chiama per
nome. Accogliere la promessa di Dio significa affidarsi (a un altro), in
un rapporto fiduciale e non più monologico con se stessi. L’uomo viene
liberato dalla necessità di lottare con altri e soprattutto con se stesso
per costruirsi un posto al sole, per mostrare quanto vale, o per compiacere padre, madre, fratelli, moglie, marito, figli o nipoti (quante patologie nascono da questi rapporti deviati con noi stessi!?).
Oltre l’adesione fiduciale a un Altro, la storia di Abramo insegna che
non si dà esperienza umana senza affidamento o senza fiducia. Nell’affidamento, infatti, è in gioco una delle sorgenti ispirative e propulsive
dell’umanità nell’uomo.
Senza una qualche forma di fiducia e di affidamento alla Vita, che si
traduce in concreta fiducia nell’altro uomo, senza una disposizione fiduciale che l’attraversa e la genera non si dà alcuna esperienza umana
ma soltanto guerra o sovrapposizione casuale o interessata di convenienze individuali. In questo senso può dirsi che in Abramo inizia la
storia (umana), a partire da e sul fondamento di una presa di posizione
fiduciale nei confronti di un altro e della sua parola12.
12
S. BONGIOVANNI, «La ragione della fiducia. La ricerca dello spirituale nell’uomo»,
in Rassegna di Teologia 4 (2012) 563-581.
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In ogni esperienza autentica si compie un nuovo passaggio, si apre
un nuovo varco verso una maggiore umanizzazione dell’uomo, verso
un incontro e una collaborazione interumana senza altre garanzie previe che la fiducia scambiata.
Relazione. Abramo comprende che Dio (l’Altro) sarà nel cammino
che si appresta a compiere: anzi, “Dio” è il suo personale cammino,
una via inattesa che si apre davanti nella speranza. In qualche modo
“Dio” – nel senso dell’esperienza umana del divino – non è mai dato in
partenza, non è un’ipotesi o una formula catechistica, ma rimane insieme un dono e un compito per l’uomo/donna di ogni tempo, inseparabile dalla storia personale e dalle scelte che in essa si operano.
Ciò vale per ogni uomo. Abramo non conoscerà mai l’A/altro rifiutando il rischio di una speranza e di un’attesa, rinchiuso nell’angusta e
illusoria certezza di un presente che lo annulla e lo disperde nell’inconsistenza. Lo incontrerà soltanto nella relazione storica concreta a cui
liberamente sceglie di aprirsi e di affidarsi. Ancor più: Abramo non
incontrerà né conoscerà mai neppure se stesso e che cosa può raggiungere e diventare al di fuori di tale relazione con l’A/altro. Questo è ciò
che può intendersi parlando di Dio come del personale cammino di
Abramo e di ogni uomo.
Nella relazione, dunque, si apre il cammino dell’uomo: questa testimonianza di Abramo si spinge oltre qualunque orizzonte teologico o
religioso. L’esperienza umana si produce e si realizza attraverso la/e
relazione/i con altri. Nessuna umanità scaturisce dall’isolamento volontario e dal rifiuto di entrare e rimanere nelle relazioni che intessono
ab origine la storia di ogni uomo/donna.
Gratuità. Rivolgendosi ad Abramo Dio gli apre un avvenire: «farò
di te un grande popolo». L’incontro con il Vivente è credibile se assume
in partenza la necessità del rinvio a un futuro non controllabile materialmente e non determinabile dall’uomo: cioè, se si gioca nell’a-venire
dell’esperienza della relazione. Entrare in un’esperienza, entrare in relazione con Dio implica la capacità di distaccarsi dall’immediatezza del
presente, per contare su qualcosa che non è (ancora), ma “sarà”.
Affidarsi alla dimensione di promessa dell’esistenza significa dis-porsi
nella prospettiva di un’attesa, vivendosi nella profondità della speranza
di un dono che schiude lo spazio intensamente umano e umanizzante
della gratuità che va oltre ogni calcolo e ogni misura. Abramo testimonia che la vita dell’uomo non si gioca sulla consistenza di un oggi da
possedere, ma sull’apertura gratuita a un domani da accogliere: un avenire che apprende ad attendere.
Anche in questo caso, l’esperienza credente è paradigmatica dell’esperienza umana tout court. Per qualunque uomo sarebbe impossibile e
devastante la volontà di controllare le relazioni in cui vive e di cui vive,
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o comunque volere determinare in partenza l’esito di qualunque esperienza. La relazione umana autentica implica la capacità di separarsi
dall’immediatezza del presente, sciogliendosi dai ripiegamenti più o
meno narcisistici dell’immediata presenzialità del “tutto e subito”. In
questo senso, l’esperienza che nasce dalle relazioni interumane schiude
la dimensione della gratuità: sospingendo l’uomo oltre il calcolo e la
misura di tutte le cose, gli permette di connettersi con la vita stessa a cui
è affidato prima di qualunque volontà, potere o sapere.
Rimanere nel cammino. Abramo non concluderà agevolmente il suo
cammino: e non mancano le occasioni in cui viene invitato a continuare a camminare, come accadrà dopo 13 anni dalla nascita di Ismaele.
«Cammina (hitalléch) davanti a me, e sii integro» (Gen 17,1). Abramo è
chiamato a non accontentarsi del grande sforzo fatto per staccarsi da
Ur Kasdim ma a procedere, continuando l’enorme lavoro su di sé che
non conoscerà tregua13. Il cammino con Dio, il cammino dell’esperienza umana, non si conclude e non si confonde con i singoli risultati raggiunti: il cammino umano rimane senza immagini definitive, come Dio,
come l’altro uomo. Chi vuole contenerlo in un orizzonte prestabilito si
esclude dall’esperienza.
Una considerazione antropologica può aiutare a comprendere meglio la vicenda di Abramo così com’è stata illustrata finora14.
Si può pensare che in Adamo l’uomo sia costituito “immagine” di
Dio, reso tale dalla creazione inaudita di Dio: venendo da Lui non possiamo non portare una qualche Sua immagine. Tuttavia, il diventare a
“somiglianza” di Dio, Abramo lo realizzerà disponendosi e rimanendo
in cammino verso ciò che non conosce, nella speranza, nella fiducia e
nell’attesa che gli vengono dall’essere nella relazione con l’Altro. In
questo senso, Abramo impara a vivere “a somiglianza” di Dio, come
Dio per primo si è messo in cammino verso l’uomo.
Ancora, mentre Adamo raffigura l’inizio “teologico” dell’uomo che,
per potere mantenere la ricchezza di significati della “creazione”, necessariamente sconfina nel mito; Abramo custodisce e rivela in una storia concreta l’avvio dell’umanità dell’uomo, mettendosi in cammino
nella speranza e nella fiducia vissute in una relazione liberamente accolta e scelta15.
Nella storia biblica Abramo attesta che l’esperienza di sé passa attraverso “altri”: e che l’uomo diventa umano rimanendo in cammino, ri13
«Colui che non aggiunge, sottrae», è detto nel Mishnà Avot 1,13. Chi non coltiva
la vita interiore è condannato a perdersi. Alain [É.A. Charter], nel discorso tenuto al
Lycée Condorcet di Paris nel luglio 1904, affermò: «Qualsiasi idea diventa sbagliata dal
momento che ce ne accontentiamo».
14
Senza alcuna pretesa di giustificare esegeticamente quanto segue.
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conoscendo che diventerà se stesso (la benedizione per sé e per altri)
nella/e relazione/i a cui si affida. Nella rinuncia a considerarsi stabilizzato, Abramo diviene simbolo dell’umano: accettando di non sapere
(chi è e che cosa vuole) a partire da se stesso, ma nel cammino che gli è
aperto; e ancora, accettando di non potere e di non avere ancora raggiunto l’essenziale dell’esistenza che gli è consegnata. Abramo testimonia che per diventare umani non c’è altra via che la via, rimanendo nel
cammino della vita e nell’incontro con altri.
Per un bene più grande. Nella Bibbia l’uomo che sceglie Dio non è
destinato a stare tranquillo e appagato in una coscienza religiosa pacificata. Nell’immagine della chiamata, il Dio biblico si presenta come la
potente istanza che fa uscire fuori di sé, quasi destabilizzando l’uomo,
stanandolo e ponendolo per via. L’importanza determinante assegnata
a questa condizione umana (homo viator) induce a pensare che l’uomo
incontra Dio solo camminando, esperimentando/si e praticando/si nelle strade dell’incontro umano, nelle asperità e nelle consolazioni della
storia concreta; accettando di uscire dalle sicurezze o garanzie abituali
per un bene più grande.
Ancora più ampiamente, ogni uomo incontra se stesso soltanto in
questo modo, dove il bene per se stesso è inseparabile dal bene fatto
agli altri incontrati nel cammino. Nell’esperienza autentica non è possibile, e non è necessario (!), distinguere il bene compiuto verso se stessi,
dal bene realizzato in favore degli altri. Si sperimenta l’unicità, l’integrità, e l’unificazione nel bene da compiere. Nel bene compiuto verso
gli altri si realizza la benedizione per se stessi, e viceversa.
Si converge in questo modo verso quanto introduttivamente affermato a riguardo della connessione profonda tra l’esperienza autentica e l’umanizzazione dell’uomo. Quanto più si entra nell’esperienza tanto più l’umanizzazione, cioè il bene per/dell’uomo, si realizza nella storia concreta.
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CONCLUSIONE: SAGGEZZA CONFUCIANA
«Possiamo imparare ad essere saggi in tre modi. Il primo è quello dell’imparare a riflettere, ed è il migliore. Il secondo è l’imitazione, ed è il più
facile. Il terzo è affidato all’esperienza, ed è il più doloroso»16.
L’incontro con Abramo, padre dell’umanità, ha intercettato alcuni
aspetti centrali dell’esperienza umana. Essi si raccolgono intorno alla
dinamizzazione di un uomo che accetta di uscire dalle rassicuranti cer15
Anche la considerazione che segue esula dal campo dell’analisi esegetica.
16
CONFUCIO, Dialoghi, Club degli Editori, Milano 1994, 73.
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tezze abituali per affrontare un cammino condiviso nella relazione con
altri e vissuto nella fiducia. Una tale apertura può condurre fino alla
dimensione profondamente umanizzante della gratuità in cui forse l’esperienza umana raggiunge il suo vertice in una dimensione di ulteriorità
non calcolabile.
Concludendo questa riflessione riprendo la citazione di un altro grande maestro di umanità della tradizione orientale, Kongzio Kong Fuzi,
letteralmente il maestro K’ung – noto in Occidente come Confucio.
Nei suoi Dialoghi (Lün-yü) si trova l’affermazione sopra citata sulle cui
“note” sospendo il mio intervento.
Per il grande filosofo cinese vissuto tra il 551 e il 479 a.C., il primo
pilastro della saggezza risiede nell’esercizio della riflessione senza la
quale resteremmo individui privi di spessore e affidati alla casualità
degli avvenimenti. La capacità riflessiva è specifica dell’uomo: nella
ripresa e nell’elaborazione riflessa si elabora e si esprime l’esperienza
umana. Non si dà esperienza senza riflessione (il nesso tra Erlebnis e
Erfahrung): quest’ultima è sempre riflessione sull’esperienza, a partire
dall’esperienza compiuta. Per questo motivo Confucio ritiene che apprendere a riflettere costituisca il modo migliore per diventare saggi.
Il secondo pilastro per acquisire la saggezza, l’imitazione, è definito
il più facile. Questa facilità non deve ingannare, almeno se si evita di
ridurre il senso dell’imitazione confuciana a una banalità ripetitiva e
meccanica. Infatti, nella tradizione dell’antica Cina e nell’Oriente in
generale il senso profondo dell’imitazione è inseparabile dalla venerazione e dal rispetto fiducioso nei confronti del maestro. Se non viene
vissuta in questo modo, allora l’imitazione diviene appiattimento, adeguamento o conformismo: non ancoraggio vivente alla tradizione ispirata dalla fiducia, ma vuoto tradizionalismo.
Infine, Confucio indica un terzo modo per acquisire saggezza, l’esperienza. Perché questo viene definito come “il più pericoloso”? Forse
Confucio sapeva che apprendere dalle esperienze che si compiono
(ri)pone ogni volta in gioco, inducendoci a mettere in discussione ciò
che si considerava scontato o evidente. Mentre la sola riflessione (puramente mentale) può isolare in una bolla di astrazione distaccata e asettica, l’esperienza porta sempre con sé dei rischi da correre, un certo
pericolo derivante dall’inevitabile confronto con un reale che resiste o
può contraddire ogni previsione. L’esperienza è il modo più doloroso
per acquisire saggezza, perché espone, mette fuori, mette alla prova,
pone per via, nel cammino.
Con un apparente gioco di parole diremo: l’esperienza ci sperimenta.
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