LA STORIA SIAMO NOI Introdursi fra le genti e nei mondi raffigurati

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LA STORIA SIAMO NOI Introdursi fra le genti e nei mondi raffigurati
LA STORIA SIAMO NOI
Introdursi fra le genti e nei mondi raffigurati da Bogdan Grom – compito che ci
è stato affidato per la compilazione del catalogo della grande mostra antologica
dell’Artista promossa dalla Provincia di Trieste – è come risalire per “li rami” lontani
della propria famiglia, scoprire strani personaggi che mai avremmo immaginato, e
che pur ci sono parenti, per una segreta affinità nei tratti profondi del temperamento.
Infatti le radici di Bogdan sono ben salde e ben penetrate nel sottosuolo del Carso di
Devinščina, - il Carso, secondo Gillo Dorfles, è la vera e unica patria di noi triestini e il suo animo è stato coltivato nell’aria di quella borghesia paesana che, essendo
piuttosto isolata, accentua la sensibilità e la tenerezza del proprio ceto, senza perdere
il contatto con una certa ruvidezza rustica. La robustezza dell’ origine carsica ha dato
a Bogdan un’armatura ideale che ne protegge l’autonomia di giudizio e ne tutela
l’equilibrato riserbo di fronte ai rivolgimenti della politica, il che è tutt’altra cosa
rispetto all’indifferenza, anzi l’artista sceglie come fonte tematica gli avvenimenti di
forte pregnanza emotiva e li coinvolge (a volte persino travolge) nell’incedere della
sua vena narrativa.
L’eccezionalità del suo lavoro d’artista investe peraltro tutt’altro aspetto: Grom
si è immedesimato nella cultura statunitense – i critici lo hanno giudicato, fra tutti gli
artisti americani, il più flessibile e il più prontamente modellabile dall’innovazione –
proprio nel periodo in cui l’America ha aperto al mondo un nuovo costume di vita,
quei cinquant’anni della seconda metà del Novecento durante i quali l’umanità,
sconvolta da guerre e persecuzioni mai prima vissute, pur ebbe a compiere salti di
qualità nel progresso tecnico e nel benessere civile, anche quelli mai esperiti in
passato.
L’approccio alla mostra di Bogdan Grom dev’essere quindi storico-artistico.
Beninteso, non usiamo il primo aggettivo da appiccicare a “evento”, e non
incoraggiamo certo l’enfasi retorica della politica-spettacolo, ricerca di trovate
bizzarre, false luci nel buio del tunnel che stiamo percorrendo. La luce la troviamo
nei moventi del recente passato maggiormente carichi di speranza. Il realistico e
intimistico racconto di Grom è un antidoto ai luoghi comuni che seminarono odio e
rassegnazione dopo il 1945. Contro l’uso strumentale degli opposti nazionalismi,
Grom riversa in ugual misura il suo amore sia sull’ Umbria, allievo dell’Accademia
di Perugia, sia sul natio Carso, e intende bene come le abitudini festose di genti
diverse si immedesimano alle peculiarità dei loro paesaggi. In Umbria, i possenti buoi
- “dalle lunate corna”, dice Bogdan, citando il Carducci - tirano un bel carretto
pitturato a tinte vivaci e lì vicino due ragazzine sono allacciate fra di loro nella
delicatezza dell’amicizia fra adolescenti. Nel vasto pianoro carsico, sotto un cielo
tempestoso, un piccolo gruppetto è in fuga, per sfuggire all’imminente acquazzone e
per scaricare l’emozione della prima comunione della bambina; il bianco, il gialloseppia, il nero e il bianco, nell’ alternarsi delle vesti, fanno composizione sui toni
atmosferici di un’alta intensità lirica. Sono dipinti del 1943 e del 1945, ma dopo
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qualche anno, nel 1953, già pronto a emigrare in America, dove andrà nel 1957,
anticipa il prevalere della tecnica, che sarà oltreoceano il fulcro per affermarsi,
usando il batik, espanso un poco casualmente sui bianchi a segnare i contorni, e,
quanto al tema, riafferma l’ultima derivazione del nostro cosmopolitismo, nella
precoce dedizione al lavoro, fattore di unione fra etnie diverse, e vede i ragazzi di
Zgonik, che giocano a costruirsi la casa. Sempre vivo nella realtà presente, ignora i
fondali mitteleuropei, fantasiose scenografie letterarie, finzione in un mitico passato
asburgico dove lenti si muovono vecchi personaggi già consapevoli dell’imminente
caduta dell’impero.
Le opere di Grom sono testimonianze autentiche di episodi in se stessi isolati,
ciascuno nutrito da un suo proprio peculiare sentimento della realtà. Il tramite di
coerenza fra gli episodi è dato dallo spazio soggettivo in cui egli vive ogni momento,
spazio sempre uguale, o di poco modificato nel corso dell’esistenza. Spetta poi a lui
stesso, e anche a noi che visitiamo la mostra, di allacciare quei singoli richiami
rammentativi nella continuità della storia.. La mostra di Bogdan Grom propone con
ciò una lezione di metodo nella ricostruzione storica, lezione valida e necessaria per
tutti. Bisogna distruggere il ciarpame affastellato dalle contrapposte propagande
politiche e bisogna ricostruire la storia con onestà, schietta aderenza ai fatti, ma
sapendo che è pur sempre una ricostruzione individuale, simile in ciò
all’interpretazione che ne dà l’artista. In sintesi, riprendendo il titolo di una rubrica
televisiva, la storia siamo noi.
Oltre all’impronta del suo carattere cordiale, ottimista, fattivo e aperto a tutti, da
vecchio triestino, un altro fattore di continuità nelle opere di Grom è dato
dall’incessante assiduità del lavoro protratto ininterrottamente per settant’anni, con
esiti poliedrici nei generi, nei temi, nelle tecniche più diverse. Progetta sempre “in
progress”, per cui ciò che conta non è la conclusione di ciascuna opera compiuta,
quanto le virtuali potenzialità all’operare futuro che quell’opera dischiude, e l’artista
modifica continuamente i modi esecutivi, in rispondenza ai cambiamenti degli stili e
alle esigenze prestazionali richieste dai committenti.
Il lavoro di Grom è come un fiume che bagna il proprio alveo sul quale
possiamo scorgere il bello e il brutto delle esistenze singole e delle esperienze
comuni. Grom non rimuove nulla, accoglie persino la traccia delle tragedie di cui è
stato testimone. Le colloca nel passato, secondo l’uso antico di celebrare le vittime
nei memoriali, ma adottando il linguaggio modernissimo della produzione seriale in
materiale leggero, per eludere i patetismi.
L’invenzione originale di Grom è l’erosione cartacea, sintesi fulminea
dell’organico e del minerale, sintesi che le vicende geologiche carsiche hanno
realizzato in trenta milioni di anni. Su queste coste c’era un tempo una bassa e tiepida
laguna, nella quale i gusci stratificati degli animaletti si deponevano a formare uno
spessore di due o tre centimetri per millennio. La natura, paziente, attendeva che il
calcare raggiungesse l’altezza di due o tre chilometri, e a quel punto lo solleva dal
mare, e lo affida all’azione livellatrice delle intemperie e allo scavo dell’acqua, nei
mille e mille canaletti delle grotte carsiche.
Ma i fogli sovrapposti di Grom hanno anche un’altra origine, derivano
dall’astrattismo geometrico, in particolare Mondrian e Malevich, poetiche precedute
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dall’ars combinatoria rinascimentale (anticipazione del computer) e intese a sottrarre
la realtà creata dall’uomo alla casualità degli eventi naturali e alla passionalità dei
sentimenti individuali. Nei maestri dell’avanguardia storica il rilievo è suggerito dallo
scarto fra colori puri in campiture piatte. Grom sovrappone invece frammenti di
cartoncino, a volte scavati al centro secondo complicati ricami di vuoti, affini in
qualche modo alle sfere concentriche degli avori cinesi, a volte ritagliati in forme
uguali, o quasi uguali, accostate nel vuoto. E’ interessante notare che il sistema
cartaceo dell’erosione conserva il legame con la realtà naturale dal quale è nato. Sono
frattali che evidenziano la somiglianza analogica fra il micropaesaggio nelle
minuscole cavità sotterranee e il disegno a grande scala della planimetria territoriale.
Ciò gli consente di estendere all’infinito la catena riproduttiva – come nel
neoplasticismo di Mondrian – ma di poterla altresì flettere in rispondenza
all’intonazione dell’argomento trattato. Siamo giunti al momento della tragedia. In
Apocalypse del 1978, Grom tocca il punto più alto, la catarsi memorativa di cui si è
detto prima: in forza dei colori , bianco, terra e rosso, e delle due forme centrali che
richiamano l’idea del teschio, l’insieme racchiude un bisenso fra la speleologia e
l’ossario.
E’ un momento eccezionale. Di solito Grom procede con lo sguardo rivolto al
futuro, avanza attenuando i picchi di gloria e le fosse d’angoscia che segnano
l’orografia della grande storia. A tratti gli succede di farsi portare dall’onda di una
melanconica profezia sulla durata delle opere proprie e altrui, ma subito dopo scioglie
la tristezza nel sorriso, spunta fuori il sense of humour degli sloveni, e si china sul
destino dei poveri, intessuto di umile ripetitività. A volte la sua attenzione al popolare
apre l’improvvisa finestra su un mattino festoso di gioia. Uno splendido esempio ci è
offerto dal “paper cut-out” Indiani d’America del 1984: sui fondi, verdeprato in basso
e carminio chiaro in alto, i pezzetti strappati di cartoncini coloratissimi fanno a gara
nel contendersi il campo fiorito, forme uguali a ventaglio in leggere tinte diverse,
forme diverse, arabeschi, serpentine e maschere, in tonalità un poco più corpose, i
bianchi, infine a far da dominanti in questa sinfonia armoniosa, su una dolce gamma
cromatica esotica.
Alla carta ritagliata, Grom alterna il batik, il graffito, la xilografia e via via l’uso
di gesso, acciaio, ottone, vetro, muntz, bronzo, marmo e la progettazione di tappeti,
arazzi, vetrate, mosaici, talvolta opere di grandi dimensioni in sedi prestigiose. Fra
l’una e l’altra, quasi una virgola, ci lascia in regalo una notazione umoristica:
pellicani, cicogne e gabbiani che volano da buoni amici sulla palude di Everglades;
l’ippopotamo, l’elefante e il cammello che fanno comunella per divertire i bimbi del
luna park, e un bisonte in fuga panica, dotato di ombra policroma, che sbuca fuori da
un cartocino d’auguri per salutare l’anno nuovo, il 1980. C’è un significato nascosto
in queste fiabe di Esopo: il grande Guerriero indiano a cavallo ( 1976), sottili barre
d’acciaio bianche, rosse e blu, erette fino a tre metri d’altezza in un parco di North
Salem, vuol dirci che Don Chisciotte sa indossare la casacca di ogni nazione.
Bogdan si adopera per attingere la vena inventiva dalla fonte più profonda e
individua l’arché della nazione-cosmo in cui vive nella simbiosi primordiale fra il
minerale e l’organico: nel Carso le concrezioni di gusci calcarei, in America il cactus.
Monumenti autarchici e divinità autoctone del deserto, i cactus generano la rigidità
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compatta di molta architettura statunitense e in questo ci ricordano l’insegnamento di
Marcello D’Olivo che voleva l’architettura nuova modellata sulla forma del vegetale
tipico di quel sedime. Grom sembra concordare con tale principio e raffronta l’Albero
slavo all’Albero indiano, due costruzioni in acciaio policromo di quasi dieci metri
d’altezza, innalzate in un parco dell’Illinois nel 1976. Non è la dimensione che fa la
possanza autoritaria: infatti un cactus in cera di appena 34 cm incarna l’effige,
credibilmente espressionistica, di un imponente Tiranno. Basta una lieve
modificazione del modellato e il significato cambia radicalmente, come una musica
suonata in un tempo diverso, così il terzetto di cactus in cera che di volta in volta
impersonano l’Aggressione, descrivono la Balia inglese, evocano il Faraone. Un
piccolo scherzo geniale (e forse ironico verso l’arredo funzionalista) propone la
somiglianza fra il cactus e il tavolino che lo sorregge. Infine la convincente
correlazione fra la crescita naturale e la costruzione umana si afferma nel Cactus
collocato in un giardino dell’Arizona, muro quadrato quadriforato di cinque metri di
lato.
Uno sventagliamento così ampio della propria ricchezza di risorse in arti e in
modi artistici tanto diversi non avrebbe potuto dispiegarsi se non in America. Al
riguardo dobbiamo aprire una parentesi per inquadrare la personalità di Grom fra
coloro che sono vissuti in simbiosi con quella civiltà. L’arte italiana della seconda
metà del Novecento sarebbe monca e incomprensibile se non si tenesse conto di
quanto quest’arte nostra deve alla rivoluzione della cultura visiva imposta dai grandi
Maestri americani. La soglia del nulla varcata dai tagli di Fontana, l’ordine sublimato
con la luce e il colore di Dorazio, gli incenerimenti di Burri, affermazione-negazione
del principio di McLuhan sull’identità veicolo-messaggio, l’impeto creativodistruttivo nel gesto di Vedova sono capisaldi di un nuovo modo di sentire la realtà
che oggi è patrimonio universale. Non dimentichiamo però che, nella concretezza e
nell’intimità dei legami familiari, la riscoperta dell’America si deve a Corrado Cagli,
versatile ingegno che ha ereditato dai maestri rinascimentali la finezza
simultaneamente intellettuale e artigianale, il quale, fuggito a New York per sottrarsi
alla persecuzione razziale, aperse al cognato Mirko Basaldella la nuova via delle
indie, e Mirko attrasse a sé il fratello Afro. Già da questo pugno di nomi che abbiamo
elencato si comprende quanto siamo lontani dalle antiche e pur gloriose scuole di
pittura, nelle quali gli allievi facevano a gara nell’imitare meglio il maestro e si
distinguevano l’uno dall’altro soltanto per un tic quasi automatico o per un soggetto
secondario inserito nelle opere. Adesso invece ognuno degli artisti maggiori inventa
un linguaggio prima sconosciuto all’umanità, per cui, man mano che raggiungono la
piena e matura realizzazione di sé, si allontanano reciprocamente, e nel loro insieme
sono una galassia in espansione.
Codesto movimento centrifugo e dialettico lo si avverte anche nell’operare di un
singolo artista e con piena evidenza nella libertà politecnica di Grom, che trascorre
dal narrativo all’astratto, anzi spesso sovrappone questo a quello, apologhi e metafore
della sua distaccata saggezza, talvolta ritrovando nei simboli lo spunto naturalistico
che li aveva generati.
La complessità semantica di Grom è riscontrabile in ciascuno degli artisti
sloveni suoi concittadini che appartengono all’incirca a quella età. Caposcuola in una
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classe di alunni distratti, Avgust Černigoj è l’unico triestino, italiani compresi,
integralmente europeo e moderno. Spacal ci ha dato la nostra vera identità, dal
realismo magico al ritmo astratto della musica nel paesaggio domestico. E accanto gli
sono Robert Hlavaty, il poeta zen dell’altopiano innevato, Jože Cesar, che legge nei
volti degli amici la dirittura morale, Avrelij Lukežič, camminatore instancabile,
ritrova ovunque la propria solitudine, Rudolf Saksida struttura il mondo come una
tappezzeria di giocattoli, sotto un orizzonte su cui fugge una bimba inquieta, Milko
Bambič, fa la parte dello sperimentatore sorridente e dell’illustratore sempre
controcorrente.
Già scorrendo a memoria i ricordi di alcune delle loro opere, ci si accorge
quanto sia attendibile l’interpretazione idealistica della realtà. Abbiamo preso una
città marginale, marginale tanto per l’Austria quanto per l’Italia, e in questa città che
non vanta certo una importante storia artistica, abbiamo selezionato soltanto una
generazione di pittori appartenenti all’enclave slovena, minoranza della cittadinanza.
Ebbene, se distendiamo nello spazio i luoghi immaginari che essi hanno creato, non
basta il cosmo per contenerli.
Volendo fissare un tratto specifico dell’operare di Grom, tale da avvicinarlo ai
suoi colleghi, quasi coetanei e amici, pittori sloveni di Trieste, ma al tempo stesso un
tratto che lo differenzi e ne sottolinei i modi suoi propri e originali, si può dire che
Grom accorre sull’estremo confine delle arti, dei generi e delle tecniche esperite dai
suoi vicini di casa e forza quel confine, per estendere al di là la nuova frontiera,
assecondando l’impeto pionieristico della nazione americana, in cui ha trovato una
nuova patria.
Il medesimo tratto pionieristico giova a comprendere la funzione, anch’essa
specifica, unica e irripetibile, che Grom esercita lungo quei binari paralleli, corsie di
scambi dell’America con l’Europa, e in particolare con l’Italia, alle quali abbiamo
accennato, poiché adottando soluzioni avanzate, o addirittura inventandone di nuove,
porta in quelle realizzazioni di punta il cuore antico nutrito dalle sue ancestrali
memorie paesane, non tema illustrativo, né vecchia icona familiare, riprodotta laggiù
sulle plaghe ultime dell’antropizzazione in corso, ma impiega invece una intrinseca
compenetrazione fra la genesi naturale del carsismo e la poiesi tecnologica da lui
creata.
E’ tutt’altra cosa della copia dal vero di un paesaggio. Lo si constata ammirando
l’esplosione dei colori in Abaquiu, del 1989, una delle più complesse erosioni
cartacee, pannello di mezzo metro di altezza per un metro e mezzo, ora al Goriški
Muzej di Nova Gorica. Si suppone vi sia stata la distruzione in frammenti di una
ridente fioritura primaverile, e viene quindi operata la ricostruzione su una decina di
piani sovrapposti, ciascuno assegnato a un solo colore disteso uniformemente; i piani
avanzati sono un quadrato o un rettangolo, prevalenti i vuoti, vuoti che sono
attraversati da sottili trame di concrezioni arabescate. In psicologia, permanendo
l’identificabilità della veduta naturale pur in una configurazione del tutto diversa,
potrebbe forse dedursi una confutazione della teoria della gestalt.
Il modo paper cut-out non è una trovata, bensì una processualità creativa che
interpreta la formatività del carsismo. La suggestiva e persino romantica
prospettazione della Luna sopra il Canyon Frijoles del 1990, grande notturno
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verticale alto un metro, affida all’osservatore il compito di arricchire con la propria
sensibilità lo scarto preciso fra le tonalità, scarto che il distacco fra i livelli del
cartone lascia in una sospensiva virtualità. Questa è la prova che il metodo di Grom è
intrinseco alla costituzione geologica del sito. Infatti il canyon americano ha la stessa
origine lagunare biogenica del carso triestino e la stessa evoluzione di sinclinali e
anticlinali corrosi dalle acque.
Come lo studio di personalità inconsuete giova alla narrazione dei romanzi, così
l’invenzione del pittore è stimolata dall’osservazione di taluni luoghi privilegiati per
l’eccezionale stranezza delle strutture ivi insediate, paesaggi che contengono in sé
una duplicità di significati. Le grotte infatti sono allegoria dell’inferno, ma altresì
simbolo delle tortuose falsificazioni generate nell’inconscio. Slavoj Žižek, nel libro
“Il Grande Altro” (Feltrinelli, 1999), racconta che Sigmund Freud fa coincidere i due
significati quando, visitando la caverna di Škocjan, incontra il sindaco di Vienna,
Karl Lüger, un ipocrita clericale antisemita.
Grom scioglie l’ambiguità inventando un nuovo linguaggio. In concreto
promuove una sorta di matrimonio tra la genesi geologica e un modello astratto di
quella evoluzione naturale. A propria volta il modello figurato richiede una adeguata
innovazione matematica, (Leonardo insegna) per la definizione delle leggi che
regolano quei fenomeni. Nel caso in esame la conoscenza dei frattali dilata
l’ampiezza della rappresentatività dalla prospettiva a punto di vista fisso, nella
centralità rinascimentale, alla estensibilità infinita dei moduli dell’astrattismo
geometrico, su piani che sono soggettivi e oggettivi al tempo stesso.
L’arte e la scienza si sono scambiati i risultati in tutte le epoche, ma nella nostra
l’alternanza dei passaggi è diventata più frequente. La scienza costruisce cosmi
inimmaginabili, nei quali l’arte pian piano orienta l’umana esplorazione e il graduale
impossessamento. Ma si dà anche la circostanza che l’arte intuisca durata e
dimensione inedite, in uno spazio-tempo finora sconosciuto, e che affidi alla scienza
il compito di verificare le misure.
Lo scambio può avvenire anche all’interno di una singola opera. Se teniamo per
qualche minuto sotto gli occhi le maschere di Notturno del 1978, erosione cartacea di
una collezione di Devinščina, abbiamo uno scarto fra due percezioni: le teste di una
folla imbestialita o la casuale mostruosità dei sassi di una grotta e non sai se la prima
sia metafora della seconda, o viceversa. Vero è che la natura non spiega mai se stessa
ed è il pensiero che le insegna a parlare la lingua dello spirito e a farsi consapevole.
Non dobbiamo tuttavia insuperbire, perché la natura ha sempre in serbo un quoziente
di mistero per la nostra povera intelligenza. Questo è proprio il momento in cui
Bogdan Grom lacera il velo del tempio e, dopo aver attraversato gli spazi degli
uomini, penetra nei grandi deserti americani, e sente in sé la risonanza mistica
dell’infinito. Si veda Mystic Rites del 1984, paper cut-out su tre toni di terre, un fondo
scuro sul quale scorrono due rettangoli traforati, l’uno che sale, l’altro che scende, in
una lenta musicalità senza fine. Andiamo ben oltre in un altro paper cut-out, Cosmos
del 1988: lo sciame di meteoriti nello spazio oscuro è bagnato da flussi obliqui di
liquidi luminosi azzurro e seppia.
Il mistico conquista a se stesso l’unità dell’essere. Tenendo ferma tale conquista,
Grom riesce a immettere lo spirito unitario persino nelle costruzioni più artificiali e
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più macchinose, persino in un apparato di richiamo pubblicitario collocato nel grande
vano vuoto al centro di un supermercato a ballatoi interni. L’impianto, allestito nel
1990 a Hackensack, nel New Jersey, corrisponde esattamente alla precisa richiesta
della committenza. Decorazione elegante e persino discreta, a confronto con certi
chiassosi richiami americani, Cosmos – ben a ragione l’autore riprende il titolo del
quadro – è il capolavoro di Grom. E’ un nastro ruotante ad anello su un altezza di 12
metri recante piastre di muntz nelle quali il laser ha scavato i vuoti disegnati da
Grom, lastra per lastra. Quei vuoti suggeriscono la ciclicità formativa fra organico e
minerale nelle cavità carsiche, ciclicità interpretata da un designer della civiltà in
evoluzione, in sintonia con l’arte cinetica, corrente manifestatasi con Nuove
Tendenze a Zagabria nel 1961. Nell’una e nell’altra situazione, il vuoto lascia nel
passato la casualità e delinea la definibilità armonica delle forme nella dinamicità del
presente. Matrici universali valide per l’evoluzione naturale e per la progettazione
razionale, gli arabeschi fanno pensare alle Madri nel Faust di Goethe. Ai piedi del
saliscendi traforato, Grom ha collocato una gigantesca fioriera contenente al centro
Meteorite, covone ruotante di scaglie acuminate di acciaio, quasi un bolide piombato
dal soprastante lucernaio, la natura violenta e irregolare contro la natura razionale e
armonica di Cosmos.
Cosmos e Meteorite non sono i soli interventi pertinenti le dottrine
cosmologiche che Grom ha creato, assecondando il suo slancio vitalistico che bene
corrisponde al vitalismo americano. Grom è uno specialista nel congegnare
abbinamenti fra tecniche di recente applicazione industriale e linguaggi espressivi da
lui stesso inventati. Soltanto in America c’è un pubblico disponibile a queste
innovazioni. La committenza, è aperta ad ogni proposta, dalle impostazioni stilistiche
più tradizionali alle provocazioni più bizzarre e più urtanti, ma pretende la piena
aderenza all’efficienza prestazionale che l’opera dovrà dare sotto il profilo di
rispondenza funzionale o di resa pubblicitaria. Nulla deve essere lasciato
all’approssimazione apparentemente “geniale”. Tutto deve essere eseguito
accuratamente, nei termini di tempo e di spesa previsti.
Grom lo ha compreso bene. Bastano due esempi per provarlo. Fenice del 1968
mette in scena nel parco di New Rochelle un evento tellurico e ciclopico di
stravolgente mobilità, fermato dal bronzo nella fissità di un istante eterno. Massi da
costruzione sono stati sconvolti da un cataclisma e gettati alla rinfusa gli uni contro
gli altri; ma gli uomini non disperano e su quel cumulo informe hanno collocato altre
pietre squadrate, hanno innalzato due obelischi acuminati, sintesi di figure umane
gigantesche, erette sette metri più alte delle sottostanti rovine.
La Cascata Ghiacciata del 1973 a Exton, in Pennsylvania, impiega una selva di
sottili canne traslucide di acrile, di altezza variabile fino a cinque metri e mezzo, per
costruire una sorta di grandioso organo, nel quale il suono è sostituito da fasci di luce
che attraversano il corpo iridescente, suscitando vibrazioni, dal giallo al bianco, ad
ogni minimo di spostamento dell’osservatore.
L’Artista triestino ha lasciato traccia permanente di sé in molti siti imponenti del
continente americano, ha creato grandiosi complessi plastici inseriti negli edifici di
rappresentanza, ha sistemato fantasiose fontane, ha modellato gruppi scultorei
monumentali, ha progettato parchi rallegrati dallo spiritoso intento animistico che
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caratterizza le sue rappresentazioni di rocce, piante e animali. Nel campo
dell’architettura d’interni ha disegnato cartoni per arazzi e tappeti parietali,
immedesimandosi nelle peculiarità di tali manufatti. Quanto all’arte mobile, è autore
di multipli, calchi, ceramiche, intarsi, oltre all’attività principale nella pittura e nella
grafica.
Diremo soltanto di alcune realizzazione di arte sacra, opere coerenti ai suoi modi
innovativi e destinate a religioni diverse, rimanendo l’artista sempre fedele agli
intenti liturgici, sia nell’approfondita comprensione dei simboli, sia nella stretta
osservanza delle prescrizioni dei riti, talché Grom può dirsi un artista ecumenico
della modernità.
Per la Cattedrale armena di San Vartan, a New York ( 1967/1968), ha scolpito,
nei marmi della facciata, un lieve bassorilievo suddiviso in tre figurazioni: il Cristo,
San Vartan e un gruppo con San Vartan, ispirandosi a un vago richiamo all’art déco.
Nel medesimo tempio ha disegnato la decorazione di undici vetrate, tradizionali nella
tecnica esecutiva, pur con l’impiego di resine sintetiche, quanto armoniosamente
variata l’intonazione narrativa dall’astratto della Genesi, al romanico del Concilio di
Nicea, all’espressionistico delle profezie di Ezechiele.
Nell’ambito del culto israelitico, notevole il ricupero secessionista in una specie
di scala a chiocciola che circonda il lampadario a soffitto del Tempio dell’Emanuele
a Yonkers (New York, 1964), e che simboleggia la processione delle figlie dei
portatori d’acqua di Gerusalemme. Mistiche e ieratiche le vetrate per una cappella
funerararia a New York nel 1984.
Dopo aver girovagato mescolando opere, luoghi e tempi disparati, spinti soltanto
dalla curiosità di conoscere Bogdan Grom, è giusto che si concluda attingendo alla
fonte principale dalla quale è sgorgata e sgorga la prolificità persino eclettica del suo
operare, fonte che è alimentata dai siti sotterranei dove le acque hanno creato nei
millenni labirintici percorsi fluviali, hanno scavato favolosi castelli dalle mille stanze,
acrobaticamente prevalenti i vuoti sui pieni, sprofondanti gli scorci nei fori verso
lontani cunicoli.
Ebbene, la natura gioca con il tempo e crea in una frazione di secondo quella
stessa medesima tramatura altrove costruita durante milioni d’anni. Basta guardare la
spuma del mare che la risacca lascia apparire per un attimo sulla spiaggia, dopo che
l’onda si è ritirata e prima che quelle mille bollicine esplodano nel nulla. Bogdan,
finissimo osservatore e astuto manipolatore di tecniche, ha ben compreso che il suo
paper cut-out era appropriato ad Adria del 1986, per cantare il frangersi della luce
sulle fugaci trame bianche spumose che coprono e collegano il rapido trascolorare
dall’azzurro del mare al cupo della terra.
Come ogni artista autentico, Grom è un poeta. Quanto la natura gioca col tempo,
altrettanto egli gioca con gli spazi. Perciò ricrea il paesaggio nelle cadenze e negli
scarti delle sue metafore più amate. Egli sogna che la perfetta tessitura delle sottili
impalcature calcaree del sottosuolo carsico possa uscire dalla terra e modellare
altrettanto armoniosamente le opere dell’uomo, le intelaiature che sorreggono le viti
sui pastini di Contovello, siepi di vigne scalate in profondità e visibili fra i fori del
diradato impianto colturale, differenziati i piani dalla diversa incidenza della luce del
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sole al tramonto, in Autunno (1979), ora del giorno e stagione dell’anno consone
all’età che viviamo.
Questo è il Carso che noi preferiamo. E’ un Carso che tutti possono godere
immediatamente. Senza la lunga preparazione alla fredda sistematicità degli
scienziati, chiusi nei limiti maniacali della specializzazione di ciascuno e della
competitività che tutti li accomuna. Senza il lungo studio per giungere all’altrettanto
fredda metodicità dei filologi e dei letterati, che conoscono di Slataper ciò che li
allontana dallo slancio irrazionale, libertà di contraddirsi chiamando a testimoni le
pietre di quel suo carso, ignaro dei tortuosi rituali politicamente corretti.
Questa di Grom è l’America che noi preferiamo. Animata da una inesauribile
energia, costringe gli altri a trasformarsi per modificare se stessa, abbandona i relitti
delle imprese interrotte, brucia le filiere protezionistiche che inevitabilmente ci
trasciniamo dietro. Di contro, un artista nostro, sloveno come Grom, insofferente
dell’America, dove insegna da molti anni, sospira le vacanze in patria e ogni volta
resta sorpreso e poi deluso, perché nel frattempo la sua città si era molto
americanizzata e aveva assorbito il peggio della moda d’oltreoceano. Torniamo
dunque all’ottimismo disincantato dei nostri vecchi che inneggiavano alla loro
Società degli Americani, nella canzonetta musicata da Franz von Suppè .
Bogdan Grom ci ha guidato fino ad oggi e ci guiderà anche in futuro, perché
saprà disegnare un viottolo nel buio per trovare la luce, modellare lo spiraglio per
sgusciare fuori dalla crisi.
Trieste, 9 novembre 2012
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