Il Caso Google e la sentenza della Corte di Giustizia Europea
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Il Caso Google e la sentenza della Corte di Giustizia Europea
NEWSLETTER Numero 2 - maggio 2014 - Versione Italiana In questo numero: Il Caso Google e la sentenza della Corte di Giustizia Europea 1. I fatti 2. I precedenti 3. Gli archivi storici dei giornali 4. La decisione della Corte di Giustizia 5. Le conseguenze possibili via dell’Annunciata 31, 20121 Milano tel 02.29013583 fax 02.29010304 [email protected] E’ stata pubblicata da poco la sentenza della Corte Europea di Giustizia nella causa tra Google Spagna, Google Inc., il Garante spagnolo e Mario Costeja Gonzales (Sentenza del 14 Maggio 2014, Grande Sezione, causa C 131/12). Questo numero della Newsletter è dedicato solo all’analisi di questa sentenza che per la sua importanza, richiedeva una lettura ed una valutazione attenta. Rispetto al solito, quindi, questo commento ha finito per occupare più spazio del solito. Con la prossima newsletter riprenderemo il formato normale. Il caso Google e la sentenza della Corte di Giustizia Europea Ormai la notizia è nota: con la sentenza del 13 maggio 2014 la Corte di Giustizia ha stabilito che Google è titolare autonomo in relazione ai dati personali contenuti nelle pagine Internet oggetto di indicizzazione; pertanto, come ogni altro titolare, è soggetto a tutti gli obblighi previsti dalla legge, quindi anche all’obbligo di cancellazione dei dati personali, obbligo che gli compete indipendentemente dal fatto che la pagina indicizzata sia stata modificata, cancellata o meno dal sito originario. La vicenda ha suscitato molto scalpore ed ha creato due partiti opposti, come sempre succede in questi casi, tra chi plaude alla decisione e chi invece se ne è indignato, citando i pericoli per la libertà di stampa, la libertà di espressione e la libertà di informazione. Indipendentemente dalla opinione che ciascuno di noi può essersi fatta, un dato è certo: potrà piacere o meno, ma la sentenza c’è ed è legge della Unione: ciò che, secondo me, è corretto fare è prenderne atto, capirne gli aspetti giuridici e valutarla alla luce dei precedenti per comprenderne le implicazioni (che non riguardano solo Google). 1. I fatti I fatti sono noti: un avvocato spagnolo, il sig. Costeja Gonzales, si era rivolto all’Autorità garante locale (AEPD) con un ricorso rivolto contro La Vanguardia (un quotidiano locale molto diffuso) nonché nei confronti di Google Spagna e Google Inc. Nel suo ricorso sosteneva che, ricercando su Google il proprio nome, otteneva dei link verso due pagine del quotidiano di La Vanguardia rispettivamente del 19 gennaio e del 9 marzo 1998, sulle quali figurava un annuncio per una vendita all’asta di immobili connessa ad un pignoramento effettuato per la riscossione coattiva di crediti. Costeja Gonzales chiedeva quindi all’AEPD di ordinare a La Vanguardia di eliminare o modificare le pagine, in modo che il proprio nome non fosse più visibile, nonché di ordinare a Google Spagna ed a Google Inc. di eliminare anche essa il suo nome, in modo che tali pagine non fossero più indicizzate e quindi non più visibili tra i risultati di ricerca. L’AEPD rigettava la richiesta nei confronti de La Vanguardia, in quanto secondo l’autorità la pubblicazione degli annunci incriminati era avvenuta su ordine della magistratura e quindi in maniera legittima. Ordinava invece a Google di sospendere la indicizzazione e di conseguenza di rimuovere i dati del sig. Costeja Gonzales. Contro questa decisione Google Spagna e Google Inc. hanno inizialmente presentato ricorso alla Audiencia Nacional, che a sua volta ha rinviato il caso alla Corte di Giustizia, cui ha via dell’Annunciata 31, 20121 Milano tel 02.29013583 fax 02.29010304 [email protected] posto vari quesiti pregiudiziali, relativamente alla applicabilità della Direttiva ed al diritto all’oblio. La prima questione pregiudiziale riguardava la applicabilità a Google Inc. della Direttiva 95/46. La corte spagnola chiedeva cioè di stabilire se, in base ad una serie di criteri indicati analiticamente, esisteva o meno uno “stabilimento” ai sensi dell’articolo 4.1. della Direttiva. Con la seconda questione pregiudiziale chiedeva se “localizzare le informazioni pubblicate o messe in rete da terzi, nell’indicizzarle in maniera automatica, nel memorizzarle temporaneamente e infine nel metterle a disposizione degli utenti di Internet” rientrasse nella nozione di trattamento e se la società che gestisce il motore di ricerca (Google Inc.) debba considerarsi titolare del trattamento. In caso di risposta positiva, la questione successiva era se un interessato abbia il diritto di rivolgersi direttamente al motore di ricerca per chiedere la cancellazione di tali dati. Quest’ultima questione era articolata con varie ipotesi: se cioè l’interessato possa rivolgersi direttamente al motore di ricerca per eliminare i propri dati, senza rivolgersi prima al sito originario; se il motore di ricerca possa invece essere esonerato dall’obbligo di cancellazione, qualora si tratti di una notizia pubblicata lecitamente (come nel caso in questione); e comunque se (in relazione al diritto di cancellazione) in generale esista un diritto di un individuo di rivolgersi ad un motore di ricerca per impedire “l’indicizzazione delle informazioni riguardanti la sua persona pubblicate su pagine web di terzi, facendo valere la propria volontà che tali informazioni non siano conosciute dagli utenti di Internet, ove egli reputi che la loro divulgazione possa arrecargli pregiudizio o desideri che tali informazioni siano dimenticate, anche quando si tratti di informazioni pubblicate da terzi lecitamente”. Come si vede questioni molto complesse ed articolati, cui la Corte ha risposto in maniera puntuale, con argomentazioni sia logiche che giuridiche ampiamente condivisibili. 2. I precedenti Il rapporto tra privacy e stampa è, da sempre, un rapporto conflittuale. Basti ricordare che il famoso articolo di Warren e Brandeis, The right to privacy, nasceva proprio da una vicenda in cui una delle parti era un giornale. Per chi si occupa di privacy i punti di questa controversia non dovrebbero quindi essere nuovi, essendo stati già dibattuti varie volte in passato ed essendovi numerosi precedenti in materia. Il problema della indicizzazione dei siti e la relativa visibilità dei dati personali è stato sollevato già molti anni: il primo caso in materia era stato risolto dal Garante la bellezza di dieci anni fa, nel 2004 (Provvedimento del 10.11.2004, d.w. 1116068, in www.garanteprivacy.it). In quella occasione due ricorrenti avevano richiesto la cancellazione dei loro nomi in relazione a due decisioni rinvenibili sul sito del Garante per la concorrenza ed il mercato, che riportavano due provvedimenti di multa per pubblicità ingannevole, una risalente al 1996 ed una al 2002. La richiesta era basata su un assunto molto semplice: la pubblicazione di notizie in Internet “senza l'adozione di opportune cautele (quali l'oscuramento dei nominativi, oppure la possibilità di via dell’Annunciata 31, 20121 Milano tel 02.29013583 fax 02.29010304 [email protected] consentire l'accesso ai provvedimenti solo mediante una ricerca all'interno del sito e inibendone invece la reperibilità mediante motori di ricerca)…trasformandosi in pubblicazione "perpetua", diverrebbe…"ben più grave di quella a mezzo stampa che pure costituisce una precisa sanzione accessoria, limitata però nel tempo". In questa occasione il Garante osservava che il problema non era la legittimità della pubblicazione della decisione da parte della AGCM, quanto la sua continua conoscibilità tramite Internet, poichè “le modalità di funzionamento della rete Internet consentono, in particolar modo attraverso l'utilizzo di motori di ricerca, di rinvenire un consistente numero di informazioni, riferite a soggetti individuati, più o meno aggiornate e di natura differente”. Così posto il problema, il Garante aveva parzialmente accolto la richiesta, ordinando all’AGCM, tramite l’inserimento di una apposito comando SW, di impedire la visibilità della decisione del 1996 tramite i motori di ricerca, ordinando inoltre all’AGCM di determinare autonomamente il periodo di tempo proporzionato per mantenere la visibilità delle proprie decisioni. Con questo meccanismo, chi si fosse collegato con il sito dell’AGCM avrebbe trovato la decisione, mentre chi avesse effettuato una ricerca tramite Google (cioè la maggior parte degli utenti della rete) non ne avrebbe avuto visibilità. Affrontando invece specificatamente il problema del trattamento dei dati da parte dei motori di ricerca, il Garante Italiano, ancora ai tempi della presidenza Rodotà, aveva escluso che i motori di ricerca potessero essere considerati titolari del trattamento di dati personali relativi alle pagine Internet indicizzate e rese reperibili tramite il motore stesso (Garante privacy, 3 Marzo 2005, d.w. 1149178 in www.garanteprivacy.it ) “ giacché i resistenti non risultano autonomi titolari, né responsabili designati del trattamento di dati personali del ricorrente effettuati presso i rispettivi "siti sorgente" esclusivamente segnalati dal motore di ricerca in base a meccanismi automatizzati” (nel caso specifico i resistenti erano Google, Microsoft e Yahoo). Nel breve giro di un anno il Garante aveva poi cambiato la propria posizione, almeno in parte; è un caso che conosco bene, avendolo portato avanti io. Una signora aveva richiesto ed ottenuto, da un giornale, la cancellazione del proprio nome da una pagina che riportava la notizia del proprio arresto (notizia risalente nel tempo e cui aveva fatto seguito al piena assoluzione della signora stessa). Dopo varie vicende il quotidiano aveva accettato di cancellare la pagina che però, facendo una ricerca col nome della signora, risultava però ancora indicizzata e visibile su Internet malgrado la sua eliminazione dal sito. Il problema era che Google non aveva cancellato la propria c.d. “copia cache”, che continuava ad essere indicizzata e quindi ad apparire tra i risultati della ricerca, come se niente fosse avvenuto. In seguito al ricorso contro Google, che si era difesa sulla base della precedente decisione del marzo 2005, il Garante aveva stabilito (Provvedimento del 18.01.2006, d.w. 1242501 in www.garanteprivacy.it), che “presso il motore di ricerca in questione risulta effettuato un autonomo trattamento di via dell’Annunciata 31, 20121 Milano tel 02.29013583 fax 02.29010304 [email protected] dati personali della ricorrente, in particolare attraverso la creazione e la conservazione di cosiddette copie cache di pagine web pubblicate su siti "sorgente”. Non aveva però ritenuto di poter intervenire nei confronti di Google in quanto “nella fattispecie non risulta però provato che il trattamento contestato, svolto attraverso il sito "www.google.it", sia effettuato da un soggetto stabilito sul territorio dello Stato, oppure da un soggetto che utilizzi per tale trattamento strumenti situati nel medesimo territorio (art. 5, comma 2, del Codice)” in quanto, rispetto ad un elemento che avevo sottolineato e che invece la Corte di Giustizia ha ritenuto decisivo, il Garante aveva sostanzialmente glissato rilevando che “non risulta che la società resistente tratti dati personali della ricorrente attraverso la vendita di servizi pubblicitari o una delle altre attività da essa effettuate per il "gruppo Google". In breve, pur riconoscendo la autonoma titolarità del trattamento dei dati in capo al motore di ricerca nella attività di indicizzazione delle pagine, non aveva ritenuto sussistere l’applicabilità al gestore del motore di ricerca della normativa nazionale. 3. Gli archivi storici dei giornali Una ulteriore svolta si era avuta nel 2008: in quell’anno il Corriere della Sera aveva messo on-line tutto l’archivio storico del giornale. Questo aveva generato una serie di ricorsi, tutti basati sull’esercizio del diritto all’oblio. La maggior parte di questi ricorsi hanno trovato accoglimento (ex plurimis cfr: Garante Privacy, 11.12.2008, d.w. 1583162, oppure 19.12.2008 d.w. 1583152 in www.garanteprivacy.it). Non tutti i ricorsi, però, avevano trovato accoglimento: (cfr. Garante Privacy, provvedimento del 12.02.2009 d.w. 1601624 in www.garanteprivacy.it). La ricorrente era stata protagonista di una vicenda giudiziaria di una certa rinomanza (n.b.: il testo della decisione evita accuratamente di descrivere tale vicenda, proprio per non rendere comprensibile chi fosse il ricorrente); rispetto a tale vicenda, avvenuta nel 2001, la ricorrente aveva chiesto la cancellazione della pagina Internet o del proprio nome, sussistendo che non sussisteva più l’interesse pubblico alla notizia che ne aveva giustificato la pubblicazione all’epoca dei fatti. In questo caso, ed alla luce dei fatti oggetto della notizia riportata dal quotidiano (notizia che, ripeto, non viene descritta nella decisione, ma la cui gravità si può intuire) il Garante ha stabilito essere “infondata nel caso di specie l'opposizione per motivi legittimi manifestata dalla ricorrente in relazione all'ulteriore diffusione on-line dei dati personali che la riguardano contenuti nell'articolo in questione secondo le attuali modalità utilizzate dalla resistente, tenuto conto del fatto che la notizia pubblicata fa riferimento a un fatto vero e non contestato dalla ricorrente che aveva suscitato un rilevante allarme sociale; ciò anche in considerazione del non ampio lasso di tempo trascorso dai fatti e dai successivi sviluppi giudiziari della vicenda, tali da far ritenere non ancora cessata, allo stato, l'opportunità di un'ampia, utile, conoscibilità dei fatti in questione”. Analoga conclusione è stata raggiunta in una successiva decisione (23.07.2009, d.w.1639507 in www.garanteprivacy.it). In questa vicenda un noto allenatore di una importante via dell’Annunciata 31, 20121 Milano tel 02.29013583 fax 02.29010304 [email protected] squadra di calcio richiedeva la cancellazione dei suoi dati personali (incluse alcune foto) contenuti in una serie di articoli che lo associavano in qualche modo allo scandalo delle scommesse clandestine. Il Garante nel decidere sul ricorso aveva richiamato l’articolo 6 del codice di deontologia dei giornalisti, ricordando che "rispetto a persone note, i mezzi di informazione beneficiano (…) di margini più ampi nella pubblicazione di dati e notizie, in particolare nella misura in cui la loro conoscenza assuma un rilievo sul loro ruolo e sulla loro vita pubblica". Su questo presupposto, il Garante aveva stabilito che “la pubblicazione dei dati personali relativi al ricorrente (ivi comprese le fotografie associate agli articoli di stampa) non risulta essere stata illecitamente effettuata nell'esercizio del diritto di cronaca e di critica, tenuto conto della pacifica notorietà dello stesso e del ruolo ricoperto all'epoca delle vicende, dell'interesse pubblico delle medesime (ivi compresa la rilevante richiesta di risarcimento del danno avanzata all'editore resistente), nonchè del fatto che "commenti e opinioni del giornalista appartengono alla libertà di informazione nonché alla libertà di parola e di pensiero costituzionalmente garantita a tutti”. Su questi presupposti il Garante aveva rigettato la richiesta di cancellazione dei dati e tutte le richieste accessorie. Da questo breve excursus si deducono vari elementi fondamentali: prima di tutto che non si tratta di un problema nuovo, esploso improvvisamente per qualche strano motivo, ma di un problema ben conosciuto ed affrontato ripetutamente (almeno in Italia) dal Garante. Di più: con la sola eccezione della decisione del marzo 2005, la conclusione del Garante nella maggioranza dei casi è stata per la eliminazione della visibilità della pagina Internet. Più specificatamente, in relazione alla qualifica del titolare del motore di ricerca come titolare del trattamento, la decisione del 18 gennaio 2006 è stata molto chiara e precisa sul punto: il motore di ricerca effettua un trattamento autonomo di dati, del tutto separato e distinto da quello del sito originario. Questo, se letto con attenzione, avrebbe dovuto far suonare un campanello di allarme a chi esercita questo tipo di attività on-line; non si capisce quindi la meraviglia che oggi si esprime su questa decisione della Corte di Giustizia, che non stabilisce un principio giuridico nuovo, ma ribadisce lo stesso principio che era già stato affermato otto anni fa e rispetto al quale Google stessa non aveva presentato ricorso o sollevato alcuna obiezione. 4. La decisione della Corte di Giustizia Veniamo quindi alla decisione della Corte di Giustizia. La prima questione pregiudiziale era relativa alla determinazione dei criteri in base ai quali stabilire se esiste una stabile organizzazione da parte di un motore di ricerca, la cui gestione è totalmente nelle mani di un soggetto residente in uno stato terzo. I criteri che sono stati sottoposti alla corte sono stati i più vari, per la precisione erano state formulate otto possibili, differenti ipotesi in base ai quali si chiedeva di sapere se esiste o meno lo stabilimento di un soggetto non residente nella UE. La Corte ha risposto affermativamente al primo dei criteri, basato sulla analisi delle attività svolte da Google Inc. e Google Spagna. La via dell’Annunciata 31, 20121 Milano tel 02.29013583 fax 02.29010304 [email protected] questione pregiudiziale era posta in questi termini: se possa ritenersi che esista uno stabilimento se “l’impresa che gestisce il motore di ricerca apre in uno Stato membro una succursale o una filiale destinata alla promozione e alla vendita degli spazi pubblicitari proposti dal motore di ricerca e l’attività della quale si dirige agli abitanti di tale Stato;” Il ragionamento della Corte, su questo aspetto, è stato ampio ed articolato, sulla base di alcune, peraltro semplici, osservazioni. In primo luogo ha sottolineato che lo stabilimento si ha quando viene esercitata una attività mediante una organizzazione stabile, la cui forma giuridica è sostanzialmente irrilevante ai fini dell’applicazione della Direttiva, e che Google Spagna svolge attività di raccolta pubblicitaria a favore del motore di ricerca. Rispetto alla eccezione sollevata da Google che il trattamento di dati personali viene svolto non da Google Spagna, ma da Google Inc., la Corte ha ricordato che l’articolo 4.1.(a) della Direttiva non richiede che il trattamento sia svolto dallo stabilimento interessato, ma “nel contesto delle attività” di tale stabilimento. La Direttiva, ha ricordato la Corte, ha inteso garantire un efficace livello di tutela delle libertà e dei diritti fondamentali dei cittadini e quindi non può essere interpretata in senso restrittivo, per evitare che una cittadino europeo venga privata della protezione garantita dalla Direttiva. Fatte queste premesse, ha concluso che lo svolgimento di attività quale quella del motore di ricerca, pur gestito in un paese terzo ma avente uno stabilimento in uno Stato Membro (in questo caso la Spagna) si può considerare effettuato “nel contesto delle attività” di tale stabilimento, quandanche questo sia impegnato solo nella promozione e vendita degli spazi pubblicitari che poi appaiono nel motore di ricerca stessa. Secondo le parole della sentenza: “ le attività del gestore del motore di ricerca e quelle del suo stabilimento situato nello Stato membro interessato sono inscindibilmente connesse, dal momento che le attività relative agli spazi pubblicitari costituiscono il mezzo per rendere il motore di ricerca in questione economicamente redditizio e che tale motore è, al tempo stesso, lo strumento che consente lo svolgimento di dette attività”. Inoltre, la visualizzazione dei risultati della ricerca “è accompagnata, sulla stessa pagina, da quella di pubblicità correlate ai termini di ricerca, è giocoforza constatare che il trattamento di dati personali in questione viene effettuato nel contesto dell’attività pubblicitaria e commerciale dello stabilimento del responsabile del trattamento nel territorio di uno Stato membro, nella fattispecie il territorio spagnolo.” Francamente il ragionamento è molto logico (e, magari, mi avrebbe fatto piacere che se ne fosse accorto anche il nostro Garante, nel 2006, che invece non ha speso un solo secondo di tempo per analizzare questo aspetto della vicenda allora al suo esame): il motore di ricerca e la attività di promozione pubblicitaria sono, per così dire, due facce della stessa medaglia: l’uno (il motore di ricerca) non potrebbe esistere senza la pubblicità che lo rende economicamente redditizio. L’altra (la pubblicità) non avrebbe via dell’Annunciata 31, 20121 Milano tel 02.29013583 fax 02.29010304 [email protected] senso se non avesse un motore di ricerca come suo veicolo indispensabile. Risolta così la prima delle questioni pregiudiziali, la Corte ha ovviamente dichiarato assorbite le altere ipotesi sottoposte alla sua attenzione. Per quanto riguarda poi la qualifica come titolare del trattamento, la sentenza si limita a considerare che il motore di ricerca, nel raccogliere i dati personali contenuti nelle pagine oggetto della indicizzazione, svolge una attività di trattamento di dati personali del tutto autonoma rispetto a quello dei siti originari, in quanto esso si distingue rispetto agli editori di una pagina Internet. I motore di ricerca ha come scopo quello di radunare tutte le informazioni disponibili riguardo un certo argomento o ad un certo soggetto, il sito Internet invece vuole solo rendere disponibile il proprio contenuto. Inoltre, il motore di ricerca è del tutto autonomo ed indipendente nel determinare le modalità con cui viene effettuato il trattamento, come viene esposto il risultato della ricerca (cioè i criteri di indicizzazione), nonchè mezzi e finalità con cui effettuare questi trattamenti. Non vi può essere quindi alcun dubbio che il motore di ricerca sia il titolare dei trattamenti di dati personali effettuato nell’ambito delle proprie attività istituzionali. Così posti i termini del problema, la successiva questione pregiudiziale non poteva che avere una risposta consequenziale: se il motore di ricerca è un titolare autonomo, la domanda di cancellazione di dati od il diritto di opposizione per motivi legittimi può essere fatto valere autonomamente contro di lui, indipendentemente dal fatto che la pagina web originale sia stata cancellata o meno. La qualifica di Google come autonomo titolare presuppone, come naturale conseguenza, il dover essere sottoposto in via altrettanto autonoma all’esercizio dei diritti da parte degli interessati. Ciò in quanto il trattamento di dati personali avente una natura particolare quale quello dei motori di ricerca, ha una caratteristica fondamentale: “detto trattamento consente a qualsiasi utente di Internet di ottenere, mediante l’elenco di risultati, una visione complessiva strutturata delle informazioni relative a questa persona reperibili su Internet, che toccano potenzialmente una moltitudine di aspetti della sua vita privata e che, senza il suddetto motore di ricerca, non avrebbero potuto – o solo difficilmente avrebbero potuto – essere connesse tra loro”. L’effetto di ingerenza dei motori di ricerca risulta ingrandito dal ruolo particolare che essi hanno rispetto alla società moderna, ingerenza potenzialmente molto grave e che non può trovare bilanciamento od essere giustificata dall’interesse economico del motore di ricerca stesso. La Corte si è anche posta il problema dell’effetto di una tale decisione sulla libera circolazione delle informazioni. Il bilanciamento di interessi tra chi ricerca informazioni e chi vuol tutelare il proprio diritto può dipendere, secondo la sentenza “dalla natura dell’informazione di cui trattasi e dal suo carattere sensibile per la vita privata della persona suddetta, nonché dall’interesse del pubblico a disporre di tale informazione, il quale può variare, in particolare, a seconda del ruolo che tale persona riveste nella vita pubblica.” via dell’Annunciata 31, 20121 Milano tel 02.29013583 fax 02.29010304 [email protected] Nel cercare l’equilibrio tra i contrapposti interessi “occorre verificare in particolare se l’interessato abbia diritto a che l’informazione riguardante la sua persona non venga più, allo stato attuale, collegata al suo nome da un elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome. In proposito occorre sottolineare che la constatazione di un diritto siffatto non presuppone che l’inclusione dell’informazione in questione nell’elenco di risultati arrechi un pregiudizio all’interessato.” Peraltro tale diritto dell’interessato verrebbe meno “qualora risultasse, per ragioni particolari, come il ruolo ricoperto da tale persona nella vita pubblica, che l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall’interesse preponderante del pubblico suddetto ad avere accesso, in virtù dell’inclusione summenzionata, all’informazione di cui trattasi.” Questa parte della sentenza è stata quella che si è attirata addosso le maggiori critiche, per la genericità dei criteri indicati per poter effettuare questo bilanciamento. 5. Le conseguenze possibili La difesa che, in casi analoghi, Google ha sempre opposto in tutti questi anni è stata (più o meno) la seguente: Google non è responsabile per quelli che pubblicano gli altri, noi mettiamo solo a disposizione del pubblico le notizie che altri hanno pubblicato. Quindi, se non volete che una certa notizia appaia, non prendetevela con noi ma con chi l’ha pubblicata. La Corte ha fatto giustizia sommaria di questa difesa: se Google indicizza delle pagine web, lo fa per uno scopo ed una finalità del tutto autonoma ed indipendente, rispetto a quella dei siti originari, e quindi è titolare autonomo. Questo principio della titolarità autonoma del motore di ricerca non è una novità, come abbiamo visto. Forse altri non conoscono la giurisprudenza del Garante italiano ma, si presume, Google avrebbe dovuto conoscerla, e bene anche. Non mi pare quindi che questo aspetto della sentenza sia criticabile né sia una novità. La novità vera, a mio modo di vedere, è un’altra, ed è quella che ha permesso alla Corte di arrivare a questa conclusione, vale a dire l’aver dichiarato applicabile a Google la Direttiva Europea (e quindi le norme nazionali dei singoli stati membri). La mia netta sensazione (avendo lavorato su questa materia dai tempi del caso che citavo sopra, quello deciso dal Garante nel gennaio del 2006) è che fino ad ora Google si sia cullata su una valutazione giuridica che presupponeva la non applicabilità della Direttiva Europea al proprio motore di ricerca. Tutta la struttura organizzativa di Google mi è sempre sembrata essere stata costruita per cercare di rendere Google soggetto esclusivamente alle norme di diritto USA ed alla competenza e giurisdizione del tribunale della Contea di Santa Clara, California, USA. Crollato questo assunto il resto è consequenziale e, francamente, né nuovo né sorprendente. Se questo passaggio della sentenza venisse letto per quello che è e per i principi che ha stabilito, più di un brivido dovrebbe essere passato lungo la schiena dei manager di alcune grandi aziende, che hanno tenuto, tutte, un atteggiamento sostanzialmente identico. Il principio che, purtroppo è invalso in via dell’Annunciata 31, 20121 Milano tel 02.29013583 fax 02.29010304 [email protected] molte di questa aziende (tendenzialmente basate negli USA, tendenzialmente tutte molto High-tech) è stato fino ad oggi: noi siamo dall’altra parte dell’oceano, quindi nessuno ci può toccare e non pensate che a noi si applichi la vostra legge sulla privacy. Non è più così (non era così già dai tempi di LICRA vs Yahoo, ma molti hanno preferito far finta di ignorare questa decisione). Il primo esempio che viene in mente di soggetti che dovrebbero studiare con molta attenzione questo aspetto della sentenza è quello dei social network, che hanno un modello di business molto simile (fornire agli utenti una serie di funzioni in maniera del tutto gratuita, per poi guadagnare sulla pubblicità o su altri modi di utilizzo dei dati dei loro utenti). Tutti questi soggetti, grandi o piccoli che siano, non potranno non dover fare i conti con la portata rivoluzionaria (questa sì) di questo principio. Non è possibile sapere come e quando, certo è che, se non vorranno incorrere negli strali della Commissione, del Gruppo Art. 29 e dei vari Garanti nazionali, queste aziende prima o poi dovranno rivedere il loro atteggiamento in maniera drastica. Le conseguenze per Google sono, sicuramente, potenzialmente devastanti; ma su questo preferisco non insistere, lascio ad altri il compito di valutarle. Mi interessa invece ragionare su alcune delle critiche mosse alla sentenza. Primo: si è parlato di un attentato alla libertà di espressione ma, francamente, non capisco cosa c’entri questa decisione con la libertà di espressione. Una cosa è scrivere liberamente un articolo una altra, diversa, è indicizzare pagine Internet. Mi pare che si faccia una confusione non degna del livello intellettuale di chi ha espresso questa opinione. E ricordo, anche (per la parte italiana) che sin dal 2001 la Cassazione è intervenuta, proprio nei confronti di un giornale, sulla base della legge sulla privacy, imponendo di modificare il contenuto di alcuni suoi articoli. La sentenza è ben nota e, vivaddio, nessuno ha parlato di attentato alla libertà di stampa o di espressione (Cass. Sez. I Civ., N. 8889 del 30.06.2001, Olcese c. RCS e altri), quindi parliamo d’altro. Quanto alle critiche perché i criteri indicati dalla sentenza per bilanciare la tutela degli interessati con il diritto alla libertà di espressione, chi fa questa affermazione (e dispiace che ci siano anche degli avvocati a sostenere questa tesi, ma per fortuna non italiani) dimentica la giurisprudenza che ho citato ai punti 2 e 3 che precedono. Forse non tutti conoscono la giurisprudenza italiana, ma, visto che la Direttiva è applicata in tutta Europa, non posso credere che in nessun altro paese si siano dibattute queste questioni. Aggiungo anche che si dimentica o si omette un punto che tutti gli avvocati dovrebbero conoscere bene: la Corte era chiamata a rispondere ad una serie di questioni pregiudiziali, vale a dire a stabilire un principio di diritto e non ad esaminare nel merito una vicenda. Logicamente, quindi, quando opera in questo senso la decisione non può che essere quale quella che abbiamo davanti agli occhi, cioè quella di stabilire dei principi giuridici, indicando alle corti nazionali poi di entrare nel merito dei criteri per arrivare al necessario bilanciamento, criteri che già, in buona parte, esistono. In Italia esistono a decine le sentenze e le decisioni su questa materia e, come ho già via dell’Annunciata 31, 20121 Milano tel 02.29013583 fax 02.29010304 [email protected] detto sopra, altrettanto non può che essere vero in altri paesi. E vorrei dire un’altra cosa, sempre per rispondere a chi si meraviglia e definisce questa decisione come “rivoluzionaria”. Nel 1998, dirimendo per la prima volta il problema del contrasto tra libertà di espressione e diritto alla riservatezza, la Cassazione decidendo il caso portato contro la Rai da parte di una signora che si opponeva alla messa in onda delle immagini della causa di separazione tra lei ed i marito, si era espressa in questo modo: quando vi sia un contrasto tra due diritti costituzionalmente garantiti, come il diritto di cronaca ed il diritto alla riservatezza, non può automaticamente prevalere uno sull’altro, ma occorre valutare se vi sia una ragione concreta, una esimente, per giustificare la lesione del diritto soccombente (Cass. III sez. Civ., 9.06.1998 n. 5658). E’ a queste (o simili) decisioni ed a queste sentenze che occorre fare riferimento per individuare, nei singoli casi concreti, i principi cui fare riferimento per risolvere i singoli casi: interesse pubblico alla notizia, notorietà dei soggetti coinvolti, proporzionalità, ecc. I criteri ci sono, negli anni sono stati elaborati dalla giurisprudenza e, per lo meno per chi opera in questo settore, non sono certo una novità. Alla fine questo è, appunto, il mestiere di noi avvocati e giuristi: esaminare i fatti, conoscere la legge e le interpretazioni che la giurisprudenza ha dato delle singole situazioni, e cercare di stabilire i criteri per dare guida ai nostri clienti nella risoluzione dei casi specifici. via dell’Annunciata 31, 20121 Milano tel 02.29013583 fax 02.29010304 [email protected]